“Terra matta” di Vincenzo Rabito: vicenda editoriale e aspetti letterari – Intervista a Luca Ricci

Author di Enzo Fragapane

Vincenzo Rabito (1899-1981), semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi (Ragusa), è stato un narratore del Novecento. Ha raccontato la propria vita nel dattiloscritto Fontanazza. Nel 2007, con la pubblicazione di Terra matta (Einaudi), la vita raccontata di Rabito è divenuta letteratura.

Rabito ha raccontato la propria vita ogni volta che ne avesse occasione; ogni volta in cui gli capitasse a tiro un orecchio disposto ad ascoltare: il lavoro contadino, la fame, il macello della trincea durante la Prima guerra mondiale, l’emigrazione in Germania, gli anni del boom economico, gli anni ’60 e ’70, l’astio con la suocera, l’amore per i tre figli da far studiare per riscattare la «descraziata vita passata!».

Rabito è un «ragazzo del ’99», di due secoli fa. Un ragazzo che ha creduto nella vita e che, a 69 anni, ha voluto raccontarla e scriverla con tutto il suo carico d’umanità: un fiume e un vulcano che trascinano con sé rabbia, dolore, sofferenza, lirismo, dolcezza, tenerezza. La sua storia individuale è stata, così, raccordata alla storia del Novecento italiano, la Sicilia all’Italia.

Attraverso la scrittura, egli è divenuto un personaggio letterario: Vincenzo Rabito, uomo-narratore-personaggio della propria autobiografia dattiloscritta con la «Lettera 32», in 1.027 «pacene», rilegate in sette quaderni con filo di corda; 1.027 «pacene» nella sua lingua, il dialetto siciliano, con il suo portato di oralità, i suoi tentativi di italianizzarlo, con l’assenza pressoché totale di segni d’interpunzione, tranne un insistente punto e virgola a separare ogni parola dalla successiva. Probabilmente per orientarsi, anche visivamente, in quel traffico di parole su un foglio senza margini, né interlinea; forse perché la sua narrazione, legata alla cultura orale e al Cuntu siciliano, procede per sequenze narrative: come nel Cuntu, per Rabito ogni parola è un quadro, un paesaggio, e su ogni parola vuole che lo sguardo del destinatario si focalizzi.

Nulla, nulla va perso di quella vita da raccontare a qualcuno: i figli per primi. Il più piccolo, Giovanni, nel 1999, porta una versione rielaborata del dattiloscritto Fontanazza all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. A Pieve s’accende la curiosità: vogliono Fontanazza di Vincenzo Rabito.

Luca Ricci, collaboratore dell’archivio, ne farà una versione intermedia, filologica, da sottoporre ad alcuni editori. La casa editrice Einaudi gli affiderà il compito di trarne una riduzione per la pubblicazione. Fontanazza di Vincenzo Rabito, grazie alla «mano leggera» dei sarti-curatori Luca Ricci, appunto, ed Evelina Santangelo, entrerà nella collana «Supercoralli» dell’Einaudi, nel 2007, con il titolo Terra matta. In questa intervista, Ricci ci ha raccontato la vicenda autobiografica ed editoriale di Terra matta. Ce lo ha raccontato dall’interno: «La cosa che rende straordinario Rabito rispetto ad altri testi è il fatto di raccontare, raccontare comunque, sempre. Perché raccontare salva»[1. Ci si è confrontati per la prima volta con Luca Ricci su Rabito e Terra matta in occasione della stesura della tesi di Laurea magistrale in “Editoria e scrittura” (cattedra di “Storia dell’editoria”) su «Terra matta»: caso editoriale sincretico (discussa il 27 marzo 2014 presso la “Sapienza Università di Roma”, relatrice prof.ssa Maria Panetta e correlatore prof. Carlo Serafini); l’intervista qui pubblicata è del 7 febbraio 2015.].

Nel 1999 lei collaborava con l’Archivio Pieve Santo Stefano?

Mi occupavo di due o tre cose in quel periodo, innanzitutto perché sono nato a Pieve; quindi, ho iniziato come lettore dei diari e poi con una serie di ruoli all’interno dell’Archivio: coordinavo il progetto di schedatura informatica che era commissionato dal Ministero dei beni culturali divisione «Studi e pubblicazioni», che portò alla schedatura di tutto il fondo pregresso (dal 1985 al 1999); poi, mi occupai della direzione artistica del Premio dei diari, e di lavori di editing per alcuni editori (Mursia, Giunti, Baldini&Castoldi) su pubblicazioni che l’Archivio promuoveva.

Lei è stato il primo ad avere tra le mani la versione rivisitata di Fontanazza ad opera di Giovanni Rabito. Poi, il dattiloscritto originale di Vincenzo Rabito. Potrebbe illustrarci le differenze?

Sì, sono stato il primo ad averla in mano, non il primo a leggerla. Nel luglio del 1999 Giovanni Rabito la portò. Mi limitai alla schedatura. Parlai con lui, mi raccontò, la sfogliai; le prime due persone che lo lessero erano della commissione di lettura: furono loro a chiedere a Giovanni Rabito di mandare il testo originale. La differenza era sostanziale: il testo di Giovanni era proprio un’opera che voleva essere un libro; quando portò con sé il materiale a Bologna, provò a farlo pubblicare da alcuni editori: erano gli anni del «Gruppo ’63» e di una forte sperimentazione linguistica. Aveva pubblicato delle poesie, aveva trovato alcuni agganci, ma il dattiloscritto non venne pubblicato. Giovanni Rabito ne fece una rielaborazione: un testo più breve, molto rielaborato, con una scrittura un po’ alla Camilleri, cioè in un siciliano letterario, conosciuto ma allo stesso tempo reinventato e, quindi, molto addomesticato.

Qual è stato l’impatto emotivo con Fontanazza di Vincenzo Rabito?

L’originale stupì tutti: era un muro invalicabile. L’impressione fu molto negativa perché la ritenevo illeggibile; però, s’intuiva che eri davanti, comunque, a qualcosa di unico. Superato questo muro, l’opera ha una grande capacità di prenderti.

Lei ha lavorato dal 2000 al 2003 sul dattiloscritto originale, con la consulenza dall’Australia di Giovanni Rabito. Un’avventura… Quanto è stato difficile per un toscano lavorare sul dialetto siciliano di un semianalfabeta settantenne?

Per un verso, ho sempre detto che era un vantaggio non essere siciliano, nel senso che mi permetteva di relazionarmi con quest’opera, intuendo con immediatezza ciò che non era facile da cogliere per un lettore non siciliano: quello che non capivo io, non l’avrebbero capito altri; quindi, in un certo senso, era anche una posizione privilegiata quella dell’osservatore esterno. Il mio limite era che non conoscevo alcune strutture sintattiche, alcune formule, e perciò usavo dei dizionari italiano-ibleo; la parte di contestualizzazione geografica, localistica, non la potevo trovare da nessuna parte, e quello era un lavoro che facevo con Giovanni, come quello sulle note linguistiche più dettagliate, per avere il punto di vista di un «parlante», di uno che quella lingua la masticava; poi, verificavo. La difficoltà era molteplice perché bisognava distinguere tra la sua volontà di italianizzare alcune cose, il suo specifico idioletto cioè la sua lingua, la sua creatività, gli errori di battitura: ad esempio, se trovavo due o tre volte lo stesso “errore”, si capiva che, invece, era stata una sua scelta. Il vero confronto rimaneva con il testo. Dentro il testo trovavo le risposte su lessico e sintassi.

Quali sono state le difficoltà del lavoro redazionale per Terra Matta? E come descriverebbe l’esperienza in tandem con Evelina Santangelo dal 2004?

Le difficoltà sono state molteplici. La prima versione che avevo preparato, capendo la particolare difficoltà di quest’opera di “entrare nelle librerie”, era la versione intermedia. C’erano molte più note di quelle presenti in Terra matta, erano indicati tutti i punti in cui avevo fatto tagli, così da mandarlo a due tipi di editori: commerciali (Feltrinelli, Sellerio, Rizzoli, Einaudi) e specialistici (Pacini, Carocci), magari più propensi a realizzare un’edizione critica, con un apparato di note più ricco. Poi, a seconda dell’editore destinatario, l’avrei adattata secondo una diversa prospettiva. Einaudi è stato il primo e anche l’unico a rispondere. Le difficoltà erano i tagli, la divisione in capitoli, i capoversi, la punteggiatura: quale andamento scegliere? Quello sonoro, o quello della lingua scritta? Poi, i titoli dei vari capitoli, il titolo dell’opera.

Con altri due curatori, forse, il testo verrebbe diverso. Con Evelina il rapporto non è stato conflittuale: ci siamo confrontati, trovati. Alla fine è il testo che ti guida: in questo 70% di testo portato in stampa ci sono i passaggi più forti, più efficaci, in cui Rabito risulta narrativamente più credibile, incisivo, efficace; anche sui tagli eravamo concordi: sulle ripetizioni da eliminare, per esempio. La scelta di Evelina fu di Einaudi: oltretutto lei è siciliana.

Come mai, secondo lei, Einaudi ha accettato la sfida?

Molto del merito va a Paola Gallo. Lei l’ha assunta come una personale missione professionale; ha voluto dire: nella mia carriera di responsabile della narrativa italiana, questa poesia la porto in fondo. Le persone fanno la differenza, un po’ perché un’operazione così complessa solo un grosso editore poteva affrontarla; non ci dimentichiamo la collocazione nella collana dei «Supercoralli», cioè nella collana della narrativa, quella principale della Casa editrice: in questo la Gallo è stata determinante.

Trovate le «chiavi di accesso» per dialogare con Vincenzo Rabito, quali criteri per scegliere/tralasciare le parti del dattiloscritto da riprodurre in Terra matta?

Abbiamo cercato di rispettare proprio la sequenza narrativa in Terra matta: ci sono solo due o tre giustapposizioni di sequenza, due o tre punti in cui abbiamo anticipato qualcosa. Alcune volte, sarebbe stato più semplice spostare delle frasi e magari risparmiare mezza pagina: si sarebbe evitato qualche punto in cui magari Rabito ha meno efficacia; però, questa cosa non l’ho mai voluta fare, e Santangelo è stata d’accordo con me. L’obiettivo è stato quello di non intervenire mai in maniera creativa; poi, è chiaro che ogni scelta è per forza di cose un elemento per il quale anche il contenuto viene un po’ condizionato: non dico alterato, ma modificato. C’era un rispetto filologico del testo, dell’«errore», della volontà dell’autore, che avevo appreso negli anni di Pieve; quindi, ci siamo detti: non riscriviamo, non forziamo, non facciamo gli autori, ma cerchiamo di metterci al servizio di quest’opera.

Qual era la missione affidata dall’Einaudi?

Nelle case editrici c’è la dinamica dei lettori che leggono i testi e fanno una prima scrematura e, in questo modo, la casa editrice scarta il 70-80% dei manoscritti e dattiloscritti che arrivano. Quindi, i lettori avranno trovato qualcosa d’interessante in Rabito; poi, c’è stata la scommessa di Paola Gallo e poi da lì si è creato un nucleo di persone a favore, tra cui Roberto Cerati, che sosteneva la pubblicazione in quanto era un valore. Io credo che alcuni abbiano intuito che eravamo di fronte a un caso particolare nell’ambito della scrittura autobiografica popolare: si travalicava il genere e diventava un evento anche letterario, proprio per la capacità straordinaria di raccontare che c’è nel testo di Rabito.

La narrazione nel dattiloscritto seguiva sempre il criterio cronologico? Vi erano salti temporali?

Tendenzialmente segue una sequenza cronologica; ci sono una serie di rimandi al presente, soprattutto in chiave di confronto sul senso dello scrivere: non so, più volte dice per esempio «E io questo libro non l’avrei mai scritto se non fosse accaduta quella cosa lì quella sera». Quindi, quando Rabito doveva raccontare le conseguenze che l’episodio che stava narrando avrebbero avuto sul suo futuro, faceva questi rimandi temporali. Per il resto, la sequenza è molto lineare.

Quali sono le peculiarità della lingua definita «rabitese» dalla sua compagna d’avventura?

L’andamento complessivo del discorso è fatto di pause, accelerazioni: in questo senso è una lingua di grande azione; non è mai una lingua di meditativa, è una lingua di fatti. Sicuramente, c’è una lotta fra l’italiano conosciuto, immaginato, reinventato, e una lingua di pancia: dinamica, colloquiale. C’è sempre una certa tensione tra questi due livelli, alcune volte creata coscientemente perché ci sono alcune parole che alle volte Rabito usa in un modo, e altre in un altro, a seconda che voglia dare maggiore o minore pregnanza, attendibilità, ironia a quel discorso.

Sicuramente, è una lingua che ricerca un effetto e ci riesce: un effetto drammatico, comico, ironico, che fa parte della sua ricerca di narratore. Attraverso le narrazioni a voce alta, che Rabito faceva, ha affinato un modello di racconto che utilizza questi “meccanismi di parole”. Io di “rabitese” non parlerei, appunto perché non c’è quella consapevolezza riga dopo riga di usare una lingua. Sicuramente, Rabito ha affinato un metodo di racconto, ma non parlerei d’invenzione di una lingua.

Come avete trovato l’equilibrio tra leggibilità, fedeltà allo spirito dell’autore, interventi redazionali, rispetto del pubblico destinatario? Si sente «sarto dalla mano leggera»?

Per me era mettersi al servizio: non riscrivere, non alterare; era questa la chiave di fronte a quel muro di complessità in cui trovi una porta. Mi metto di fianco, non di fronte, e lo aiuto a venir fuori. La definizione mi piace: c’era l’abito, bastava fare qualche ritocco.

Qual è il segreto di Terra matta? Le avventure della vita di Rabito? La sua verve narrativa? Il fatto che un semianalfabeta costruisca una città-labirinto di parole? Il Novecento visto con i suoi occhi che diviene letteratura?

L’urgenza narrativa. Riguardo al contenuto storico, c’era già molta memorialistica popolare sulla Prima guerra mondiale, sull’emigrazione degli operai italiani in Germania durante la Seconda guerra mondiale, o sulle elezioni del 1948; però, ci sono molti modi di guardare allo stesso evento.

Penso che la Grande guerra di Rabito sia qualcosa d’indelebile nella memoria di chi la legge. L’evento storico non è scindibile dalla forma che egli usa per raccontare, dalla sua capacità di guardare il mondo, di guardare la vita, di ricordarla, di reinventarla, perché ogni memoria è reinvenzione: un lavoro di messa in posa, una visione che l’autore vuol dare di se stesso. La cosa che rende straordinario Rabito rispetto ad altri testi è il fatto di raccontare, raccontare comunque, sempre. Perché raccontare salva. Il racconto è un elemento salvifico e questa sua volontà di raccontare rende la sua opera speciale, unica; e, poi, la capacità di saperlo fare.

È più un narratore, uno dei più grandi narratori italiani del Novecento, che uno scrittore: perché la scrittura presuppone un possesso tecnico consapevole, mentre la narrazione è più legata alla vita. Da narratore conosce i tempi, i ritmi, le pause, le accelerazioni, e le ritirate. Questo è un grande talento: questa, sì, è anche tecnica e in questo c’è consapevolezza. Poi, l’umanità che traspare dal testo e dal processo che sta intorno al testo: in tutta questa vicenda sono importanti le passioni che ha suscitato, i passaggi di testimone, le navigazioni solitarie (la sua per prima; poi, quella di Giovanni, che custodisce, protegge, difende, rielabora, fa conoscere questo testo); i lettori della commissione di lettura; poi, la mia, quella di Evelina, Paola Gallo. Tutti questi passaggi, quasi tutti senza certezza dell’approdo, sono stati guidati dalla passione. Credo che questa umanità, questa passione, questo stare nelle cose, viverle dentro, siano stati trasmessi ai lettori di Terra matta: l’hanno comprato, se lo sono scambiati, hanno messo in moto un processo comunicativo che raramente i libri riescono a innescare. È l’umanità di Rabito il “segreto”. Nella sua messa in posa, rimane umano.

Le propongo un confronto: il signor Palomar e il signor Rabito: è azzardato? In fondo, entrambi si chiedono la ragione dello stare al mondo…

Sì, assolutamente. Anche in Palomar c’è un’invenzione linguistica: è un paragone doppiamente interessante.

(fasc. 1, 25 febbraio 2015)