«Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. Ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo e l’aver lavorato in un ambiente editoriale che è stato di modello per il resto dell’editoria italiana, non è cosa da poco»1. Così dichiara in un’intervista Italo Calvino, che, oltre a essere un grande scrittore, è stato anche un impeccabile funzionario della Giulio Einaudi Editore, dove, dagli anni Cinquanta fino alla morte improvvisa nel 1985, ha rivestito i ruoli di addetto stampa ed editor. Lavorando sui «libri degli altri», si è sempre dimostrato alquanto sobrio, restio a qualunque intervento invasivo sul testo; come si legge nella lettera indirizzata a un giovane autore che aveva proposto il proprio romanzo all’Einaudi, per giudicare pubblicabile un libro Calvino considerava solo tre elementi:
Dei manoscritti troppo lunghi leggo solo quanto mi sembra sufficiente per rintracciare i tre elementi che mi servono a stabilire se un libro c’è o non c’è: 1) se ha un linguaggio; 2) se ha una struttura; 3) se fa vedere qualcosa, possibilmente qualcosa di nuovo2.
Di parere opposto Elio Vittorini, che vanta nel curriculum la collaborazione con Einaudi, Mondadori e Bompiani. Lo scrittore si faceva promotore di un’idea di editing maieutico, che liberasse il testo dalle scorie di cui era impregnato e che ne impedivano una giusta lettura; un editing che “tirasse fuori” dalle maglie della narrazione ciò che effettivamente era. Da qui i tagli e le riscritture suggerite/imposte agli autori che proponevano i loro testi per la pubblicazione. Per non parlare di Gordon Lish, il cui intervento massiccio sui racconti di Raymond Carver produce una nuova corrente nella letteratura americana, il minimalismo, che si configura come una tendenza artificiale, costruita interamente nel laboratorio editoriale.
Come esemplificano questi casi storici, le modalità d’intervento sul testo all’interno di una redazione editoriale sono molteplici, legate da una parte allo spirito e alla politica perseguita dalla casa editrice, e dall’altra alla sensibilità di chi lavora dietro le quarte di copertina. Sarebbe ovviamente impossibile tentare una mappatura tipologica degli interventi su un testo, come lo sarebbe fornire una definizione univoca di editing3. Ciò che si può fare, però, è analizzare le modalità di lavoro di alcuni editor, confrontando il manoscritto dell’autore su cui lavorano con quello editato (e quindi pubblicato): si delineeranno interessanti differenze morfologiche, sintattiche, ritmiche e talvolta anche tematiche, prodotte proprio dalla penna dell’editor, al fine di dimostrare la bontà di una pratica maieutica che aiuta a far emergere da un romanzo ciò che potenzialmente è, permettendo il perfezionamento e la maturazione della scrittura.
Cerchiamo dapprima di chiarire cosa sia l’editing e in seguito di capire quale testo vada considerato “originale” ai fini della nostra analisi, appoggiando queste riflessioni su due casi di studio: Il libro dell’amore proibito di Mario Desiati e La collina di Andrea Delogu e Andrea Cedròla.
«Il miglior fabbro» e la sua arte
Nel 1921 Thomas Stearns Eliot inizia la composizione del proprio capolavoro, La terra desolata, dopo anni piuttosto difficili: la moglie Vivien è sempre più ammalata e il lavoro in banca lo priva del tempo da dedicare alla sua passione letteraria. Nell’estate di quell’anno, Eliot è preda di un esaurimento nervoso e il neurologo gli prescrive tre mesi di riposo assoluto: proprio in questo periodo viene concepito il poemetto. A Parigi Eliot incontra Ezra Pound, che si dice entusiasta del risultato, ma consiglia all’amico di “tagliare” gli oltre mille versi, in particolare nei raccordi più esplicativi. Nasce così, in seguito a un lavoro congiunto dei due autori, il poema definitivo in 433 versi divisi in 5 sezioni che reca la dedica a Pound come «miglior fabbro»4. Questa espressione riprende, com’è noto, un verso del Purgatorio, in cui Dante addita il trovatore provenzale Arnaut Daniel come il «miglior fabbro del parlar materno», cioè il miglior artefice del volgare. In tal modo si è posto Pound rispetto a Eliot, come colui che è stato in grado di plasmare una forma perfetta e ammirevole dalla materia poetica grezza uscita dalla penna del secondo: senza i consigli e gli interventi del primo, l’opera di Eliot non avrebbe potuto raggiungere lo straordinario successo che ebbe. Lo stesso Eliot ne riconobbe l’effettivo miglioramento. Si può dire, di conseguenza, che Pound abbia svolto un ottimo editing per il testo di Eliot.
L’attività dell’editor è, però, qualcosa di più complesso di qualche “taglio”, e segue il testo dalla sua genesi fino al momento della stampa. È un processo lento e delicato, indipendentemente dal fatto che lo si ritenga un processo maieutico o di livellamento e adattamento al mercato.
In Le diverse pagine Alberto Cadioli riprende le riflessioni di Brigitte Ouvry-Vial sulla lettura editoriale5, che la studiosa divide in tre fasi: la prima coglie «le caratteristiche estetiche del testo e la maniera globale in cui si offre alla percezione, per vedere se ha un tono», dove il «tono» è «un modo della voce rispetto alla natura del discorso» e il primo criterio di scelta; nella seconda fase, «saper leggere consiste nel comprendere e interpretare il progetto dell’autore che l’edizione deve attualizzare»: l’editore deve avere «una specie di visione mentale, immediata, condensata, del libro che verrà» sulla cui base ne deciderà l’acquisizione; nella terza fase si procede a una «lettura-riscrittura che agisce sul testo», per renderlo coerente con l’idea che deriva dalla seconda lettura6.
Appare chiaro che l’editing si colloca nella terza fase della lettura editoriale e si delinea come un’attività di fondamentale importanza, tanto che la filologa Paola Italia ha sostenuto che «la storia letteraria del Novecento potrebbe dare risultati interessanti (e inattesi) se studiata come storia dell’editing, sui testi pubblicati in quel secolo»7.
“Editor” è un termine che si diffonde intorno alla metà degli anni Sessanta e indica non solo «lo scopritore di nuovi ingegni, capace di determinare la storia letteraria della propria epoca; è anche il tramite […] tra le necessità dello scrittore e le esigenze della casa editrice […]»; tale ruolo, «nel suo significato positivo di redazione letteraria e negativo di manipolazione, è nato con Maxwell E. Perkins, il favoloso editor di Hemingway, di Fitzgerald, di Ring Lardner, di Morley Callaghan, di Thomas Wolfe»8.
Volendo definirlo, si potrebbe dire che l’editing si configura come l’insieme dei lavori di perfezionamento del testo, dal momento in cui l’autore ne conclude l’ultima revisione. Consiste nella «capacità di controllare e ricontrollare un testo in modo che non contenga, o contenga entro limiti sopportabili, errori di contenuto, di trascrizione grafica o di traduzione, là dove neppure l’autore se n’era accorto»9, dato che il più delle volte l’autore stesso non ha una completa consapevolezza del proprio testo. L’editing è, insomma, il primo confronto del manoscritto con la realtà esterna, guidato dalla sensibilità e dalle conoscenze dell’editor che ambisce a valorizzare ed esprimere le potenzialità insite all’interno della scrittura, che rischierebbero di rimanere relegate a un livello epidermico: l’editor «mira a far scaturire l’inimitabile singolarità di quel testo»10.
D’altra parte, bisogna tenere sempre presente il lettore-cliente al quale l’opera è indirizzata, per cui la forma del testo può subire modificazioni anche a scopo più commerciale.
L’editor, quindi, perfeziona il testo tramite l’eliminazione di errori morfo-sintattici e incongruenze tematiche e strutturali (suggerendo tagli, aggiunte, spostamenti di sequenze, ampliamenti di passaggi poco chiari), concordando con l’autore gli interventi possibili per migliorare l’architettura generale dello scritto. Deve mettere al servizio del libro e dell’autore la propria precisione, il buon senso, e naturalmente la propria cultura generale; agire in maniera invisibile, senza intaccare lo stile e le peculiarità autoriali. E, non essendo un co-autore, lascia l’ultima decisione ˗ se intervenire o meno sul testo ˗ sempre all’autore. Ne illustra efficacemente il motivo Vittorio Spinazzola:
L’autonomia di lavoro dello scrittore è sì comprimibile, non però illimitatamente: si può influenzarlo in tanti modi, diretti e indiretti, ma quanto più lo si controlla tanto più aumenta il rischio che il risultato sia un’opera svogliata, fiacca e invendibile. Se non c’è un consentimento intimo a ciò che si sta elaborando fantasticamente, è difficile far nascere un prodotto capace di acquisire il consenso dei destinatari. Infine, la formula per inventare libri di successo a comando, o a macchina, non è stata ancora escogitata11.
Si ricorderà l’atteggiamento di Emilio Treves con Giovanni Verga, il quale gli manda due prefazioni per I Malavoglia, di cui l’editore sceglie la seconda, non senza applicare delle modifiche: «Ho scelto la seconda, con una piccola trasposizione di periodi. Vedrete nelle bozze se così vi piace, che naturalmente siete voi giudice, in ultima istanza»12.
Va, però, ricordato che
l’editing non è una scienza, ma una pratica; qualunque teoria è inconsistente. Esistono tanti editing quanti editor (teoricamente). Quindi anche il superfluo è indecidibile (teoricamente). Ma quando uno scrittore trova il suo editor succede qualcosa: è l’incontro con il lettore ideale, che capisce e tiene il libro come se l’avesse scritto. Lo scrittore assiste incredulo alla scena di un se stesso che non ha scritto una parola, e ama ogni parola che non ha scritto (anche quelle che cancella). Per un lettore così, uno scrittore potrebbe dare tutto13.
E che l’editor debba essere un eccelso lettore lo sottolinea anche Robert Gottlieb, editor di scrittori come John le Carré, Toni Morrison e Doris Lessing:
Fare editing letterario significa semplicemente mettere in pratica il buon senso che qualsiasi buon lettore possiede. Ecco perché l’editor deve essere prima di tutto un lettore. […] Si possono anche avere gli strumenti editoriali necessari, ma se non si è lettori sensibili non si riuscirà a comprendere dove sta il problema. Io sono un lettore. Leggere è la mia vita. Avevo all’incirca quarant’anni quando ebbi una rivelazione illuminante ˗ sembrerà sciocco ˗, improvvisamente mi resi conto che non era un assioma condiviso da chiunque, evidente di per sé, il fatto che leggere fosse la cosa più importante nella vita. Per me era del tutto naturale, io stesso non sapevo nemmeno di averci pensato, dal momento che consideravo essenziale e inevitabile la lettura.
Strano a dirsi, ho capito che leggere senza fini editoriali è un’esperienza molto diversa, per me. Quando leggo per mio piacere personale, non ho la tendenza a ragionare come un editor, perfino con libri sui quali ho lavorato. Ricordo, ad esempio, che quando mi arrivò sulla scrivania il testo finito della Talpa di le Carré, decisi di rileggerlo anche se erano passati solo tre o quattro mesi da quando ne avevo visionato le bozze. Fu come se stessi leggendo qualcosa che non avevo mai letto prima, perché lo stavo facendo per il mio divertimento. Ho avuto molto raramente l’impulso di fare qualche modifica a un libro che stavo leggendo soltanto per me. Solo le traduzioni mediocri mi fanno venire il nervoso e la voglia di prendere in mano la matita14.
Inoltre, quando lavora, l’editor mette da parte il gusto personale, abbandona il proprio io e penetra quello dell’autore, per proporre modifiche coerenti con i suoi intenti narrativi e stilistici.
Per esemplificare, si possono distinguere due differenti tipologie di editing. Una più interventista, in cui l’editor agisce in maniera invasiva: infatti, alcuni «editor peccano di eccessivo protagonismo, arrivando a stravolgere il testo a tal punto che l’autore quasi stenterebbe a riconoscerlo come suo»15; e una “propositiva”, più diffusa, in cui l’editor lavora a stretto contatto con l’autore, dialogando per il bene della scrittura e fornendo «solo indicazioni, astenendosi dal mettere direttamente mano al testo»16. Tuttavia, il «narcisismo inflessibile dell’autore» potrebbe incarnarsi in una forma di «ostruzionismo», mettendo «a rischio il piano editoriale e l’“integrità psichica” dell’editor»17. Nel rapporto con l’autore, l’editor dovrebbe, infatti, assumere un comportamento che sia un compromesso tra il distacco e l’eccessiva disponibilità: dimostrandosi troppo amico, infatti, riempirebbe d’orgoglio l’ego dell’autore, il quale, preda del delirio di una presunta onnipotenza, si permetterebbe di sindacare anche sul singolo segno di punteggiatura.
Alcuni manuali, invece, sono soliti distinguere un editing formale, incentrato sugli elementi grammaticali, sintattici, di coerenza e coesione linguistica, da un editing sostanziale, che apre un dialogo con l’autore sul merito, sulle motivazioni della sua opera, giungendo a cambiamenti strutturali quali, ad esempio, su intreccio narrativo e trama.
Gianluca Calvino ha evidenziato che l’approccio al testo durante l’editing consta di una triplice lettura: «rapida», per avere completezza della narrazione e per capire stile e intenzione dell’autore; «approfondita (analitica)», che scandaglia le inesattezze soggettive di un testo, pertinenti alla sensibilità di autore ed editor piuttosto che a una serie di parametri prestabiliti (è a questa altezza che si analizza lo stile autoriale, si ottimizzano le potenzialità testuali inespresse, si applicano tagli e aggiunte); «approfondita (meccanica)», che sottolinea inesattezze oggettive del testo (sintassi, trama, personaggi, incipit, explicit, imprecisioni e incoerenze nelle ricostruzioni storiche, negli ambienti, in date, nomi ecc.)18.
Per approfondire ulteriormente la funzione svolta dall’editor, è utile riflettere anche sulla condizione del manoscritto originale, a partire dal quale si può studiare la sua incidenza nella costruzione del testo.
Gli interventi in redazione: alcuni esempi
Nel corso del Novecento, con l’avvento dell’editoria industriale, l’originale diviene il risultato di diversi interventi, che mettono a punto la struttura ˗ anche fisica ˗ di un testo e definiscono le caratteristiche del contenuto. Tra gli interventi più frequenti nel laboratorio redazionale, si annoverano modifiche alla punteggiatura, l’uso del maiuscolo, aspetti linguistici e stilistici, e la mise en page, cioè la messa in pagina del testo (nel gergo editoriale si adopera il verbo “ingabbiare”).
Per quest’ultimo aspetto, è utile ricordare lo scambio epistolare tra Elsa Morante, il segretario generale della casa editrice Einaudi Luciano Foà, e il redattore Bruno Fonzi, che si stava occupando della pubblicazione dell’Isola di Arturo, considerato dalla critica il capolavoro della scrittrice, uscito nel 1957, ottenendo un buon successo di pubblico e vincendo il Premio Strega. Frequenti i battibecchi tra i tre su varie questioni redazionali, dai caratteri tipografici e dall’uso dei corsivi alla scrittura delle parole dialettali e agli spazi bianchi: Elsa pretendeva per ogni capitolo un occhiello e, siccome ogni capitolo era composto di altri capitoli più brevi, tra la fine di ogni capitoletto e l’inizio dell’altro doveva inserirsi un terzo di pagina bianco; qualche capitoletto recava ulteriori suddivisioni interne che la scrittrice aveva segnato con una lineetta: tra le ripartizioni, esigeva uno spazio bianco inferiore segnato da un evidente segno grafico19. L’autrice insisteva su tali particolari, cosciente che all’interno del testo «queste indicazioni prendono un valore non solo tipografico, ma anche poetico». Fonzi le risponde che è esteticamente brutto iniziare con un terzo di pagina bianco; perciò, ritiene meglio iniziare alla pagina nuova, anche perché nei capitoli più brevi ci sono altre suddivisioni recanti uno spazio bianco20. Ma la Morante è ferma nelle proprie decisioni, dato che ogni spazio risponde a «un determinato ritmo narrativo»: al massimo potranno ridursi a poco meno di un terzo21. La scrittrice è irremovibile sulle scelte solo in apparenza grafiche del testo. Questa rappresenta sicuramente un’eccezione, poiché nella maggior parte dei casi l’autore è accondiscendente rispetto alle modifiche suggerite dalla redazione.
Elsa si è dimostrata, inoltre, particolarmente attenta alla correzione delle bozze, per realizzare un’opera che toccasse la perfezione. Scriveva, infatti, a Luciano Foà nel gennaio del 1959: «tu sai ˗ forse, sai solo in parte ˗ quale estrema cura e quanta fatica io abbia speso sulla correzione delle bozze del mio libro: una cura e una fatica proporzionata ai lunghi anni di lavoro che quel libro mi è costato! Per fortuna il risultato di tanta mia fatica era stata quella Prima Edizione che è, e mi risulta, perfetta»22. Era convinta che anche le successive ristampe sarebbero state perfette, ricalcando la prima edizione. Ma così non è stato. Nella quinta ristampa si accorge per caso di un refuso, che la perfetta editio princeps non contemplava: «importante, sì un poco me ne importa» > «importare, sì un poco me ne importa». Non si fa attendere la protesta con Luciano Foà: «[…] mi appare la possibilità che un qualsiasi tipografo irresponsabile ˗ magari per sostituire un carattere un po’ usato ˗ si prenda l’iniziativa di disfare una riga, per poi ricomporla sbagliata, guastando così un testo dove ogni parola è il risultato di una ricerca, di una fatica e di una pena che non ti so descrivere»23. La Morante avanza, così, la richiesta che ogni restauro tipografico riceva il suo beneplacito prima della consegna per la stampa.
Esistono anche situazioni in cui gli interventi editoriali hanno rappresentato la spinta a dare vita a un libro. Indicativa in questa prospettiva l’uscita della raccolta Nel magma del poeta Mario Luzi, pubblicata nel 1964 da Vanni Scheiwiller. Come testimonia Cadioli24, nel luglio del 1963 l’editore scrive a Luzi perché ha letto sulla rivista «Questo e altro» le poesie raccolte col titolo Nel magma e gliene propone la pubblicazione; il poeta si dimostra favorevole. Quindi, grazie a una sollecitazione editoriale, Luzi prende una decisione che non aveva ancora preso e Nel magma vede la luce.
Molto spesso, l’editore avanza all’autore una richiesta d’incisiva riscrittura testuale. Assai noto e ampiamente documentato il caso di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini25. Talvolta, però, lo scrittore rifiuta le correzioni suggerite, reagendo addirittura col cambio di editore, e segnalando, quindi, l’esistenza di problemi e incomprensioni non al livello della scrittura, bensì nell’incapacità di lettura editoriale. Il conflitto si consuma tra due diverse interpretazioni derivanti da due modalità di lettura differenti: quella dell’editore e quella dell’autore. Un esempio: nel giugno del 1959 Calvino scrive a Pietro Citati, collaboratore di Livio Garzanti, lamentando l’uscita di Primavera di bellezza di Fenoglio, poiché è un libro «debole, molto debole»: a Casa Einaudi è stato sottratto un autore «per bruciarlo in una prova modesta, cui nel suo interesse si doveva dare meno risalto»26.
Qualche nota filologica
Alla luce delle nostre riflessioni, è molto difficile operare una distinzione in seno al procedimento scrittorio tra l’intenzione dell’autore e la sua interpretazione da parte dell’editor, che, come si diceva, tenta di far emergere ogni potenzialità del testo, rendendolo più fruibile per i lettori che si vogliono raggiungere. Secondo Cadioli,
Sebbene pressoché impossibile, o comunque molto difficile, da acquisire (perché per lo più mancano documenti che diano conto delle successive fasi della scrittura), la conoscenza dell’Ur-text, del testo “originario”, può essere un obiettivo quantomeno da porre: se raggiunto, sarà di grande utilità sia per gli interessi filologici sia per una approfondita riflessione critica di vari testi ormai collocati tra i “classici” contemporanei27.
A partire dal Novecento, e ancora di più nel nuovo secolo, la «storia delle vicissitudini del testo originario»28 è legata indissolubilmente anche ai passaggi in redazione. Uno dei maggiori esponenti della textual bibliography americana, Philip Gaskell, spiega il lavoro dell’autore sul testo in vista di una pubblicazione:
L’autore di un’opera di letteratura che deve essere pubblicata come libro a stampa modifica comunemente il testo correggendo e rivedendo il manoscritto sul quale lavora fino a predisporre una nuova stesura, e facendo correzioni e revisioni sulla bozza stampata; e ritornerà alla sua opera dopo l’applicazione per fare ulteriori modifiche in vista di successive edizioni29.
Sullo scritto interverrà, poi, il redattore della casa editrice, per cui la volontà dell’autore e quella del redattore si sovrappongono, tanto che il testo entrato in redazione potrebbe divergere da quello stampato. In ragione dell’intervento redazionale, Gaskell parla di «variante di trasmissione»30.
Ora, immaginando il processo di costruzione testuale nell’officina editoriale come un’ellisse con al centro il testo, il redattore può collocarsi su uno dei due fuochi con funzione diversa: come philologus additus auctori o come auctor additus auctori. Il redattore lascia dei segni sul testo che saranno poco percepibili, se costui mantiene un atteggiamento simile a quello del «filologo», con la finalità di avvicinare il più possibile la materia alla perfezione; saranno più evidenti, se il redattore si pone come (co)«autore», imprimendo nel testo su cui sta lavorando la propria idea di letteratura31. La posizione auspicabile sarebbe quella di una terza via che congiunga le due tendenze, dato che nessun testo è in nuce un capolavoro, né tantomeno un blocco di fogli su cui plasmare una narrazione. Nel caso in cui il redattore si ponga come auctor,per utilizzare le parole di Paola Italia, l’«ultima volontà dell’autore» ˗ cioè la volontà che si esplicita con il ne varietur e il “visto si stampi”, con cui l’autore ha completato il lavoro di revisione testuale con l’editor ˗ si trasforma nell’«ultima volontà del curatore»32.
Molto interessanti da questa prospettiva le altre osservazioni della filologa: tra editore e autore si stabilisce una specie di «patto editoriale», per cui
il testo pubblicato è il prodotto dell’originale intentio auctoris, ma reca anche tracce dell’intentio editionis, che potrà essere riconosciuta e teoricamente isolata per studiare analiticamente gli elementi d’autore, ma che non si potrà fisicamente scorporare dal testo, se non modificandone radicalmente la fisionomia anche rispetto all’ultima volontà dell’autore. Riconoscere l’interazione tra le due intentiones vuol dire ricostruire, accanto alla storia interna del testo, ovvero la sua genesi e l’evoluzione delle sue varie forme fino a quella consegnata dall’autore alla redazione, la sua storia esterna, ovvero il processo editoriale che lo ha portato, lungo i vari passaggi redazionali, alla stampa […]. La stampa è quindi il punto di arrivo, definitivo e irreversibile, di questo processo, il prodotto dell’interazione tra le due intentiones, che sottrae il testo alla variabilità delle sue molteplici stesure, alla mutevolezza delle sue varie redazioni33.
La pratica dell’editing potrebbe collocarsi nella storia interna, poiché, pur non facendo propriamente parte della genesi del testo da parte dell’autore, rappresenta comunque un fondamentale momento di definizione delle linee da seguire. Questa versione risulterebbe, però, “deviata” dai suggerimenti/imposizioni dell’editor, per cui è utile riconoscere come effettivamente si sia svolto il processo di scrittura, non per «attribuire colpe», come dice Cadioli34, ma per approfondire la storia del testo e le modalità d’intervento del redattore. La storia esterna coinvolge, invece, l’iter redazionale che conduce il testo alla stampa della prima e delle successive edizioni, nonché anche una storia “editoriale”, che ingloba la storia delle diverse edizioni del testo, e quindi anche i metodi di ricezione.
Con la stampa si ha la definitiva stabilizzazione del testo, che sarà messa in discussione solo con la pubblicazione di eventuali altre edizioni. La prima edizione rappresenta, come si diceva, l’ultima volontà dell’autore e viene solitamente presa come riferimento anche in presenza di autografi.
Tuttavia, questo parere non è condiviso dall’intera comunità di critici e filologi: ad esempio, Fredson Bowers, altro grande esponente della textual bibliography, ha scritto che
quando il manoscritto è conservato, l’autorità che di solito si riconosce alla prima edizione viene spostata indietro a questo testo, che rappresenta con più esattezza le intenzioni dell’autore soprattutto in relazione agli accidentali, di modo che il manoscritto e non la prima edizione diventa l’unico testo base legittimato. […] Naturalmente, non potrebbe esistere una situazione testuale più desiderabile35.
Per la finalità del presente lavoro, ci sembra questa la tesi più opportuna da seguire: dal manoscritto uscito direttamente dalla penna dell’autore, e qui considerato come “l’originale”, si tenterà una ricognizione sugli interventi dell’editor, per evidenziare le metodologie usate e le ragioni che hanno spinto alla modifica del testo36 compito del curatore è anche quello di restituire la dimensione storica del testo, l’immagine che di esso hanno avuto i lettori e che ha eventualmente creato dopo di sé una tradizione […]». In P. Italia, Editing Novecento, op. cit., p. 102.]. Ci soffermeremo in particolare su due casi di studio: uno riguarda un autore affermato, Mario Desiati, che pubblica con una grande casa editrice, Arnoldo Mondadori Editore; l’altro riguarda, invece, un romanzo a quattro mani di autori esordienti, Andrea Delogu e Andrea Cedrola, pubblicato presso una media casa editrice, Fandango Libri.
Il caso Desiati: editare Il libro dell’amore proibito
Nell’ottobre del 2013 nella collana mondadoriana «Scrittori italiani e stranieri» esce Il libro dell’amore proibito di Desiati37. Si tratta di un romanzo in tre parti principali: la prima, «1993», descrive l’iniziazione al sesso di un ragazzo tredicenne, Francesco detto Veleno, assieme ai suoi due amici, Mimmo di quattordici anni e Nappi di quindici, che frequentano la sua stessa classe da ripetenti, la III^ A della scuola media Giuseppe Grassi a Martina Franca. Veleno prova attrazione dapprima per l’insegnante di Educazione artistica, Barbara Tricarico, poi per la professoressa di Educazione tecnica, Donatella Telesca, della quale si innamora e con cui si concederà fisicamente un pomeriggio dopo le lezioni assieme a Nappi e Mimmo in un’aula della scuola. Una volta scoperti, la professoressa viene processata e incarcerata, mentre i ragazzi vengono affidati alle cure di uno psicologo, Pippo Lanzillotti, che ha in terapia anche un altro giovane, Walter Gobbi, condannato a vivere sulla sedia a rotelle a causa di un incidente. Alla fine, Donatella e Veleno riusciranno a rincontrarsi, ma ˗ così si apre la seconda parte, «Due anni dopo» ˗ verranno scoperti, e l’ex insegnante sarà costretta a ritornare in prigione. Nel frattempo Veleno, che ha sempre in testa ossessivamente il proprio amore proibito, si fidanzerà, vivrà una breve esperienza in caserma dove ritroverà come comandante il vecchio amico Nappi, si legherà molto a Walter. Nell’ultima parte, «Un anno dopo (2001)», Veleno è, ormai, uno studente universitario, sempre chino sui libri. Vive a Milano, dove incontra Nappi, che nel frattempo è diventato poliziotto e dovrà subire un processo presso il Tribunale di Taranto per lesioni aggravate nei confronti di Andrea Colapi: costui avrebbe tentato di bastonare l’ex compagna Donatella Telesca, mirabilmente protetta da Nappi; a seguito di ciò inizierà una relazione tra i due. Veleno è chiamato a difendere l’amico e chiederà aiuto al neoavvocato Walter. Il romanzo si conclude con la loro telefonata.
Il libro dell’amore proibito faceva originariamente parte di un «catalogo di racconti»: l’autore mirava a realizzare un progetto letterario incentrato sugli amori proibiti, che avrebbe dovuto intitolarsi appunto Il catalogo degli amori proibiti. Questo racconto in particolare era uscito da solo nel 2011 con il titolo È proibito amare, nella collana «Inediti d’autore» del «Corriere della Sera», riscuotendo un grande successo. Desiati, tuttavia, sentiva di non aver ancora esaurito quanto avesse da dire su quello specifico argomento: «così il testo mi è scoppiato in mano» ˗ ha affermato ˗ «divenendo un romanzo breve»,un oggetto letterario non facilmente catalogabile dall’editoria, perché si differenzia sia da un romanzo sia da un racconto. Questa necessità di ampliare le riflessioni di un racconto imponendone l’inevitabile mutamento di genere letterario sembra rispettare quanto Elsa Morante ha sostenuto nel 1959, partecipando all’inchiesta sul romanzo della rivista «Nuovi Argomenti»38. La scrittrice innanzitutto si oppone a tutti coloro che riconducono la distinzione racconto/romanzo a una questione di «peso» e misura:
Secondo l’opinione corrente, meriterebbe il titolo di romanzo qualsiasi narrazione in prosa che sia comunque legata, nelle sue parti, da un intreccio unitario, e che, nella sua mole cartacea, raggiunga un peso non inferiore a un certo numero di ettogrammi. Di conseguenza, succede che chiunque abbia riempito 300 pagine di pettegolezzi, oppure abbia allungato fino a 300 pagine una novelletta amena, si presume autore di un romanzo. Mentre che, magari per difetto di uno o due ettogrammi di peso, vengono classificati altrove che fra i romanzi alcuni modelli perfetti di romanzo39.
Secondo la Morante, infatti, un testo appartiene a un genere letterario in base alla capacità di dare «intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo nella sua realtà)»: ne consegue che «una raccolta di racconti ˗ quando si componga, con la ricchezza omogenea delle sue parti, in una interezza sviluppata e armoniosa ˗ ha valore certo di romanzo»40.
L’interezza […] dell’immagine rappresentata, distingue il romanzo dal racconto. Il racconto, difatti, rappresenta un “momento” di realtà, mentre il romanzo rappresenta una realtà (da questo non si desume, tuttavia, una superiorità poetica del romanzo sul racconto! Non si tratta di qualità superiore o inferiore, ma di un differente rapporto con l’universo)41.
La differenza tra racconto e romanzo è, quindi, legata all’interezza/parzialità di visione del mondo che il testo comunica: ciò che conta, d’altronde, non è la sua lunghezza, bensì la verità poetica veicolata indipendentemente dall’appartenenza a uno specifico genere letterario.
Stando a questa riflessione, Desiati avrebbe sentito il bisogno di completare la visione del mondo che aveva fornito nel testo originario: alla prima stesura fa seguito un’altra che trasforma il racconto di circa una novantina di pagine in un romanzo di circa duecento. Questa prima versione del romanzo viene sottoposta a un agente letterario, il cui lavoro non ha convinto per niente l’autore. E siccome quest’ultimo ha dichiarato di non aver piena fiducia nell’editing che si fa in casa editrice, che manca di cura e attenzione soprattutto per gli autori più in voga e famosi, ha deciso nel 2012 di sottoporre ˗ a proprie spese ˗ il manoscritto all’attenzione di un editor professionista, Edoardo Albinati, il quale è intervenuto in maniera massiccia sul testo. Inserite le correzioni, lo scritto è stato nuovamente sottoposto ad Albinati, che ne ha dato un’ulteriore revisione, a seguito della quale il testo sarebbe approdato a Mondadori, dove sarebbe stato editato da Laura Cerutti (dice l’autore che si trattò semplicemente di un’attenta analisi corredata da qualche consiglio: l’editing mondadoriano si risolse in una correzione di bozze). Eclissando la prima lettura insoddisfacente dell’agente letterario, il romanzo è stato sottoposto a un triplice processo di editing:
- Racconto
- Romanzo
- Editing dell’agente
- Primo editing di Albinati
- Secondo editing di Albinati
- Terzo editing di Albinati
Analizzeremo dei passi editati da Albinati, confrontandoli col manoscritto originale e con il testo pubblicato. L’unico stravolgimento strutturale si verifica nell’incipit ˗ nella seconda versione che edita Albinati si troverà, infatti, a pagina 6 ˗ di cui s’illustrano le correzioni proposte dall’editor:
Raccontano che sotto i bombardamenti del ’43 in tanti si sono innamorati del loro vicino di sventura. Nei campi di prigionia, nelle traversate del deserto, negli esili. Ogni occasione in cui il corpo è messo a dura prova, ma soprattutto lo sono i nervi, il cuore cede a chi ti è più prossimo. Ho sempre cercato in questo assunto ˗ a metà tra il luogo comune e l’argomento ragionevole ˗ la verità su Donatella e me. Per tutti[Tutti] i giorni di questi anni in cui sono stato lontano da lei, ho percorso i chilometri che dividono il mio paese dal mare. Non è un bel mare, neanche d’inverno. Eppure artiglia il cuore e la nostalgia.[.] È come se facesse parte di me. Le dune di lido Sabbiadoro, con il suo torrente che vorrei descrivere color smeraldo, hanno invece le sembianze di un verde animalesco, il verde delle carogne o degli insetti d’umido [umido delle carogne e degli insetti], un verde metallizzato che luccica in modo malato sotto il sole autunnale. Il torrente sfocia nel mare di Sabbiadoro [in mare] creando un piccolo delta, in una[in] scala minore, alla maniera di un plastico che riproduce un grande fiume. Nella mia fantasia penso spesso che quel torrente privo di nome [anonimo] possa essere uno dei gloriosi fiumi che abbiamo studiato a scuola, piccolo, autentico, ma con la stessa acqua. [.] Anche tra Donatella e me è riprodotto[si è riprodotto] qualcosa di immenso, di elevato, romantico e celeste. Solo una corrispondenza, ma quanto basta a ricordarmi che sono vivo. E che da qualche parte della storia, delle infinite dimensioni che non conosciamo, Donatella tornerà a vedere il mare assieme a me42.
Nella seconda versione di questo passo vengono proposte altre leggere modifiche, nonché una significativa aggiunta iniziale:
A Maria Vergine Addolorata si votavano durante il bombardamento del 1943.
Non c’erano Bunker [bunker] a Martina Franca e le persone si chiudevano nelle chiese perché la mano del Signore era più potente del cemento armato. A quella statua si sono stretti decine di maschi, i padri dei confratelli che oggi la curano e la venerano. Non sottovaluto il potere di quella che i manuali di psichiatria chiamano agalmatofilia, [:] uomini innamorati di statue della madonna e signore innamorate del cristo in croce sono i casi più frequenti di tale perversione. Nei conventi di monaci e suore tale perversione si diffondeva [si diffondeva] come un morbo, per alcuni [. Per alcuni] era semplice deviazione [deviazione], per altri la stimmate della devozione [devozione].
Nei bombardamenti in tanti si sono innamorati del loro vicino di sventura.
Nei campi di prigionia, nelle traversate del deserto, negli esili[nell’esilio]. Ogni occasione in cui il corpo è messo a dura prova, ma soprattutto lo sono i nervi, il cuore cede a chi ti è più prossimo. Ho sempre cercato in questo assunto ˗ a metà tra il luogo comune e l’argomento ragionevole ˗ la verità su Donatella e me. Tutti i giorni di questi anni in cui sono stato lontano da lei, ho percorso i chilometri che dividono il mio paese dal mare. Non è un bel mare, neanche d’inverno. Eppure artiglia il cuore. È[Ma è] come se facesse parte di me. Le dune di lido Sabbiadoro, con il suo torrente che vorrei descrivere color smeraldo, hanno invece le sembianze di un verde animalesco, il verde umido delle carogne e degli insetti[delle carogne, d’umido o degli insetti]43, un verde metallizzato che luccica in modo malato sotto il sole autunnale. Il torrente sfocia in mare creando un piccolo delta, in scala minore, alla maniera di un plastico che riproduce un grande fiume. Nella mia fantasia penso spesso che quel torrente anonimo possa essere uno dei gloriosi fiumi che abbiamo studiato a scuola. Anche tra Donatella e me si è riprodotto qualcosa di immenso, di elevato, romantico e celeste. Solo una corrispondenza, ma quanto basta a ricordarmi che sono vivo. E che da qualche parte della storia, delle infinite dimensioni che non conosciamo, Donatella tornerà a vedere il mare assieme a me44.
Nella versione che andrà in stampa il passo mantiene la stessa posizione (si troverà alla fine della parte introduttiva), subendo, però, ulteriori modifiche nel laboratorio mondadoriano:
A Maria Vergine Addolorata si votavano durante il bombardamento del 1943.
Non c’erano bunker a Martina Franca e le persone si chiudevano nelle chiese perché la mano del Signore era più potente del cemento armato. A quella statua che mi era apparsa inerme, sconsacrata dai fiati e dal sudore di due maschi devoti, si sono stretti decine di maschi[strette decine di uomini], i padri dei confratelli che oggi la curano e la venerano. Non sottovaluto il potere di quella che i manuali di psichiatria chiamano “agalmatofilia”: uomini innamorati di statue della madonna e signore innamorate del cristo in croce[sculture della Madonna e signore innamorate del Cristo in croce] sono i casi più frequenti di tale[questa] perversione. Nei conventi di monaci e suore tale attrazione si diffondeva come un morbo. Per alcuni era deviazione, per altri devozione. Ed è per questo motivo che le statue venivano messe sottochiave dentro le teche, nascoste negli oratori, sorvegliate come galeotti. Soltanto le madri superiori o i parroci potevano consentire ai fedeli di avvicinarsi.
Nei[Sotto i] bombardamenti in tanti si sono innamorati del loro vicino di sventura.
Nei campi di prigionia, nelle traversate del deserto, nell’esilio. Ogni occasione in cui il corpo è messo a dura prova, ma soprattutto lo sono i nervi, il cuore cede a chi ti è[è] più prossimo. Ho sempre cercato in questo assunto – a metà tra il luogo comune e l’argomento ragionevole – la verità su Donatella e me. Tutti i giorni di questi anni[A volte, negli anni] in cui sono stato lontano da lei, ho percorso i chilometri che dividono il mio paese dal mare. Non è un bel mare, neanche d’inverno. Ma è[Eppure artiglia il cuore. È] come se facesse parte di me. Le dune di lido Sabbiadoro, con il suo torrente che vorrei descrivere color smeraldo, hanno invece [e che invece ha] le sembianze di un verde animalesco, il verde delle carogne, d’umido o degli insetti, un verde metallizzato che[che] luccica in modo malato sotto il sole autunnale. Il torrente sfocia in mare creando un piccolo delta, in scala minore, alla maniera di un plastico che riproduce un grande fiume. Nella mia fantasia penso spesso che quel torrente [quel torrente] anonimo possa essere[diventa] uno dei gloriosi fiumi che abbiamo studiato a scuola.
Anche tra Donatella e me si è riprodotto qualcosa di immenso, di elevato, romantico e celeste. Solo una corrispondenza, ma quanto basta a ricordarmi che sono vivo. E che da qualche parte della storia, delle infinite dimensioni che non conosciamo, Donatella tornerà a vedere il mare assieme a me.[.]45
Al di là delle modifiche stilistiche e del recupero di una frase espunta da Albinati precedentemente («Eppure artiglia il cuore», che era divenuta «Ma è»), ciò che interessa di più sono le aggiunte nella prima parte: alle persone che per difendersi dalla guerra sviluppano una sorta di feticcio per le statue che all’apparenza si mostrano inermi, privi di funzione utile, se non quella di presentarsi come motivo di venerazione, le autorità ecclesiastiche rispondono impedendo l’accesso all’oggetto del loro desiderio, a meno che ciò non si verifichi sotto la loro sorveglianza. In tal senso si amplifica il sentimento di paura causato dal conflitto in corso, e per riflesso anche il timore della morte, per contrastare il quale la gente si rivolge alla potenza superiore della divinità.
Il passo posto a incipit della seconda versione rivista da Albinati è il seguente:
Se voi della giuria, non[non] ritenete le vostre passioni al di sopra di ogni divieto, vuol dire che non avete mai amato.
Ero lontano dall’ [Non avevo l’] età per pormi simili quesiti quando, il primo giorno di terza media, fui invitato da un solerte professore di storia e geografia,[geografia] a sedermi nel primo banco assieme allo scapestrato Cosimo Nappi.
Da tale trascurabile azione sarebbe ben presto [in seguito] scaturita una serie di eventi conflagranti nello scandalo degli anni a venire.[.] Per raccontarvelo sono venuto nelle luogo delle mie preghiere, laddove mi arrovello su bellezza e desiderio.
Sono tra i banchi di una chiesetta, un posto in cui mi inebrio di una delle tante forme d’amore che ho imparato a scoprire, nascoste agli occhi di voi giurati, uomini retti ben distanti da ogni forma di [e immuni da ogni] scandalo, e forse passione46.
C’è, quindi, un immediato riferimento sia allo «scandalo» che verrà esplicato nelle pagine successive, sia al lettore chiamato subito a giudicare i fatti che si accinge a leggere. E il narratore mette subito in chiaro la propria posizione: la passione amorosa è superiore a qualunque obbligo, e va appagata, a costo di rompere le regole. Chi non abbraccia questa visione non ha mai provato amore.
Con il lettore, l’autore sembra instaurare un fitto dialogo: l’insieme dei lettori si trasforma in una «giuria» fittizia, chiamata appunto a giudicare i fatti narrati. E frequenti nel testo sono le sollecitazioni al polo ricettivo, anche solo per richiamarne l’attenzione. Solo alla fine del romanzo si scopriranno le motivazioni che hanno costretto l’uso di questa metafora: come abbiamo illustrato, Veleno è chiamato a testimoniare nel processo a Nappi e per l’occasione si rivolgerà a una commissione di giurati: la giuria (di lettori) da fittizia diviene reale. A questo punto possiamo giustificare la presenza di un narratore interno onnisciente, Veleno appunto, che ripercorre le proprie esperienze precedenti: il romanzo, sotto questa luce, si trasforma in un resoconto, in una testimonianza, o più precisamente in un’apologia.
La versione definitiva rimane grosso modo la medesima. Si nota solo qualche leggera modifica stilistica: «Da tale trascurabile azione sarebbe in seguito scaturita una serie di eventi conflagranti nello scandalo.» > «Da tale trascurabile azione sarebbe poi scaturita una serie di eventi conflagrati nello scandalo cittadino di tutti gli anni a seguire»; «Sono tra i banchi di una chiesetta, un posto in cui mi inebrio di una delle tante forme d’amore che ho imparato a scoprire, nascoste agli occhi di voi giurati, uomini retti e immuni da ogni scandalo, e forse passione.» >«Quando sono in imbarazzo faccio un gioco d’immaginazione e penso di stare tra i banchi di una chiesetta, un posto in cui m’inebrio di una delle tante forme d’amore che ho imparato a scoprire, nascoste agli occhi di voi giurati, uomini retti immuni da ogni scandalo, e forse passione. In questo rifugio torna incessante un insegnamento che serbo come un gioiello antico tramandato dai miei antenati.»47.
Ecco ora un brano rimaneggiato attraverso dei tagli:
Erano passati mesi dall’ultima volta che avevo visto Donatella.
La consapevolezza del mio sentimento si intensificava, un giorno [, dopo mesi,] l’avevo rivista di nuovo. Era stata meno dura, non c’eravamo sfiorati, c’eravamo [ma] solo guardarti, eravamo vicino a un parco della periferia, quattro fragni spelacchiati alle spalle della grande chiesa della Sacra Famiglia, un edificio a forma di baita montana incastonato in un quartiere di palazzoni colorati.
Credevo che avrei dovuto amarla, ripensare ai suoi baci vivi, difensivi e inesperti, checché ne dicessero la cronaca locale e la memoria giudiziaria.
Lo sguardo con cui eravamo tornati alla nostra linea d’azione, un anticipato rimpianto per la futura perdita di ulteriore innocenza.Non [Poi, non] avevo dormito per notti.
Avevo smesso di parlare con l’assistente sociale. Erano venuti a cercarmi i genitori di Mimmo.
Avevano l’aria grigia, il marito [lui] aveva il collo lungo e un grande gargarozzo che lo faceva assomigliare a un’iguana. Lei era [Lei una grigia] casalinga, lui lavorava presso un ente. Mi avevano chiesto di parlare, che loro [confessato di essere usciti distrutti] da questa storia erano usciti distrutti, [e] che Mimmo non era più lui. Mimmo. Mimmo. Mimmo! A me sembrava più lui che mai. Ma loro dicevano che Mimmo non voleva più uscire di casa. Non voleva vedere nessuno. Credevano che fosse ancora scioccato dei giochini tra me e Donatella. O meglio [Forse], se lo facevano credere[gli conveniva crederlo]. “Faremo bei soldi” scappò a sua madre. Non so se lo disse o se me lo immaginari. Ormai fatico [Faccio fatica] a non confondere i dati di questa esistenza che scorre veloce. […]
La rividi dopo quella volta che [L’ultima volta] mi era sembrata una signora eche mi aveva trattato da pazzo. E allora feci davvero il pazzo e le chiesi[gridai] con la portiera aperta: “Sali, sali. [!] Sono grande, guido una macchina”48.
L’editor è intervenuto eliminando passi superflui, la cui assenza non nuoce al significato che il testo veicola, evitando, così, il rischio di appesantire eccessivamente la lettura. I suggerimenti sono stati tutti accolti, e nella seconda revisione Albinati aggiunge un’ulteriore modifica: «Credevo che avrei dovuto amarla» > «Avrei dovuto amarla», intensificando con l’uso del solo verbo coniugato al condizionale l’antitesi tra il dubbio e l’obbligo ad agire.
L’editing della Cerutti contribuisce a creare una maggiore armonia tra i periodi e a rifinire qualche proposizione: «La consapevolezza del mio sentimento si intensificava, un giorno, dopo mesi, l’avevo rivista di nuovo.» > «La consapevolezza del mio sentimento si intensificava. Un giorno, dopo mesi, l’avevo rivista di nuovo.», in cui la frammentazione del periodo originale in due proposizioni differenti aumenta la tensione insita nella prima, che, raggiunto l’apice, si distende nella seconda, dove alla vaghezza temporale della prima frase ˗ che allarga l’azione a dismisura in un arco di tempo indefinito grazie all’uso del tempo imperfetto ˗ si sostituisce una netta connotazione temporale, seppur generica; «checché ne dicessero» > «checché ne abbian detto»; «lui aveva il collo lungo e un grande gargarozzo che lo faceva assomigliare a un’iguana. Lei una grigia casalinga» > «lui aveva il collo lungo e un grande gargarozzo che lo faceva assomigliare a un’iguana; lei era una casalingaun po’ curva.», in cui alla donna viene aggiunta una caratteristica fisica; «Faccio fatica a non confondere i dati di questa esistenza che scorre veloce» > «Faticoa non confondere i dati che immagazzino»; «L’ultima volta mi era sembrata una signora» > «Nel primo incontro per strada mi era sembrata una signora», dove la sostituzione dell’indicazione temporale evidenza maggiormente la differenza di età, perché Diotima è già “signora” dalla prima volta che i due s’incontrano, e l’aggiunta di una connotazione spaziale proietta l’incontro in un’atmosfera di causalità; «Sali, sali!» > «Sali! Sali!», in cui l’uso del punto esclamativo per ben due volte amplifica la perentorietà della richiesta che Veleno rivolge a Diotima49.
Un ultimo passaggio editato:
Era una serata [Una sera] trapuntata da presagi strani.
Se n’era andata via la luce e le candele deformavano i visi e gli oggetti, l’esile fumo che somigliava a un rigo d’acqua, esalava [d’acqua esalava] dalla cera e dividevano gli umani dei fantasmi. Gli umani avevano deciso che era ora [era scoccata l’ora] di giocare alla [per il gioco della] bottiglia, l’unico gioco [l’unico] che si poteva fare in simili condizioni. Il peggiore, il più prossimo alla ferinità. Baciarsi[Il peggiore: baciarsi], mischiarsi a sconosciuti. Con odori e sapori estranei, molesti.
La bottiglia era di plastica, senza etichetta, dentro qualcuno aveva messo dell’alcol, perché quando mi passò davanti al naso emanò un tanfo fastidioso. “C’era il Campari con il gin [Campari con gin], ma le ragazze se lo sono scolato!” mi disse[disse] Roberto, un tipo piccoletto, grassoccio, che solo due anni dopo che era in classe mi ero accorto esistesse. Quando [esistesse: quando] si era venuto a sedere accanto al [nel] mio banco.
Alla bottiglia non avevo mai giocato [Non avevo mai giocato alla bottiglia], era uno [uno] di quei giochi che appartenevano [appartengono] al mito di certe storie adolescenziali. Primi baci, primi strusciamenti, primi umidi contatti con le ragazze. [˗ A CAPO ˗] Eravamo sei maschi e sei femmine, dodici animali.
Il respiro e il silenzio non erano quelli di una festa di compleanno. Riuscivo a udire una tensione innaturale. Ero intontito dal fumo, dall’aranciata che era stata mischiata [mischiata] con l’alcol, o forse dall’emozione per ciò che stava per compiersi. La bottiglia girava, e se si fermava con il collo in direzione di un ragazzo, il giro dopo doveva fermarsi in direzione di una ragazza. E se capitava di nuovo un ragazzo? No, [doveva essere] una ragazza, la più vicina. Non erano ammessi promiscui [Niente promiscuità], froci e lesbiche erano [dovevano restare] fuori dalla convenzione del gioco e della festa. Ero più preoccupato di dover baciar una ragazza che un ragazzo. Ero preoccupato di tale pensiero emerso da un buio che ignoravo. Il muro delle ragazze a mostruoso e invalicabile: […].
Io [Sul serio,] non potevo baciare nessuna di loro50.
Desiati stavolta non accetta in totole modifiche apportate da Albinati, il quale nel secondo editing, se nella frase «Gli umani avevano deciso che era scoccata l’ora per il gioco della bottiglia, l’unicogiocoche si poteva fare in simili condizioni.» lascia passare all’autore la ripetizione del sostantivo «gioco», non riesce, però, a non correggere nuovamente: «[…] Roberto […], che solo due anni dopo che era in classe mi ero accorto esistesse. Quando si era venuto a sedere nel mio banco» > «[…] Roberto […], che solo due anni dopo che era in classe mi ero accorto esistesse, quando si era venuto a sedere nel mio banco». In più, da «Eravamo sei maschi e sei femmine, dodici animali» toglie «dodici animali», eliminando quella carica ferina di cui l’autore aveva dotato gli adolescenti.
Nella versione definitiva il testo rimane sostanzialmente il medesimo, se si eccettua «Gli umani avevano deciso che era scoccata l’ora» > «I compagniavevano deciso che era scoccata l’ora»51, dove la modifica del sostantivo sottintende un rapporto amicale che precedentemente non era delineato, dando maggiore spazio alla dicotomia tra uomini e fantasmi, vivi e morti.
Il caso Delogu-Cedrola: editare La Collina
Nel gennaio 2014 esce presso Fandango Libri La Collina, romanzo a quattro mani di Andrea Delogu e Andrea Cedrola52.
Il romanzo, ambientato negli anni Ottanta del Novecento, è diviso in sei parti precedute da un «Prologo» e racconta le storie che si sviluppano all’interno di una comunità per tossicodipendenti, La Collina del titolo. Tutto si apre con l’arrivo della notizia dell’uccisione di un ragazzo, nella porcilaia, al fondatore e gran capo della comunità, Riccardo Mannoni. Prima di scoprire che si tratta di Sebastiano Ricci, dovremo attendere circa duecento pagine, nelle quali si sprigiona un lungo flashback che dipana più vicende tenute saldamente unite dai protagonisti Ivan e Barbara, conosciutisi sul finire degli anni Settanta in comunità, dove approdano dopo un passato di dipendenza da eroina, e dove si innamoreranno e concepiranno la figlia Valentina. A seguito della sua nascita, abbandonano La Collina per ritornarvi dopo quattro anni.
Attorno a loro ruotano numerosi personaggi, come Fabienne, una ragazza francese dal passato difficile, che entra in Collina per caso (vi si era recata, in realtà, per salutare un amico, ma viene internata perché il personale si accorge che è sotto l’effetto di stupefacenti); Daniele, il medico con cui Fabienne avrà una relazione; il gruppo degli «angeli», che ha l’obbligo di riportare l’ordine all’interno della comunità e di recuperare chi tenta la fuga; Lorenzo, che lavora in fotolitografia con Barbara e che tenta con il suo aiuto di denunciare le malefatte e i metodi coercitivi di Riccardo; Ciacione e Veleno, che lavorano in macelleria ˗ perché tutti si danno da fare per permettere alla comunità di andare avanti, ognuno ha un proprio ruolo ed è chiamato al rispetto di regole rigide, l’infrazione delle quali comporta punizioni severe ˗ e tanti altri. Spicca su tutti la figura di Riccardo, il cui braccio destro per lungo tempo sarà Ivan (nonostante Barbara si mostri restia ad appoggiare l’operato di Mannoni). Pur volendosi porre come «padre non padrone», in realtà Riccardo assume sempre più un comportamento autoritario e dispotico, nonostante il quale è amato da tutti ˗ ad eccezione di pochi ˗, soprattutto dai genitori che lo elogiano come un dio sceso in terra, l’unico che è stato in grado di permettere ai propri figli di abbandonare la via della droga; e lo lodano poiché non completamente consci della brutalità dei metodi utilizzati per raggiungere lo scopo. Egli riceverà un grande appoggio popolare persino all’indomani del processo che si svilupperà proprio a seguito della morte di Sebastiano Ricci, tossicodipendente internato nella Collina e che subisce i barbari trattamenti da parte della sua squadra: contro di lui testimonierà persino Ivan, che grazie a Barbara finalmente ha preso coscienza degli aspetti negativi della Collina. Dal processo Riccardo uscirà pulito e forse più forte di prima, data l’enorme visibilità che La Collina riceve. Il romanzo si conclude con la sua morte, celebrata in pompa magna, con un funerale degno di un capo di Stato.
Scrive Andrea Delogu alla fine: «questa storia è ispirata alla mia vita, a quella dei miei genitori e alle tante persone che in questi anni hanno raccontato la loro esperienza permettendoci di scrivere questo romanzo. Rielaborando tutte le loro storie è nata La Collina». Non è difficile leggere tra le maglie della narrazione che la storia è ispirata alle vicende che ruotavano attorno alla comunità di San Patrignano, identificando quindi Riccardo Mannoni con il fondatore Vincenzo Muccioli, Ivan e Barbara Carrau con i genitori di Andrea Delogu, e Valentina con quest’ultima.
Il romanzo è architettato secondo una focalizzazione interna variabile: il narratore s’identifica con due personaggi, Valentina e Ivan, onniscienti, che consapevolmente raccontano i fatti come sono andati, svelandone in maniera precisa le cause e alternandosi nella narrazione (il primo capitolo è narrato da Valentina, il secondo da Ivan, il terzo di nuovo da Valentina e così via). La diversità delle modalità narrative si nota soprattutto nei dialoghi: di frequente, nei capitoli raccontati da Valentina i dialoghi sono in corsivo, raramente in tondo; tale situazione si capovolge nei capitoli narrati da Ivan. Ciò è dovuto al fatto che il padre parla quasi sempre in prima persona, mentre la bambina, che si fa narratrice anche di fatti che non ha vissuto, racconta, oltre che in prima persona, anche in terza, con un occhio esterno alla vicenda.
Il libro ha avuto un iter piuttosto particolare53: è entrato alla Fandango non in quanto manoscritto bensì come trattamento cinematografico e constava di circa ottanta pagine. Durante una riunione generale alla Fandango nella primavera del 2013 se ne stava discutendo, e venne sottoposto anche all’editor della casa editrice Tiziana Triana, che, considerati la vicenda descritta e lo stile di scrittura molto narrativo, ha convocato gli autori, chiedendo loro di provare a farne un romanzo. Il percorso a due è stato molto lineare: Delogu e Cedrola avevano alle spalle due anni di ricerca prima di arrivare alla Fandango: avevano intervistato tutti i personaggi presenti nel libro, avevano fatto ricerche negli archivi, discusso con avvocati ecc. Il libro viene scritto in pochissimo tempo ed è pubblicato nel gennaio 2014 in trecentoquarantacinque pagine. La prima versione constava, invece, di più di quattrocentosettanta pagine in formato A4.
Tre sono stati i processi di editing. Il primo ha riguardato il livello strutturale: sono stati isolati i punti fermi, le linee guida della storia che non potevano non esserci nel romanzo, come la famiglia di Valentina, i personaggi principali, Riccardo, la squadra di Ivan. Il secondo è consistito nell’eliminazione di tutte le sezioni che, seppur bellissime, appesantivano e deviavano la lettura dalla storia. L’attività di editing più invasiva è stata, di conseguenza, il taglio, per permettere una lettura più agevole del romanzo. Un terzo editing finale, di rifinitura, e più difficile da un certo punto di vista, è stato quello “legale”: tolto tutto il materiale superfluo e limata la materia grezza, il romanzo è stato dato in lettura a un avvocato che lavora con la Fandango, affinché ritrovasse tutti gli argomenti che potessero essere suscettibili di querela per gli autori e la casa editrice: la redazione, comunque, si era già dimostrata attentissima, cambiando tutti i nomi. Anche in questo caso si è proceduto, oltre che a tagliare qualche frase ambigua, a modificare qualche espressione che poteva essere fraintesa.
Semplifichiamo il discorso con lo schema seguente:
- Trattamento
- Romanzo
- Primo editing strutturale
- Secondo editing (taglio)
- Terzo editing legale
Nella nostra analisi ci soffermeremo soprattutto sui tagli invasivi e sulle riscritture che hanno modificato il testo.
Partiamo dall’incipit di cui si ripropongono il primo e il secondo paragrafo della versione originale:
Riccardo urla, Dove sei? Scatta in piedi e lo ripete, a voce più bassa, Dove sei? Si guarda intorno, nell’ufficio non c’è nessuno. Riccardo lo ispeziona, impaurito, [Nell’ufficio non c’è nessuno. Riccardo si guarda intorno impaurito,] il respiro lungo, colpa del risveglio improvviso e di un incubo da dormiveglia che ancora riempie la stanza e molto lentamente scompare [scompare lentamente] alla sua vista man mano che si ritira dal suo cervello. Il contenitore di vetro, pieno di caramelle, è caduto dalla scrivania, è diventato mille pezzi, il rumore amplificato dal silenzio della notte. Riccardo guarda per terra, [Per terra] vetri sparsi sul parquet chiarissimo, quasi bianco, i pezzi più piccoli si sono mimetizzati, sembrano spariti, si vedono in maniera distinta i pezzi più grandi e le caramelle avvolte da carta colorata. Riccardo li schiaccia, spostandosi dalla scrivania al terrazzo, ha bisogno di un po’ d’aria, [. Ha bisogno di aria.] apre la porta-finestra, le vetrate con pellicola a specchio in poliestere alluminizzato, che restituiscono l’immagine riflessa impedendo di vedere cosa succede all’interno. Riccardo viene investito dal vento freddo che soffia ininterrottamente dalla mattina, esce lo stesso sul terrazzo, il terzo piano di una grande villa [È al terzo piano di una grande villa] che tutti chiamano Versailles, costruita da centinaia di ragazzi esattamente al centro della Collina, il mondo che Riccardo ha creato e di cui, da lassù, può avere una visuale ampia, quasi totale, [. Da lì può avere una visuale ampia, quasi totale.] l’esterno deserto e illuminato. Riccardo recupera la calma [Respira], rientra, chiude la porta-finestra, torna alla scrivania, sprofonda sulla [nella] poltrona girevole in pelle nera, inclina leggermente il busto, il [Il] gomito sul legno massiccio, la guancia schiacciata sul pugno chiuso. Sta per assopirsi di nuovo ma di nuovo viene ridestato, stavolta è il [Stavolta dal] telefono che squilla, a quell’ora [. A quest’ora] non se l’aspettava, sta [. Resta] fermo, indeciso se rispondere, alla [. Alla] fine alza la cornetta, Riccardo Mannoni, chi parla? Resta in attesa, annuisce, ascolta, in [. In] pochi secondi cambia espressione due volte, [:] la prima è sorpresa, la seconda è rabbiosa, [.] Chiudetevi dentro e togliete la chiave.
Riccardo mette giù, esce dall’ufficio, sale una scala a chiocciola di metallo, su [Su] in mansarda c’è solo una porta, [.] Riccardo apre senza bussare e compare nella stanza, sudato e affaticato, quando un’abat-jour [. Un’abat-jour] si accende sul comodino, di fianco al letto [a] una piazza e mezzo. Da sotto al [Dal] piumone sbuca una ragazza poco più che ventenne, la pelle olivastra, capelli lunghi, lisci, neri, una canottiera bianca, [. Una canottiera bianca.] s’ [S’] intravedono i capezzoli larghi, scuri a loro volta, ha i lineamenti di un’indiana d’America, si chiama Sabrina, [. Si chiama Sabrina e ha i lineamenti di un’indiana d’America.] guarda Riccardo [Lo guarda], Che succede? Riccardo le fa cenno di andare, Abbiamo un problema in macelleria. Sabrina annuisce, Dieci minuti54
Com’è evidente, sono state cancellate le parti più esplicative e descrittive, per rendere più immediata la narrazione; rimangono solamente i tratti essenziali della scena, mentre tutto il superfluo viene eliminato: la descrizione dei frammenti del contenitore di vetro di caramelle, o quella della porta-finestra, oppure i movimenti di Riccardo analizzati con chirurgica precisione all’inizio del secondo paragrafo non sembrano all’editor funzionali alla narrazione della vicenda principale, che rischierebbe quasi di passare in secondo piano. Molte virgole, inoltre, sono state sostituite da punti fermi, che spezzettano i periodi in tanti diversi nuclei sintattici autonomi che velocizzano la lettura, rendendola concitante. Già in queste prime righe emergono le tematiche principali dell’intero romanzo: la Collina come mondo altro, edificato e diretto da Riccardo; l’asservimento al capo, il tono perentorio della sua voce. Tutto alimentato dall’atmosfera buia della notte squarciata solo dalla luce elettrica dell’abat-jour.
Ecco un passaggio della II parte:
C’entrava anche il fatto che Mario aveva un figlio obeso, mezzo ritardato, e mi diceva che da giovane era bello come me. Mi voleva bene, si era legato, mi voleva mettere nel giro grosso.
Però proprio [Proprio] in quel periodo, prima di fare il salto, ho cominciato a farmi. Speedball, che mi sbatte sempre [. Sempre] più giù sempre più giù, fino a quando mi [. Mi] lascio con la fidanzata, perdo i miei amici, uno muore, un altro scappa, chi [va] all’estero, chi [va] in galera.
Non avevo più niente, restava [Restava] solo Mario, che però si era accorto che mi facevo e un giorno mi guarda disgustato, ma [. “Ma] come cazzo ti sei ridotto? eri [Eri] un bel ragazzo, che aveva grandi progetti per me [avevo grandi progetti per te], voleva farmi entrare nei giri importanti e tu inizi a farti come un coglione qualunque.[”]
Io mi scuso, sono davvero pentito, quel discorso mi serve perché [Quel discorso mi serve, sono davvero pentito,] gli prometto che mi disintossico.
Infatti mi disintossico. [NO A CAPO]
Torno da lui, che mi vede meglio, così va bene. Dice che adesso sono pronto a ricominciare e io con le lacrime agli occhi, son contento. [Adesso sei pronto a ricominciare, ho le lacrime agli occhi.]
Il suo ragionamento era vecchia scuola: “Con [con] la droga non ti ci devi drogare, con la droga ci devi fare i piccioli”. [.] E così [Così] con questo ragionamento mi crolla addosso che devo fare un movimento di droga, quando io non è nemmeno una settimana che ho smesso. [quando non è nemmeno una settimana che ho smesso devo fare un movimento di droga. Devo portare un carico in Sicilia.]
E puntuale, al terzo carico che porto in Sicilia… [E puntuale, al terzo carico che porto…] perché dovevo portare un carico di cocaina a Palermo, dove incontravo un boss che mi dava un carico di eroina da portare a Milano, perché i siciliani non volevano l’eroina a Palermo, non volevano che i figli si facessero di eroina, quindi loro si prendevano la cocaina e in cambio si toglievano dalle palle l’eroina, che mandavano a Milano… al terzo viaggio ricomincio [insomma, ho ricominciato] a farmi [.] e il boss di Palermo vuole uccidermi perché di un tossico non si fida. Io lo supplico di chiamare Mario prima di uccidermi e lui accetta. Ho sentito tutta la telefonata e il boss di Palermo si scusava con Mario ma non poteva farmela passare liscia, io questo pezzo di merda lo devo ammazzare, e Mario evidentemente gli diceva di non farlo, perché alla fine della telefonata il boss di Palermo mi ha detto che avevo proprio culo, ma chi cazzo sei, suo figlio?
E poi mi ha detto di togliermi dai coglioni e di non farmi vedere mai più a Palermo, sennò ti ammazzo.
Mi tolgo dai coglioni e torno a Milano, adesso devo affrontare Mario. Quando arrivo è al bar con altra gente. Manda via tutti e mi fa avvicinare, si fa dare la valigia, apre, controlla ch’è tutto a posto, c’era anche una busta con dei dollari e all’improvviso mi dà un manone in faccia e comincia a pestarmi. Cazzotti, scarpate in faccia, che se non c’era lui quelle mazzate erano pallottole, [Mario m’ha scoperto, m’ha pestato,] non farti vedere mai più sennò ti ammazzo [t’ammazzo].
Da quando avevo cominciato a farmi, era tutto un non farsi vedere più, tutto un t’ammazzo, se mi facevo vedere55.
Si narrano qui gli affari malavitosi di Ivan a Milano, i suoi primi contatti con la droga, il suo legame con il boss Mario. Oltre agli stravolgimenti sintattici che modificano l’originale architettura dei periodi (cfr., ad esempio: «devo fare un movimento di droga, quando io non è nemmeno una settimana che ho smesso» > «quando non è nemmeno una settimana che ho smesso devo fare un movimento di droga», dove la subordinata viene anticipata a sottolineare il raggiungimento della finalità iniziale di Ivan ˗ abbandonare la dipendenza da sostanze tossiche ˗ per poi sciogliersi definitivamente in un annuncio di fallimento nella seguente proposizione principale), si nota il taglio invasivo che esplicita le losche faccende che costringono Ivan a partire per la Sicilia e come ricade nella tossicodipendenza. L’editor ha liquidato tutta questa parte con un generico «Mario m’ha scoperto», senza specificare le motivazioni per cui l’ha «pestato»: leggendo l’originale, probabilmente il lettore non condannerebbe in toto Mario, che, sebbene si dedichi ad affari illegali, ha comunque salvato un proprio emissario. L’eliminazione del brano è dovuta alla sua superfluità: anche se ineccepibile dal punto di vista morfo-sintattico, si fa troppo illustrativo, scava eccessivamente a fondo nel ricercare le ragioni che muovono le azioni dei personaggi, distogliendo l’attenzione da ciò che veramente interessa in una parte, questa seconda, di per sé piuttosto breve: l’arrivo di Ivan in Collina.
Infine, si propone un brano tratto dalla VI parte:
Il giorno dopo mi han chiamato dall’ospedale pubblico, Pittore si era fatto ricoverare e mi voleva vedere.
Cazzo, era Pittore che conoscevo fuori, prima della Collina. Bastava un niente e via, ospedale, ipocondria. Uno dei pochi tossici ipocondriaci che ho mai conosciuto.
Andai in ospedale. Pittore era con la flebo. Che cazzo combini? Ci son di nuovo dentro, Ivan, non c’è niente da fare. E allora io? Guarda me, gli faccio. Io non ci sono ricascato. Lui non ha risposto, m’ha guardato, s’è girato dall’altra parte. Valentina. Non l’ha detto lui. L’ho pensato io.
Ancora un po’ di giorni e mi chiamarono di nuovo. Stavolta era la polizia. [Qualche giorno dopo mi chiamò la polizia.] Avevano trovato il mio numero sull’agendina di questo ragazzo morto d’overdose, nel bagno della stazione di Rimini. Non sapevano se si fosse ammazzato o se ci fosse rimasto per sbaglio. Per loro cambiava poco. In effetti, sempre morto era, Pittore. Che cazzo però. Se ci penso mi piglia il magone ancora oggi. Mi viene… mi sento… mi piglia [prende] male tutto addosso, davvero.
Non si è ammazzato, secondo me. Ha [Secondo me ha] sbagliato la pera. La quantità. Quando smetti e poi riprendi è facile che sbagli. Per abitudine metti quella che sopportavi prima. Lo fai in automatico. Invece adesso è troppa. Pittore è morto così, secondo me.
In ogni caso dovevamo dirlo a Valentina. Dicemmo che l’aveva investito una macchina. Che dovevo dire? L’hanno trovato morto dentro a un bagno pubblico?
Valentina ha pianto tutti i giorni per un mese. E niente da fare, pensavo, mentre la vedevo piangere: [,] qua non ripartiamo. Prima non lo volevo ammettere ma era così. Ogni volta che sembrava prendere il via, la situazione, [Ogni volta che la situazione sembrava prendere il via] arrivava La Collina, in un modo o nell’altro. E stop alla prossima fermata, chissà per quanto tempo56.
Ivan, Barbara e Valentina hanno abbandonato finalmente la Collina e iniziano a vivere «il mondo di fuori», nonostante le iniziali difficoltà, soprattutto a causa di Riccardo, che cerca di ostacolare Ivan in tutti i modi. La loro casa diviene la prima tappa di coloro che tentano la fuga dalla comunità, anche se il giovane Carrau non accetta sempre tutti. Eppure, quando si trova davanti l’amico Pittore, non ha il coraggio di chiudergli la porta in faccia. Pittore, comunque, mostra riconoscenza con tanti piccoli gesti, ma ricade nella tentazione della droga, per cui viene cacciato.
Si tratta di un passaggio non molto ritoccato. L’editing si traduce prevalentemente in taglio: la prima parte è stata eliminata completamente, perché aggiungeva un’informazione non funzionale al resto della narrazione; ciò che conta comunicare è che Pittore, dopo l’esperienza in Collina, non riesce a salvarsi, ma viene nuovamente attratto dal peccato che gli sarà fatale. Che sia finito in ospedale, di conseguenza, poco importa, come d’altronde è di scarsa rilevanza l’identificazione del luogo di morte: «di Rimini» è stato espunto apposta per lasciare solo l’anonimo bagno di una stazione a delineare lo squallore delle circostanze del decesso.
Ultimato il processo di editing e tutto l’iter redazionale, sia Il libro dell’amore proibito che La Collina hanno ricevuto il suo “visto si stampi”.
Per concludere
Dai brani esemplificativi che abbiamo considerato, sono emersi due approcci distinti rispetto al testo: nel primo caso si è trattato di una leggera revisione che ha intaccato solo minimamente l’architettura narrativa (l’unico spostamento di sequenza è quello che è stato riportato); nel secondo, invece, l’editing si fa più invasivo, traducendosi spesso in taglio: questo tipo d’intervento è dovuto all’inesperienza degli autori, alla forte tensione al narrare che li induce a soffermarsi su scene, descrizioni, dettagli che rischiano di far perdere il lettore tra le pieghe della scrittura e di deviarlo dal percorso narrativo principale.
Questo studio è stato condotto con due approcci differenti: per il primo libro, chi scrive ha discusso direttamente con l’autore, che gli ha lasciato in visione le bozze editate del proprio romanzo e alcune carte inedite; per il secondo, ha visionato il file originale in formato .doc, sul quale è stata condotta un’approfondita analisi per cercare le differenze rispetto alla versione pubblicata.
Concludendo, attraverso questa indagine sulla metodologia di lavoro dell’editor, si è tentato di dimostrare che l’editing, vero approccio maieutico al testo, garantisce un netto miglioramento della narrazione, liberando la scrittura dalle scorie che la ingabbiano e che ne eclissano le reali potenzialità57.
- M. D’Eramo, Intervista a Italo Calvino, in «Mondoperaio», 06/06/1979. ↵
- Lettera di Italo Calvino a Carlos Alvarez del 05/10/1964 in I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991, p. 484. ↵
- Ci si riferisce in questo studio esclusivamente all’editing sulla narrativa italiana. ↵
- «For Ezra Pound, Il miglior fabbro». ↵
- B. Ouvry-vial, Le savoir lire de l’éditeur? Présupposés et modalités, in Figures de l’éditeur,Actes du colloque de l’Université de Paris(13 mai 2005), a cura di B. Legendre e C. Robin, Paris, Nouveau Monde éditions, 2005. Tutte le citazioni italiane che seguono vengono riportate da A. Cadioli, Le diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore, Milano, Il Saggiatore, 2012, pp. 57 e sgg. ↵
- Dalle posizioni di Ouvry-Vial si evince anche che i rifiuti dei manoscritti rispondono all’orizzonte in cui si collocano le scelte dei singoli editori, in rapporto al tempo, ai lettori di riferimento, alla linea editoriale adottata. ↵
- P. Italia, L’ultima volontà del curatore: alcune riflessioni sull’edizione di testi nel Novecento, in «Per leggere. I generi della letteratura», a. V, n. 9, 2005, pp. 169-198, cit. a p. 169; ora in P. Italia, Editing Novecento, Roma, Salerno Editrice, 2013, p. 88. ↵
- M. Bulgheroni, Situazione dell’editing, in Almanacco Letterario Bompiani 1965, Milano, Bompiani, 1965, p. 97. ↵
- U. Eco, La bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 2000, p. 273. ↵
- I. Bertoletti Metafisica del redattore. Elementi di editoria, Pisa, Edizioni ETS, 2005, p. 16. ↵
- V. Spinazzola, Critica della lettura, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 105. ↵
- Lettera di Emilio Treves a Giovanni Verga del 22/01/1881, in G. Raya, Verga e i Treves, Roma, Herder editore, 1986, p. 53. ↵
- A. Canobbio, Appunti per un libro che potrebbe intitolarsi “Autobiografia” o anche “Quattro tatami e mezzo”, in «Bollettino di italianistica», a. III, n. 1, 2006, pp. 221-226, cit. a p. 223. ↵
- R. Gottlieb, L’arte dell’editing, in «The Paris Review. Interviste», vol. I, Roma, Fandango Libri, 2009. ↵
- G. Calvino, Lavorare sul testo. L’editing, Bologna, Agenzia il Segnalibro, 2007, p. 35. ↵
- Ivi, p. 36. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. G. Calvino, Lavorare sul testo…, op. cit. ↵
- Cfr. lettera di Elsa Morante a Luciano Foà del 15/11/1956 in M. Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione poeta, Pisa, Nistri-Lischi, 1999, p. 76. ↵
- Cfr. lettera di Bruno Fonzi a Elsa Morante del 19/11/1956, inedita e riportata in A. Cadioli, Le diverse pagine…, op. cit., p. 137. ↵
- Cfr. lettera di Elsa Morante a Bruno Fonzi del 24/11/1956, in M. Bardini, Morante Elsa…, op. cit., p. 82. ↵
- Lettera di Elsa Morante a Luciano Foà del 16/01/1959 in M. Bardini, Morante Elsa…, op. cit., p. 81. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. A. Cadioli, Le diverse pagine…, op. cit., p. 92. ↵
- Cfr. W. Siti, S. De Laude, Note e notizie sui testi di Ragazzi di vita, in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1998, e G. Nisini, L’unità impossibile. Dinamiche testuali nella narrativa di Pier Paolo Pasolini, Roma, Carocci, 2008. ↵
- Lettera di Italo Calvino a Pietro Citati dell’08/06/1959, in I. Calvino, I libri degli altri…, op. cit., p. 314. ↵
- A. Cadioli, Le diverse pagine…, op. cit., p. 108. ↵
- R. Antonelli, Interpretazione e critica del testo, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, vol. IV, L’interpretazione, Torino, Einaudi, 1985, pp. 141-243, cit. a p. 203. ↵
- P. Gaskell, Introducion, in Id., From Writer to Reader. Studies in Editorial Method, Oxford, The Clarendon Press, 1978. Per la citazione italiana si rimanda a A. Cadioli, Le diverse pagine…, op. cit., p. 121. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. A. Cadioli, Le diverse carte. Osservazioni sull’intermediazione editoriale e la trasmissione del testo in età contemporanea, in «Bollettino di italianistica», a. III, n. 1, 2006, pp. 143-157. ↵
- Cfr. P. Italia, Editing Novecento, op. cit., pp. 89 e sgg. ↵
- Ivi, pp. 98-99. ↵
- A. Cadioli, Le diverse pagine…, op. cit., p. 143. ↵
- F. Bowers, Multiple Authority: New Problems and Concepts of Copy-Text, in «The Library», a. V, n. 27. Per la citazione italiana si rimanda A. Cadioli, Le diverse pagine…, op. cit., p. 130. ↵
- Per correttezza e completezza, segnaliamo l’opposto parere di Italia: «Affidare l’autorità del “testo base” al manoscritto o al dattiloscritto piuttosto che alla stampa porterebbe inevitabilmente a dover mettere in atto, a ogni nuova edizione, un “processo alle intenzioni” per misurare il grado di coinvolgimento dell’autore nel processo correttorio innescato dall’intervento esterno. [… ↵
- Classe 1977, originario di Martina Franca in provincia di Taranto, dopo gli studi classici si laurea a Bari in giurisprudenza. Trasferitosi a Roma nel 2003, inizia a collaborare con la redazione della rivista «Nuovi Argomenti» e con la casa editrice Mondadori in qualità di editor junior. Nel 2008 è direttore editoriale di Fandango Libri, dove rimarrà fino al 2013, quando abbandonerà il mondo dell’editoria per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Ad eccezione dell’esordio Neppure quando è notte, che è stato pubblicato da PeQuod nel 2003, tutti i suoi libri sono usciti con Arnoldo Mondadori Editore; si ricordano in particolare Il paese delle spose infelici (2008) da cui è stato tratto l’omonimo film di Pippo Mezzapesa, e Ternitti (2011), selezionato tra i finalisti della LXV edizione del Premio Strega. Cfr. l’intervista a Mario Desiati, edita in questo stesso fascicolo di «Diacritica», anche per le altre informazioni che lo riguardano. ↵
- 9 domande sul romanzo, in «Nuovi Argomenti», 1959, nn. 38-39. Gli autori coinvolti sono: Giorgio Bassani, Italo Calvino, Carlo Cassola, Eugenio Montale, Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Guido Piovene, Sergio Solmi, Elémire Zolla. ↵
- Ivi, p. 17. ↵
- Ivi, pp. 18-19. ↵
- Ivi, p. 18. ↵
- In carattere sottolineato i passi originali, tra parentesi quadre le modifiche di Albinati nella prima revisione. ↵
- Come si è letto, «il verde umido delle carogne e degli insetti» è stato rivisto da Albinati nella prima versione, ma, redigendo la seconda stesura, Desiati stesso modifica questo passaggio (la modifica è riportata tra parentesi quadre) che Albinati non modificherà ulteriormente e che entrerà nella versione definitiva. ↵
- In carattere sottolineato i passi originali, tra parentesi quadre le modifiche di Albinati nella seconda revisione, in grassetto le aggiunte. ↵
- In carattere sottolineato i passi della seconda revisione di Albinati, tra parentesi quadre le modifiche apportate da Cerutti. In grassetto le aggiunte. Il passo è alle pp. 15-16 del romanzo pubblicato. ↵
- In carattere sottolineato i passi originali, tra parentesi quadre le modifiche di Albinati nella seconda revisione. Il brano è a p. 9 del romanzo. ↵
- In carattere sottolineato le parti modificate, in neretto le aggiunte. ↵
- In carattere sottolineato i passi originali, tra parentesi quadre le modifiche di Albinati nella prima revisione, in neretto i passi tagliati. Il brano è alle pp. 95-96 del romanzo. ↵
- In carattere sottolineato le parti modificate, in neretto le aggiunte. ↵
- In carattere sottolineato i passi originali, tra parentesi quadre le modifiche di Albinati nella prima revisione, in neretto i passi espunti. Il brano è alle pp. 102-103 del romanzo. ↵
- In carattere sottolineato le parti modificate. ↵
- Andrea Delogu è una conduttrice televisiva, nata a Cesena, che ha vissuto i primi dieci anni in una comunità di recupero. Andrea Cedrola, originario di Agropoli, ha studiato a Bologna per, poi, trasferirsi a Roma, dove lavora come sceneggiatore. ↵
- Per la genesi del testo cfr. l’intervista a Tiziana Triana pubblicata in questo stesso fascicolo di «Diacritica». ↵
- In grassetto le parti eliminate; in carattere sottolineato le parti modificate le cui sostituzioni sono tra parentesi quadre. Nel romanzo il passo è alle pp. 9-10. ↵
- In grassetto le parti eliminate; in carattere sottolineato le parti modificate le cui sostituzioni sono tra parentesi quadre. Nel romanzo il passo è alle pp. 123-124. ↵
- In grassetto le parti eliminate; in carattere sottolineato le parti modificate le cui sostituzioni sono tra parentesi quadre. Nel romanzo il brano è a p. 323. ↵
- Si tratta di un estratto della mia tesi di laurea in Letteratura italiana contemporanea (Corso di laurea magistrale in “Editoria e scrittura”) dal titolo «I libri degli altri». L’intervento dell’editor nella produzione libraria contemporanea: analisi di alcuni casi, relatrice la prof.ssa Mirella Serri, correlatore il prof. Giulio Perrone, discussa presso la “Sapienza Università di Roma” il 27/03/2015. ↵
(fasc. 6, 25 dicembre 2015)