“Che cos’è la letteratura?” di Jean-Paul Sartre

Author di Marika Tantillo

Sartre e l’incontro con le parole

«Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri»[1], così scrive Sartre nella propria autobiografia, Le Mots, pubblicata in Francia dall’editore Gallimard e in Italia da Il Saggiatore[2].

Nel ricostruire la genesi del suo rapporto con la lettura e la scrittura, il filosofo traccia un ritratto degli anni della sua infanzia e adolescenza: è proprio a quel tempo che nasce in lui la predilezione per la letteratura. Incapace di giocare come gli altri bambini e cresciuto senza padre, in un modo fatto di adulti, il giovane Sartre interagisce esclusivamente con la madre e i suoi nonni materni. Nella casa dei nonni, dove egli vive insieme alla madre, vi è un grande salone le cui pareti sono occupate da grandi librerie contenenti numerosi volumi. Ancora incapace di leggere, Sartre non resta indifferente davanti a quegli oggetti capaci di intrattenere gli adulti per lunghe ore. Pare che le parole abbiano qualcosa di magnetico, che contengano delle verità sul mondo.

L’autobiografia è divisa dallo stesso autore in due parti. La prima di queste è Leggere e racconta gli anni in cui avviene l’incontro con le parole, un incontro che cambierà per sempre la sua vita.

Non sapevo ancora leggere, ma ero abbastanza snob da esigere di possedere dei libri miei. Mio nonno si recò da quel mariuolo del suo editore e si fece regalare Les Contes del poeta Maurice Bouchor, narrazioni tratte dal folklore ridotte per l’infanzia da un uomo che aveva conservato, diceva, occhi di fanciullo. Volli subito cominciare il cerimoniale di appropriazione. Presi i due volumetti, li annusai, li palpai, li aprii negligentemente alla pagina giusta facendoli crocchiare. Invano: non avevo la sensazione di possederli. Tentai con maggior successo di trattarli come bambole, di cullarli, di baciarli, di picchiarli. Quasi alle lacrime, finii col posarli sulle ginocchia di mia madre. Lei alzò gli occhi dal suo lavoro: «Che vuoi che ti legga, caro? Le Fate?». Incredulo, domandai: «Le Fate, ma sono là dentro?»[3].

Così si costruiscono i ricordi più belli dei momenti trascorsi con la madre: attraverso la lettura di storie. Lo stupore del bambino che a stento riesce a credere che in un oggetto fatto di carta e inchiostro possano esserci delle Fate è lo stesso di ogni lettore che, meravigliato, scorge delle verità all’interno di un libro. Nei momenti in cui la madre leggeva i racconti al proprio figlio, il libro in realtà prendeva una propria autonomia. Era quest’ultimo a parlare con frasi che gorgogliavano di sillabe e di lettere ed il racconto trasformava semplici azioni in riti, e avvenimenti in cerimonie. In questo modo ebbe inizio la formazione del bambino Jean-Paul: vagabondando fra i libri e leggendo le storie contenute in essi, egli diede assalto all’umano sapere. Ma la letteratura non rappresentava qualcosa di immaginario, di alternativo alla realtà, dal momento che essa e la vita stavano sullo stesso piano: «Nei libri ho incontrato l’universo: assimilato, classificato, etichettato, pensato, temibile anche; e ho confuso il disordine delle mie esperienze libresche con il corso casuale degli avvenimenti reali»[4].

Nel frattempo un libro, un qualsiasi libro, diventa il rimedio contro la solitudine: bambino solitario e viziato dalle cure della famiglia, Sartre impara a leggere per scappare dal vuoto, dalla noia delle lunghe giornate in compagnìa solo di adulti. In questo modo, la lettura e quindi la letteratura sono l’antidoto contro l’assenza dell’altro. Non ci sono amici nell’infanzia di Jean-Paul né compagni di avventure con cui condividere esperienze all’aperto; piuttosto i suoi simili diventano giudici che con l’indifferenza lo condannano. I libri riempiono questo vuoto e la letteratura rappresenta una terra dove poter vivere davvero: l’unico mezzo per fare delle esperienze, andare alla scoperta di luoghi lontani, conoscere personaggi e scoprire sentimenti. In maniera molto precoce, quel bambino che è ancora solo un bambino e non sa di essere destinato ad essere un uomo tra i più importanti del suo secolo inizia a chiedersi: «Di che parlano i libri? Chi li scrive? Perché?»[5], con la chiara convinzione che la letteratura sia al pari di una religione e non vi sia nulla di più importante di essa. Ma venerare i libri portava a venerarne gli scrittori: coloro i quali avevano lasciato un testamento al mondo e agli occhi del giovane Sartre non erano morti ma, una volta trasformati in libri e parole, continuavano a vivere in ogni lettore.

Con l’ingresso alle scuole elementari arrivano alcuni amici ma anche la disciplina e lo scontro con l’autorità. Abituato ad essere viziato e coccolato dalla propria famiglia, Jean-Paul inizia davvero a rapportarsi con la realtà. Resta però il fatto che sia un bambino incredibilmente sicuro di sé e soprattutto delle sue incrollabili passioni. La lettura scoperta in tenera età gli permette comunque di tenere ben salda la propria corazza, convinto di possedere un dono: quello della scrittura.

La seconda parte della sua autobiografia si intitola appunto Scrivere ed è dedicata agli anni in cui Sartre, ancora bambino, inizia a comporre dei testi propri:

Sono nato dalla scrittura: prima, c’era solo un gioco di specchi; a partire dal mio primo romanzo, seppi che un bambino s’era introdotto nel palazzo di specchi. Scrivendo, esistevo, mi sottraevo alle persone grandi; ma non esistevo che per scrivere, e se dicevo: io, ciò significava: io che scrivo[6].

La scrittura gli fornisce la certezza di esistere e allo stesso tempo comprendere la realtà: riempie pagine intere ma poi si annoia in fretta, il cervello vaga, le idee non arrivano più. Allora, per darsi un tono, per apparire migliore agli occhi del nonno, ricopia lunghi paragrafi dal dizionario Larousse. Ciò che è davvero importante è mantenere una certa immagine di sé continuando a riempire le pagine. Non ancora consapevole di ciò che sarà, il suo sogno di divenire scrittore viene scoraggiato da quell’uomo stesso che gli aveva trasmesso la fede nella parola. Il nonno, Charles Schweitzer, lo mette in guardia, lo avverte del pericolo più grande: la scrittura è certamente una buona cosa, ma non dà da mangiare:

Una sera egli annunciò che voleva parlarmi da uomo a uomo, le donne si ritirarono, mi prese sulle ginocchia e mi intrattenne gravemente. Sarei stato scrittore, intesi; dovevo ormai conoscerlo abbastanza per non temere che egli volesse contrariare i miei desideri. Ma bisognava guardare le cose in faccia, lucidamente: la letteratura non dava pane. Lo sapevo che degli scrittori erano morti di fame? Che altri, per mangiare, s’erano venduti? Se volevo conservare la mia indipendenza, conveniva scegliere un secondo mestiere[7].

Bisogna pertanto trovare una professione che permetta, sì, di dedicarsi alla letteratura ma senza la necessità di pubblicare libri per vivere. Il percorso è già tracciato e non sono permesse deviazioni. Sartre è destinato ad essere studente eccellente in una scuola prestigiosa come l’Ècole Normale Supérieure, formarsi con lo scopo di raggiungere l’obiettivo di diventare professore. È l’insegnamento che gli darà da mangiare. Naturalmente c’è spazio per la scrittura, ma i romanzi non lo porteranno di certo alla gloria. Sartre viene, così, condannato dal nonno alla “mediocrità”, a una vita semplice. E nella pagina che racconta questa resa, questa accettazione, il Sartre più che cinquantenne che si è ormai imposto alla letteratura sfuggendo alla mediocrità confessa:

Insomma, mi buttò nella letteratura grazie alla cura che mise per distogliermene: al punto che ancora oggi mi accade di domandarmi, quando sono di cattivo umore, se non ho consumato tanti giorni e tante notti, coperto d’inchiostro tanti fogli, messo sul mercato tanti libri che nessuno si auspicava, nella sola e folle speranza di piacere a mio nonno. Sarebbe da ridere: a più di cinquant’anni, mi troverei imbarcato, per esaudire le volontà di uno che è morto da tanto tempo, in una impresa che egli non mancherebbe di sconfessare[8].

È stato dunque un bene, per la filosofia, per la riflessione sull’uomo e per la letteratura che Sartre abbia deciso di ribellarsi a quell’imposizione. E la ribellione è stata attuata proprio iniziando a scrivere: convinto di non essere come tutti gli altri, non si è arreso alla “mediocrità” che altri avevano scelto per lui. In questo preciso momento Sartre abbandona la propria infanzia e cresce, sa che lo aspetta un duro lavoro, un’impresa simile a una battaglia. Come egli stesso ammette, i suoi libri sanno di sudore e fatica. Se si trova il coraggio di intraprendere una professione – e quindi una vita – così ardua e folle, si deve essere coscienti del pericolo che questa scelta porta con sé.

Parlando dei libri che ha scritto, Sartre commenta: «ammetto che essi puzzano per il naso dei nostri aristocratici; spesso li ho fatti contro di me, il che vuol dire contro tutti»[9], e in una nota aggiunge: «Siate compiacenti verso voi stessi, gli altri compiacenti vi ameranno; straziate il vostro vicino, gli altri vicini rideranno. Ma se battete la vostra anima, tutte le anime si metteranno a gridare»[10]. Ogni parola scritta contro di sé si fa carico di altre battaglie; scrivere contro se stessi significa scrivere contro tutti: il padre morto precocemente, il nonno autoritario, la madre lusinghiera. La scrittura si rivela essere un’ossessione, un’irrinunciabile passione, senza il fine di essere letto o acclamato. Sartre scrive per scrivere, per riuscire – in qualche modo – a nascondersi dalla morte. Chiudersi in casa e nascondersi tra le parole è un modo per sfuggire alla realtà, per comprenderla nel migliore modo possibile. A distanza di cinquant’anni l’ossessione non è passata, le parole ci sono sempre. Esse hanno consentito al giovane Sartre di interpretare il mondo e quelle che il Sartre più maturo ha scritto sono state un mezzo anche per gli altri. In questo continuo rapporto tra parola letta e parola scritta, la scrittura non muore, non si esaurisce mai. Ciò che cambia, nella visione del filosofo Sartre, è la consapevolezza di essere passato dalla scrittura finalizzata a se stessa alla scrittura come un mezzo:

Scrivere fu per molto tempo un chiedere alla Morte, alla Religione, in forma mascherata, di strappare la mia vita al caso. Fui sacerdote. Militante, volli salvarmi per mezzo delle opere; mistico, tentai di svelare il silenzio dell’essere per mezzo di un rumorio irritato di parole, e soprattutto confusi le cose con i loro nomi: è aver fede. […] Più tardi esposi allegramente che l’uomo è impossibile; impossibile io stesso, differivo dagli altri solo per il mandato che avevo di manifestare questa impossibilità che, di colpo, si trasfigurava, diventava la mia più intima possibilità, l’oggetto della mia missione, il trampolino della mia gloria[11].

Il modo in cui Sartre parla dell’attività della scrittura la riveste di una certa sacralità ed egli è colui il quale è stato scelto. Fortemente convinto di questo, non ha mai passato un giorno della sua vita senza scrivere una riga, quasi come se fosse una sorta di dovere morale, un compito da portare a termine, una missione. Questo viene confessato alla fine della sua autobiografia, in quelle pagine che consegnano al lettore non solo la storia di un individuo, ma una considerazione universale sulla scrittura, sul suo ruolo all’interno delle vite di tutti gli uomini. La scrittura, la letteratura, la cultura tutta è uno specchio critico a servizio di tutti gli uomini:

Faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo a offrirgli la sua immagine[12].

Ciò che emerge è una concezione della scrittura non salvifica ma allo stesso tempo necessaria, e questo vale non solo per l’uomo che scrive, ma per tutti gli uomini, in quanto ogni uomo è fatto di tutti gli uomini e per questo li vale tutti. Per quanto riguarda l’uomo Sartre, scampato alla mediocrità, è stato fatto grande dal suo secolo. Ma il rapporto tra gli uomini e la letteratura non è sempre stato uguale in tutti i secoli, e la storia della letteratura, così come del rapporto tra scrittore e lettore, non è mai stata identica a se stessa ma è mutata con il mutare degli eventi e delle “situazioni”.

Perché si scrive?

Pubblicato per la prima volta nel 1947 nella rivista «Les Temps Modernes» e arrivato in Italia solo nel 1960 grazie alla pubblicazione da parte del Saggiatore, il testo Qu’est-ce que la littérature? rappresenta il manifesto sartriano della letteratura che diventa impegnata, dell’idea che la parola scritta sia effettivamente azione. La letteratura è lo spazio in cui scrittore e lettore dialogano. Ma, per arrivare a questa conclusione, il filosofo francese compie un percorso attraverso vari periodi storici per mostrare come questo rapporto sia cambiato – essendo scrittore e lettore uomini “in situazione” nella loro epoca.

L’obiettivo di Qu’est-ce que la littérature? è mostrare un tipo di letteratura impegnata nel suo tempo e contemporaneamente rispondere ai quesiti che Sartre pone proprio alla prima pagina del testo e cioè:

E poiché i critici mi condannano in nome della letteratura senza dire mai che cosa intendano per letteratura, la risposta migliore sarà di esaminare l’arte di scrivere senza pregiudizi. Che cos’è scrivere? Perché si scrive? Per chi? In realtà pare che nessuno se lo sia mai chiesto[13].

La prima di queste domande riguarda strettamente l’atto dello scrivere, la forma d’arte che si differenzia dalle altre proprio tramite l’uso delle parole. Vi sono in realtà altre peculiarità che rendono la scrittura unica rispetto, ad esempio, alla musica o alla pittura. Certamente un pittore ha propri motivi che lo portano a scegliere un colore invece di un altro e si può ritenere senz’altro che gli oggetti riprodotti nella sua tela, le cose che egli crea, riflettano le sue più profonde tendenze. Gli oggetti dell’arte figurativa sono impregnati delle emozioni dell’artista, e queste ultime sono filtrate in quelle tinte che di per sé avevano già un vago significato, e così vi si confondono e si offuscano, rendendo impossibile una ricostruzione intera: «Lo squarcio giallo del cielo al di sopra del Golgota, il Tintoretto non l’ha scelto per significare l’angoscia, né tanto meno per provocarla; è angoscia e, insieme, cielo giallo»[14]. Attraverso questo esempio molto particolare, Sartre dimostra come il cielo del Tintoretto non sia un cielo d’angoscia né un cielo angosciato, ma è angoscia fatta cosa, è angoscia che si trasforma, tramite l’atto artistico, in cielo.

Così come la pittura, anche la musica deve far i conti con le proprie peculiarità. In una melodia il suo significato non è nulla al di fuori della melodia stessa, al contrario delle idee che tramite le parole possono essere rese in diversi modi. Si può parlare di una melodia dicendo che all’ascolto essa sia risultata gioiosa o cupa, ma sarà sempre qualcosa che va al di là di ciò che si può dire di essa. Questo accade perché le passioni dell’artista, incorporandosi nelle note, hanno subìto una “degradazione”. Un grido di dolore, ad esempio, è segno del dolore che lo provoca. Ma un canto di dolore è contemporaneamente il dolore stesso e cosa diversa dal dolore. Che sia una composizione musicale o un dipinto su tela, l’artista fa qualcosa; non vi sono segni di cose. Se ad esempio si chiedesse a un pittore di dipingere su tela una casa, egli creerà una casa immaginaria, e la casa che così appare conserverà tutte le ambiguità delle cose reali. Lo scrittore, al contrario, nella situazione di dover descrivere una casa, guiderà certamente il lettore all’interno di essa e, se la descrive come un tugurio, può farla vedere come il simbolo di qualcosa, magari di una qualche ingiustizia sociale, provocando nel lettore una sensazione di indignazione. Il pittore, agli occhi di Sartre, è muto: presenta una casa e chi la guarda è libero di vedervi ciò che vuole. Stando così le cose e dal momento che non si dipingono i significati, come si può pretendere da un pittore o da un musicista un impegno etico-civile?

Ecco, allora, la prima peculiarità dello scrittore: avere a che fare con i significati. Ma a questo punto Sartre si guarda bene dal fare una distinzione interna: da una parte, c’è la poesia, che si colloca assieme a musica e pittura; cosa ben diversa è la prosa. Dal punto di vista di Sartre, solo la prosa è il vero regno dei segni. Per quanto riguarda i poeti, essi rifiutano di utilizzare il linguaggio. Se il linguaggio viene concepito come uno strumento attraverso il quale si opera la ricerca della verità, non si deve credere che i poeti tendano a discernere il vero o a esporlo. A proposito dei poeti, il filosofo francese scrive:

Tanto meno pensano a dare un nome al mondo e, in effetti, non danno un nome assolutamente a niente, perché dare un nome implica un perpetuo sacrificio del nome all’oggetto nominato o, per parlare come Hegel, il nome si rivela inessenziale di fronte alla cosa, che è essenziale. I poeti non parlano; ma nemmeno tacciono: è un’altra cosa[15].

Ciò che emerge dalla lettura delle parole di Sartre è che, se l’uomo che parla è in un certo senso al di là delle parole – dal momento che le usa come strumenti –, il poeta rimane al di qua. Per l’uomo che parla le parole sono domestiche, per il poeta restano allo stato selvaggio. Per il primo sono convenzioni utili, strumenti da utilizzare secondo le regole della propria comunità linguistica che a poco a poco si logorano e, quando non servono più, vengono sostituite; per il secondo sono sullo stesso piano delle cose naturali che crescono naturalmente. Se il poeta si ferma alle parole come il pittore ai colori e il musicista ai suoni, non significa che queste abbiano perduto in qualche modo significato: solo il significato può dare alle parole unità verbale; prive di significati, le parole non sarebbero altro che suoni o tratti di penna. Solo che, per il poeta, il linguaggio – e quindi tutte le parole di cui è composto – è una struttura del mondo esterno, lo specchio del mondo:

Chi parla è in situazione rispetto al linguaggio, investito dalle parole; che sono il prolungamento dei suoi sensi, le sue pinze, le sue antenne, i suoi occhiali; e lui le manovra dal di dentro, le sente come il proprio corpo, è circondato da un corpo verbale di cui acquista appena coscienza e che allarga la sua azione nel mondo. Il poeta è al di fuori del linguaggio, vede le parole alla rovescia, come se non appartenesse alla condizione umana e, muovendo verso gli uomini, incontrasse prima di tutto la parola come una barriera. Invece di conoscere, prima, le cose dal loro nome, è come se stabilisse subito un contatto silenzioso con loro e poi, volgendosi verso quell’altra specie di cose che per lui sono le parole, toccandole, tastandole, palpandole, vi scoprisse una tenue luminosità specifica e affinità particolari con la terra, il cielo, l’acqua e tutte le cose create[16].

Il poeta, nella concezione sartriana, non riesce a servirsi della parola come segno di un aspetto del mondo e, pertanto, vede nella parola l’immagine di uno di questi aspetti. A ciò va aggiunto il fatto che la crisi del linguaggio scoppiata all’inizio del XX secolo è, secondo Sartre, una crisi poetica: lo scrittore non sapeva più servirsi delle parole e le affrontava con un senso di estraneità, le parole non gli appartenevano più, non erano più in lui e divenivano le cose stesse.

Sicuramente l’emozione e la passione stanno all’origine della poesia e, parlando di elementi che farebbero di un poeta uno scrittore impegnato, tra loro è possibile rintracciare persino collera, indignazione sociale e odio politico. Ma questi, attraverso la forma poetica, non verranno espressi come in un pamphlet di protesta o in una confessione. Questa la differenza tra prosatore e poeta: quando il prosatore espone i propri sentimenti, li illumina; quando è il poeta a farlo, finisce col non riconoscerle più e le parole non hanno più nessun significato, nemmeno per colui che le ha composte. Attraverso la poesia, l’emozione diventa una cosa ed è offuscata dalle proprietà ambigue dei vocaboli in cui è stata rinchiusa:

Il prosatore scrive, è vero, e il poeta anche. Ma queste due azioni dello scrivere hanno in comune solo il movimento della mano che traccia lettere. Per il resto, i loro universi restano incomunicabili, e ciò che vale per l’uno non vale per l’altro. La prosa è utilitaria per essenza; vorrei definire il prosatore come un uomo che si serve delle parole[17].

Queste parole di cui si serve il prosatore non sono soprattutto oggetti, ma designazioni di oggetti e, in quanto tali, non si tratta di sapere se esse piacciano o dispiacciano, ma se designano correttamente una certa cosa del mondo o una certa nozione. Per questo motivo accade spesso che si possieda un’idea che è stata trasmessa tramite le parole, ma senza ricordare una sola delle parole con cui ci è stata trasmessa.

Tutti gli esseri umani sono all’interno del linguaggio come all’interno del proprio corpo: esso è il prolungamento dei nostri sensi che ci permette di conoscere gli altri, le cose e costruire relazioni. Ma risulta necessario chiedersi a quale scopo scrive un prosatore. Qual è la sua impresa? E perché questa ha bisogno della scrittura? Sicuramente, essendo il linguaggio finalizzato alla comunicazione, l’impresa del prosatore non può essere finalizzata alla mera contemplazione. Il fine è quello di comunicare qualcosa, e parlare è agire:

Non abbiamo forse l’abitudine di porre a tutti quei giovani che si propongono di scrivere la domanda fondamentale: «Avete qualcosa da dire?» con la quale si intende: qualcosa che valga la pena di essere comunicato. Ma come si fa a capire ciò che «vale la pena» se non ricorrendo ad un sistema trascendente di valori? […] Così il prosatore è un uomo che ha scelto un certo modo d’azione secondaria che si potrebbe chiamare l’azione per rivelazione. È quindi legittimo porgli questa seconda domanda: che aspetto del mondo vuoi svelare, quale cambiamento vuoi apportare al mondo con questa rivelazione? Lo scrittore «impegnato» sa che la parola è azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non progettando di cambiare[18].

Nella concezione che Sartre ha dello scrittore e, in generale, dell’uomo, questo risulta l’essere che non può vedere o vivere una situazione senza cambiarla poiché il suo sguardo cambia l’oggetto in se stesso. Lo scrittore, nello specifico, ha scelto di svelare il mondo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte agli oggetti messi a nudo tutta la loro responsabilità. La funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo. Questa funzione viene messa in atto attraverso le parole ma anche attraverso i silenzi, dal momento che anche i silenzi si definiscono in rapporto alle parole. Il silenzio fa parte del linguaggio, è un momento di esso: tacere non significa essere muti, ma rifiutarsi di parlare e quindi, ancora una volta, parlare in un modo diverso. Il silenzio è il non-detto dell’autore. Ma a questo punto, se uno scrittore ha deciso di tacere su un determinato argomento o su un qualsiasi aspetto del mondo, si ha il diritto di chiedergli perché ha parlato di qualcosa tralasciando qualcos’altro e, visto che lo scrittore parla per cambiare, perché vuol cambiare una determinata cosa e lasciarne altre invariate.

Altra questione è quella che riguarda lo stile, perché si è scrittori non solo perché si è scelto di dire alcune cose, ma perché si è scelto di dirle in un certo modo. Lo stile di cui si appropria uno scrittore di certo dà valore alla sua prosa, ma deve rimanere inosservato. Il rischio, nel dare fin troppa importanza allo stile, è che un qualsiasi lettore, concentrandosi sull’ordine delle parole, sul perché della loro scelta e della loro combinazione, ne smarrisca il senso e dunque il messaggio, il significato intrinseco. Uno scrittore deve prima di tutto sapere su cosa vuol scrivere, e poi scegliere il modo in cui farlo. Spesso queste due scelte avvengono simultaneamente e si confondono in un solo atto di scelta, ma nei buoni scrittori, agli occhi di Sartre, la scelta dello stile non viene mai prima della scelta del contenuto.

Ma ogni scrittore deve fare i conti non solo con i suoi lettori, ma anche con chi ha fatto della critica la sua professione. Sartre lo sa bene e non riserva parole generose ai propri avversari:

M’è parso che i miei avversari mancassero di lena al momento di mettersi all’opera e che i loro articoli si limitassero a trarre un lungo sospiro scandalizzato, tirato avanti per due o tre colonne. Mi sarebbe piaciuto sapere in nome di che cosa, di quale concetto di letteratura mi si condannava: ma quelli non lo dicevano, non lo sapevano nemmeno[19].

Risulta chiaro il malessere vissuto da Sartre a causa delle critiche ricevute durante tutta la sua vita. Nel considerare la condizione dei critici, egli ne costruisce un profilo che fa di essi uomini abituati ad avere a che fare solo con i morti. I morti sono gli autori i cui libri stanno nelle grandi biblioteche, uomini che rivivono solo ed esclusivamente nel momento in cui qualcuno si mette a leggere le parole che hanno scritto. I critici vengono descritti come uomini sfortunati che hanno trovato un posto tranquillo come custodi di cimiteri. Gli autori sono i morti che stanno là, uomini la cui vita è nota solo attraverso gli altri libri che altri morti hanno scritto su di loro. Il critico, quando sceglie di prendere un libro da una biblioteca, presta il proprio corpo ai morti, stabilisce un contatto con l’aldilà. Ma quel libro in questione, scritto da un autore ormai morto, parla di cose morte, resta un oggetto fatto di carta e macchie d’inchiostro e, quando il critico rianima quelle macchie, facendole diventare parole attraverso la lettura, queste gli parlano di passioni che lui non prova, di collere senza oggetto, di paure e speranze ormai defunte. Si immerge in un mondo in cui gli affetti umani sono diventati affetti esemplari, un mondo fatto di valori. E, per quanto riguarda gli autori ancora in vita, suoi contemporanei:

È una festa, per lui, quando gli autori contemporanei gli fanno la grazia di morire: i loro libri, troppo crudi, troppo vivi, troppo urgenti, passano sull’altra sponda, commuovono sempre meno e diventano sempre più belli; dopo un breve soggiorno in purgatorio vanno a popolare il cielo intellegibile di nuovi valori. […] Quanto agli scrittori che si ostinano a vivere, si chiede loro solamente di non agitarsi troppo e di sforzarsi fin d’ora a somigliare a quei morti che diventeranno[20].

Per la critica avversa a Sartre, tutto ciò che non rientra all’interno di una sfera di valori già costituiti crea in qualche modo scandalo. Ma l’autore autentico e impegnato deve fare scandalo, deve utilizzare parole forti e urgenti. Il compito dello scrittore è quello di parlare al lettore e scuotere la sua coscienza. Questo è un tema caro a un altro protagonista del clima esistenzialista.

In una nota lettera del 27 gennaio 1904 Franz Kafka chiede all’amico e compagno di studi Oskar Pollak a cosa serve un libro che non ci sveglia con un pugno sul cranio. Lo scrittore boemo utilizza un linguaggio abbastanza forte per chiarire quale, secondo il suo parere, dovrebbe essere il fine di un buon libro: un libro che ci rende felice, che ha come scopo quello di allietarci, è un libro di cui ogni lettore può benissimo fare a meno. Sempre all’interno della lettera sopra citata, aggiunge:

Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi[21].

Ciò che Franz Kafka voleva che fossero i suoi racconti e romanzi, così Sartre vuole che sia un libro al cui interno vi sia una qualche rivelazione sugli aspetti del mondo e della vita. Una rivelazione così potente da scuotere e sconvolgere il lettore. Proprio per questi motivi, secondo Sartre, uno scritto è un’impresa e lo scrittore deve impegnarsi interamente nelle sue opere non in modo passivo, mettendo davanti vizi e passioni, disgrazie e debolezze, ma come una scelta, una scelta che coinvolge una vita intera. A questo punto bisogna tornare all’inizio e cercare di rispondere a quel quesito originario, la cui risposta porta a comprendere perché un uomo debba impegnarsi nella scrittura in questo modo: perché si scrive?

Chiaramente, secondo il filosofo francese, ogni uomo ha motivi propri che lo spingono a scrivere: chi scrive per fuggire da qualcosa e trovare riparo nella scrittura, chi per il desiderio impellente di comunicare con gli altri. Anche lui ha avuto il suo personalissimo motivo per cui, ancora bambino, iniziò a riempire d’inchiostro le pagine bianche. Nonostante, quindi, ci siano i più disparati motivi per iniziare a scrivere, secondo Sartre vi è un fattore comune a tutti gli autori. Prima di essere scrittori, infatti, si è senz’altro uomini che vivono nel mondo e, in quanto uomini, ogni nostra percezione si accompagna all’idea che la realtà umana è un qualcosa di rivelante: è attraverso le nostre percezioni che in effetti le cose sono, è la presenza dell’uomo nel mondo che moltiplica le relazioni delle cose che ne fanno parte; ad ognuno dei nostri atti, il mondo ci rivela un volto nuovo. Oltre a questa consapevolezza si aggiunge anche il fatto di sapere di non essere produttori del mondo. Scrive Sartre:

Questo paesaggio, se gli voltiamo le spalle, marcirà senza testimoni nella sua permanenza oscura. Se non altro marcirà: nessuno è così pazzo da credere che sarà annientato. Noi saremo annientati, ma la terra rimarrà nel suo letargo finché un’altra coscienza non verrà a risvegliarla. Così, alla nostra certezza intima di essere «rivelanti» si aggiunge quella d’essere inessenziali nei confronti della cosa svelata[22].

Dunque uno dei principali motivi di ogni creazione artistica deriva dal bisogno di sentirsi essenziali per il mondo. E, nel caso dell’arte dello scrivere, l’oggetto creato, l’oggetto letterario è una sorta di trottola che esiste esclusivamente quando è in movimento. Oltre all’atto dello scrivere, è necessaria la pratica della lettura: al di fuori di essa, il libro non resta altro che un oggetto con dei segni neri sulla carta. Il vero problema della questione, secondo Sartre, è che uno scrittore non può davvero leggere ciò che scrive. Il filosofo francese ha un’idea della lettura come un’attesa, come una previsione. Leggere è fare ipotesi e aspettare che le pagine confermino o neghino le aspettative di ogni lettore. L’autore di un libro sa già cosa viene dopo, qual è il fine delle parole che ha scritto e che ha combinato in un modo ben determinato. L’operazione di scrittura rende la vera lettura impossibile. Quando le parole prendono forma sotto la penna del loro autore, egli certamente le vede ma in un modo diverso rispetto a come le vedrà ogni altro lettore, in quanto l’autore le conosce già prima ancora di scriverle: «il suo sguardo non ha la funzione di svegliare, sfiorandole, parole addormentate che attendono d’essere lette, ma di controllare il tracciato dei segni»[23]. Quando si rilegge, lo scrittore incontra il suo sapere, la sua volontà e i suoi progetti e dunque si confronta esclusivamente con la sua soggettività. E, per quanto riguarda l’effetto delle sue parole, le parole che egli ha scritto, egli potrà sicuramente valutarlo ma non sentirlo come lo sentirà il lettore. Pertanto, l’arte dello scrivere implica l’operazione aggiuntiva della lettura come proprio correlativo dialettico. Solo l’unione di scrittore e lettore può far nascere un’opera: l’arte esiste per gli altri e per mezzo d’altri.

Dal momento che la creazione letteraria si compie in maniera definitiva attraverso la lettura e dato che ogni autore affida ad altri il compito di portare a termine ciò che ha iniziato, ne deriva che ogni opera letteraria è un appello. Scrivere significa fare appello al lettore perché conferisca esistenza alla rivelazione che l’autore ha iniziato tramite le parole. Non si tratta qui di un appello generico; l’appello cui fa riferimento Sartre è un appello molto specifico: lo scrittore si appella alla libertà del lettore. Emerge, dunque, che il libro non è un mezzo per raggiungere un fine qualunque, ma si propone come fine la libertà del lettore. Dal momento che la libertà del lettore cui si fa appello è e dev’essere una libertà pura, ne deriva che lo scrittore non deve influenzare in alcun modo la lettura del lettore, comunicando direttamente emozioni di paura, desiderio o collera. L’opera d’arte deve avere un carattere di presentazione e chi ne fruisce, in questo caso il lettore, deve poter avere un certo distacco oggettivo dall’opera stessa. Specifica Sartre:

Così gli affetti del lettore non sono mai dominati dall’oggetto e, dato che nessuna realtà esterna può condizionarli, hanno la loro fonte permanente nella libertà, ossia sono tutti generosi – poiché io chiamo generoso un affetto per il quale la libertà sia l’origine e la fine[24].

La lettura è, dunque, un esercizio di generosità e lo scrittore pretende dal proprio lettore un’applicazione della libertà che non è libertà astratta: pretende il dono di tutto il suo essere, delle sue passioni ed emozioni, dei suoi pregiudizi e della sua scala di valori. La scrittura, d’altra parte, risulta essere un’attività che si rivolge alla libertà dei lettori e solo in questo modo il lettore dà esistenza all’opera di chi scrive. Vi è, inoltre, un’ulteriore pretesa: i lettori devono, a loro volta, riconoscere la libertà creatrice di chi scrive e sollecitarla.

È sicuramente vero che il lettore progredisce nella sicurezza. Qualsiasi accostamento di parola, qualsiasi divisione in capitoli o tematiche, è un qualcosa che l’autore ha espressamente voluto. Tuttavia, non è altrettanto sicuro né facile decifrare le intenzioni dell’autore. Così la lettura è un accordo, un patto di generosità tra lettore e autore, e ognuno ha fiducia nell’altro così come esige dall’altro tanto quanto esige da sé. Si può facilmente comprendere perché Sartre intenda lo scopo finale dell’arte un recuperare il mondo presentandolo alla vista così com’è, ma come se la sua fonte fosse la libertà umana. E, assunto che sono gli occhi dello spettatore a dare realtà oggettiva all’oggetto creato, ne deriva che è questa cerimonia dello spettacolo – e in particolare della lettura – a consacrare tale recupero del mondo. Adesso appare chiaro che lo scrittore sceglie di appellarsi alla libertà di altri uomini affinché questi restituiscano la totalità dell’essere all’uomo. In generale, lo scrittore mira a dare ai lettori un certo sentimento che viene chiamato piacere estatico, ma secondo Sartre questo piacere è, più nello specifico, una gioia estatica; e, quando sorge questo sentimento, significa che l’opera è compiuta e che l’artista ha condotto a termine il proprio compito.

Scrivere è così svelare il mondo e al tempo stesso proporlo come un compito alla generosità del lettore; è un far ricorso alla coscienza altrui per farsi riconoscere come essenziale; è voler vivere questa essenzialità per interposta persona; ma, poiché il mondo reale si rivela nell’azione e poiché non ci si può sentire dentro se non superandolo per mutarlo, l’universo di chi scrive romanzi mancherebbe sicuramente di spessore se non lo si scoprisse in un movimento fatto per oltrepassarlo.

Come è già emerso in precedenza, la libertà – nel mondo esistenzialista di Sartre – è strettamente legata alla responsabilità. Se lo scrittore di un romanzo rivela attraverso la propria opera le ingiustizie del mondo, lo fa per indurre un moto che porti a superarle e dunque ad abolirle. La riuscita di tale abolizione sta al lettore, è rimessa alla sua coscienza. Se, mentre legge, il lettore mantiene in vita tali aspetti o personaggi ingiusti, ne è pienamente responsabile. Scrittore e lettore insieme portano la responsabilità dell’universo.

Per quanto lo scrittore possa presentare e rivelare un mondo ingiusto che opprime e schiaccia il lettore che ne prende consapevolezza, bisogna comunque che l’opera mantenga un carattere di generosità. Ciò non significa che in nome di questa generosità l’autore deve presentare solo personaggi virtuosi o discorsi edificanti: per il filosofo francese, i libri considerati buoni non si scrivono con sentimenti buoni. La generosità dev’essere la trama stessa del libro: qualunque sia il tema trattato, il libro deve mantenere quel tratto essenziale che fa di esso un’esigenza e un dono. E, se al lettore viene offerto in dono questo mondo ingiusto descritto dall’autore, egli non deve contemplarlo con freddezza: bisogna che le ingiustizie descritte nell’opera animino il lettore e si rivelino per ciò che sono e cioè come un qualcosa che deve essere soppresso. Da ciò deriva che un libro non deve essere moralmente giusto: letteratura e morale sono due cose distinte e separate. Ogni critica che giudica un libro come moralmente sbagliato, osceno o indecente, porta con sé un errore di fondo e limita la libertà dell’opera; libertà che deve essere il tema della letteratura tutta:

Poiché chi scrive, per il fatto stesso che si dà la pena di scrivere, riconosce la libertà dei suoi lettori; e poiché chi legge, per il solo fatto che apre il libro, riconosce la libertà dello scrittore, l’opera d’arte, da qualsiasi lato la si prenda, è un atto di fiducia nella libertà degli uomini. E poiché sia i lettori che l’autore riconoscono questa libertà per esigere che si manifesti, l’opera può definirsi come una presentazione immaginaria del mondo in quanto esigenza della libertà umana[25].

Questo concetto è strettamente connesso con tutto ciò che concerne l’uomo inserito all’interno di una società. Scrittori e lettori sono uomini, ma anche cittadini e così la libertà di scrivere implica necessariamente la libertà del cittadino. Secondo Sartre, l’arte della prosa può proliferare solo in un contesto sociale e politico che ne garantisca la libertà; essa conserva il suo senso solo in un contesto di democrazia. Quando questa viene minacciata, la minaccia riguarda anche la letteratura. Inevitabilmente è accaduto nella Storia che lo scrittore abbia dovuto deporre la penna per impugnare le armi, che abbia dovuto essere autore-impegnato. Ma a cosa è rivolto questo impegno? Si fa presto, dice Sartre, a rispondere dicendo che lo scrittore si impegna per salvaguardare la libertà. Ma bisogna approfondire l’evoluzione del rapporto tra gli scrittori e il pubblico di lettori condizionati, entrambi, dal contesto storico in cui vivono. Per questo motivo, il filosofo francese cerca di rispondere a una domanda la cui risposta per troppo tempo è stata data per scontata e cioè: per chi si scrive?

Lo scrittore e il suo pubblico

Nel febbraio 1939, in François Mauriac e la libertà, Sartre scriveva che «un romanzo è scritto da un uomo per gli uomini»[26] e, in effetti, in Qu’est-ce que la littérature? il filosofo dichiara che senza dubbio ogni scrittore scrive per il lettore universale. La sua esigenza, l’esigenza di chi scrive, si rivolge a tutti gli uomini. Portando questa idea astratta nel concreto, lo scrittore sa che si rivolge a libertà nascoste e dissimulate, e che la sua stessa libertà è un qualcosa che deve essere ripulito attraverso l’esercizio della scrittura. Non esiste una libertà data in maniera astratta; continuamente ogni uomo deve liberarsi dalle proprie passioni, dalla sua razza, dalla nazione di appartenenza, e liberare, con sé, tutti gli uomini. Se uno scrittore ha scelto di costruire periodi bellissimi che si appellano a una libertà eterna ma astratta, deve fare i conti con il fatto che non si rivolgerà, di fatto, a nessuno. Che lo voglia o no, ogni scrittore parla inevitabilmente ai suoi contemporanei, che sono anche suoi compatrioti e che condividono con lui razza e classe. Le modalità di scrittura, per questo motivo, sono abbastanza particolari, dal momento che, come scrive Sartre:

Le persone di una stessa epoca e di una stessa collettività, che hanno vissuto gli stessi avvenimenti, che pongono o eludono le stesse domande, hanno lo stesso sapore in bocca, hanno alcune complicità in comune, e tra di loro stanno gli stessi morti, perciò non è necessario scrivere molto: si usano parole chiave[27].

Pertanto ogni lettore non è una tabula rasa né un puro di spirito: il compito dello scrittore, nei suoi confronti, è quello di svelare ciò che il lettore ancora non sa ma approfittando di ciò che già conosce. Scrivere e leggere sono due aspetti di uno stesso fatto di Storia, e la libertà alla quale lo scrittore invita il lettore è una libertà che si conquista all’interno di una situazione storica. Dal punto di vista di Sartre, ogni libro propone una liberazione concreta che parte da una particolare alienazione; vi è, dunque, implicitamente il riferimento a istituzioni, costumi, forme di oppressione, superstizioni e conquiste recenti del senso comune, modi particolari di ragionare che le scienze del tempo hanno divulgato e applicato a tutti i campi, tutto un mondo che scrittore e lettore hanno in comune. Da tutti questi fattori deriva anche, da parte dello scrittore, la scelta del lettore cui ci si vuol rivolgere:

Poiché le libertà dell’autore e del lettore si cercano e si modificano attraverso un mondo, si può anche dire che la scelta dell’autore, di descrivere un certo aspetto del mondo, determina il lettore e viceversa, scegliendo il lettore, lo scrittore determina l’argomento del suo libro[28].

Pertanto, tutte le opere contengono già in sé l’immagine del lettore cui sono rivolte.

In questa attenta analisi compiuta da Sartre sul ruolo della scrittura, dello scrittore e di chi legge, risulta necessario indagare la tipologia di rapporto che si instaura tra scrittore e lettore. Appare chiaramente, dalla lettura di Qu’est-ce que la littérature?, che il pubblico è l’Altro. Ma cosa significa? E soprattutto, cosa implica?

Il concetto di alterità è stato trattato dal filosofo francese non solo per ciò che concerne il rapporto scrittore-lettore. Nella vita di tutti i giorni, in qualsiasi contesto si trovi, ogni individuo ha a che fare con l’alterità. Vi è un momento nella vita di ogni uomo in cui l’individuo si rende conto di essere continuamente in rapporto con l’Altro. Questo tipo di rapporto Io-Altro non è un rapporto di tipo conoscitivo, dal momento che l’esistenza dell’Altro non può essere dimostrata né negata in alcun modo. L’Io non trova dentro di sé delle ragioni per credere nell’esistenza dell’Altro; ciò che trova è l’Altro in sé e per sé, che limita l’Io e con cui bisogna sempre fare i conti. Ma il punto cruciale di questo aspetto della filosofia di Sartre è che, se questo Altro è essenzialmente una presenza, il modo con cui il soggetto vi entrerà in contatto è lo sguardo. Con le parole di Sergio Moravia: «Tutta la trama aurorale delle relazioni intersoggettive verrà pertanto esaminata da Sartre sulle relazioni visive fra l’Io e l’Altro e delle loro implicazioni esistenziali»[29].

Lo sguardo non implica soltanto la consapevolezza dell’esistenza di un Altro: è qualcosa di più grande e tragico per l’uomo. Questa è la gravità della situazione: rivolto verso il mondo, questo sguardo indica una presenza che esiste come esisto io stesso, l’esistenza di un progetto diverso dal mio; questo sguardo mi ruba il mondo. Ma c’è dell’altro: lo sguardo posato sull’Io lo trasforma da soggetto in oggetto. Improvvisamente il soggetto, in piena attività, scopre di essere nella posizione dell’oggetto e questo cambiamento è intollerabile: «Il peso di questo sguardo mi farà d’ora innanzi dipendere dall’altro nel mio essere: spogliato dal mio potere sul mondo, pietrificato in cosa da una libertà altra da me, mi sento in pericolo. Credevo di essere solo e non ero solo; sovrano, ed ero dominato»[30].

L’incontro con l’Altro è, quindi, questa rivelazione per l’individuo di essere oggetto per qualcun altro. A questo evento quasi tragico vi è solo una via d’uscita e cioè rispondere allo sguardo altrui con il proprio sguardo e, dunque, trasformare l’Altro, a sua volta, in oggetto. Questa è, secondo Sartre, la radice di tutte le relazioni umane. Questo processo è dovuto al fatto che ogni uomo possiede un corpo e per questo motivo è visto dall’altro in quanto oggetto nel mondo, un oggetto da vedere. Il corpo è il modo di inserirsi nell’universo, di scivolare in esso grazie a ciò che è retto dalle leggi stesse dell’universo e strumento per muovere queste leggi a proprio vantaggio. La rivelazione investe, pertanto, anche la corporeità: l’uomo scopre di non possedere un corpo ma di esserlo, ed è questo essere del corpo nel mondo che ha permesso all’Altro di vederlo. Ma lo sguardo dell’Altro sull’Io non si limita a oggettivarlo. Esso lo scopre, lo conosce più e meglio di quanto l’Io non conosca se stesso: «Sento che questo mio essere viene in tal modo svelato e conosciuto con spietata verità»[31]. La realtà umana è, dunque, destinata ad essere simultaneamente per-sé e per-altri. Ed ogni uomo è destinato ad essere abitato, per tutta la sua vita, dallo sguardo altrui.

Tornando alla questione che riguarda l’opera letteraria, dire che il pubblico è l’Altro significa che, così come io esisto per l’Altro, mi vedo e mi costituisco caratterialmente in conseguenza del suo sguardo continuamente proiettato su di me, allo stesso modo lo scrittore crea l’immagine del pubblico cui vuole riferirsi e contemporaneamente viene condizionato da esso. Ogni artista vive e opera in relazione all’Altro che è il suo pubblico.

Nel rapporto con questo pubblico fatto di lettori che è l’Altro, Sartre divide gli scrittori in due categorie. Ci sono coloro i quali forniscono storie che continuano a far fare sogni tranquilli ai propri lettori e questi sono la maggioranza, ma vi sono scrittori, la minoranza, che comprendono di essere artisti impegnati. Uno scrittore diventa impegnato quando cerca di acquisire una coscienza chiara e completa di sé come uomo in situazione nel suo tempo, imbarcato nella sua contemporaneità. Il vero scrittore è colui che trasferisce il proprio impegno, per sé e per gli altri, dal piano della spontaneità a quello della riflessione. Nel profilo tratteggiato da Sartre, lo scrittore è il mediatore per eccellenza e questa mediazione costituisce il suo impegno. Ma Sartre suggerisce un’ulteriore chiave di lettura:

Se è vero che bisogna giudicare un’opera in base alla condizione del suo autore, non si deve dimenticare che la sua condizione non è solo quella di un uomo in generale, ma, in particolare, di scrittore. […] Io sono scrittore prima di tutto per il mio libero progetto di scrivere. Ma subito dopo accade che io diventi un uomo che gli altri uomini considerano come scrittore, che deve cioè rispondere a una certa domanda e a cui si attribuisce, lo voglia o no, una determinata funzione sociale[32].

Qualunque parte voglia interpretare, lo scrittore deve sempre farlo sulla base della rappresentazione che gli altri hanno fatto di lui. In questo modo il pubblico interviene con i suoi costumi, con la sua immagine del mondo, con la sua concezione della società e della letteratura all’interno della società stessa.

Proprio all’interno della società di cui fa parte, lo scrittore che ha deciso con la sua penna di servire gli interessi della sua comunità consuma ma non produce. Sartre sottolinea la gratuità delle opere che risultano essere senza alcun prezzo. Il valore commerciale delle opere viene deciso in modo arbitrario e questo valore cambia, di volta in volta, con il cambiare delle società. In alcune epoche venivano passate delle pensioni come guadagno dello scrittore, in altre veniva concessa una percentuale sul prezzo di vendita dei suoi libri. Sartre denuncia il fatto che nell’epoca contemporanea non vi sia rapporto tra l’opera della mente e il compenso pagato sotto forma di percentuale:

In fondo, non si paga lo scrittore: lo si mantiene, bene o male, a seconda delle epoche. E non può essere diversamente, perché la sua attività è inutile. Non è affatto utile, anzi talvolta può essere nocivo che la società acquisti coscienza di sé. Se la società si vede e soprattutto si sa vista, si determina automaticamente una contestazione dei valori costituiti e del regime: lo scrittore le presenta la sua immagine e le ingiunge di accettarla e di cambiare[33].

Sebbene la sua attività venga considerata inutile, lo scrittore può avere un potere e una responsabilità senza pari. Egli, infatti, può far oscillare le società che si tengono ben salde grazie all’ignoranza degli uomini. Le sue rivelazioni non riguardano solo aspetti del mondo o dell’uomo in un senso generico e universale: lo scrittore può rovesciare sistemi, portare società a cambiare e soprattutto rendere il suo pubblico cosciente. Secondo le classi dirigenti, pertanto, la letteratura è un’attività pericolosa di cui servirsi per i propri fini e per limitarne i danni. Tattica di molti è stata quella di mantenere l’artista per controllarne il potere potenzialmente distruttivo. Così, dal punto di vista di Sartre, lo scrittore fa parte della classe dirigente, ma, sul piano funzionale, opera contro gli interessi di chi gli fornisce i mezzi per vivere. Questo è il conflitto che definisce la sua situazione.

Proprio con l’intento di analizzare questo rapporto tra lo scrittore e il suo pubblico, un rapporto che è cambiato nel corso dei secoli e che ha sempre dovuto far fronte alle società in cui questo si è collocato, Sartre porta avanti un’analisi che mostra l’evoluzione di questo rapporto fino ad arrivare all’epoca che egli stesso ha vissuto e che lo ha consacrato scrittore del suo secolo.

Il percorso tracciato da Sartre inizia dalla diversificazione di pubblico reale e pubblico potenziale. Vi sono due dati da considerare: da una parte, la scrittura, come si è visto, ha il potere di mutare le cose dal momento che rivelare è cambiare; dall’altra, le classi oppresse di una società, che potrebbero servirsi degli scrittori per mutare il regime che li opprime, non hanno né amore né tempo libero per la lettura. Il primo caso analizzato da Sartre è quello, estremo, in cui un pubblico potenziale praticamente non esiste e lo scrittore, invece di rimanere ai margini della classe privilegiata, ne è inevitabilmente assorbito. In questo primo caso specifico la letteratura viene a coincidere con l’ideologia dei dirigenti, la riflessione si svolge all’interno della classe stessa, la confutazione verte sui particolari e viene portata a compimento in virtù di principi che restano incontestati. Questa è la situazione storico-letteraria che si è verificata in Europa nel XII secolo, una situazione in cui «il chierico scrive esclusivamente per i chierici»[34]. In un secolo in cui la rivoluzione cristiana ha determinato l’avvento dello spirituale, saper leggere significa avere lo strumento necessario per acquisire la conoscenza dei testi sacri e dei loro commenti; saper scrivere significa saper commentare.

Oggi, la lettura e la scrittura vengono considerate diritti dell’uomo e strumenti che ci consentono di comunicare; vengono intese come mezzi spontanei quasi come il linguaggio orale. Ma al tempo dei chierici, lettura e scrittura erano tecniche riservate esclusivamente a professionisti che avevano scopi ben precisi: scopi inerenti all’ideologia spirituale del tempo. Sui chierici viene scaricato, inoltre, il compito di produrre e conservare la spiritualità. Nell’epoca che vede la Chiesa come addetta al controllo del sapere, il letterato scrive le sue opere filosofiche, i suoi commenti, i suoi poemi e li destina ai suoi pari dopo averli sottoposti al controllo dei superiori. Non deve preoccuparsi del parere delle masse, dal momento che le masse non lo leggeranno. Trattando di questo secolo, Sartre scrive:

La popolazione è quasi interamente analfabeta, il solo pubblico dello scrittore è il complesso degli altri scrittori. Non è ammissibile che si possa esercitare la propria libertà di pensare, di scrivere per un pubblico che vada oltre la collettività ristretta degli specialisti limitandosi insieme a illustrare il contenuto di valori eterni e di idee a priori. La coscienza tranquilla del letterato medioevale fiorisce sulla morte della letteratura[35].

Ma, affinché gli scrittori conservino questa coscienza tranquilla, non è solo necessario avere un pubblico composto esclusivamente da professionisti. Serve che essi siano totalmente immersi all’interno dell’ideologia dominante e che ne siano permeati a tal punto da non riuscire a concepirne una diversa. In questo caso a loro non viene più chiesto di custodire i dogmi, ma di non esserne i detrattori.

L’esempio scelto da Sartre per descrivere la situazione di adesione totale degli scrittori all’ideologia costituita riguarda la Francia del XVII secolo. Peculiarità di quell’epoca è la laicizzazione dello scrittore e del suo pubblico. L’origine di questa laicizzazione è sicuramente da ricercarsi innanzitutto nell’espansione della cosa scritta, nel suo carattere solenne ma soprattutto nell’appello alla libertà che ogni opera racchiude. Certamente le circostanze esteriori, quali lo sviluppo dell’istruzione, l’indebolimento del potere spirituale e la comparsa di ideologie nuove, hanno rappresentato un grande contributo. Ma laicizzazione non significa universalizzazione e, infatti, il pubblico dello scrittore è rimasto circoscritto entro limiti ben ristretti. Con il termine “società” s’intende ancora parte della corte, della magistratura, del clero e della borghesia. Il lettore è, in questo contesto, il “gentiluomo” che in base al proprio gusto svolge una vera e propria funzione di censore. Critica lo scrittore perché anche lui è in grado di scrivere e crede di poter scrivere le stesse cose, solo che non lo fa. Il lettore è uno scrittore in potenza, dal momento che nel XVII secolo saper scrivere significa sapere scrivere bene. Sul pubblico di quel secolo, facendo particolare riferimento alla figura del lettore, aggiunge Sartre:

Fa parte di una élite parassitaria, per la quale l’arte di scrivere è, se non un mestiere, almeno il segno della sua superiorità. Si legge perché si sa scrivere: con un po’ di fortuna, si sarebbe potuto scrivere quello che si legge. Il pubblico è attivo: le produzioni dello spirito gli sono veramente sottoposte e le giudica secondo una scala di valori che contribuisce anche a conservare[36].

La scala di valori da conservare e preservare si riferisce chiaramente al fatto che nel XVII secolo le convinzioni del senso comune sono incrollabili e intoccabili. L’ideologia religiosa è affiancata dall’ideologia politica e, dunque, se da un lato non si può assolutamente dubitare dell’esistenza di Dio, dall’altro nessuno può mettere in dubbio pubblicamente il diritto divino del re. “La società” ha, dunque, le sue indubitabili credenze, ma anche il suo linguaggio, le sue cerimonie e maniere, e vuole ritrovare tutto questo nei libri che vengono scritti e letti. Nell’ambito di questo contesto storico, vi sono storiografi, poeti di corte, filosofi e giuristi che si danno da fare per mantenere l’ideologia temporale. A questi si affiancano una nuova categoria di scrittori: quelli che, propriamente laici, accettano l’ideologia religiosa e politica del tempo senza sentirsi obbligati a provarla né a conservarla. Non ne parlano, la adottano in modo implicito. Costoro fanno parte della borghesia e sono mantenuti dall’aristocrazia; tra questi alcuni vengono scelti dal potere regio e raggruppati all’interno dell’Accademia. Anche questa categoria di scrittori ha la coscienza a posto come i chierici del XII secolo: vengono mantenuti dal re, letti da una cerchia ristretta e obbligati a rispondere alle richieste di un pubblico molto circoscritto. Delle masse si parla a loro insaputa, e sicuramente senza l’intento di portarle a prendere coscienza di sé. Proprio attraverso questo rapporto con le masse, Sartre invita i suoi lettori a riflettere sul fatto che ogni scrittore si interroga sulla sua missione solo quando non ne ha una già tracciata, quando deve scoprirla, quando si accorge che, fuori dalla cerchia ristretta dei suoi lettori, vi è una massa di lettori possibili con cui instaurare un rapporto. Nel XVII secolo gli scrittori non devono decidere, in ogni loro opera, il senso e il valore della letteratura, poiché questo senso e questo valore sono fissati dalla tradizione: «profondamente integrati in una società gerarchica, non conoscono né l’orgoglio né l’angoscia dell’individualità: sono classici, insomma»[37]. All’interno del classicismo che investe lo scrittore dell’epoca, il pubblico potenziale non invade mai la sfera del pubblico reale e ogni lettore è, per ogni scrittore, un critico ufficiale e un censore. Quando ideologia religiosa e ideologia politica sono così forti e le sanzioni severe, per la società non si pone il problema di scoprire nuovi campi del pensiero; il fine di chi scrive è solo quello di dare forma ai luoghi comuni adottati dall’élite in modo che la lettura diventi una forma di cerimonia di riconoscimento. La lettura è solo un’affermazione formale che autore e lettore appartengono allo stesso mondo e hanno le stesse opinioni su ogni argomento. E il lettore non si stanca mai di ritrovare all’interno dei testi che si appresta a leggere sempre gli stessi pensieri, poiché questi pensieri gli appartengono e non crede di aver bisogno di altri. In questa società che, secondo il parere di Sartre, confonde il presente con l’eternità, lo scrittore non può nemmeno immaginare un qualsiasi cambiamento né della sua figura né della natura umana. Tutto è così come deve essere. Per questo motivo lo scrittore si trova perfettamente d’accordo con il suo pubblico e svolge il suo mestiere con la coscienza tranquilla e con la consapevolezza di essere arrivato nel momento storico in cui tutto è già stato detto e, quindi, spetta a lui ripetere pensieri e concetti con magnificenza. Peculiarità della letteratura del secolo fino a qui descritto è quella di essere moralizzatrice:

Visto che di solito si gratifica con il nome di morale l’esercizio riflesso della libertà di fronte alle passioni, bisogna ammettere che l’arte del XVII secolo è eminentemente moralizzatrice. Non che si imponga dichiaratamente di insegnare la virtù, o che sia avvelenata dalle buone intenzioni, che fanno la cattiva letteratura, ma solo per il fatto di porre silenziosamente davanti al lettore la sua immagine, gliela rende insopportabile[38].

Il percorso storico tracciato da Sartre ha fino ad ora preso in considerazione il caso di un pubblico potenziale praticamente nullo. Ma tutto cambia se il pubblico potenziale appare all’improvviso o se il pubblico reale si divide in diverse fazioni. Si arriva a questo punto a considerare la Francia nel secolo successivo: il XVIII secolo.

Secondo il parere di Sartre, il XVIII secolo costituisce un’occasione unica nella storia e il paradiso – subito perduto – degli scrittori francesi. In realtà, la loro condizione sociale è cambiata ben poco, dal momento che provengono sempre dalla classe borghese. Nel frattempo la cerchia dei loro lettori reali si è allargata di gran lunga poiché i borghesi si sono messi a leggere ma, nonostante questo, gli scrittori continuano a ignorare e a non rivolgersi mai alle masse costituite dalle classi inferiori. Tuttavia, il pubblico è diviso e gli autori devono soddisfare pretese contraddittorie: la classe dirigente ha perso la fiducia nella sua ideologia e tenta, fin che può, di ritardare il diffondersi di nuove idee, ma non riesce fino in fondo nel suo intento. I dirigenti hanno capito che i princìpi religiosi e politici erano gli strumenti più efficaci per rafforzare il proprio potere ma, dal momento che questi vengono visti ormai solo come strumenti, la verità pragmatica ha preso il posto della verità rivelata. Certamente la censura è ancora presente, ma qualcosa è cambiato in modo radicale:

La censura e le sanzioni sono, sì, più evidenti, ma nascondono un’intima debolezza e il cinismo della disperazione. I chierici non ci sono più: la letteratura della Chiesa è ormai vana apologetica, un pugno chiuso su dogmi che sfuggono: si mette contro la libertà, si richiama al rispetto, al timore, all’interesse e, non essendo più un libero appello agli uomini liberi, non è più letteratura. Questa élite sbandata si rivolge al vero scrittore e gli chiede l’impossibile: non le risparmi, se ci tiene, la sua severità, ma introduca almeno un po’ di libertà in un’ideologia che intristisce, si rivolga alla ragione dei suoi lettori e la persuada ad accettare i dogmi divenuti, con il tempo, irrazionali. Gli chiede, insomma, di farsi propagandista pur continuando a fare lo scrittore[39].

Succede che lo scrittore che consente di rafforzare l’ideologia vacillante, per lo meno vi acconsente e questa sua adesione volontaria ai princìpi che un tempo governavano gli spiriti senza che questi se ne accorgessero lo libera da loro. La borghesia, nel frattempo, viene a corrispondere alla classe in ascesa e aspira a liberarsi di quell’ideologia che le viene imposta per costituirne una propria. Così accade che, per la prima volta nella storia, una classe ancora in fase di ascesa si presenti allo scrittore come pubblico reale. La cosa ancora più eccezionale è che questa classe che legge e si sforza di pensare non ha ancora prodotto un partito che la rappresenti con un’ideologia da rispettare. Lo scrittore, dunque, è circondato dall’ideologia in via di liquidazione di una classe in declino e dall’ideologia della classe in ascesa. Ciò che la borghesia, il suo nuovo pubblico reale, gli chiede è di essere illuminata, vuole prendere coscienza di sé. Inizia a diffondersi una specie di scrittura popolare e spontanea nella forma del libello anonimo. Ma questa letteratura non fa davvero concorrenza allo scrittore di professione; anzi, lo stimola e lo sollecita, informandolo delle aspirazioni della collettività. Pertanto, la borghesia è già un abbozzo di pubblico di massa. Rispetto alla letteratura, essa è ancora in uno stato di passività perché non pratica l’arte dello scrivere, non ha un’opinione sullo stile o sui generi letterari; si limita ad attendere contenuti e forma dal genio dello scrittore. Così, sollecitato da due parti diverse e avendo due tipologie di pubblico a disposizione, lo scrittore non solo è l’arbitro del conflitto tra le due classi, ma viene sovvenzionato da entrambe le parti: la classe dirigente gli paga la pensione, ma la borghesia compra i suoi libri. Pensa di non essere legato a nessuno, di poter scegliere i suoi amici e di poter prendere in mano la penna per sottrarsi alla schiavitù dell’ambiente e della nazione in cui vive. Conserva la complicità che ha con i nobili e con i borghesi per comprenderli dall’interno, ma se ne distacca e prende coscienza della sua solitudine. In questo modo, la letteratura, che fino ad allora aveva assolto il suo ruolo di essere conservatrice all’interno di una società accentrata, prende coscienza dello scrittore, e grazie a lui, della sua autonomia. Le opere letterarie non riflettono più i luoghi comuni della collettività e, siccome gli scrittori cominciano a respingere ogni legame con il loro ambiente, la letteratura si confonde con il dubbio, il rifiuto, la critica e la confutazione. Come scrive Sartre:

Un giovane sceglie di scrivere per sfuggire all’oppressione di cui soffre e a una solidarietà di cui si vergogna; alle prime parole che scrive crede di sfuggire al suo ambiente e alla sua classe, a tutti gli ambienti e a tutte le classi, e di far risultare chiara la sua situazione storica per il solo fatto di assumerne una conoscenza riflessiva e critica: al di sopra della contesa tra borghesi e nobili, chiusi dai loro pregiudizi in un’epoca precisa, lui, prendendo la penna in mano, si scopre come coscienza senza luogo e senza data, come uomo universale, insomma. La letteratura, che lo libera, è una funzione astratta e un potere a priori della natura umana: è il movimento che permette all’uomo, minuto per minuto, di liberarsi dalla storia: è, cioè, l’esercizio della libertà[40].

Ecco che emerge l’idea prettamente sartriana secondo la quale la letteratura è un esercizio della libertà e in quanto tale giace al di sopra di ogni critica. Ma, prima di trarre le proprie conclusioni, Sartre continua a delineare le peculiarità di epoche che hanno reso il rapporto scrittore-lettore per come lo si intende nella contemporaneità.

Sempre nel XVIII secolo, in un clima in cui la letteratura è tutta da rifare, le opere non sono più confezionate seguendo norme prestabilite, ma sono ciascuna un’invenzione particolare degli autori. Ogni scrittore porta con sé le sue regole e i principi secondo i quali vuol essere giudicato. Proprio per questo motivo, le opere peggiori dell’epoca sono quelle che rimangono ancorate alla tradizione. Inoltre, siccome è diventato universale, lo scrittore del XVIII secolo non può che avere lettori universali. Reclama, quindi, la libertà dei suoi contemporanei di spezzare i loro legami storici per seguirlo nell’universalità. Sartre definisce questo momento come un miracolo e una vera e propria rivoluzione culturale. Ma la rivoluzione che sta avvenendo in quel periodo è anche una rivoluzione politica: la borghesia aspira alla libertà d’opinione come a un passo avanti verso il potere politico. Pertanto, reclamando la libertà di pensare e di esprimere la propria opinione, lo scrittore partecipa e serve gli interessi della classe borghese. Alla vigilia della Rivoluzione Francese, all’autore basta difendere il proprio mestiere per essere alla guida della classe in ascesa. Poter assumere questa posizione è stata, per gli scrittori di quel tempo, una fortuna che Sartre rimpiange. L’autore del XVIII secolo era un autore impegnato che non necessitava di giustificare il proprio impegno. I sentimenti di Sartre sono tali per cui egli scrive:

Leggevo l’altro giorno queste parole che Blaise Cendrars ha scritto come dedica a Rhum: «Ai giovani d’oggi stanchi di letteratura, per provar loro che un romanzo può essere anche un’azione» e pensavo che noi siamo ben disgraziati e colpevoli, visto che dobbiamo oggi provare ciò che nel XVIII secolo si spiegava da sé[41].

Appare qui chiara l’idea che un libro, di qualunque genere esso sia, compie un’azione che è essenzialmente liberatoria. Anche nel XVIII secolo la letteratura aveva una funzione simile, che però rimaneva velata. In quel tempo che ha visto l’avvento degli enciclopedisti, non si trattava di liberare l’uomo dalle sue passioni ponendogliele davanti, ma di contribuire alla liberazione politica dell’uomo: l’appello che lo scrittore rivolge al suo pubblico è un appello alla rivolta. Nello stesso tempo egli prende sempre più consapevolezza della sua posizione e soprattutto della libertà e gratuità dell’arte letteraria. Ma, se la sua è la posizione critica per eccellenza, necessita di un oggetto da criticare: istituzioni, superstizione, tradizione e atti di un governo tradizionale diventano i suoi bersagli. La Rivoluzione si presenta come vento unico e porta con sé un avvenimento altrettanto particolare, mai accaduto prima di allora: gli scrittori intervengono nella vita pubblica. Lo fanno protestando per un decreto ingiusto, chiedendo la revisione di un processo; non si limitano a contemplare le idee eterne della libertà e dell’uguaglianza, ma scendono anche loro in campo per attuarle. Questo sconvolgimento sociale ha dato allo scrittore una nuova funzionalità: fare dei suoi libri un appello alla libertà dei lettori. In realtà, paradossalmente, questo porta la letteratura alla sua rovina:

Finché milioni di uomini ardevano dal desiderio di poter esprimere quello che sentivano, era bello reclamare il diritto di scrivere e di esaminare liberamente ogni cosa; ma dal momento che la libertà di pensiero e di confessione e l’uguaglianza dei diritti politici vengono conquistate, la difesa della letteratura diviene un gioco puramente formale che non diverte più nessuno: si doveva trovare dell’altro[42].

Gli scrittori hanno perso la loro posizione di privilegio, dettata dal fatto di avere un pubblico diviso che permetteva loro di giocare su due fronti diversi. Questi due fronti si sono unificati quando la borghesia ha pressappoco assorbito la nobiltà. Di conseguenza, gli autori sono tornati alla condizione di dover rispondere alle richieste di un solo pubblico. «Nati da genitori borghesi, letti e pagati dai borghesi, dovranno rimanere borghesi; la borghesia si è chiusa su di loro come una prigione»[43]. La borghesia inaugura, inoltre, nuove forme di oppressione, tra cui il considerare l’opera letteraria non più come una creazione gratuita e disinteressata, ma come un servizio retribuito. Questo accade a causa dell’avvento dell’utilitarismo che coinvolge anche la letteratura. Anche l’opera d’arte deve entrare nel gioco utilitaristico e, se vuole essere presa sul serio, dovrà presentarsi come mezzo per organizzare altri mezzi. In modo più specifico, siccome il borghese non ha piena sicurezza di sé – dal momento che il suo potere non poggia su un decreto della Provvidenza –, la letteratura dovrà rendergli possibile il sentirsi borghese per diritto divino. Finché la borghesia lottava contro i privilegi della nobiltà, si adattava alla funzione distruttrice della letteratura; adesso che è al potere, deve passare alla creazione e chiede agli scrittori che aiutino a costruire. Il pubblico di lettori nel frattempo teme sopra ogni cosa la follia del genio che, con parole imprevedibili, può rivelare il fondo inquietante delle cose e smuovere il fondo ancora più inquietante dell’animo degli uomini. Viene, così, preferita la facilità: essa si legge e dunque si vende meglio. La letteratura “facile” rappresenta il genio incatenato, rivolto contro se stesso, è l’arte che rassicura con i suoi discorsi armoniosi e prevedibili, dimostra che il mondo e gli uomini sono esseri mediocri, senza sorprese ma soprattutto senza minacce. Il borghese crede che tutto il mondo sia riducibile a un sistema di idee, ma l’artista continua ad aver bisogno di una materia che non rientri all’interno di schemi predefiniti, perché la bellezza non si risolve in idee. Nelle sue opere, l’artista vuole fondare l’universo e reggerlo con leggi che si rifanno esclusivamente a una libertà inesauribile. Per questo l’arte non si riduce alle idee: innanzitutto, essa è produzione o riproduzione di qualcosa che è un essere, di qualcosa che non si lascia mai pensare del tutto; inoltre, questo essere è permeato di esistenza e cioè di una libertà che decide del valore del pensiero. Per tutta questa serie di motivi, l’età d’oro della letteratura si è conclusa, e il miracolo cui Sartre si riferiva è stato esaurito. Il pubblico può comprare in tutta tranquillità; non ritroverà più nelle pagine che si appresta a leggere un qualche scandalo. Per quanto riguarda la letteratura, però, essa è stata assassinata. Con le parole di Sartre:

Si sono trovati autori adatti alle circostanze e, se mi è lecito dirlo, capaci di fare onore fino in fondo alla loro firma. Non per nulla hanno scritto libri così brutti: se anche avessero avuto dell’ingegno, hanno dovuto nasconderlo[44].

I migliori, agli occhi di Sartre, sono stati coloro che hanno detto di no, e che con il loro rifiuto hanno salvato la letteratura, a condizione di fissarne i tratti caratteristici per circa cinquant’anni. Infatti, dal 1848 al 1914 circa, secondo il filosofo francese, l’unificazione totale del pubblico ha portato lo scrittore a scrivere contro i suoi lettori. Gli scrittori sono diventati autori che vendono le proprie opere ma disprezzano chi le compra. Sartre sottolinea inoltre come questo conflitto tra scrittore ed i suoi lettori sia stato un evento senza precedenti nell’intera storia della letteratura.

L’analisi di Sartre porta adesso il suo lettore a considerare il rapporto scrittori-pubblico in una nuova epoca: il XIX secolo. La letteratura del XIX secolo si rifiuta di servire l’ideologia borghese e si pone come indipendente da qualsiasi tipo di ideologia. Ciò significa che si pretende di non preferire nessun tipo di argomento in particolare e di poter trattare allo stesso modo qualsiasi materia. Gli scrittori possono sempre scrivere sulla situazione operaia, farsi portavoce degli oppressi, ma la scelta di questo argomento dipende esclusivamente dall’esercizio della libertà dell’autore. La letteratura, ancora tutta rivolta alla scoperta della propria autonomia, diventa l’oggetto di se stessa. E ciò comporta un mettere alla prova i propri metodi e le proprie tecniche, spezzando gli antichi schemi. In maniera concreta, la letteratura procede verso le forme del dramma e del romanzo, il verso libero e la critica al linguaggio. Per quanto riguarda lo scrittore, egli rifiuta di asservire la sua arte a un pubblico e a un soggetto determinato. Ma si accorge del divario che si opera tra la rivoluzione concreta che tenta di nascere e le esercitazioni astratte cui si abbandona.

Questa volta tocca alle masse volere il potere, ma le masse non hanno cultura né tempo libero per formarsela: dunque, ogni pretesa di rivoluzione letteraria mette fuori dalla loro portata le opere che ispira e serve gli interessi dei conservatori. Rimane sempre la borghesia come categoria sociale che legge, che continua a dare sostentamento agli scrittori e ne decide la gloria. Inutilmente lo scrittore cerca di distaccarsi da essa per vederla dal di fuori e, dunque, per averne una visione nel suo insieme, ma, se vuole giudicarla davvero, dovrebbe prima uscirne in maniera definitiva, abbandonarla e aderire a un’altra classe. Ma, siccome non sa decidersi, non riesce a fare il gran salto, vive costantemente nella contraddizione poiché sa e allo stesso tempo non vuol sapere per chi scrive e chi lo legge. Per questo motivo, inizia a parlare volentieri della solitudine, ne fa una caratteristica propria e, invece di accettare il pubblico che si è ipocritamente scelto, inventa che si scrive per se stessi o per Dio. Così, l’arte dello scrivere, a causa della malafede di chi la fa, diventa confessione, esame di coscienza, tutto tranne che comunicazione in senso stretto. Ma, aggiunge Sartre, la solitudine dell’artista è doppiamente falsa, perché essa:

Dissimula non solo un rapporto reale con il grande pubblico, ma anche il ricostituirsi di un pubblico di specialisti. Poiché il governo degli uomini e dei beni viene abbandonato al borghese, lo spirituale si separa di nuovo dal temporale, e si vede rinascere ancora una conventicola letteraria. Il pubblico di Stendhal è Balzac, quello di Baudelaire è Barbey d’Aurevilly, e Baudelaire a sua volta diventa il pubblico di Poe. I salotti letterari hanno preso un vago aspetto di circolo chiuso, dove «si parla di letteratura» a mezza voce, con infinito rispetto, e si discute se il musicista tragga dalla sua musica maggior piacere estetico che lo scrittore dai suoi libri: a mano a mano che lo scrittore si allontana dalla vita, l’arte ridiventa sacra[45].

Pertanto, per il momento, lo scrittore si rivolge ad un pubblico composto esclusivamente da specialisti. Egli vive come sospeso, fuori dal suo secolo, spaesato e maledetto. In più, lo scrittore non insegna nulla, non rispecchia nessuna ideologia e soprattutto si guarda bene dall’essere un moralista perché crede fermamente nell’idea che dai buoni sentimenti provenga una cattiva letteratura. «Dal 1918 in poi si scrive per consumare la letteratura, si dilapidano le tradizioni letterarie, si sciupano le parole, lanciate l’una contro l’altra perché esplodano»[46]. La letteratura è diventata anti-letteratura e non è mai stata, prima d’ora, così letteraria. Intanto tra gli obiettivi dello scrittore vi è quello di dichiararsi e stabilirsi irresponsabile. Di fronte a chi dovrebbe essere responsabile? E in nome di cosa? Se la sua opera mirasse a costruire qualcosa, allora egli dovrebbe renderne conto, sarebbe responsabile della sua creazione; ma adesso le sue parole distruggono il mondo e se stesse, e, per questo motivo, sfuggono a qualsiasi giudizio. Lo scrittore considera il suo principale dovere provocare lo scandalo ed è suo diritto incontestabile sfuggirne le conseguenze. La borghesia, dal suo canto, non si cura molto di questo atteggiamento dello scrittore, dal momento che è sicura di essere il suo solo pubblico. Scrittore e borghesia restano legati, indipendentemente dal disprezzo degli autori nei confronti di chi, realmente, li legge. I lettori borghesi, inoltre, intendono a modo loro ciò che lo scrittore vuole dire. Ne è un esempio il concetto di gratuità dell’opera, che per lo scrittore è l’essenza stessa della sua arte, mentre per il borghese non è altro che un modo di intendere la letteratura come qualcosa di innocuo, come una specie di divertimento. Ma, pur riconoscendo che l’opera d’arte, di fatto, non serve a nulla, il pubblico borghese riesce comunque a servirsene, e il successo di uno scrittore si basa tutto su questo malinteso: dato che gode del suo essere misconosciuto, crede sia normale che il suo pubblico lo misconosca. Dal momento che la letteratura è diventata adesso, in mano sua, una negazione tutta rivolta verso se stessa, deve aspettarsi che i lettori sorridano degli insulti considerandola “solo letteratura” – come un qualcosa, dunque, che non ha davvero una rilevanza particolare. Dato lo stato di cose, alla letteratura non resta che rassegnarsi alla condizione in cui i lettori non la prendano mai sul serio.

Questo il profilo del secolo che presenta Sartre:

Così, poiché le lettere, normalmente, rappresentano nella società una funzione integrata e militante, la società borghese alla fine del secolo XIX secolo offre questo spettacolo senza precedenti: una collettività laboriosa e stretta attorno alla bandiera della produzione, di dove emana una letteratura che, anziché rifletterla, non le parla mai di quanto la interessa, prende posizione contro la sua ideologia, assimila il Bello all’improduttivo, rifiuta di lasciarsi integrare, non desidera nemmeno di essere letta, eppure, nonostante la sua posizione di rivolta, rispecchia ancora nelle sue strutture più profonde e nel suo «stile» le classi dirigenti[47].

Ma non si devono biasimare gli autori di quest’epoca, perché hanno fatto ciò che hanno potuto e, anzi, il loro atteggiamento ha rivelato la gratuità come una delle dimensioni infinite del mondo ed uno scopo possibile dell’attività dell’uomo. La loro opera ha, comunque, rivelato un appello disperato alla libertà di quel lettore che in apparenza disprezzavano. Quella del XIX secolo è stata, secondo l’analisi di Sartre, una letteratura che ha spinto la confutazione fino all’estremo, giungendo a confutare se stessa. È stata un invito a emergere dal nulla distruggendo tutti i miti e tutte le tavole dei valori, ad andare oltre gli schemi delle idee; e, per quanto riguarda l’uomo, ha rivelato la sua relazione con il Nulla, con la Negazione e con la distruzione. Il filosofo francese ha affiancato la letteratura di questa epoca all’età dell’adolescenza: è la letteratura dell’adolescenza perché lo scrittore è stato come quel giovane, ancora nutrito e sovvenzionato dai propri genitori, inutile e senza responsabilità, che spende il denaro della famiglia mentre giudica il proprio padre e assiste al crollo dell’universo di serietà che aveva protetto la sua infanzia. Il XIX secolo è stato per lo scrittore il tempo dell’errore e la ricchezza dei mezzi d’espressione da lui scoperti non deve far dimenticare che ha ucciso la letteratura.

Terminata questa lunga analisi, attraverso le epoche più diverse, del rapporto tra lo scrittore e il suo pubblico, emerge, in primo luogo, che non si può scrivere senza un pubblico. Ma questo pubblico non deve e non può essere un pubblico qualsiasi: deve essere un certo pubblico formato dalle circostanze storiche. A questo pubblico specifico deve accostarsi un certo mito della letteratura che dipende in larghissima misura dalle richieste di quel pubblico specifico. Questo è necessario perché, come scrive Sartre:

L’autore è in situazione come tutti gli altri uomini. Ma i suoi scritti, come qualsiasi atto umano, racchiudono e insieme precisano e superano la situazione, la spiegano anche e la fondano. […] Gli esempi che abbiamo scelto ci sono serviti solo a situare, in epoche diverse, la libertà dello scrittore, a chiarire, entro i limiti delle domande che gli vengono poste, i limiti del suo appello, a mostrare, con l’immagine che il pubblico si fa della sua funzione, i limiti necessari dell’idea che egli inventa di letteratura[48].

Inoltre, dal momento che l’essenza di un’opera letteraria è la libertà che si scopre e che vuole essere un appello alla libertà di altri uomini, bisogna ammettere che le diverse forme d’oppressione, impedendo agli uomini di accorgersi che erano liberi, hanno nascosto questa essenza, tutta o in parte, agli autori. Per questo motivo:

Così le opinioni che questi si formano del loro mestiere sono necessariamente mutilate, nascondono sempre qualche verità; ma una verità parziale e isolata diventa un errore se ci si limita a scoprirla, e il movimento sociale permette di concepire le fluttuazioni dell’idea letteraria anche se ogni singola opera supera in qualche modo tutte le concezioni che si possono avere dell’arte, in quanto è sempre, in un certo senso, incondizionata, viene dal nulla e tiene il mondo sospeso nel nulla[49].

Alla fine di tutte queste evoluzioni, lo scrittore ha rotto tutti i legami con la società e non ha nemmeno più un pubblico. L’inizio del XX secolo rappresenta la negazione assoluta. È come se esistessero due letterature: una cattiva, che Sartre giudica illeggibile ma che tutti leggono, e una buona che non viene letta da nessuno. Qui sta la tristezza del rapporto contemporaneo tra scrittore e pubblico: lo scrittore si rivolge a tutti gli uomini, ma in pochi lo leggono.

Lo scrittore e la littérature engagée

«È nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella Società che ci circonda»[50]. Questa la dichiarazione d’intenti che Sartre scrive all’interno della Presentazione di «Temps Modernes» pubblicata nell’ottobre del 1945. La presentazione appena citata, assieme a Qu’est-ce que la littérature? – analizzato nel paragrafo precedente – costituiscono il manifesto della littérature engagée secondo Sartre. Ma cosa si intende, nello specifico, per letteratura impegnata? E come questa idea della letteratura ha condizionato il dibattito contemporaneo?

In realtà, lungo tutto il Novecento, si è spesso verificata una contrapposizione tra letteratura e politica, perlopiù nel senso che l’una ha tentato di trarre profitto dall’altra: il rapporto tra le due dimensioni è stato di reciproca funzionalizzazione. Come scrive Paolo Tamassia in Politiche della scrittura,

In Francia, in modo particolare, a partire dagli anni Trenta s’è sviluppato un dibattito a volte esplicito – altre volte implicito, ma ugualmente serrato – sul problema di come la letteratura dovesse rapportarsi alla sfera politica. In altri termini, una gran parte degli scrittori e degli intellettuali francesi del Novecento ha riflettuto, sia in termini di consenso che d’opposizione, su quel che viene codificato nel 1945 da Sartre col nome di “littérature engagée”, ma che già precedentemente era stato oggetto di discussione e controversie[51].

Il concetto di littérature engagée si impose così tanto sulla scena sia politica che letteraria che, dopo essere stato formulato da Sartre nel 1945, rimase legato al suo nome fino al giorno d’oggi: venne ad esistere una sorta di binomio Sartre-engagement. Questo ha contribuito sicuramente al successo di pubblico, alla popolarità che ha accompagnato il filosofo francese per moltissimo tempo; ma, d’altra parte, lo ha isolato dal dibattito prettamente filosofico-letterario sia a lui contemporaneo sia successivo.

Il presupposto di base della letteratura impegnata proposta da Sartre è sicuramente la presa di coscienza da parte dell’individuo della sua storicità. Come è già emerso, ogni uomo è in situazione nella sua epoca. La guerra, inoltre, ha portato al culmine il processo attraverso cui Sartre, con altri appartenenti alla sua generazione, ha iniziato a comprendere se stesso – e in generale tutti gli uomini – come essere storico (esseri storici), cioè immerso e situato all’interno della Storia. Come specifica Paolo Tamassia,

L’idea che l’individuo sia situato, ossia immerso nella storia – dalla quale viene in parte determinato, ma nella quale ha la possibilità e il dovere di scegliere e agire –, coinvolge pienamente il ripensamento con cui Sartre investe lo statuto e i compiti dello scrittore, come della letteratura in generale. Infatti chi decide di scrivere deve, come tutti gli uomini, scegliere e scegliersi all’interno d’una situazione storica che lo condiziona, circoscrivendo il suo campo d’azione[52].

Così la consapevolezza della storicità dell’uomo è il postulato che deve stare alla base di una nuova idea di letteratura. La celebre presentazione della sua rivista e il testo Qu’est-ce que la littérature? sono dominati dal concetto di responsabilità dello scrittore. Proprio questo tema sta alla base della critica che Sartre rivolge – come è emerso – all’attività dell’autore borghese che per circa un secolo ha ceduto alla tentazione dell’irresponsabilità della sua attività. D’altronde, Sartre respinge fortemente quella tipologia di letteratura che si fa mera contemplazione del mondo e oggetto di consumo. Questa, secondo il parere e l’analisi del filosofo francese, si è distaccata dalla realtà proprio per sfuggire alla responsabilità che essa impone. L’atteggiamento d’evasione del letterato si pone all’origine di quella che viene definita da Sartre come “cattiva coscienza letteraria”, motivo per il quale la ragion d’essere della letteratura è giunta a vacillare fino a far sorgere forti dubbi agli stessi autori sul loro valore.

Lo scrittore ha il dovere di comprendere di essere gettato nella Storia e di non poter sfuggire in alcun modo ad essa. Egli non è solo immerso negli eventi che accadono, ma è costretto a prendervi parte. Il suo essere impegnato nella realtà è, proclama Sartre, una necessità a cui non può sfuggire, in quanto rappresenta una peculiarità di tutta la condizione umana. Lo scrittore, dunque, non solo è un uomo in situazione nella sua epoca ma deve svolgervi, necessariamente, una funzione sociale. Se uno scrittore, considerato singolarmente, potrà limitarsi a svolgere una funzione puramente critica, tutti gli scrittori che compongono la letteratura auspicata da Sartre devono essere dediti alla costruzione. Questo non significa dover elaborare e trovare una nuova ideologia, poiché ogni letteratura nel suo complesso è, in ogni epoca, essa stessa l’ideologia che costituisce tutto quello che il periodo storico ha prodotto per far luce su di sé. La costruzione, cui fa riferimento il filosofo francese, deve avvenire tramite una letteratura della praxis, il cui compito non è narrare o descrivere qualcosa, ma quello di mostrare le possibilità di agire per produrre un cambiamento pratico nel mondo.

Da parte sua, lo scrittore sceglie di scrivere per sentirsi essenziale rispetto al mondo ma all’essenzialità che sembra finalmente conquistata al soggetto nell’atto che scrive si contrappone immediatamente l’inessenzialità dell’oggetto che produce. Infatti, per il fatto stesso di averla prodotta, il soggetto non può percepire la sua opera nella sua oggettività. La soluzione possibile nasce da una particolare caratteristica dell’opera letteraria: essa, infatti, può conquistare una piena oggettività grazie a un soggetto diverso dall’autore. L’opera letteraria diventa oggetto solo nel momento in cui vi è un lettore che la coglie. Questo significa che l’atto creativo dello scrittore non basta a creare pienamente l’opera in quanto oggetto. La scrittura ha bisogno della lettura come correlativo dialettico: questi due atti connessi implicano forzatamente due agenti distinti.

Come è stato mostrato da Sartre in Qu’est-ce que la littérature?, nella creazione letteraria accade che l’autore si appelli alla libertà del lettore affinché esso collabori alla produzione dell’opera stessa e riconosca, allo stesso tempo, la sua libertà creatrice: «La libertà del soggetto avvolge la necessità del dato, dell’opera»[53]. D’altronde, la libertà dell’autore, che sta necessariamente all’origine della creazione letteraria, non può essere finalizzata esclusivamente a se stessa:

La compattezza ontologica raggiunta nella dimensione estetica è in situazione, è incarnata nella storia, e all’interno di essa deve prendere posizione al fine di produrre cambiamenti. È questo, in ultima analisi, l’imperativo che identifica più precipuamente lo scrittore impegnato. Infatti, se la letteratura borghese, limitandosi allo studio delle relazioni tra essere e avere, si offriva – secondo le analisi di Sartre – come oggetto di mera contemplazione e consumo, ora, la forza delle circostanze impone allo scrittore di pensare le relazioni tra l’essere e il fare, che si articolano nella concretezza della sua situazione contingente. La sintesi tra assoluto e momento storico, operata nella dimensione estetica, deve concretizzarsi in un’attività di trasformazione del mondo. La littérature engagée non può che essere una letteratura della praxis; deve essere un’azione nella storia e sulla storia[54].

È fondamentale qui ricordare come, secondo Sartre, il mondo e l’uomo si rivelino attraverso le imprese, e tutte le imprese e le azioni si riducano a una sola: fare la Storia. E gli strumenti che un uomo che decide di dedicare la propria vita all’arte letteraria possiede sono le parole. Ma queste parole, che formano non solo il linguaggio letterario ma il linguaggio comune a tutti gli uomini, devono essere messe in una qualche forma.

La peculiarità di Sartre è stata quella di non aver scelto una sola forma per il suo impegno: ne sono state scelte molte, tutte le possibili. Dalla trilogia intitolata complessivamente Les Chemins de la liberté, e pubblicata tra il 1945 e il 1949, fino al grande successo de La Nausée e de Le Mur, tutti i suoi testi descrivono situazioni emblematiche in cui i protagonisti vengono a trovarsi e che li mettono in condizione di dover riflettere sulla propria esistenza, di dover fare delle scelte e di dover prendere delle decisioni. Non diversamente dai testi che hanno preso la forma del romanzo, anche i testi teatrali di Sartre hanno visto un teatro impegnato e in situazione nel proprio tempo. Ne Les Mouches del 1943 e in Huis clos del 1944, così come in Morts sans sépulture del 1946 e nelle Les Mains sales del 1948, il filosofo francese delinea situazioni e vicende nelle quali l’uomo è costretto a prendere dolorosa coscienza di sé, del destino umano, dei condizionamenti che opprimono la sua esistenza; e che ora sente di poter agire assumendo le proprie responsabilità ed elaborando i propri progetti. Come scrive Sergio Moravia,

Letteratura filosofica come nessun’altra, i romanzi e il teatro sartriani esprimono sotto altra forma, ma con immediata fedeltà, le idee degli scritti teorici nonché lo sviluppo intellettuale e ideologico del loro autore. La Nausea e (in parte) le Mosche e A porte chiuse hanno come referente più o meno diretto il pensiero culminato nell’Essere e il Nulla, e come l’Essere e il Nulla tendono a delineare situazioni astratte, o almeno eminentemente psicologiche e astoriche[55].

In effetti, una delle ragioni dell’interesse suscitato da Sartre nel nostro tempo consiste nell’essersi imposto in una vasta gamma di settori culturali, da quello filosofico a quello letterario, critico, teatrale e politico. Considerando tutta la sua produzione, la prima impressione che sorge nel lettore è quella di trovarsi davanti a una personalità complessa, un intellettuale non facilmente etichettabile perché sempre alla ricerca di forme nuove che potessero racchiudere le sue idee, e senz’altro di essere davanti a un autore che ha segnato un’intera epoca. Leggendo le sue opere prettamente letterarie o teatrali, viene costantemente da chiedersi perché a Sartre non siano sembrati sufficienti il registro e la forma filosofica. Sicuramente il suo esempio è stato, ed è, utile agli uomini di filosofia: i trattati, le dissertazioni e i saggi non sono i soli modi per rendere fruibili le idee. I filosofi non devono chiudersi all’interno delle Accademie e utilizzare un linguaggio alto comprensibile ai pochi, ma devono cercare di veicolare le proprie idee nei modi più diversi. Solo così è possibile arrivare ai più e dare un impatto molto più forte al sapere e alla realtà tutta.

Il concetto di letteratura impegnata serve da monito a tutti gli intellettuali. È un invito a non rinchiudersi nelle torri d’avorio, a cercare di rendere fruibile il più possibile le proprie opere. È un invito all’azione, alla partecipazione alla realtà: solo così gli intellettuali risultano utili alla propria epoca e solo così è possibile cambiare il mondo e lo stato delle cose:

Facciamo appello a tutte le buone volontà; tutti i manoscritti saranno accettati, da qualsiasi parte provengano, purché si ispirino ad argomenti legati a quelli che ci stanno a cuore e presentino, inoltre, un valore letterario. Ricordo, infatti, che nella «letteratura impegnata» l’impegno non deve, in alcun caso, far dimenticare la letteratura, e che il nostro intento dev’essere tanto di servire la letteratura infondendole un sangue nuovo, quanto di servire la collettività cercando di darle la letteratura che le si addice[56].

Questo, l’ultimo appello di Sartre che chiude la presentazione di «Temps Modernes» dell’ottobre del 1945. E se, come è emerso, la scrittura è quell’esercizio della libertà che si appella alla libertà dei lettori, l’appello del filosofo francese è rivolto a partecipare liberamente alla letteratura, servirla e incrementarla con parole nuove. Parole che possano esprimere concetti utili alla collettività di cui ogni autore fa parte. Jean-Paul Sartre risulta, così, essere modello di intellettuale impegnato e di filosofo della Libertà. Da una delle conversazioni tenute con Simone De Beauvoir, donna con cui condivise tutta la vita:

B.: La letteratura ha sempre conservato lo stesso valore ai vostri occhi, oppure, da quando avete cominciato a occuparvi di politica, questo fatto l’ha un po’ sminuita?

S.: No, non l’ha sminuita.

B.: Quali sono per voi i rapporti tra l’una e l’altra?

S.: Ho pensato che l’azione politica dovesse costruire un mondo in cui la letteratura fosse libera di esprimersi: il contrario di quel che pensano i sovietici. Ma non ho mai affrontato la questione della letteratura dal punto di vista politico, ho sempre considerato che fosse una delle forme della libertà[57].

Rapportandosi a un’idea della letteratura del genere, che implica una cultura strettamente connessa con la società che a sua volta dà grandissimo valore all’arte letteraria, viene da chiedersi: cosa ne è stato dell’intellettuale impegnato? Nel 2010, in occasione del trentesimo anniversario della scomparsa di Jean-Paul Sartre, Michela Marzano ha scritto un articolo per «La Repubblica» e si è posta questa stessa domanda, portando a riflettere su cosa resta dell’engagément in una realtà che contraddice le ideologie. Riflettendo su ciò che è stato Sartre lungo tutta la sua vita, viene da chiedersi in cosa si impegnino adesso gli intellettuali. Ciò che è certo è che la società ha rotto con la cultura e, come scrive Michela Marzano:

Gli intellettuali hanno definitivamente abdicato: alcuni sono tornati ad abitare le torri d’avorio; altri sono scesi a patti con il potere o con il mondo dello spettacolo. Anche se l’eredità di Sartre è scomoda, occorre evitare di seppellirla definitivamente. La necessità, per ciascuno di noi, di trovare il proprio cammino verso la libertà resta un monito valido ancora oggi. Esattamente come l’invito agli intellettuali a impegnarsi con coraggio nel mondo in cui vivono. La filosofia e la letteratura non sono un mero esercizio di stile. La scrittura e la parola devono coinvolgere tutta l’umanità[58].

Ma la società ha probabilmente rotto anche con Sartre. Inizialmente, all’indomani della sua morte, l’impressione generale era che ci si rivolgeva al filosofo francese con maggiore attenzione e, soprattutto, con maggiore benevolenza. Effetto forse dovuto solo al fatto che con i morti si è più generosi? Resta, comunque, il fatto che quella di Sartre è stata per quarant’anni una presenza invadente, fastidiosa e provocatoria. L’uomo Sartre, poi, si presentava sempre saccente e arrogante. Il filosofo, d’altra parte, ha sempre portato il dibattito critico a soffermarsi sulla domanda: quanti Sartre? Come se egli fosse molteplice, con atteggiamenti vari e apparentemente contraddittori.

Sempre in occasione del trentesimo anniversario della sua morte, Francesco Merlo ha iniziato il suo tributo al filosofo scrivendo:

Coltivato come fosse un luogo di richiamo, di intrattenimento intellettuale e di rifugio sentimentale, Sartre non è più letto da nessuno né tantomeno studiato, ma è molto “visitato”. Alla Gallimard, sul boulevard Raspail, i suoi libri sono cadaveri, assopiti come mummie, ma per capire la filosofia dell’esistenza è sufficiente passeggiare nella rue Bonaparte e sospirare al numero 47 dove è morto e dove, goffo e strabico come tutti coloro che vedono troppo o che stravedono, era vissuto nel disordine con la mamma alsaziana quando già era l’intellettuale più popolare del secolo[59].

Uno tra i filosofi che più di tutti ha cambiato l’idea dell’uomo e del suo essere inserito all’interno del mondo sembra non parlare quasi più a nessuno: oggi la sua arte raramente viene portata a compimento perché raramente viene letta. E forse hanno contribuito a ciò le aspre critiche con cui Sartre ha sempre dovuto fare i conti, a cominciare dal fatto di essere considerato un intellettuale scomodo perché “scandaloso”.

  1. J.-P. Sartre, Le parole, trad. it. di L. de Nardis, Milano, Il Saggiatore, 2020, p. 33.
  2. Si presenta un estratto della tesi di Laurea magistrale in “Editoria e scrittura” dal titolo Jean-Paul Sartre: tra filosofia, letteratura e censura, discussa nel gennaio 2021 presso la Sapienza Università di Roma: relatrice la prof.ssa Maria Panetta e correlatore il prof. Francesco Saverio Vetere.
  3. Ivi, p. 36.
  4. Ivi, p. 40.
  5. Ivi, p. 45.
  6. Ivi, p. 115.
  7. Ivi, p. 117.
  8. Ivi, p. 122.
  9. Ibidem.
  10. Ibidem.
  11. J.-P. Sartre, Le parole, op. cit., p. 184.
  12. Ivi, p. 186.
  13. J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura? Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, trad. it. di L. Arano-Cogliati, A. Del Bo, O. Del Buono, J. Graziani, A. Mattioli, M. Mauri, D. Menicanti, G. Monicelli, E. Soprano, D. Tarizzo, G. Tarizzo, Milano, Il Saggiatore, 2009, p. 12.
  14. Ivi, p. 13.
  15. Ivi, p. 15.
  16. Ivi, pp. 16-17.
  17. Ivi, p. 20.
  18. Ivi, pp. 22-23.
  19. Ivi, pp. 25-26.
  20. Ivi, p. 27.
  21. F. Kafka, Lettere, trad. it. di E. Pocar e A. Rho, Milano, Mondadori, 1964, p. 25.
  22. J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, op. cit., p. 32.
  23. Ivi, p. 34.
  24. Ivi, p. 40.
  25. Ivi, pp. 48-49.
  26. Ivi, p. 175.
  27. Ivi, p. 52.
  28. Ivi, p. 53.
  29. S. Moravia, Introduzione a Sartre, Bari, Laterza, 2010, p. 59.
  30. C. Audry, Sartre. La vita il pensiero i testi esemplari, trad. it. di G. Dacio Giani, Milano, Accademia Sansoni, 1970, p. 73.
  31. S. Moravia, Introduzione a Sartre, op. cit., p. 61.
  32. J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, op. cit., pp. 57-58.
  33. Ivi, p. 61.
  34. Ivi, p. 62.
  35. Ivi, p. 64.
  36. Ivi, p. 66.
  37. Ivi, p. 68.
  38. Ivi, p. 72.
  39. Ivi, p. 73.
  40. Ivi, p. 77.
  41. Ivi, p. 79.
  42. Ivi, p. 81.
  43. Ivi, p. 82.
  44. Ivi, p. 86.
  45. Ivi, pp. 91-92.
  46. Ivi, p. 96.
  47. Ivi, p. 105.
  48. Ivi, p. 108.
  49. Ivi, p. 109.
  50. Ivi, p. 127.
  51. P. Tamassia, Politiche della scrittura. Sartre nel dibattito francese del Novecento su letteratura e politica, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 13-14.
  52. Ivi, p. 84.
  53. Ivi, p. 92.
  54. Ivi, p. 94.
  55. S. Moravia, Introduzione a Sartre, op. cit., pp. 94-95.
  56. J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, op. cit., p. 139.
  57. S. De Beauvoir, La cerimonia degli addii, trad. it. di E. De Angeli, Torino, Einaudi, 1983, pp. 179-80.
  58. M. Marzano, Sartre. Così è tramontato il mito dell’intellettuale impegnato, in «La Repubblica», 15 aprile 2010.
  59. F. Merlo, Quella Parigi ormai sparita, in «La Repubblica», 15 aprile 2010.

(fasc. 39, 31 luglio 2021)