“Terra matta” di Vincenzo Rabito: un’intervista a Evelina Santangelo

Author di Enzo Fragapane

Evelina Santangelo ha affiancato Luca Ricci1 nella cura redazionale di Terra matta di Vincenzo Rabito (Torino, Einaudi, 2007) a partire dal 2003. Nell’intervista che proponiamo si è provato ad approfondire due elementi peculiari della scrittura di Rabito: l’aspetto linguistico e il valore letterario della sua autobiografia. La scrittrice palermitana, infatti, ha collaborato con il toscano Ricci per dipanare i grovigli sintattico-lessicali del siciliano Rabito, esaltandone l’innato talento narrativo ed espressivo.

Inoltre, si è proseguita l’analisi del lavoro artigianale dei curatori editoriali riferito al caso specifico della riduzione del dattiloscritto Fontazza: lavoro artigianale per cui si è coniata la definizione di «sarti dalla mano leggera», dato che il criterio guida degli interventi redazionali (tagli, divisione in capitoli, paragrafi e capoversi) è stato quello della fedeltà al testo dell’autore, che ha comportato il mantenimento dell’intero percorso biografico di Vincenzo Rabito e della sequenza dei blocchi narrativi della sua scrittura. Il tutto, alla luce del riscontro di pubblico negli anni, si è rivelato funzionale, appunto, a rendere fruibile al lettore non specialista la narrazione magmatica dello scrittore Rabito. Essa aveva già in sé un letto su cui fluire, nonostante la sintassi farraginosa: l’oralità del cuntu siciliano, di quella cultura che accomuna l’Opera dei Pupi e il dialetto dei nonni accostati ai braceri, nei catoi prima, passando per le piazze, i tavolini dei bar, o gli schermi televisivi al plasma di oggi.

Il lavoro redazionale ha avuto, inoltre, l’obiettivo di esaltare la potenza visionaria ed evocativa della scrittura iperbolica di Rabito, i lati veraci del suo carattere, in quella che, prendendo a prestito Barthes, si può definire “impennatura” dell’anima di Rabito.

Gli occhi di Rabito illuminano da un’altra prospettiva la storia d’Italia del Novecento: «la veretà», legata alla sua vicenda autobiografica, va raccontata, perché «Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darraccontare». Vincenzo Rabito lo fa in maniera trascinante, con le sue rabbie, le sue imprecazioni, la sua ironia, il suo sarcasmo: così crea un cortocircuito emozionale parallelo a quello sintattico-narrativo.

Il primo impatto emotivo di Evelina Santangelo «provato dinanzi al dattiloscritto (le 1023 «pagene») è stato un senso di sconcerto». Nel corso dell’intervista alla scrittrice si è cercato di ricostruire come le iniziali «vertigini» da lei dichiaratamente provate si siano tramutate in piacere letterario2.

Qual è stato l’impatto emotivo con Fontanazza?

Ci tengo a precisare che il mio lavoro è cominciato dopo che Luca Ricci aveva realizzato per l’Archivio dei Diari una prima riduzione dell’opera di Vincenzo Rabito. Dunque, all’inizio, quando mi è stato chiesto dalla casa editrice Einaudi un parere sull’opera e sulla possibilità di farne un libro per i tipi Einaudi, mi sono trovata davanti a due testi molto diversi tra di loro: il dattiloscritto originale di Vincenzo Rabito e la versione preparata da Luca Ricci.

Il primo sentimento che ho provato dinanzi al dattiloscritto (le l023 «pagene») è stato un senso di sconcerto. Avevo tra le mani un’opera che mi sembrava il corrispettivo di certe architetture megalitiche e misteriose sopravvissute miracolosamente al tempo. Inoltre, quelle parole scolpite sulla pagina e affastellate in un fiume ininterrotto di caratteri toglievano il respiro, davano le vertigini. Dall’altra parte, avevo l’edizione di Luca Ricci che aveva prediletto un «restauro conservativo» in cui doveva risultare chiaro, di volta in volta, l’intervento esterno. Luca Ricci, infatti, si era mosso con rigore filologico per offrire un’edizione critica che, grazie al sostanzioso apparato di note storiche e glossari a piè di pagina, doveva aiutare il lettore a orientarsi in quella lingua e in quello spaccato di storia nazionale calato nelle vicende quotidiane di una storia individuale.

Leggere la versione di Ricci è stato fondamentale per farmi un’idea generale dell’opera e delle sue potenzialità. Certo, in quella prima fase non avevo ancora chiara la strada che avrei percorso. Sapevo soltanto che avrei dovuto trovare probabilmente una terza via, facendo tesoro del lavoro di Luca.

Quali sono state le difficoltà del lavoro redazionale? E l’esperienza in tandem con Luca Ricci dal 2004?

Come spiegavo prima, il lavoro mio e quello di Luca si sono svolti in due fasi diverse. Luca ha lavorato fondamentalmente a una prima versione, la versione appunto che il presidente dell’Archivio dei Diari, Saverio Tutino, ha portato all’Einaudi. Il mio lavoro invece è iniziato quando in casa editrice si è cominciato a pensare alla possibilità di inserire l’autobiografia di Vincenzo Rabito nella collana dei «Supercoralli». Per far questo, bisognava comprendere però con precisione due cose: 1) se si trattava davvero di un capolavoro destinato solo alla «delizia» dei linguisti, di un capolavoro cioè che (come aveva dichiarato un membro della giuria del Premio Pieve) nessuno avrebbe mai potuto leggere per via dell’asprezza della scrittura e del disordine narrativo; 2) se accanto all’indiscusso valore linguistico, storico e testimoniale, l’opera di Rabito aveva anche una forte dimensione narrativa e un peculiare valore letterario.

Per quanto avessimo idee diverse sul destino del testo, poiché Luca privilegiava l’aspetto filologico e storico, mentre io mi convincevo sempre di più del valore letterario del libro (con la responsabile della narrativa italiana, Paola Gallo, pensavamo infatti che Rabito potesse meritare un ruolo di spicco anche nella storia della letteratura italiana), su un punto eravamo assolutamente d’accordo: il libro si sarebbe fatto solo se fosse stato possibile non stravolgere il testo, rispettandone la sostanza linguistica e individuandone con chiarezza la portata narrativa. In questo senso, per quanto abbia lavorato per tre anni quasi in solitario, in un corpo a corpo con l’opera di Vincenzo Rabito, ho sempre tenuto conto del lavoro pregresso e fondamentale di Luca Ricci (a lui, per esempio, si deve la suddivisione in capitoli che io ho solo ampliato e reso narrativamente più corposi), così come del suo parere riguardo ad alcune scelte relative alla leggibilità: scelte ortografiche, sintattiche, grammaticali. Era infatti necessario trovare un giusto equilibrio tra fedeltà all’originale e accessibilità al testo, e, nei casi più controversi, il confronto è stato imprescindibile, soprattutto alla fine, quando ho fatto leggere a Luca la versione finale cui ero pervenuta.

Determinante è stata infine la presa di posizione di entrambi circa la necessità di tenere nel testo anche quelle parti (come la scena dello stupro di una ragazza di Pilanina durante l’occupazione della Slovenia Occidentale o l’assassinio di un sergente da parte di un soldato durante la Prima Guerra Mondiale) che potevano creare non pochi problemi di ordine legale, ma che avevano un indiscutibile valore storico e narrativo. In casi come questi (così come per i diversi attacchi ad personam presenti nel libro) si è deciso di modificare i nomi e a volte anche i luoghi, lasciando però la sostanza dell’evento. Dunque, ad esempio, molti dei soprannomi che si leggono nel libro sono frutto della mia immaginazione, ma di un’immaginazione che ha cercato di riproporre il senso e la sonorità dei soprannomi originali.

Quale il metodo seguito per fare breccia in ciò che lei definisce: «muro di parole»?

Il metodo fondamentale è stato uno: leggere con la massima attenzione il dattiloscritto, con un atteggiamento di ascolto, senza pregiudizi o supponenza, la supponenza dei «colti» dinanzi ai «semicolti» o ai «semianalfabeti».

In genere, opere di questo tipo vengono definite «scritture semicolte»: per quel che mi riguarda, non ho mai pensato all’opera di Vincenzo Rabito in questi termini. Ho piuttosto avuto quasi subito la sensazione di trovarmi di fronte a una narrazione il cui autore stava compiendo un gesto molto simile a quello che compie qualsiasi scrittore che si possa legittimamente definire tale. In questo senso, vorrei ricordare alcune considerazioni di Daniele Del Giudice sul fare letterario.

Secondo Del Giudice, la narrazione serve a produrre degli effetti che sono innanzitutto emotivi, di commozione, di movimento nell’anima e nei sentimenti del lettore: una costatazione che si applica sicuramente alla dote narrativa di Rabito. Ma Del Giudice dice anche un’altra cosa, e cioè che in letteratura «lessico e sintassi sono sempre strumenti della lotta col linguaggio», e, a ben guardare, Rabito per tutto il tempo non fa altro che lottare ostinatamente, furiosamente con il lessico e la sintassi che conosce, che ha imparato a conoscere (non diversamente da qualsiasi scrittore, al di là della propria più o meno raffinata competenza linguistica) per evocare sulla pagina in modo esatto (in termini percettivi e affettivi) un mondo e un modo di vederlo e sperimentarlo tutt’altro che ovvio.

Dunque, è stato proprio ascoltando la voce di Rabito, il suo flusso narrativo, la sua sonorità, la sua dimensione orale, che pian piano ho interiorizzato la sua lingua, il suo immaginario. Quando è accaduto questo, il resto delle scelte è venuto di conseguenza.

Trovate le «chiavi di accesso» per dialogare con Vincenzo Rabito, quali criteri per scegliere/tralasciare le parti del dattiloscritto da riplasmare in Terra Matta?

Durante il lungo lavoro di cura ho cercato sempre di evitare scelte pregiudiziali o precostituite; ho piuttosto cercato di trovare nel testo stesso le linee guida del mio lavoro. Così, leggendo e rileggendo il dattiloscritto, mi sono accorta che, in quell’autobiografia apparentemente così caotica e affastellata di eventi, a volte anche minuti, cronachistici, accadeva quel che, in realtà, accade spesso a molti scrittori in fase di stesura: nel momento in cui Vincenzo Rabito si ritrovava a raccontare eventi di grandissima risonanza interiore, o comunque vicende di cui sentiva la portata emblematica o la necessità in termini di comprensione umana (comprensione del suo personale percorso esistenziale così come di quello collettivo), la sua scrittura all’improvviso si condensava, dando esito a soluzioni espressive e narrative di istintiva potenza. E quando dico «istintiva» non escludo affatto che Rabito lavorasse le parole nel tentativo di farle aderire il più possibile alle cose che intendeva narrare con la determinazione di chi sa che la sfida è tutta lì, nel ritmo, nell’incastro delle parole, nel tono (ora tragico, ora comico, ora grottesco, ora furente, ora umanamente commosso), nella sostanza umana che riescono a evocare. Forse per questo, a volte, nel testo dattiloscritto c’è un rovello rabbioso, labirintico, prima che si arrivi a quelle che più volte ho chiamato «radure espressive» e «radure narrative».

All’inizio pensavo che il testo fosse dunque composto così: momenti farraginosi, labirintici e «radure». Poi, però, ho riscontrato in modo abbastanza sistematico che quelle accensioni espressive e quegli scioglimenti narrativi, nel momento in cui riaffioravano tra continue derive e avvitamenti, di fatto riprendevano come un filo sotterraneo che attraversava la narrazione, andandosi a saldare con altre vicende già narrate, innestandosi in filoni portanti del racconto e in aspetti profondi della psicologia dell’io-narrante che coincidevano quasi sempre con oasi di forte espressività.

Di questa continuità mi sono resa conto sino in fondo e nel suo insieme solo a posteriori, giustapponendo gran parte delle sezioni individuate, mentre molte delle sezioni eliminate erano spesso ripetizioni confuse o più opache di quanto già detto o di quanto sarebbe stato detto in seguito.

A parte un solo caso (2007, pp. 142-143), in cui ho rimontato un’intera vicenda prendendo pezzi disseminati in più pagine nel tentativo di non perdere il racconto di una circostanza significativa accaduta durante i giorni in cui Rabito era stato chiamato a difendere il Palazzo Vecchio di Firenze dai «comuniste», il mio è stato soprattutto un lavoro di riconoscimento di un percorso e di uno sviluppo che era già, in verità, all’interno del testo: un percorso che s’inabissava e riaffiorava come un fiume carsico.

Qual era la missione affidatale dall’Einaudi?

Non mi è stata data una «missione» vera e propria. Sicuramente però hanno giocato un ruolo determinante, anche per la scelta stessa di pubblicare il testo, quelle prime considerazioni riguardo alla natura letteraria del testo. Da questa prima e intuitiva consapevolezza infatti ha cominciato a farsi strada l’idea che il lavoro degli anni successivi ha reso ancora più solida: quell’opera aveva certamente un inestimabile valore testimoniale, storico, linguistico, sociologico; era la manifestazione non mediata di un’intelligenza acuta, capace di raccontare pagine anche note di storia nazionale come mai erano state narrate, aprendo squarci inediti su alcuni aspetti del carattere nazionale degli italiani; ma era anche una delle espressioni più alte e complesse di un talento affabulatorio prepotente, per quanto farraginoso, digressivo, sconnesso, che non poteva essere presentato soltanto come uno dei tanti esempi di letteratura popolare o semicolta di stampo memorialistico. Bisognava quindi dare una nuova vita all’opera di Rabito senza tradirla, ma esaltandone le doti e le ragioni, che non coincidevano affatto con l’idea di una scrittura privata: diversamente non si comprenderebbe intanto il perché di una tale lotta contro i propri limiti a fini espressivi.

Credo che la consapevolezza di trovarmi davanti a un testo che aveva un tratto di autorialità spiccato mi abbia messo al riparo dalla tentazione di far pesare le mie competenze linguistiche e la mia dimestichezza con la narrazione e la scrittura d’invenzione, che avrebbero finito per normalizzare la lingua di Rabito. Dovevo a tutti i costi conservare la sua capacità di ire fecondissime, ironie, sarcasmi, intelligenza e doti affabulatorie non indifferenti, espressa nella sua lingua letteraria inimitabile.

La narrazione nel dattiloscritto seguiva sempre il criterio cronologico? Vi erano salti temporali?

Come spiegavo prima parlando del lavoro di riconoscimento di quelle che ho chiamato «radure narrative», ho sempre cercato di lasciare che a guidare le scelte fosse il testo, di seguire l’andamento cronologico della storia così come Rabito la stava raccontando, concentrando l’attenzione su quei passaggi che all’autore stavano particolarmente a cuore, e su cui in modi e momenti diversi spesso ritornava: la questione della «casa rotta» ereditata dalla suocera e, in genere, il desiderio perenne di costruirsi un tetto con le proprie mani ovunque si venisse a trovare; la questione dell’ossessiva ricerca di lavoro o di come sbarcare il lunario; il motivo ricorrente della sua pervicacia nell’acquisizione di competenze che gli potessero permettere di migliorare la sua posizione socio-economica; l’amore per la madre; il desiderio di riscatto attraverso lo studio dei figli.

Man mano che ritornavo sul dattiloscritto e sulle parti che andavo selezionando, mi rendevo anche conto che Rabito, narrando la sua vicenda umana così innestata nel corpo della grande Storia, stava anche restituendo un’immagine di sé ispirata a modelli ben precisi che andavano dal Guerin Meschino, al Conte di Montecristo, all’Opera dei Pupi. Si trattava di una lenta tessitura d’identità che bisognava tenere in considerazione e che spiegava, ad esempio, la cura con cui quest’io-narrante si soffermava su eventi in apparenza irrilevanti, talmente modesti nel loro respiro narrativo da passare inosservati alla prima lettura.

Il racconto dell’ostinazione con cui, in uno dei suoi mille lavori, questo bracciante semianalfabeta avvezzo all’arte di arrangiarsi cerca di imparare a guidare un trattore ne è un esempio evidente. Il modo in cui la narrazione si articola, la precisione del dettaglio narrativo, umano, psicologico, la pervicacia con cui Rabito cerca di restituire l’intera vicenda nel suo esito disperatamente grottesco fanno di quel micro evento (come di tutti quei micro eventi in cui, ad esempio, racconta le sue peripezie con la casa «rotta» della suocera, oggetto di un lavoro certosino di ricostruzione nell’edizione Einaudi) qualcosa di più che uno dei mille aneddoti di cui è disseminata una vita. Dietro la determinazione con cui Vincenzo Rabito cerca di imparare a guidare il trattore rischiando di rompersi l’osso del collo, dietro l’ostinazione con cui – anni dopo – rievoca senza ingenui abbandoni quell’evento, dandogli forma e sostanza narrativa, si annida, a ben guardare, uno degli aspetti portanti della vita stessa di questo bracciante-cantoniere, e della sua autobiografia: il rapporto tra tenacia e malasorte. La tenacia del protagonista e dell’uomo Rabito contro la malasorte, nella malasorte, nonostante la malasorte. La malasorte di non saper guidare un trattore e poter avere un posto di lavoro migliore; la malasorte di essere carne da macello in guerre spaventose; la malasorte di trovarsi sempre in balia dei potenti quasi per condanna di nascita; la malasorte di essere semianalfabeta. Quella malasorte che Rabito fronteggia con lo stesso coraggio, curiosità e irriducibilità che lo hanno portato in età avanzata a imparare a usare uno degli strumenti di scrittura più sofisticati del suo tempo per scrivere la propria storia.

Spesso quelle radure, dunque, dove mi sembrava di poter riconoscere un’indiscutibile forza narrativa, erano anche i luoghi in cui la portata delle cose raccontate andava ben al di là dell’aneddoto o della cronaca, toccando punti focali, fondativi, se non addirittura le fondamenta stesse su cui si era plasmata prima l’esistenza reale di Rabito e poi la vita così come egli stesso l’aveva voluta restituire e rievocare con lucidità, consapevolezza, ironia, e con la rabbia di chi non si dà mai per vinto.

Così, ho sempre cercato di restituire anche il livello di «focalizzazione» con cui Rabito raccontava gli eventi. Certo, nel libro edito da Einaudi ci sono salti temporali molto più spiccati rispetto al dattiloscritto, ma spesso si tratta di vicende molto secondarie e narrate in modo confuso, vicende tra l’altro spesso riprese in seguito e raccontate con più acume nel corso della narrazione.

In un’altra intervista sottolineava l’esigenza di scovare nel testo «link per isolare micropassaggi narrativi» e per poi «cucire le radure narrative», i macrotesti. Ci incuriosisce il dettaglio: può fare degli esempi dall’esperienza redazionale di Terra Matta?

Per spiegare come ho lavorato sui «link», devo fare una premessa fondamentale e apparentemente peregrina. Con le pagine dedicate all’Africa (2007, pp. 195-219) – quel miserabile deserto dove Vincenzo Rabito finisce un po’ per caso, un po’ per ingenuità, un po’ per non-rassegnazione al proprio destino, un po’ per la disonestà di chi comanda, e un po’ soprattutto per quella malasorte che non gli dà mai tregua – affiora nell’autobiografia un tema che nel corso della scrittura si farà sempre più ossessivo: l’importanza vitale di possedere o farsi una casa in cui poter abitare, una casa realizzata con le proprie mani, il proprio talento, la propria irriducibilità.

Non c’è luogo inospitale in cui Rabito non provi a costruirsi la sua capanna, con tanto di tavolino e sedie, o a coltivare un quadratino d’orto. Non c’è questione che lo angosci di più, una volta tornato in patria. Sono un’infinità e molto contorte (nel dattiloscritto) le pagine dedicate alla casa ereditata dalla moglie, che gli costerà un occhio della testa ristrutturare tra mille beghe, intralci e fallimenti. Non c’è paese in cui Rabito non cerchi di edificare un tetto anche immateriale, un luogo cioè in cui abitare a pieno titolo, magari anche provando a imparare una nuova lingua, come gli accade nella Germania già attraversata dai venti di guerra. Fatto di grandissima rilevanza per chi, come questo bracciante, sconta un semianalfabetismo cui non si rassegnerà mai e che cercherà di compensare anche attraverso gli studi dei figli. Non c’è infine orgoglio maggiore per il Rabito-cantoniere (insieme alla «riuscita» dei figli) che poter finalmente comprare una casa come si deve, adeguata alla sua nuova condizione socio-economica. Aver riconosciuto questo tema portante e l’ossessività con cui Rabito vi ritorna, declinando il motivo della casa in gesti anche molto diversi fra loro ma tutti caratterizzati dalla ricerca sistematica di un luogo dover poter abitare (poco importa se si tratti di un tetto o di una lingua), mi è stato di molto aiuto per decidere come avrei collegato i brani selezionati.

Mi sono chiesta: cosa rappresenta, in fin dei conti, per Rabito quest’autobiografia capace di contenere un’intera vita e darle senso? Perché un uomo così riservato ha messo tanto furore e tanta ostinazione nel rievocare con una memoria così implacabile la sua esistenza? Perché, sfidando i suoi limiti, ha cercato di darle una dignità letteraria e linguistica? Perché ha rilegato con tanta cura quei fogli? Certo, non poteva mai immaginare il successo editoriale riservato alla sua autobiografia, ma sicuramente immaginava dei lettori.

Non fa mai riferimento a dei lettori specifici, ma garantisce la «veretà» delle cose che narra «magare che si capisce poco», sottolinea quanto conti la qualità di una vita per arrogarsi il diritto di raccontarla («Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darraccontare»). Dunque, tornare su quell’autobiografia, giorno dopo giorno per anni, significava probabilmente raccontare sino in fondo e in tutta la sua verità non a se stesso ma agli altri, a chiunque avrebbe avuto la possibilità di leggere il suo dattiloscritto, una vita avventurosa, che sapeva degna di essere narrata e che, diversamente, sarebbe andata perduta. Se quell’autobiografia per Rabito non fosse stata in un certo senso la «casa ultima» della sua vita (o forse l’unica che gli era dato abitare a pieno titolo), non si capirebbe l’ostinazione con cui evocava ogni passaggio della sua esistenza, né la ricerca ossessiva di parole capaci di dar voce a quel che rischiava di andare perduto: le avventure o disavventure, i tratti umani e psicologici, l’acume dei giudizi storici, i desideri, le conquiste, le disillusioni, insomma l’intera esistenza, per di più anche un po’ romanzata, di un uomo oscuro che non era mai riuscito a raccontarsi sino in fondo nemmeno ai propri figli.

Quando ho intuito che quel testo era una sorta di ultima dimora in cui Vincenzo Rabito aveva cercato con tutte le sue forze e la sua verve di dar forma, durata e senso alle vicende disperse della sua esistenza, ho capito anche come avrei dovuto cucire le sezioni narrative che avevo individuato: avrei dovuto star sempre un passo indietro rispetto al perimetro della storia, cercando di far sentire il meno possibile la presenza di un curatore, muovendomi con discrezione, affidandomi a un lavoro di microchirurgia, ricucendo cioè i pezzi con passaggi o snodi presenti già nel testo. Sarebbero stati quei passaggi e quegli snodi a portare il lettore da una «radura» all’altra, senza dover ricorrere a fastidiose o macroscopiche interferenze del curatore sotto forma di riassunti o spiegazioni. La voce insomma che doveva arrivare ai lettori doveva essere il più possibile quella di Vincenzo Rabito.

Lei sostiene di essere stata letteralmente «rabitizzata». Quali sono le peculiarità della lingua «rabitese»?

La lingua di Rabito è fatta di una certa quantità di parole chiave che variano nel tempo e che vengono combinate dall’autore in modo diverso, a seconda di due fattori fondamentali: la natura delle cose che sta narrando e la sua competenza linguistica, su cui spesso si sente l’influsso dei contesti linguistici con cui Rabito man mano viene a contatto. Nelle pagine in cui racconta della Grande Guerra, ad esempio, si sente moltissimo l’influsso del gergo militare o di un certo linguaggio burocratico che Rabito doveva aver scoperto proprio in quegli anni. Tanto Rabito lavora sulle parole (orecchiate, imparate, storpiate, forzate nel loro valore semantico per una sorta di istintivo bisogno di esprimere in modo esatto e comprensibile vicende, pensieri e sensazioni), tanto invece la sua sintassi è schematica, ripetitiva. La sua ricchezza è dunque più lessicale che sintattica, tanto più che doveva avere ben chiaro in testa il modo di raccontare dei «cuntisti», dei grandi narratori orali della tradizione siciliana. Il suo è sostanzialmente un flusso narrativo che varia nel ritmo, nel volume, nel tono. Un flusso, di cui bisognava in ogni modo restituire l’andamento e la voce, appunto. Anche per questo abbiamo scelto infine di eliminare ogni segnalazione di lacuna o integrazione con le parentesi, utilizzando solo qualche volta un segno meno invasivo come il corsivo.

Una volta che si era deciso di privilegiare le qualità narrative, il talento affabulatorio di questo bracciante, la sua capacità di suscitare emozioni attraverso registri, ritmi, toni diversi, sarebbe stato incoerente disseminare il testo di segni e indicazioni che tra l’altro rimandavano a un altro testo di cui nessun lettore – a parte i linguisti e i filologi ‒ avrebbe di fatto sentito la mancanza. Indicazioni rigorose di tagli e integrazioni, ampi apparati di note storiche o linguistiche, piccoli interventi in italiano per sintetizzare un passaggio mancante (funzionali a esigenze di rigore filologico, linguistico, storico) avrebbero interrotto il flusso bulimico che caratterizza il modo di narrare di questo bracciante e tradito nella sostanza più profonda quello spirito affabulatorio che aveva dato vita a un cuntu fluviale di cui si voleva restituire anche l’irruenza.

Come avete trovato l’equilibrio tra leggibilità, fedeltà allo spirito dell’autore, interventi redazionali, rispetto del pubblico destinatario? Si sente “sarta dalla mano leggera”?

Nella sua versione Luca Ricci aveva fatto una scelta molto conservativa e rigorosamente filologica: niente segni diacritici (accenti, apostrofi); agglutinamenti e separazioni tra le parole riportati in modo puntuale; ogni ricostruzione lessicale o sintattica segnalata, così come le lacune e le integrazioni. Tutto ciò non solo comprometteva la leggibilità ma poneva una questione ancora più ampia e complessa, che abbiamo a lungo sviscerato nelle nostre discussioni e che potrei sintetizzare in questi termini: lasciare il testo privo di accenti e apostrofi, restituire fedelmente tutte le incongruità ortografiche (alcune delle quali, tra l’altro, non era chiaro se si dovessero attribuire all’uso della macchina da scrivere o alle competenze specificatamente linguistiche dell’autore), segnalare ogni singola integrazione e lacuna con parentesi tonde e quadre significava sostanzialmente un rifiuto di scegliere se fare di Terra matta un testo destinato ad addetti ai lavori o invece un’opera narrativa leggibile anche da un pubblico più vasto. Per risolvere questo dilemma, con l’aiuto di Paola Gallo e di Mauro Bersani (responsabile dei «Classici Einaudi»), ci siamo trovati d’accordo sul fatto che il nostro compito non era quello di esibire i limiti di questo bracciante siciliano «inafabeto» in termini di competenza linguistica riguardo alle norme che regolano la parola scritta, ma piuttosto quello di cercare di restituire la sua voce, la percezione orale che Rabito ha delle parole. Non c’è alcun dubbio, ad esempio, che se Rabito scrive «cosi» invece di «così», quel che pensa di star scrivendo è «così», non «cosi».

Riguardo poi, ad esempio, alle diverse ricorrenze della parola «lavoro», che nell’originale qualche volta si presenta nella forma «la voro» in cui la parte iniziale sembra essere percepita dall’autore come un articolo, è molto probabile che la forma separata sia dovuta a un errore di battitura, al fatto di scrivere con un mezzo che Rabito stava imparando a conoscere o di cui sconosceva alcune funzioni.

Quindi nella nostra edizione a volte la parola «lavoro» è fusa con l’articolo («allavoro») ma non ricorre mai in quella forma («la voro») proprio perché Rabito aveva un’esatta percezione dei confini del termini. In questo senso ci siamo comportati, in verità, nel modo che Saverio Tutino raccomandava alle giurie dell’ADN: ascoltare la voce che anima il testo.

Credo dunque di essere stata una sarta che ha cercato di farsi guidare da un principio portante: «intelligere il testo», cioè comprenderne le ragioni più profonde e, anche a costo di commettere errori, cercare di rimanere fedele a questo principio. Per questo motivo si è deciso di affidare a una nota (2007, p. vii) le osservazioni relative agli aspetti più strettamente connessi alla competenza linguistica (grammaticale, ortografica), ma di mantenere nel testo tutte quelle sgrammaticature, distorsioni ortografiche e lessicali, asintatticismi, errori che rimandavano o potevano rimandare a una significazione più profonda: sia riguardo alla natura dell’esperienza che Rabito stava evocando (come nel caso di «tintura di odio» o «fuoche alte ufficiale») sia riguardo alla percezione stessa della lingua e dei significati che Rabito andava sviluppando nel corso della sua vicenda esistenziale e della sua esperienza di scrittura (uso alternato di «onesta mente» e «onestamente», o ancora uso di espressioni come «sottoscritto» o «sotto scritto» prese in prestito dal gergo burocratico, espressioni che non sono semplicemente errori di competenza linguistica, ma dicono moltissimo in termini di senso, di modo di intendere una certa parola).

Qual è il segreto di Terra Matta? Le avventure della vita di Rabito? La sua verve narrativa? Il fatto che un semianalfabeta costruisca una città-labirinto di parole? Il Novecento visto con gli occhi di Vincenzo Rabito che diviene letteratura?

Sono tutte queste ragioni messe insieme che fanno di Terra Matta un piccolo significativo miracolo, rendendo questo testo, a mio avviso, unico e imprescindibile.

Una curiosità: è sua la prefazione a Lasciato nudo e crudo, dell’altro siciliano Castrenze Chimento, autobiografia fatta di sofferenze, fame, disperazione, violenza. Chimento, vincitore a Pieve, analfabeta fino a 74 anni, scrive in modo «pulito»: i congiuntivi sono al loro posto. Possibile? Chimento ha imparato alla perfezione l’italiano standard? È stata pesante la mano redazionale in quel caso?

Non ho curato io il testo di Castrenze Chimento, dunque non so come si sia lavorato in quel caso. Quel che mi risulta è che dietro la scrittura di Chimento c’è un lungo apprendistato in cui l’autore è stato seguito da una professoressa che credo gli abbia dato un grande sostegno.

  1. Cfr. «Diacritica», a. I, fasc. 1, 25 febbraio 2015, pp. 99-106.
  2. Ci si è confrontati per la prima volta con Evelina Santangelo su Rabito e su Terra matta in occasione della stesura della tesi di Laurea magistrale in “Editoria e scrittura” (cattedra di “Storia dell’editoria”) su «Terra matta»: caso editoriale sincretico (discussa il 27 marzo 2014 presso la Sapienza Università di Roma, relatrice prof.ssa Maria Panetta e correlatore prof. Carlo Serafini); l’intervista qui pubblicata è del 7 aprile 2015.

(fasc. 2, 25 aprile 2015)