Shakespeare, il modello del “Canzoniere” e “The Dark Lady”. Intervista a Camilla Caporicci

Author di Marco Pacioni

Dopo Petrarca nel corso del ’400 e soprattutto nel ’500 il canzoniere si consolida in tutta Europa al punto che non lo si può considerare più soltanto un genere poetico, ma un modello di comportamento, un rito sociale. Ci può dire qualcosa su come avviene questo processo nel caso specifico del Regno Unito?

Certamente il canzoniere di Petrarca acquista, nel corso del ’400 e del ’500, un valore immenso, e non soltanto in termini strettamente artistici – aspetto che vede il suo culmine nell’opera canonizzatrice di Bembo – ma anche in ambito più specificamente filosofico e sociale. Da una parte, tale valore filosofico e sociale della lirica di Petrarca si spiega nell’ottica della pervasiva influenza della filosofia neoplatonica che, a partire soprattutto dal ’400, ovvero dal costituirsi dell’Accademia fiorentina di Ficino, si esercita potentemente in Italia e poi in tutta Europa. In un’epoca in cui la teoria dell’amore neoplatonico diventa anche una teoria normativa, volta cioè a insegnare all’uomo cosa e come amare, il fatto che i trattatisti d’amore quattro-cinquecenteschi – da Ficino stesso a Leone Ebreo, Giovanni Betussi, Vittoria Colonna etc. – usino proprio Petrarca per esemplificare questa forma corretta e suprema di amore fa sì che il canzoniere divenga una sorta di modello ideale per l’innamorato rinascimentale.

Vi è però anche un aspetto più propriamente sociale, e anche politico se vogliamo, da tenere in considerazione. Con lo svilupparsi delle grandi corti rinascimentali, si avverte la necessità di definire e formare il perfetto cortigiano, impulso che trova il suo apice nell’opera di Baldassarre Castiglione. Il Cortegiano, che insegna appunto all’aristocrazia italiana ed europea ad esprimere l’ideale del cortigiano perfetto, usa anch’esso le rime di Petrarca, facendo tanto della teoria d’amore del canzoniere quanto del linguaggio attraverso cui essa è espressa un modello comportamentale atto a tenersi non soltanto nei confronti delle dame della corte, ma anche, in senso traslato, verso il principe. Il linguaggio d’amore diventa anche il linguaggio del potere.

Questo fenomeno, nelle sue implicazioni sociali e politiche oltre che artistiche, avrà un impatto molto forte in Inghilterra. Da una parte questa nazione estremamente giovane e vitale guarda al continente con una scalpitante ambizione di raggiungerne la maturità culturale e artistica. L’aristocrazia inglese, alla corte di Enrico VIII e successivamente di Elisabetta I, manifesta uno spiccato desiderio di “ingentilimento” che la ponga alla pari delle aristocrazie europee, ed è in questo senso che agisce l’appropriazione della lirica petrarchista e di tutto il codice filosofico-comportamentale che le soggiace.

D’altra parte, ci sono però anche ragioni più circostanziate che spiegano la straordinaria fioritura di canzonieri che si ha nell’ultimo decennio del Cinquecento inglese. L’ascesa al trono di Elisabetta I Tudor vede la regina in una posizione estremamente difficile: donna, dichiarata bastarda e dunque non da tutti riconosciuta come legittima sovrana, Elisabetta si trova a governare un regno giovane e irrequieto, pieno di contrasti interni, e dilaniato tra cattolici e protestanti. Un compito difficilissimo. Comprendendo la difficoltà, se non impossibilità, di governare con la sola forza, la regina molto intelligentemente si appropria della moda del canzoniere petrarchista e se ne elegge oggetto supremo. Divina Regina Vergine, e dunque di natura affine alle irraggiungibili ed eteree dame petrarchiste, ella diviene così, attraverso un’operazione culturale e politica insieme, dama d’eccezione del sonetto inglese, ponendosi al centro di una cerchia di cortigiani che le si rivolgono attraverso la lirica d’amore. La violenza della corte viene così sublimata attraverso un cerimoniale sociale e artistico, che muta la competizione politica in competizione d’amore. Il sonetto viene usato per dichiarare la propria fedeltà, la propria devozione alla regina e per chiederne il favore, trasformandosi quasi nel linguaggio ufficiale della corte. Grazie a ciò, il canzoniere diventa dunque un modello di comportamento sociale, un mezzo per entrare e rimanere nell’alta società, e una moda pervasiva cui le dame al pari dei gentiluomini difficilmente si sottraggono.

Shakespeare, come altri poeti, deve da un lato adempiere la prova del canzoniere come modello sociale e, dall’altro lato, come poeta deve produrre degli scarti rispetto a quel modello per sottolineare significati poetici, filosofici e culturali e differenziare la sua raccolta da quelle di altri poeti. Lei pensa che Shakespeare abbia maturato la convinzione di scrivere un libro di tal genere sin dall’inizio della composizione del suo canzoniere o è qualcosa che invece matura ad un certo punto in corso d’opera?

A questa domanda è piuttosto difficile rispondere, soprattutto perché non si hanno notizie certe sulle modalità e sulle tempistiche di composizione del canzoniere, né sulle precise intenzioni del poeta. Con questo intendo che non si è del tutto certi che l’edizione del 1609 di Thomas Thorpe sia stata autorizzata dal poeta, e dunque non si sa se questi sonetti fossero effettivamente destinati alla stampa, o se fossero invece pensati per girare in una cerchia ristretta di amici. Sappiamo da una fonte coeva (il Palladis Tamia di Francis Mere, del 1598) che almeno alcuni di essi venivano letti appunto tra amici scelti del poeta, ma non ne sappiamo molto altro. Alcuni critici, tra cui Katherine Duncan-Jones, tendono oggi a sottolineare l’alta probabilità che i Sonnets siano stati pubblicati per esplicito volere di Shakespeare, sia per motivi economici (la data di pubblicazione corrisponde infatti a un periodo di chiusura dei teatri) sia per il desiderio di correggere la miscellanea The Passionate Pilgrim pubblicata nel 1599 da William Jaggard, che dava alle stampe, allora certamente senza autorizzazione dell’autore, alcuni testi poetici shakespeariani (tra cui il sonetto 138 e il 144) insieme ad altri erroneamente a lui attribuiti. E tuttavia non possiamo affermare con certezza tale intenzionalità. D’altro canto, nonostante un’infinità di studi sia stata dedicata all’argomento, non si conosce con certezza la tempistica relativa alla composizione del canzoniere, ed è quindi difficile capire l’evoluzione del processo creativo, ovvero se il poeta decida fin dall’inizio di distaccarsi, soprattutto nella seconda parte, dal modello tradizionale, o se questa necessità di espressione più profonda rispetto al canone vigente giunga con il tempo.

La mia personale opinione è che Shakespeare inizi a scrivere questi sonetti, e in particolare i sonetti al Fair Youth, per confrontarsi con la grande tradizione sonettistica ma anche spinto da effettive ragioni di natura sociale, ovvero dalla “necessità” di celebrare il suo patrono – che egli sia il conte di Southampton o di Pembroke non fa in questo senso differenza. Nell’atto di inserirsi in questa tradizione eulogistica, il poeta avverte però la limitazione che tale rigido codice gli impone, e cerca allora una via per un’espressione più autentica, e per una riflessione profonda sui temi che più lo toccano, che non tradisca però l’intento celebrativo delle dedica al patrono. La difficoltà di questa operazione, che emerge evidente nella scrittura della prima sezione del canzoniere, trova la sua risoluzione nella seconda parte, dedicata alla Dark Lady, dove il poeta appare finalmente libero di infrangere apertamente le fondamenta della tradizione petrarchista, forse anche perché non più vincolato da un intento di natura eulogistica.

Cosa succede negli altri poeti che precedono e che sono coevi a Shakespeare, cioè come costruiscono il loro canzoniere rispetto a Shakespeare?

Come dicevamo, la produzione di canzonieri nell’Inghilterra elisabettiana è davvero straripante: ce ne sono moltissimi. Chiaramente, dire che nessuno di essi presenti elementi di bellezza e di originalità rispetto alla tradizione prima di Shakespeare sarebbe un distorcere la realtà al fine di far spiccare l’opera che si è scelto di trattare. I primissimi canzonieri inglesi – e parlo qui di canzoniere come libro di poesia strutturato, non di singoli sonetti, i quali erano apparsi in Inghilterra già prima, principalmente con Wyatt e Surrey – sono in effetti poco più di un repertorio dei topoi più sfruttati della tradizione petrarchista, e in alcuni casi troviamo veri e propri adattamenti dalle rime di Petrarca e dei petrarchisti italiani (tra i quali spicca Serafino Aquilano), e dei poeti della Pléiade francese. Così è appunto l’Hecatompathia di Watson, in cui l’intento di emulazione e di sfoggio di capacità retoriche appare chiaramente essere il principio ispiratore dell’opera. Il primo grande canzoniere inglese però, Astrophil and Stella di Philip Sidney (1591), è un’opera estremamente raffinata, che gioca sul codice petrarchista con grande ironia e che si trasforma in una riflessione meta-poetica sul processo creativo e sull’espressione lirica in sé. Il canzoniere di Edmund Spenser, per fare un altro esempio, ha pure una sua struttura peculiare, dovuta principalmente al fatto che gli Amoretti sono dedicati alla moglie del poeta – cosa molto inusuale nella lirica del tempo, incentrata solitamente sull’irraggiungibilità dell’oggetto d’amore – e si concludono quindi con un Epithalamion, un canto di nozze in cui gli echi del Cantico dei Cantici danno vita a immagini bellissime e altamente sensuali. Inoltre, in una fase relativamente tarda della produzione sonettistica, ovvero dopo l’ascesa al trono di Giacomo I, troviamo sequenze imperniate su una certa varietas sia nel tono sia nel tema, come ad esempio quella di Drayton o, ancora più significativamente, quella dello scozzese Alexander Craig, che distribuisce i suoi sonetti tra otto diverse dedicatarie.

In linea di massima, però, penso di poter dire che la base filosofica soggiacente alla poesia petrarchista – un misto di Cristianesimo e Neoplatonismo da cui deriva il concetto di spirituale perfezione e ontologica irraggiungibilità dell’amata – rimane tutto sommato stabile lungo la vastissima produzione sonettistica del tempo – da Giles Fletcher a Thomas Lodge, Samuel Daniel, Henry Constable, John Davies etc. Ed è intorno a questa dinamica di eterna aspirazione, di desiderio che viene espresso, represso, e mai appagato, che si strutturano in linea di massima i canzonieri del tempo, tanto in senso estetico quanto filosofico. Questa dinamica, insieme alla lingua che la esprime, si riflette, se pure chiaramente con diverse sfumature, nella prima sezione del canzoniere di Shakespeare, quella dedicata al Fair Youth, ma viene poi a scontrarsi frontalmente con la figura della Dark Lady. Ed è qui che la struttura bipartita del canzoniere shakespeariano (di natura totalmente altra rispetto alla bipartizione petrarchesca e petrarchista di rime in vita e in morte) va a rappresentare una frattura imponente rispetto al modello tradizionale.

Come in ogni altro canzoniere anche in quello di Shakespeare compaiono dei personaggi. Oltre al Fair Youth e alla Dark Lady, compare il personaggio-poeta, per usare un’espressione cara alla critica letteraria italiana. Come cambia, se cambia, nel canzoniere questo personaggio?

Il personaggio-poeta cambia moltissimo in effetti nel passaggio dalla prima alla seconda sezione del canzoniere, principalmente in rapporto al mutare dell’oggetto con cui si relaziona. Nella prima sezione il personaggio-poeta si inserisce in linea di massima nella tradizione ereditata, evitando di discostarsi traumaticamente dal modello di personaggio-poeta proposto dal genere sonettistico. La sua posizione rispetto all’oggetto celebrato, il Fair Youth, è di ontologica, indiscutibile inferiorità, e questa subalternità plasma poi necessariamente anche la lingua di questa poesia, che si intesse di una retorica di lode fatta di uno specifico linguaggio metaforico, di un uso quasi cortese di rivolgersi al dedicatario in atto di sottomissione, e di tutta una serie di elementi codificati. D’altro canto, il punto di forza del personaggio-poeta nella prima sequenza è di nuovo quello tradizionale, che a partire da Petrarca si ritrova poi in moltissimi lirici petrarchisti, ovvero l’esaltazione del potere della propria arte. È come se il poeta, sapendo di star dando vita, sulla carta, a un essere sublime che travalica i limiti naturalmente imposti all’essere umano, rivendicasse il primato della sua arte sulla natura, sfidando anche il tempo – il grande nemico della prima sezione – che, afferma, nulla potrà contro il potere eternizzante dei suoi versi.

Nella seconda sezione assistiamo a un totale ribaltamento di questa situazione. Da una parte il personaggio-poeta si trova per la prima volta in una condizione di assoluta parità rispetto all’oggetto d’amore. Questa Dark Lady, fatta di carne, di colpe e di oscurità tanto quanto l’umanità tutta, si pone allo stesso livello ontologico del poeta, e di qui nasce la libertà di un linguaggio e di una ricerca che affonda in ambiti mai toccati prima, come la sconcertante analisi della lussuria che abbiamo nel sonetto 129. Il poeta è quindi elevato dalla sua posizione subalterna rispetto all’oggetto d’amore, ma allo stesso tempo subisce anche una sconfitta rispetto alle aspirazioni del personaggio-poeta tradizionale. Riconoscendo l’alterità della sua donna rispetto al modello, riconoscendola cioè come essere che trae la sua essenza, la sua realtà, al di fuori dell’atto poetico, il poeta è costretto ad abbandonare la sua ambizione di dominio artistico sulla natura, e a piegare la sua poesia fino a farsi riflesso autentico della materia del mondo.

Il suo libro si concentra sui sonetti che riguardano la Dark Lady e non soltanto perché costituiscono la parte più innovativa del canzoniere shakespeariano, ma anche e soprattutto perché lei attribuisce a loro il ruolo rivoluzionario di cambiare la poesia lirica e la concezione dell’amore anche in senso filosofico e culturale. Se dovesse scegliere uno dei sonetti a lei dedicati, quale leggerebbe e commenterebbe per spiegarci la portata rivoluzionaria della Dark Lady nell’immaginario erotico europeo?

Molti sono i sonetti significativi in questa sezione del canzoniere, nel senso che vanno a esprimere una verità diversa e per certi versi più profonda rispetto al modello tradizionale. Ci sono sonetti in cui si afferma ad esempio esplicitamente il diritto dell’uomo a essere fedele alla sua natura, unione indissolubile di corpo e anima, e in cui si rivendica l’elemento erotico quale principio degno di giustificare il sentimento amoroso. Ci sono sonetti in cui si evidenzia la parità di condizione tra amante e amata, i quali si trovano appunto accomunati nella fragilità propria della natura umana, e poi ci sono sonetti che si spingono a esplorare con grande franchezza e addirittura brutalità elementi estranei alle raccolte tradizionali. In questo senso il più impressionante è forse il sonetto 129, in cui Shakespeare ci sprofonda in una riflessione estremamente cruda e sofferta sulla lussuria. Una lussuria che per la prima volta viene vista non come “in potenza”, secondo il dogma petrarchista che voleva il desiderio sempre inappagato, ma finalmente in atto:

Th’expense of spirit in a waste of shame
Is lust in action; and till action, lust
Is perjured, murd’rous, bloody, full of blame,
Savage, extreme, rude, cruel, not to trust;
Enjoyed no sooner but despised straight;
Past reason hunted, and no sooner had,
Past reason hated as a swallowed bait,
On purpose laid to make the taker mad;
Mad in pursuit, and in possession so,
Had, having, and in quest to have, extreme;
A bliss in proof, and proved, a very woe;
Before, a joy proposed; behind, a dream.
All this the world well knows, yet none knows well
To shun the heaven that leads men to this hell.
(129)

Sperpero di spirito in vergognoso spreco
È la lussuria in atto; e finché esso dura, lussuria
È spergiura, assassina, sanguinaria, carica d’infamia,
Selvaggia, estrema, brutale, crudele, infida;
Non appena goduta e subito disprezzata,
Oltre ragione rincorsa e non appena ottenuta,
Oltre ragione odiata, come esca inghiottita,
Tesa di proposito per rendere pazzo chi vi abbocca;
Pazzo nel desiderio, così come nel possesso,
Estremo nel rincorrerla, nel goderla e nel ricordarla;
Una benedizione nel provarla, e avendola provata, un grande dolore;
Prima, una visione di gioia; poi, un sogno.
Tutto ciò il mondo ben sa, eppure nessuno sa bene
Come evitare il paradiso che conduce gli uomini a questo inferno.

Questo sonetto è uno dei più controversi del canzoniere, ed è stato spesso impugnato da coloro che sostengono quello di Shakespeare essere un atteggiamento misogino e sostanzialmente puritano rispetto alla sessualità. La violenza delle immagini che il poeta ci presenta sembrerebbe dare ragione a questa interpretazione (sebbene poi in altri sonetti tale sensualità venga apertamente affermata come un principio vitale), ma a un’attenta lettura questa lirica si rivela portatrice di un messaggio alquanto diverso.

Nei primi versi abbiamo un accumulo di aggettivi che potremmo definire forsennato, che mima nel ritmo la frenesia che caratterizza la lussuria. Quasi che il linguaggio, con questo ritmo che ci sospinge avanti, senza pause, e questo intrecciarsi continuo di chiasmi e parole che si rimandano da un verso a un altro, si faccia espressione uditiva e visiva insieme di questa caccia convulsa e primordiale che è la lussuria. Sono indubbiamente immagini feroci quelle che il poeta presenta, e questo perché, ed è bene sottolinearlo, Shakespeare non è un libertino utopista, intento a celebrare un erotismo spensierato e idilliaco, e anzi rivela apertamente la crudeltà, e il dolore, che può derivare dal mondo della carne e del desiderio. Dal verso 11 iniziamo però a trovare delle parole che non ci aspettavamo, e che mal si accordano con il campo semantico di assoluta negatività che le precede: «bliss», e successivamente «joy». La lussuria è sì un grande dolore, ma lo è a posteriori, mentre nell’attesa essa è una ‘gioia’ e, ancora più importante, nell’atto stesso è una ‘benedizione’ – termine peraltro di particolare impatto e significazione in quanto chiaramente connotato in senso religioso. Essa racchiude cioè in sé una coesistenza di contrari che è proprio la cifra caratterizzante dell’esistenza umana, in cui gioia e dolore, bene e male, sbocciano continuamente gli uni dagli altri.

Infine troviamo poi il distico. Avvertiamo una frattura netta, un cambio di tono importante: dopo il ritmo frenetico che ci ha sospinti avanti, senza riprendere fiato, per tutto il sonetto, finalmente Shakespeare respira, e noi con lui. E, come se avesse riletto, riflettuto, forse sorriso di quanto scritto fino a quel momento, rivela, con tono proverbiale, la verità profonda di questo sonetto: che, a dispetto di tutto il dolore e la vergogna, di tutto l’“inferno” che può generarsi nell’eccesso del desiderio carnale, nessun uomo può (né vuole davvero) rinunciare ad esso, perché questa lussuria è allo stesso tempo principio vitale, gioia, benedizione e “paradiso”, e in tutte le sue contraddizioni essa va dunque accettata e rivendicata quale parte ineliminabile della natura umana.

Nella sua interpretazione lei si sofferma molto sull’immagine e soprattutto sui colori che caratterizzano la Dark Lady e non trova paragoni di poesia lirica all’altezza dei sonetti shakespeariani. Così lei sposta il confronto fuori dalla poesia e inserisce nel discorso la filosofia di Giordano Bruno e la pittura di Caravaggio. Può dirci qualcosa in merito a questa interessante esplorazione fra lirica, filosofia e arte?

Quello dell’uso dei colori, e in particolare della luce e del buio, in Shakespeare è un discorso molto complesso, che ho interpretato in chiave filosofica prima ancora che estetica perché questo è a mio parere il livello più profondo veicolato da questo gioco cromatico. Cercando di riassumere in poche parole il concetto principale che ho cercato di dimostrare nel mio libro (The Dark Lady. La rivoluzione shakespeariana nei Sonetti alla Dama Bruna, Passignano sul Trasimeno, Aguaplano editore, 2014), possiamo dire che la visione neoplatonico-cristiana dell’universo, dominante nel Rinascimento, trova la sua espressione simbolica in una dicotomia cromatica molto precisa. Ovvero, a un universo rigidamente e gerarchicamente diviso in bene e male, cielo e terra, spirito e materia, corpo e anima, corrispondeva un universo cromatico egualmente gerarchizzato, basato sulla dicotomia di luce e tenebra e sulla neoplatonica scala luministica, che vedeva nell’oscurità il polo negativo dell’essere, e nella luce e nel bianco quello positivo, l’aspetto razionale, spirituale e divino del creato. Questa è una simbologia che permea moltissimo la lirica petrarchista, proprio perché espressione di una stessa concezione filosofica. Per questo motivo la dama ha capelli d’oro e occhi solari o stellati, il cui raggio mostra la via alla vera luce divina; per questo motivo ella è candida, sconfiggendo l’oscurità pesante della materia e della carne in un processo di sublimazione che la rende quasi angelicamente traslucida.

Quello che colpisce particolarmente è notare come la contestazione di questo paradigma ontologico, che si inizia ad avere verso la fine del Cinquecento, vada proprio a esprimersi attraverso un uso rivoluzionario della luce e dell’ombra, e questo nelle più diverse forme artistiche e di pensiero, dalla pittura alla filosofia fino naturalmente alla poesia. Nel mio libro ho scelto in questo senso due giganti italiani da affiancare a Shakespeare, proprio per mostrare la complessità di questa vena di pensiero rivoluzionario che si snoda in Europa attraverso modalità molto diverse, che trovano però nell’uso destabilizzante della luce e del buio un punto di convergenza.

Giordano Bruno – che scrive peraltro alcune delle sue opere a Londra, tra cui gli Eroici Furori, cui faccio molto riferimento – usa l’immagine dell’ombra, dell’oscurità, per indicare tanto una nuova ontologia, in cui materia e forma, divino e terreno, fioriscono l’uno dall’altro in un perenne rigenerarsi dell’Uno, quanto una via alla conoscenza molto diversa rispetto all’ascesi spirituale propria del sistema filosofico dominante. Laddove per Ficino il divino è una fonte di emanazione luminosa che è fuori e opposta al mondo oscuro della materia, e dunque per raggiungerlo occorre elevarsi ad esso abbandonando il mondo e il corpo, il furioso di Bruno deve invece calarsi nella tenebra del mondo, perché è proprio dal di dentro, dal cuore stesso della materia, che la luce si sprigiona: «la luce che è nell’opacità della materia, cioè quella in quanto splende nelle tenebre».

Questa dislocazione della luce rispetto all’ombra è ciò che troviamo anche, pittoricamente espresso, nelle opere di Caravaggio, in quello che è stato definito il suo “tenebrismo”. Se da una parte l’ombra che Caravaggio proietta sui corpi è volta ad ottenere un effetto di realismo, combattendo così la sublimazione della carne che si esprimeva spesso nella pittura a lui precedente, dall’altra il rifiuto dell’impostazione luministica di tipo “divino”, propria ad esempio di Raffaello, tradisce un intento più propriamente filosofico. La fonte della luce non è più individuata nella parte alta del quadro, corrispondente spesso con il gruppo divino o angelico, ma si mescola invece alla tenebra indistintamente, tanto sulla terra e sui corpi pesanti degli uomini, quanto in cielo e sui corpi, anch’essi pesanti, degli angeli, a esprimere un’identità ontologica di cielo e terra, umano e divino.

Questo stesso gioco di destabilizzazione dei confini tra luce e ombra appare evidente nell’opera di Shakespeare, nei suoi sonetti alla Dark Lady, ma anche in molte opere drammatiche, da Titus Andronicus al Mercante di Venezia, da Othello a Pene d’Amor Perdute fino ad Antonio e Cleopatra. Vi è un continuo incontrarsi di nero e bianco, luce e tenebra, in un ossimoro perenne, volto proprio a mettere in crisi la rigida separazione delle due cromie, e conseguentemente dei significati simbolici che esse esprimono. Nel caso della Dark Lady, l’impianto dicotomico del canzoniere che la vede opporsi a un Fair Youth esprime appunto una rivalutazione della darkness non solo e non tanto in mero senso estetico, cioè in riferimento al canone della bellezza femminile, ma in quanto riaffermazione di tutta quella sfera dell’essere – il corpo, il sesso, la materia pesante del mondo – che in essa si esprime, e che la Dark Lady incarna in tutta la sua profonda materialità.

Ad un certo punto, fra gli altri, lei inserisce il paragone con il Tasso delle Rime dove compare una «donna bruna […] ma bella». In quel “ma” lei vede un contrasto che tutto sommato non sortisce una novità nella rappresentazione della donna e dell’amore, cosa che invece avviene a partire dal sonetto 127 di Shakespeare e nel verso chiave di quel componimento: «But now is black beauty’s successive heir». In che modo il «ma» di Tasso e il «but» di Shakespeare sono radicalmente diversi?

Tasso sicuramente avverte ed esprime la tensione cromatica che vibra nella seconda metà del Cinquecento, e la esprime qualche volta nelle rime, in cui spicca un gusto deciso per l’ossimoro cromatico, per l’elemento paradossale. In tal senso ricorre un paio di volte, in riferimento a un’ancella della sua amata, il «bruna ma bella», chiara ripresa biblica dal Cantico dei Cantici. La sensazione è però che Tasso non investa questa affermazione di un significato profondo in termini di rivoluzione estetica o filosofica, ma che esprima invece più che altro un gusto del meravigliare con immagini ardite, paradossali appunto, un gioco linguistico che volge al barocco se vogliamo. Inoltre il suo «ma» – «nera ma bella» –, oltre ad essere principalmente un calco biblico, riafferma in realtà il topos che appare contestare, identificando implicitamente nella bellezza non scura lo standard giustamente riconosciuto. Standard che peraltro, e non a caso, domina incontrastato, insieme a tutto l’impianto cromatico neoplatonico, la grandissima parte delle rime.

Shakespeare, invece, nel 127 – che è il sonetto che apre la sezione alla Dark Lady e che ha l’andamento di un vero e proprio mito d’origine – appare significare, con il passaggio dalla bellezza fair a quella dark, una nuova era, estetica e filosofica. Il «but» del sonetto – «But now is black beauty’s successive heir» – fa in tal senso da spartiacque tra il vecchio e il nuovo, segnando un ribaltamento che coinvolge livelli multipli di realtà. La darkness della Dama Bruna emerge pertanto da questa raccolta non come elemento occasionale, come era in Tasso, ma come principio dominante, nucleo generativo dell’intera sequenza, portatrice di significati che vanno ben oltre il gioco linguistico, o il mero ribaltamento del canone estetico.

Nonostante sia un uomo, nonostante altri elementi da altri critici considerati fortemente innovatori se non rivoluzionari, lei considera i sonetti al Fair Youth comunque la parte più convenzionale, tradizionale, petrarchista del canzoniere shakespeariano rispetto ai sonetti alla Dark Lady. Sembra ritenere anzi che i sonetti alla Dark Lady addirittura correggano retrospettivamente quelli al Fair Youth e che suonino come un’autocritica che serva a far emergere lo Shakespeare lirico più autentico contro quello più artificiale. Può spiegarci questo snodo critico del suo libro?

Molti critici hanno voluto liquidare la sezione alla Dark Lady come espressione di una vena misogina presente nella poesia del tempo, o come esempio di mera inversione parodica del canone petrarchista, e vedere invece nella sezione al Fair Youth l’elemento più rivoluzionario della raccolta, in virtù della presunta natura omoerotica dell’amore che vi è espresso. Ora, anche lasciando da parte l’errore di sovrapporre categorie moderne a un’espressione lirica che si contestualizza in un tempo e all’interno di un genere poetico in cui la celebrazione, anche appassionata, di un patrono non è una cosa avvertita come particolarmente rivoluzionaria, la natura del linguaggio e del messaggio veicolato da Shakespeare nella prima sequenza non appare affatto come radicalmente eversiva rispetto alla tradizione. E questo, probabilmente, perché il poeta si sente in qualche modo vincolato al modello cortigiano impostogli dall’intento celebrativo della raccolta, ovvero dalla necessità di elogiare attraverso di essa un dedicatario socialmente ed economicamente rilevante. Di qui la convenzionalità delle retorica di lode iperbolica, delle metafore tradizionali usate per descriverlo – lui è un sole, un gioiello prezioso, un giglio, una rosa etc. – e anche della posizione di subordinazione del poeta rispetto a lui. Di qui anche l’assoluta irraggiungibilità del Fair Youth, l’impossibilità di un congiungimento fisico, e la frustrazione che ne consegue. Chiaramente questo non vuol dire che non ci siano elementi di originalità o di struggente bellezza in questi sonetti, in cui spesso fa comunque capolino un’espressione più immediata e profonda, che rimane però sempre nel sottotesto, accennata e poi negata, mai affermata esplicitamente.

Il passaggio alla seconda sequenza si rivela in tal senso come una sorta di liberazione dai dettami poetici e dai vincoli imposti, o auto-imposti, al poeta nella prima parte. Il sonetto 127 apre la sequenza, affermando proprio l’abbandono di una poesia dell’ornamento, che è la poesia del Fair, e l’ingresso in una nuova era non solo della bellezza ma anche, implicitamente, della poesia che la celebra, imperniata sull’autenticità e sulla naturalità.

Sotto tutti gli aspetti che la lirica tocca, la Dark Lady rivendica la sua profonda alterità proprio rispetto a quel modello che il Fair Youth aveva incarnato, a partire dalla negazione puntuale, nel famoso sonetto 130, di tutte quelle metafore preziose attraverso cui il giovane era stato rappresentato. Questa nuova libertà di espressione si traduce dunque da una parte nella libertà di indagare aspetti mai toccati prima, andando così a scardinare i capisaldi filosofici soggiacenti alla lirica tradizionale, e dall’altra nella libertà di esigere un rapporto anche linguistico più autentico con l’oggetto d’amore, il quale implica a sua volta un “tono” poetico del tutto inedito. Tutti elementi che erano emersi in qualche modo, velati, nella prima sezione, ma che soltanto nella seconda sequenza possono essere affermati apertamente.

Lei pensa che Shakespeare abbia voluto giustapporre due personaggi e due visioni dell’amore che alla fine sembra si separino nettamente oppure che abbia deliberatamente costruito un canzoniere come un organismo che prevede il contrapporsi di due personaggi come quelli di un dramma nella cui azione scenica l’uno è funzionale e necessario all’altra?

È molto difficile rispondere a questa domanda, anche perché, come si diceva, non sappiamo se l’intenzione del poeta fosse fin dall’inizio quella di costituire un canzoniere organico. Quello che posso dire è che sicuramente le due sezioni sono legate in termini oppositivi, nel senso che la seconda, seppure autonoma, è chiaramente leggibile in chiave di esplicito contrasto con la prima, e in questo senso la prima diventa funzionale alla seconda in quanto termine di paragone in riferimento al quale si staglia la profonda rivoluzionarietà della Dark Lady. Sicuramente, nella riorganizzazione finale delle rime, l’impianto dicotomico del canzoniere diviene organico in tal senso. Se questa dicotomia strutturale fosse però da subito parte del progetto di Shakespeare non è cosa di cui possiamo essere certi.

Più in generale, in che modo si dovrebbe considerare il rapporto fra opere teatrali e canzoniere shakespeariano? E in che modo si articola il rapporto ad esempio fra i sonetti e un’opera poetica come Venus and Adonis?

La lirica d’amore è un genere molto diverso rispetto al dramma teatrale, per linguaggio, finalità, pubblico, modalità espressive, modalità di fruizione etc. Dunque è chiaro che bisogna stare molto attenti quando si cerca di mettere a confronto il canzoniere di Shakespeare con la sua produzione teatrale. Allo stesso tempo, però, il profondo legame tra l’opera poetica e alcune delle opere drammatiche è evidente, come ad esempio nel caso di Antonio e Cleopatra e Pene d’Amor Perdute, in cui troviamo non solo figure femminili chiaramente affini alla Dark Lady, ma veri e propri richiami linguistici che garantiscono il legame tra i due testi. Ma, anche escludendo le opere geneticamente più legate ai sonetti, appare evidente che è solo studiando l’opera shakespeariana nella sua interezza che si riescono a cogliere quegli elementi che corrono sotterranei in tutta la produzione, e che si definiscono dunque come portanti rispetto al pensiero di Shakespeare, alla luce dei quali leggere poi le singole opere e i sonetti.

Per quanto riguarda l’opera poetica, e in particolare il poemetto Venus and Adonis, il legame con il canzoniere è altrettanto se non più forte, non solo perché il mezzo linguistico è più affine all’espressione sonettistica, ma anche perché vi troviamo un personaggio, quello di Adone appunto, che ricorda in modo palese il Fair Youth dei sonetti. Cosa che acquista peraltro un significato ancora maggiore se si considera il fatto che c’è una buona possibilità che il dedicatario di Venus and Adonis (1593-1594), Henry Wriothesley, conte di Southampton, sia anche il misterioso W. H. dedicatario dei Sonnets. L’affascinante vicenda editoriale dell’opera in versi di Shakespeare, fatta di aperte epistole dedicatorie quanto di criptiche dediche, si intreccia così alla materia della poesia, illuminandola e nascondendola allo stesso tempo, in un affastellarsi di suggestioni che, se da una parte non ci dà alcuna certezza, dall’altra arricchisce l’analisi critica di un piano trasversale che unisce indissolubilmente realtà storica e realtà poetica.

Riguardo alla struttura del canzoniere shakespeariano, lei sposa la tesi di Dunkan-Jones e Kerrigan che considerano il componimento A Lover’s Complaiant come parte integrante dell’opera e anzi uno degli elementi che meglio provano che quella di Shakespeare non è una semplice raccolta, ma un libro organico. Può dirci qualcosa in merito a ciò, considerando anche l’edizione 1609 dei Sonetti allestita da Thorpe?

Nell’edizione di Thorpe troviamo, a chiusura del canzoniere, un Complaint, ovvero una sorta di poemetto in cui una giovane si lamenta di essere stata sedotta e poi abbandonata dalle lusinghe di un bellissimo giovane. Questa struttura bipartita (ovvero l’elemento finale del Complaint che bilancia il desiderio maschile frustrato della sequenza petrarchista attraverso la voce di una vittima femminile di tale desiderio) non era estranea ai canzonieri del tempo, come vediamo ad esempio in quelli di Daniel, Lodge, Fletcher e Barnfield. Ciò sembra confermare l’intenzionalità dell’arrangiamento finale del canzoniere in un libro organico.

Tale impressione di intenzionale organicità è rafforzata dal fatto che, leggendo il Complaint,non si può fare a meno di notare come esso sia molto legato al testo dei sonetti, e anzi faccia luce retrospettivamente sulle liriche che lo precedono. L’elemento più interessante in questo senso è la netta affinità che lega il giovane seduttore del Complaint alla figura del Fair Youth. In questo senso, è come se Shakespeare si fosse creato uno spazio esterno ai sonetti, e quindi non direttamente dedicato al patrono, in cui poter liberamente rivelare la falsità intrinseca nell’ideale di perfezione descritto nelle liriche indirizzate al Fair Youth. Rivelare, come dice lui, il “verme annidato nella rosa”. Allo stesso tempo, in modo ancora più significativo, Shakespeare usa il Complaint per accusare il processo di metaforizzazione petrarchista, svelando la natura mendace, falsificante e moralmente, oltre che artisticamente, corrotta, della similitudine preziosa propria della lirica tradizionale. E, facendo questo, rivela anche, implicitamente, i limiti della sua stessa poesia al Fair Youth, che proprio su tali similitudini basa tanto della propria potenza espressiva. Questo insieme di elementi ci permette dunque di considerare il Complaint come parte integrante del canzoniere, rassicurandoci anche, in tal senso, sulla bontà dell’edizione di Thorpe.

Il portato rivoluzionario della Dark Lady quale futuro ha avuto dopo Shakespeare nella poesia e nella cultura europee? Quando, dove e in chi ha cominciato a produrre i suoi primi effetti?

Diversamente dai poemetti, il canzoniere di Shakespeare non riscuote un immediato successo, come possiamo facilmente dedurre dal fatto che per diverso tempo non se ne ha alcuna ristampa. L’influenza che esso esercita è dunque, nel periodo immediatamente successivo alla sua pubblicazione, relativamente limitata. Tra i coevi di Shakespeare, l’unico che può forse avvicinarsi al poeta dei sonetti alla Dark Lady è il metafisico John Donne che, in sonetti splendidi seppure per certi aspetti molto diversi da quelli shakespeariani, celebra con forza una nuova concezione dell’amore come esperienza pervasiva e totalizzante, da cui l’amore fisico non è affatto escluso ma è anzi celebrato come punto apicale, soglia attraverso cui l’uomo esperisce l’immensità del creato. Altro poeta di poco successivo a Shakespeare, e nella cui poesia fiorisce meravigliosamente l’influenza cromatica della Dama Bruna, è lo scozzese Lord Herbert of Cherbury, che dedica sonetti molto misteriosi e potenti a una bellezza oscura in cui la luce splende dall’interno delle tenebre.

Con la riscoperta dei Sonnets nel Settecento – grazie principalmente alla famosa edizione di Malone –, e soprattutto in epoca romantica, l’influenza del canzoniere sui poeti europei cresce esponenzialmente, e non solo in ambito anglosassone.

Per concludere, vorrei citare in tal senso uno degli esempi a me più cari e a noi più vicini, ovvero quello di Eugenio Montale, che fu un grande estimatore e conoscitore dei sonetti shakespeariani, e che più volte si lasciò ispirare da essi nella composizione delle sue liriche. Ma, laddove per l’angelica Clizia sono principalmente i sonetti al Fair Youth a porsi come termine di confronto nella descrizione della miracolosa figura della musa, nel passaggio alla figura oscura, sensuale e predace di Volpe scorgiamo invece il segno nero della Dama Bruna. Un mutamento che ritroviamo ad esempio nella poesia Lasciando un Dove, in cui, quasi riecheggiando il sonetto 127, Montale prospetta il passaggio dall’oro al bruno, dal candore della colomba a qualcosa di molto più oscuro e terreno. Un passaggio cioè dal Fair al Dark,dall’aereo e dorato essere angelico, alla Dama Bruna:

Una colomba bianca m’ha disceso
fra stele, sotto cuspidi dove il cielo s’annida.
Albe e luci, sospese; ho amato il sole,
il colore del miele, or chiedo il bruno,
chiedo il fuoco che cova, questa tomba
che non vola, il tuo sguardo che la sfida.

(fasc. 2, 25 aprile 2015)