La vita di Vincenzo Rabito per tutte le vicende che l’hanno caratterizzata si presta di per sé alla trasposizione filmica. In più, per il fatto che il suo autore è stato attore protagonista delle vicende storiche del Novecento, l’autobiografia di Vincenzo Rabito non poteva che essere resa in un documentario. Da qui nasce il docufilm terramatta; prodotto da Chiara Ottaviano, per la regia e co-sceneggiatura di Costanza Quatriglio. Il cinema riesce a trasmettere, con l’ausilio di immagini, suoni, volti e voce narrante, tutto il carico emozionale della vicenda umana di Rabito; tutta la voracità e ferocia della sua lotta per la sopravvivenza: dalla morte nella trincea della Prima guerra mondiale alla vita negli anni a venire. Il tutto affrontato con sarcasmo e auto-ironia. Per non cedere mai. Per farcela sempre: al di là dei vari contesti, spesso avversi, che fanno da frame alle sequenze e alle inquadrature della vita. Se per Hitchcock «Il dramma è la vita con le parti noiose tagliate», la vita di Vincenzo Rabito è fin troppo densa per risultare noiosa.
Chiara Ottaviano, oltre a essere la produttrice e co-sceneggiatrice del docufilm terramatta;, ha fondato Cliomedia Officina, società che opera nel settore dell’industria culturale allo scopo di unire la ricerca storiografica ai media di vecchia e nuova generazione. È, infatti, una storica, saggista e docente. Nel 2013 ha fondato l’Archivio degli Iblei per dare il proprio fattivo contributo intellettuale e umano a quella Sicilia che lasciò trent’anni fa per trasferirsi a Torino. In questa intervista abbiamo discusso con lei, in particolare, delle specificità insite nella trasposizione dal testo scritto alla scrittura per il cinema.
Come e perché è approdata a Rabito e a Terra Matta?
La prima volta che ho sentito parlare di Terra matta, il volume pubblicato da Einaudi era ancora fresco di stampa. Fu mio padre, ormai molto anziano, a darmi notizia di un’interessante recensione pubblicata sul principale quotidiano nazionale, il “Corriere della Sera”. Ciò che lo aveva colpito era che l’autore recensito, Vincenzo Rabito, fosse un signore di Chiaramonte, il paese dove anche lui era nato. Non esitai ad acquistare il volume, incuriosita e rassicurata dall’autorevolezza del recensore, ma soprattutto pensando di avere, così, un argomento in più con cui intrattenere mio padre al telefono.
Ricordo un episodio tanto personale non per dare spazio a un inopportuno sentimentalismo quanto piuttosto per riconoscere alla sfera affettiva uno spazio non insignificante fra le motivazioni che mi hanno sostenuto nell’intraprendere e, poi, nel perseguire una pluralità di progetti che hanno tutti avuto origine dalla lettura di Terra matta, il racconto autobiografico dell’umile cantoniere nato e per larga parte vissuto in un angolo della Sicilia sud-orientale da cui anch’io provengo. Assieme agli affetti riconosco motivazioni più strettamente legate ai miei interessi culturali (la ricerca storica) e professionali (la comunicazione e la produzione di contenuti culturali) nonché ad aspirazioni di ordine ideale. In altre parole, l’obiettivo di far conoscere quel testo al maggior numero possibile di persone scaturiva da un intreccio di motivazioni che hanno intimamente a che fare con buona parte della mia storia personale.
Quali obiettivi si è posta nella trasposizione in sceneggiatura di Terra matta?
Il mio augurio era quello di riuscire a suscitare nel pubblico dei non specialisti, attraverso il racconto cinematografico, un certo interesse per il nostro passato, diminuendo lo iato, che a me pare sempre più significativo, fra la ricerca storiografica e il senso comune diffuso fra gli italiani. Il problema principale non consiste, infatti, nella contrapposizione fra la cosiddetta “memoria familiare”, che presuppone comunque una disponibilità all’ascolto, e la cosiddetta “memoria ufficiale”, appresa sui banchi di scuola in libri di testo spesso adeguatamente aggiornati, ma in una più generale indifferenza verso la conoscenza del passato. Non è più condivisa, come un tempo, l’idea che la storia possa essere di qualche utilità alla comprensione del presente e tanto meno alla prefigurazione di futuro. L’atteggiamento verso il passato che mi sembra oggi prevalere, quando non è un vago sentimento nostalgico, è una sorta di scetticismo, soprattutto fra le generazioni dei giovani, fondato sull’idea di un eterno presente: ieri come oggi, illusioni e speranze tradite, virtù e vizi che si ripetono, privilegi e ingiustizie per le quali solo gli ingenui si scandalizzano etc. È questo, a mio parere, uno degli aspetti di decadenza che contraddistinguono l’Italia di oggi. Il racconto di Rabito fa capire come profondamente sia cambiato il nostro paese nel corso del Novecento, non solo rispetto alla vita materiale o alle contingenti politiche, ma anche rispetto alle mentalità, ovvero al modo come la gente “comune” ha pensato e ha operato, ha desiderato e combattuto pur all’interno di limiti e costrizioni. Può sembrare una sorta di “ossimoro”, ma la straordinarietà della storia di Rabito è quella di essere simile a quella di tantissimi altri italiani.
Quali criteri ha utilizzato per la selezione dei temi per la sceneggiatura?
Quando ho cominciato a lavorare per la sceneggiatura, avevo ben chiari due criteri. Il primo era la scelta di privilegiare le pagine in cui l’autobiografia di Rabito s’intreccia con momenti fortemente riconoscibili della storia d’Italia, fornendo occasione per riflessioni su temi e questioni non marginali e tralasciando, pur a malincuore, magari pagine molto divertenti come, per esempio, quelle sull’interminabile conflitto con la suocera e la moglie. Tale indirizzo è stato reso esplicito nel sottotitolo del film, Il Novecento italiano di Vincenzo Rabito analfabeta siciliano, presente già nei primi progetti.
Il secondo è stato quello di selezionare quegli episodi che potessero essere visivamente supportati da immagini d’archivio. Conoscevo in modo approfondito buona parte del patrimonio dell’Archivio Luce per l’esperienza accumulata nella realizzazione di precedenti opere multimediali e film documentari e questa competenza mi è stata essenziale nella selezione dei brani testuali; sapevo, infatti, su quali temi si potesse fare ricerca con successo e su quali, invece, era meno probabile un esito positivo.
Ha dato, dunque, indicazioni precise nella ricerca del materiale d’archivio?
Per alcuni filmati ho dato indicazioni di sequenze specifiche come, a proposito della Prima guerra mondiale, per le scene tratte dai filmati di Luca Comerio, cineoperatore al seguito dell’Esercito Italiano (custoditi nella Cineteca del Friuli e confluiti anche nel film Gloria dell’Istituto Luce), per le scene tratte da La battaglia del Piave, realizzato dal Reparto cinematografico dell’esercito italiano o per gli spezzoni che documentano il passaggio del treno che trasportava a Roma i resti del Milite ignoto.
Per il periodo fascista e la guerra d’Africa c’era solo l’imbarazzo della scelta, giacché il Luce era l’istituzione destinata esplicitamente alla propaganda cinematografica. Nel suo archivio sono enfaticamente documentati tutti i viaggi di Mussolini, comprese le visite in Sicilia e a Ragusa, mentre per l’avventura coloniale fu istituito uno specifico reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale. La natura di quei filmati di propaganda sarebbe emersa con evidenza se fossero stati accostati alle parole di Rabito, così concrete e così lontane da ogni forma di fasulla retorica.
Ho avuto, invece, difficoltà, non superate, nel dare indicazioni su immagini d’archivio relative all’industria mineraria in Germania dove Rabito, fra il 1940 e il 1942, andò volontariamente a lavorare assieme a tanti altri italiani. In effetti, è questo un aspetto del passato su cui è particolarmente carente la documentazione d’archivio, compresa quella cartacea. Di facile soluzione, invece, la documentazione relativa allo sbarco degli americani e all’avanzata in Sicilia per la possibilità di utilizzare i filmati girati durante la campagna d’Italia dagli operatori della Quinta Armata americana noti come Combat Film.
Sempre riguardo all’Archivio Luce, c’è stata una larga possibilità di scelta per le immagini della ricostruzione nel dopoguerra e sono sufficientemente documentate cinematograficamente anche le prime elezioni in età repubblicana. Molto meno rilevante è, invece, la documentazione del Luce sui movimenti studenteschi degli anni Sessanta. Gli altri archivi che hanno fornito le immagini sono l’AAMOD (Archivio audiovisivo del Movimento Operaio) e la Cineteca della Regione Siciliana a Palermo.
Il cinema è un mix di linguaggi: scrittura, sonoro, immagini. In terramatta;, Roberto Nobile, voce narrante di Vincenzo Rabito, è in voice over. Èper rendere merito alla narrazione, alla scrittura di Vincenzo Rabito?
Nel gennaio del 2008, dal 18 al 20, ho partecipato al Convegno promosso dalla municipalità di Chiaramonte Gulfi sull’avventura del testo di Rabito. In quell’occasione ho ascoltato Roberto Nobile leggere pubblicamente Terra matta e ne sono rimasta affascinata per la naturalezza e la capacità interpretativa: Roberto non solo leggeva con la giusta cadenza, perché anche lui appartiene allo stessa area geografica, ma sapeva cogliere magistralmente le sfumature ironiche, sapeva restituire tutta l’intensità senza ricorrere all’invettiva urlata. Quello non è un testo da far interpretare come si trattasse di una maschera popolare.
È stata, invece, una scelta di regia, che si è rivelata vincente, quella di non far mai vedere il volto del narratore. In realtà, in fase di sceneggiatura era stata prevista una lettura pubblica nell’affollato Circolo di conversazione di Chiaramonte. Di quelle riprese, durate due giorni, sono state usate solo poche scene nel montaggio finale ed è stato fatto un extra per il dvd.
Filo conduttore del docufilm è la dialettica tra passato e presente. Continua è l’alternanza tra immagini d’archivio dell’Istituto Luce e mondo contemporaneo. Possiamo definire terramatta; un viaggio nello spazio e nel tempo?
Una forte dialettica fra passato e presente era stata pensata in fase di sceneggiatura, immaginando una più complessa partecipazione di giovani, donne e uomini del paese di Chiaramonte. A tal fine, in vista delle riprese erano stati realizzati numerosissimi provini. Quell’ipotesi è stata, poi, abbandonata e si deve alla scelta di regia, decisamente più originale, il montaggio finale con l’alternanza a cui fa riferimento.
Oggi politica e opportunismo vanno a braccetto. Banfield in sociologia lo ha definito «familismo amorale». Ci spiega l’insegnamento morale nei «cambi di bandiera» necessari di Vincenzo Rabito?
Ho apprezzato moltissimo le motivazioni del premio Civitas che è stato assegnato a terramatta; in cui si parla della «preziosa eredità della longevità: non un exemplum morale a senso unico, ma un ineludibile chiaroscuro etico, da cui trarre gli insegnamenti per non compiere gli errori dei padri e dei nonni». È importante, prima ancora che giudicare per esaltare o condannare, riuscire a capire e a comprendere.
L’autobiografia di Rabito non è un’autobiografia “di facciata”. In effetti, i comportamenti descritti da Banfield sono per buona parte quelli di Rabito, che ha sempre anteposto le necessità della propria famiglia all’astratto principio del rispetto delle regole o a fedeltà ideologiche o di partito. Ma proprio la lettura di Terra matta, offrendoci un punto di vista interno rispetto a quei comportamenti, fa emergere come poco convincente la tesi della totale contrapposizione fra una moralità, che sarebbe riservata esclusivamente ai membri della famiglia nucleare, e l’amoralità, ovvero l’indifferenza per le categorie di bene e male, per tutto ciò che è esterno alla famiglia. Per quanto riguarda la politica, Rabito in giovinezza non pensò di potersi permettere espliciti comportamenti difformi da quelli previsti dalla macchina dello Stato: un sistema che in molte sue forme aveva imparato a conoscere durante la Prima guerra mondiale e che, ormai, in Italia andava coincidendo con un partito che, attraverso la violenza, la burocrazia, il controllo e l’ideologia, occupava l’intera società e organizzava le masse. Per lui e per quelli come lui la virtù essenziale per la sopravvivenza risultava essere la capacità di adattarsi al mutare dei tempi e dei contesti, senza soccombere e possibilmente tentando di trarne vantaggio, senza altre velleità. Quell’attitudine fu mantenuta anche dopo la caduta del regime: da fascista si fece comunista, anzi socialdemocratico, alla ricerca di un “amico” che gli potesse far capitare un posticino «per travagliare sempre e avere il pane tutto l’anno sicuro». Anche nell’Italia repubblicana dei grandi partiti di massa la politica continuava a occupare lo Stato e buona parte dell’intera società. Adattarsi per molti significò scegliere un protettore, un notabile su cui puntare, augurandosi che risultasse lui il vincitore.
Ci illustra il progetto «Archivio degli Iblei»? Perché è necessario?
Sempre a partire da Terra matta è nato anche l’Archivio degli Iblei. Il nuovo progetto ha l’ambizione di diventare un punto di riferimento per chi opera nei paesi della Sicilia sud-orientale, raccogliendo e stimolando la produzione di nuova ricerca storica oltre che la raccolta di documenti testuali, iconografici, sonori nonché di testimonianze orali. Obiettivo è favorire la crescita di una risorsa culturale che possa essere utile per rafforzare su base territoriale legami comunitari non soffocati dall’autoreferenzialità. Attraverso il sito internet archiviodegliiblei.it si ha accesso al crescente archivio virtuale e si è informati sulle attività in corso.
Il film terramatta; e il progetto dell’Archivio degli Iblei sono stati il mio modo di ritornare, di restituire attenzione, intelligenza e affetto alla realtà alla quale evidentemente sento di appartenere, nonostante gli oltre trent’anni della mia vita vissuti a Torino.
(fasc. 6, 25 dicembre 2015)