Scrittrice, poetessa, drammaturga e saggista, penna autentica del panorama letterario italiano, è nata nel 1936 ed è stata un pilastro della generazione degli anni Trenta.
La sua vita fu segnata dalla guerra e dalla fame. Dacia Maraini, infatti, trascorse i primi anni della propria infanzia in un campo di concentramento giapponese dove era stata internata insieme con la sua famiglia nel 1943:
Il Campo era un edificio basso costruito vicino a un campo da tennis. La città vicina, le fabbriche venivano bombardate a ogni ora del giorno e molte di quelle bombe schizzavano schegge mortali proprio addosso a noi. Poi, quando la casa è stata colpita, ci hanno spostati in un tempio nella campagna vicino Nagoya. Non si poteva assolutamente uscire. Era vietato. Ti uccidevano. (…) C’erano quattro carcerieri: stavano a sentire la radio nella loro stanza, sulle brande (…). Uno era più gentile, ogni tanto voltava la testa. Un altro era sadico: era quello che ci buttava mezzo mandarino dalla finestra per vedere come correvamo a prenderlo, e rideva1.
L’esperienza del campo di concentramento segnò, inevitabilmente, la sua vita. La fame, nello specifico, restò impressa nella sua mente: il ricordo di essa divenne ossessione, idea fissa, tormento. Viaggiare con la mente divenne il modo per sfuggire a quello strazio, per sottrarsi a quel supplizio.
Gli anni a venire videro il suo ritorno in Italia insieme con la sua famiglia, prima a Firenze e, in seguito, in Sicilia, a Bagheria. E Bagheria divenne, poi, il titolo di un suo libro. Nel romanzo, pubblicato da Rizzoli nel 1993, affrontò gli anni passati dell’infanzia, facendo i conti con quella ferita sempre aperta a cui non era mai riuscita a dar voce.
Quelle pagine aprirono uno scenario su una Sicilia vissuta dalla scrittrice in maniera intensa e profonda, nonostante la giovane età; una Sicilia da raccontare tra sentimenti contrastanti, tra l’amore per la terra in cui trascorse gli anni più teneri della sua vita, le luci, i colori, i ricordi di un’isola straordinaria e antica; e, contemporaneamente, l’odio per quella stessa terra della quale ripudiò e disprezzò l’arroganza dell’aristocrazia siciliana alla quale attribuì la colpa di aver alimentato comportamenti, mentalità e modi di pensare, di agire e di vivere mafiosi.
Il romanzo autobiografico è anche una denuncia, un modo per affrontare il tema della mafia, raccontando la Sicilia immersa nella sua omertà, in un contesto in cui era meglio non sapere, o far finta di non sapere, in un momento in cui certi argomenti non potevano neppure essere trattati e, di certo, non si poteva parlare di mafia, né alludere o far riferimento a essa.
La violenza di un certo modo di fare politica non poteva che abbinarsi a certe rocce grigie e aspre e inaccessibili, a questo mare ostile e troppo prepotente, a questo paesaggio ruvido e secco, arido e mortuario, alle grandi distese di campi di grano, senza un albero, un rifugio dal sole, ai muri irti di spine, sulle cui rovine nasce l’agave che alza il suo bellissimo collo verso il cielo, in un trionfo di fioritura profumata solo nel momento straziante della sua morte.
E invece poi, a leggere gli antichi che hanno scritto dell’isola, si scopre che non sempre è stata così. (…) Sotto quelle fronde hanno camminato i fenici (…). Sotto quelle fronde hanno camminato anche i greci e i latini. E infine gli arabi dal piede leggero e le vesti lunghe, di cotone ricamato.
Gli arabi hanno portato in Sicilia il baco da seta, l’ulivo e il fico d’India. Gli spagnoli, assieme ai loro cavalli e ai loro guerrieri, la coltivazione dell’arancio dolce. Mentre gli aragonesi hanno insegnato l’uso della canna da zucchero2.
Il romanzo si sviluppa in una serie di descrizioni degli scenari apertisi innanzi agli occhi giovani della scrittrice, della Sicilia di un tempo, dei modi di vivere e di pensare che caratterizzarono l’isola in quel periodo; è una denuncia contro la mafia, contro l’aristocrazia siciliana, contro gli abusi degli uomini frutto di una mentalità maschilista che poneva questi ultimi in una posizione assolutamente autoritaria nei confronti della donna e del suo corpo. È un viaggio attraverso la memoria e i ricordi, è il ritorno a un passato volutamente dimenticato attraverso un’analisi interiore avvenuta solo in un secondo momento, è un’osservazione critica e psicologica del suo passato.
Bagheria è considerato uno dei libri più celebrativi della Maraini, in grado di riportare alla mente percezioni, suggestioni, turbamenti ed emozioni; ed è uno dei testi più tradotti a livello internazionale.
Il trasferimento a Roma e i primi successi
Raggiunta la maturità, Dacia Maraini si trasferì a Roma, dove, a distanza di pochi anni, iniziò a collaborare con alcune testate, quali «Il Mondo» e «Nuovi Argomenti», e fondò, insieme ad altri giovani, la rivista «Tempo di letteratura» pubblicata da Pironti.
Il 1962 è l’anno in cui esordì col suo primo romanzo, intitolato La vacanza e pubblicato dalla casa editrice Lerici, la cui prefazione porta la firma di Alberto Moravia. Il tema principale è la giovinezza, il periodo dell’adolescenza, durante gli ultimi anni del fascismo. Una scrittura asciutta e scorrevole, iniziata sulla forma di un racconto, segue, in seguito, lo stile di un romanzo: una narrazione caratterizzata da una scelta lessicale particolarmente accurata ma assolutamente naturale e spontanea, nell’esigenza di raccontare un periodo finito della sua vita, la sua infanzia, sullo sfondo malinconico e tutt’altro che dolce del periodo della guerra.
Era il 1943 e nell’aria si udiva il rombo degli aerei che bombardavano le città, mentre Anna, la protagonista del romanzo, un po’ svogliata e indolente, un po’ abbandonata a se stessa, abbandonava i pensieri da bambina per aprirsi al mondo degli adulti e diventare ed essere donna. Lo stesso anno vide l’inizio della relazione tra la scrittrice e Alberto Moravia.
Il 1963 fu la volta dell’Età del malessere, il secondo libro della Maraini pubblicato da Einaudi. Il romanzo sembrò essere un po’ scabro, per lo stile letterario un po’ asciutto e scarno, tipico dei suoi primi lavori, con un velo di solitudine e di tristezza, ma, allo stesso tempo, autentico, solido e concreto, con sfumature neorealistiche nelle quali si intravede l’influenza di Moravia e, forse, a tratti, anche quella di Pasolini.
Enrica, la protagonista del romanzo, è un personaggio attorno al quale ruotano percezioni, stupori e sensazioni che ella stessa non riesce a capire fino in fondo. Diciassette anni, in cerca di identità, smarrita, altalenante tra il sentimento e il sesso che le appaiono fondamentalmente estranei e che finisce per subire quasi passivamente, nel grigiore di quegli anni del dopoguerra che fanno da sfondo.
Il romanzo si mostra pervaso da un profondo malessere e da una forte incomunicabilità che emerge dai rapporti che intercorrono fra i personaggi, dai loro dialoghi e dalle scelte linguistiche e lessicali. Solo alla fine, la protagonista si aprirà a una maggiore capacità di giudizio, frutto delle esperienze passate, a una nuova consapevolezza, in primis di se stessa. L’età del malessere le valse il Premio Internazionale degli Editori “Formentor”.
Nel 1966 venne pubblicata, da Feltrinelli, la sua raccolta di poesie Crudeltà all’aria aperta e, l’anno dopo, il romanzo A memoria, da Bompiani.
La scrittura, il viaggio e il femminismo
Scrivere e viaggiare furono sempre strettamente collegati per la Maraini, assolutamente interconnessi e reciproci. La scrittura è, senza dubbio, un viaggio che si compie e si realizza attraverso modi differenti, attraverso la mente, e in questa prende forma seguendo i percorsi tracciati dall’immaginazione, che fa da filo conduttore passando attraverso la conoscenza, attraverso la rivelazione e la scoperta.
Il viaggio, così come la scrittura, sviluppa l’immaginazione e la capacità di accostarsi all’altro, al suo dolore, a quella complessità, fino a raggiungere i punti più profondi della mente e dell’inconscio. E la scrittura, esattamente come il viaggio, permette e stimola percezioni, sensazioni e idee mai provate prima, un sentire differente che esce e si allontana dal quotidiano, in una perenne trasformazione che si manifesta nelle cose meno esplorate e prende i tratti della conoscenza, in primis di se stessi. Per questo diventa importa leggere, perché, per scrivere bene, bisogna prima aver letto tanto, tantissimo, soprattutto i classici. La lettura, inoltre, non è che un altro modo di viaggiare, un metodo alternativo di conoscere, di formarsi, di esplorare, di dilatare i confini della mente e aprirsi a ciò che è nuovo e sconosciuto, di attraversare epoche passate, di comprendere e interagire con uomini appartenenti a ere diverse rispetto alla propria, di abbandonare la quotidianità e la contemporaneità e immergersi e ritrovarsi in uno spazio-tempo indefinito e insolito, talvolta misterioso, poetico. Il viaggio, quindi, come scoperta di mondi, tradizioni e culture; la scrittura come viaggio mentale. Quest’ultima, inoltre, fu un modo per reagire, nonché per sfuggire, alla notevole timidezza della scrittrice:
Sono sempre stata molto timida, da bambina di una timidezza patologica. Non volevo essere vista. Che non mi vedessero, volevo questo. Essere invisibile. Non esserci per gli altri. Esistere solo per me. Se non mi vedono, non possono farmi niente. Sono salva.
Ho imparato un po’ facendo teatro, in quei teatri di cantina. (…) Io facevo tutto in teatro, salvo stare in scena (…) Tutti quegli sguardi addosso. Morivo all’idea di parlare in pubblico: mi metteva un’angoscia tale che ogni volta trovavo un nascondiglio nuovo, una scusa3.
La sua scrittura è stata, più volte, denominata “femminista”, in quanto in lotta contro la storica condizione subalterna e inferiore della donna rispetto alla figura maschile. Ma la scrittrice non si riconobbe mai realmente in questa definizione né mai pensò alla sua scrittura come tale. Il femminismo, ai suoi occhi, non fu importante come ideologia ma fu solo un valido movimento che portò a diverse svolte e a svariati cambiamenti, in primis nel modo di intendere la donna stessa.
La Maraini considera l’Italia un paese ancora fortemente arretrato in materia di diritti, un paese in cui la donna viene ancora pesantemente mortificata – e, assieme a lei, il suo corpo – dai ruoli che l’hanno vista sottomessa agli uomini, dai media e dalla pubblicità e, in larga parte, dalla Chiesa, che finora ne ha spesso limitato e ostacolato l’indipendenza.
«Le poesie delle donne sono spesso
piatte, ingenue, realistiche e ossessive»,
mi dice un critico gentile dagli occhi a palla.
«Mancano di leggerezza, di fumo, di vanità,
sono tutte d’un pezzo come dei tubi,
non c’è garbo, scioltezza, estro;
sono prive dell’intelligenza maliziosa
dell’artificio, insomma non raggiungono
quell’aria da pomeriggio limpido dopo la pioggia».
Forse è vero, gli dico. Ma tu non sai
cosa vuol dire essere donna. Dovresti
provare una volta per piacere anche se
è proibito dal tuo sesso di pane e ferro.
Ride, strabuzza gli occhi. «A me non importa
se sia donna o meno. Voglio vedere i risultati
poetici. C’è chi riesce a fare la ciambella
con il buco. Se è donna o uomo cosa cambia?»
Cambia, amico dagli occhi verdi, cambia;
perché una donna non può fare finta
di non essere donna. Ed essere donna
significa conoscere la propria soggezione,
significa vivere e respirare la degradazione
e il disprezzo di sé che si può superare
solo con fatiche dolorose e lagrime nere4.
Nei confronti del mondo islamico e dell’atteggiamento che mostra in riferimento alla donna, si pose in una posizione che vedeva la sottomissione del genere femminile come uno stato necessario di ogni religione, senza distinzione alcuna tra musulmani e cattolici, ad esempio, e alla base di ogni fanatismo.
Dacia Maraini, in una lettera pubblicata sul «Corriere della Sera» il 5 ottobre 2001 col titolo Ma il dolore non ha una bandiera, si pose in una posizione opposta a quella della Fallaci, invitando quest’ultima a riflettere, a riconoscere una chiara differenza tra terrorismo e cultura islamica, a intuire come i primi a pagare le conseguenze di quel fanatismo religioso fossero stati proprio i musulmani, e come la politica cercasse di indurre a una visione errata di quel mondo e della sua cultura.
In tale contesto si inserisce Donna in guerra, pubblicato da Einaudi nel 1975.
Il romanzo ha la forma di un diario in cui Vannina, la protagonista, raccoglie le sciagure e le disavventure di donne che, come lei, vivono in un’epoca in cui il ruolo sociale femminile è assolutamente sottomesso a quello maschile, un ruolo passivo che la vede subire decisioni, scelte, abusi, violazioni da parte dell’uomo.
Erano, però, gli anni Settanta e, in Italia, vecchie credenze si impregnavano di ideali che sapevano di cambiamento, di libertà, di ribellione. Le idee femministe iniziavano a farsi strada in un contesto che scuoteva i tradizionali equilibri che fino ad allora avevano caratterizzato la società, in una lotta che affondava le radici nell’autocoscienza delle donne. Il movimento femminista, la lotta di classe, la contestazione studentesca animavano quegli anni e scrollavano le coscienze, inondavano gli animi di fiducia e ideali, con la speranza e l’obiettivo di eliminare i ruoli sessuali.
Donna in guerra viene attraversato da un bisogno di cambiare, di non adattarsi, di rompere certi schemi e distruggere i classici modelli culturali. Erotico, sensuale, forte, il romanzo della Maraini presenta personaggi autentici che spingono il lettore a riconoscersi in essi, in un continuo oscillare fra miseria, rassegnazione, disincanto, solitudine, realismo e frustrazione che pervadono l’intero testo. La forza del cambiamento della protagonista è un grido di speranza per ogni donna, nonostante l’amarezza per la dura condizione femminile, per ogni torto subito. Si tratta di una presa di coscienza da cui partire per raggiungere il cambiamento tanto auspicato, con la forza di ricominciare da zero. La protagonista finisce, quindi, per rappresentare non solo se stessa e/o la scrittrice, ma un’intera generazione di donne.
In ogni caso, la Maraini non si identificò mai come una rappresentante del movimento femminista, nonostante ne sposasse la causa.
In questo contesto va inserito un altro romanzo della Maraini: La lunga vita di Marianna Ucrìa. Pubblicato da Rizzoli nel 1990, rappresenta uno dei testi più incisivi, più profondi, più apprezzati della scrittrice. Il romanzo, caratterizzato da una scrittura ruvida e persuasiva, è attraversato da un’inusuale e singolare solitudine che la protagonista, Marianna, vive quotidianamente come un qualcosa di prescritto, come un percorso già segnato, in una Sicilia settecentesca in cui la mentalità degli uomini annulla il diritto della donna ad autodeterminarsi.
La protagonista, sordomuta a causa di una violenza subita da bambina, non potendo godere di alcun diritto – in quanto donna – troverà la sua massima espressione nella scrittura, avvalendosi di quest’ultima per comunicare e manifestare il proprio mondo interiore, per dare voce a ogni parola taciuta, a ogni grido soppresso – per volontà maschile –, nonché per ritrovare la propria identità e riscoprire se stessa.
Nel 1973, la Maraini fondò il Teatro della Maddalena, gestito soltanto da donne, dopo aver fondato, assieme ad altri scrittori, il Teatro del Porcospino, nel quale si portavano in scena opere di Moravia, Siciliano, Gadda e della stessa Maraini.
Scrisse moltissimi testi teatrali, tra i quali ricordiamo sicuramente Maria Stuarda, rappresentato in moltissimi paesi, in uno scenario internazionale, riscuotendo un grandissimo successo; Dialogo di una prostituta con un suo cliente, riprodotto in quattordici differenti paesi; Stravaganza, La donna perfetta etc.
Il movimento femminista era in grande fermento e le lotte stavano finalmente iniziando a trovare riscontro nei fatti: la legge sul divorzio venne approvata il 1° dicembre 1970. Mesi dopo tale approvazione, il Tribunale di Siena considerò illegittimo l’articolo 2 della suddetta legge poiché in contrasto con tre articoli della Costituzione: l’articolo 7, l’articolo 10 e l’articolo 138. I giudici della Corte Costituzionale riconobbero, però, la completa legittimità della legge sul divorzio, che venne nuovamente messa in discussione, ma che la Corte Costituzionale dichiarò, per la seconda volta, legittima.
Intanto, cresceva la polemica sul referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio. A pochi giorni di distanza dal referendum, all’Istituto Gramsci di Firenze ci fu un dibattito sul ruolo della donna di fronte al divorzio, presieduto da Elena Gianini Belotti e Dacia Maraini, al quale presero parte alcuni esponenti del movimento femminista, dei partiti della sinistra e alcuni cattolici, tutti a favore del “no”. Tale dibattito, riportato nell’articolo La donna e il divorzio5 di Carla Pasquinelli, ebbe come oggetto i seguenti temi:
condizione della donna, famiglia, rapporto tra famiglia e società civile, passaggio dalla famiglia patriarcale alla famiglia della società industrialmente avanzata, immissione della donna nella vita produttiva, le profonde trasformazioni intervenute, oltre che nel tessuto sociale e politico nell’evoluzione del costume, nello strutturarsi di nuovi valori e di diversi modelli di comportamento da una parte e invece dall’altra il tipo di famiglia e la immagine di donna propagandati dalle forze antidivorziste6.
Elena Gianini Belotti e Dacia Maraini denunciarono gli slogan antidivorzisti, i quali riconducevano la donna alla tradizionale figura femminile “debole”, emarginata e sottomessa all’uomo, che era, ormai, in assoluta contraddizione con la mutata realtà della donna e chiara prova di regresso.
Il referendum del 12 maggio 1974 vide la vittoria del “no” all’abrogazione della legge sul divorzio. Nello stesso anno, Einaudi pubblicò Donne mie, un libro in cui, con una dialettica corposa e delle violente e passionali emozioni alla maniera di Pasolini, Dacia Maraini «lascia fluire, con l’intento di un lucido ma viscerale affresco, tutte le componenti rivendicative del revival femminista, fermandole con linguaggio basso nel momento più intrinseco della vita sessuale, della soggezione ai tradizionali tabù»7. Nel suo monologo sulla donna e per la donna vennero, così, evidenziati, attraverso una forma di scrittura inusuale, i problemi che costituivano il fulcro della questione, quali «l’asciutto pianto della donna-lavoratrice, il gregariato della donna-intellettuale, l’automercificazione della donna da copertina e, infine, la condizione di “parcheggiata di lusso” della donna-bene»8.
Così, mentre la Maraini disegnava i volti delle donne della società contemporanea, ponendosi sempre dalla parte dell’amore per la libertà, da lei difeso come l’amore più autentico e puro, si giunse a un’altra tappa fondamentale per le donne, per il progresso e per la società: modificato l’art. 546 del Codice penale e riconosciuta la non punibilità dell’aborto terapeutico, il 22 maggio 1978 venne approvata in Italia la legge sull’aborto.
In precedenza, nel 1975, era stata approvata la legge sul diritto di famiglia, che riconosceva finalmente gli stessi diritti e gli stessi doveri a ogni componente la famiglia, la potestà di entrambi i genitori, gli stessi diritti di quelli legittimi per i figli nati fuori dal matrimonio, e l’uguaglianza fra uomo e donna.
Le sue battaglie
La scrittura fu sempre qualcosa di fondamentale nella vita della Maraini; nella sua famiglia tutti scrivevano e il suo bisogno di scrivere nacque da una grande sensazione di inadeguatezza che viveva perennemente, tanto da preferire lo scrivere al parlare.
Nel corso degli anni, poi, la sua scrittura si trasformò in un impegno sociale. Fu sempre capace di smuovere i sensi del lettore e non solo la sua immaginazione, come se quest’ultimo fosse all’interno del romanzo e potesse sentire realmente ogni singola descrizione. Nei suoi ultimi scritti, tale caratteristica è ancora più evidente.
Dopo l’esperienza in Giappone, il cibo divenne una fissazione, tanto da farvi continuo riferimento in ogni testo, in un altalenarsi di metafore che lo rendono ricco di altri significati: ora il cibo è speranza, ora è nutrimento, ora libertà.
Il 1972 vide la pubblicazione di Memorie di una ladra per Bompiani. Tale romanzo è attraversato dalla fame e dall’ossessione per il cibo. Teresa Numa, la protagonista, è una detenuta che la Maraini incontrò durante un’inchiesta giornalistica, condotta nel 1969, sulle condizioni delle carceri femminili italiane. Una volta uscita di galera, Teresa venne intervistata dalla Maraini, la quale trovò in lei un personaggio autentico e originale. Durante l’intervista – durata circa un anno – vennero raccolte tutte le dichiarazioni e le testimonianze riguardanti la sua drammatica esperienza in carcere.
In carcere, il cibo è scarso sia in qualità sia in quantità, e Teresa si ritrova a convivere con i crampi allo stomaco e a vivere una fame perenne, una fame che la porta, una notte, a mangiare le bucce di patate ammorbidite nell’acqua, o le piantine di trifoglio trovate in cortile. Una volta uscita dal carcere, dopo aver rubato i soldi a qualcuno, si riempie di cibo, vacillando continuamente tra la fame implacabile e la sazietà di rari momenti. Teresa è una ladra che vive tra delinquenti, truffatori e prostitute, ma mantiene la propria semplicità, la naturalezza, le fragilità e, anche, la propria allegria, quell’ironia amara e sfrontata che caratterizza il suo personaggio. Il suo modo di esprimersi è vivo, espressivo, pittoresco e vivace, a tratti sgrammaticato, nell’alternarsi di ripetizioni, incoerenze, contrasti, considerazioni e pensieri registrati e lasciati intatti dalla scrittrice.
Memorie di una ladra volle essere anche un dipinto della società italiana di quegli anni, di un’Italia povera che tentava di reagire, di resistere, di sopravvivere. Il romanzo, considerato un capolavoro, ispirò, nel 1973, il film Teresa la ladra, diretto da Carlo Di Palma, prodotto da Giovanni Bertolucci per la Euro International Film e interpretato da una straordinaria Monica Vitti.
Nel 1980 uscì Storia di Piera, scritto insieme con Piera Degli Esposti e pubblicato da Bompiani. Dal libro sarebbe stato tratto, nel 1983, un film drammatico con lo stesso titolo, diretto da Marco Ferreri e interpretato da Marcello Mastroianni, Isabelle Huppert e Hanna Shigulla, alla quale venne assegnato il premio per la miglior interpretazione femminile al 36° Festival di Cannes, dove il film era stato presentato in concorso.
Un altro tema ricorrente nelle opere della Maraini è sicuramente quello della violenza. La scrittrice, infatti, non si risparmiò nel denunciare ogni forma di violenza, nel ribellarsi a ogni abuso nei confronti della donna, dei bambini e dei più deboli. Una grande testimonianza del suo lavoro è rappresentata dall’opera Buio, pubblicata nel 1999 da Rizzoli. Si tratta di una raccolta di dodici racconti in cui i protagonisti sono bambini e donne che hanno subito delle violenze, degli abusi o sono stati uccisi, nella totale e straziante indifferenza della società. Dodici storie realmente accadute e attraversate dall’orrore della violenza, dodici storie che, però, nonostante i media e l’attenzione del giornalismo di cronaca, finiscono ben presto per non fare più notizia, per essere dimenticate. Il personaggio di Adele Sofia, commissario di polizia, cerca, però, di rendere giustizia a ogni singolo abuso e/o tremenda violenza caduta nell’oblio.
Il titolo stesso, Buio, è una chiara allusione a tutto ciò che è o che viene lasciato appositamente oscuro, celato, nascosto, occulto, con evidente riferimento anche alla paura più grande di ogni bambino. Il fine della scrittura di tali racconti diventa, pertanto, quello di testimoniare, di riportare l’attenzione su fatti realmente accaduti e messi a tacere, quello di rompere un silenzio troppo duraturo e dargli finalmente voce, nella speranza di risvegliare le coscienze di una società indifferente, di scuotere gli animi e fare in modo che certe esperienze non si ripetano, e che ogni vittima possa avere un futuro e una vita migliori rispetto al proprio passato. Con Buio, nello stesso anno, vinse lo Strega.
Altro tema ricorrente quanto difficile nei testi della Maraini fu quello dell’aborto. Uno dei più complessi e pesanti periodi della sua vita fu, infatti, segnato dalla perdita di un figlio al settimo mese di gravidanza, quando la scrittrice stava ancora col marito Lucio Pozzi, un pittore milanese dal quale si separò dopo quattro anni di matrimonio. La Maraini parla del bambino come di una parte integrante del corpo della donna, per cui vale la pena di vivere e di affrontare gli ostacoli e le difficoltà della vita. Il rapporto che si viene a creare tra la madre e il bambino è, infatti, di una profonda complicità, di una fedeltà che non conosce confini, in un contesto in cui la vita del bambino, ancora all’interno del grembo, prende il posto di qualunque altra priorità.
La scrittrice parla dell’aborto spontaneo e di quello non spontaneo, avendo conosciuto diverse donne appartenenti a ceti poveri e che vivevano nei quartieri più disagiati, in cui subivano aborti pericolosissimi, provocandosi delle emorragie interne e mettendo a repentaglio la propria vita. La scrittrice si sofferma sulle popolazioni africane e sulle condizioni in cui vivono, in un contesto in cui l’idea dell’aborto non viene minimamente presa in considerazione, sebbene molte donne subiscano la perdita spontanea di almeno un figlio e le possibilità di sfamare una prole numerosa siano scarsissime, vista la soglia alta di povertà, in una realtà che quasi non conosce l’uso del preservativo, della pillola e di altri metodi contraccettivi. Inoltre, la Maraini denuncia la condizione, in alcuni paesi, di bambine e ragazzine che, date in sposa, in età precoce, a uomini anziani, con lo scopo di partorire quanti più figli possibile, in molteplici casi muoiono dopo la prima notte di nozze a causa dei rapporti sessuali e delle violenze subite.
Altre opere
Il 1980 fu la volta di Isolina: la donna tagliata a pezzi, pubblicato da Mondadori. Narra la vicenda di Isolina Canuti, una ragazza di vent’anni, veronese, il cui corpo, tagliato a pezzi, venne ritrovato nell’Adige il 16 gennaio 1900. Rimasta incinta di Carlo Trivulzio, un ufficiale dell’esercito, venne costretta, suo malgrado, a subire un aborto terribile che la portò alla morte.
Il libro racconta una storia triste, angosciante, a tratti difficile da leggere. Isolina, infatti, fu vittima di un gesto atroce: un tenente medico, al fine di farla abortire, utilizzò una forchetta e le infilò un tovagliolo in bocca per soffocare le urla dovute al dolore straziante. La ragazza morì sul tavolo di un’osteria, dove aveva avuto luogo quel gesto folle e privo di umanità, e il suo corpo venne fatto a pezzi e gettato nell’Adige, con la speranza che le acque del fiume potessero nasconderlo ed eliminarne le tracce. Il tenente venne, in un primo momento, arrestato, ma, in seguito, i fatti vennero insabbiati e il tenente, a quel tempo simbolo della patria e dell’onore, fu lasciato libero. L’opposizione socialista tentò di mantenere i riflettori puntati su quanto accaduto, servendosi dei giornali e sfruttando l’occasione per attaccare l’esercito che, a quei tempi, abusava di ragazzine aventi un passato particolarmente difficile e una vita infelice e sfortunata, e l’onorevole Todeschini attaccò ripetutamente il tenente Trivulzio fino a essere denunciato per diffamazione da quest’ultimo. Non vi fu mai una sentenza con una reale condanna per omicidio e i testimoni e i complici vennero tutti corrotti.
Dacia Maraini raccontò una triste storia realmente accaduta, avvalendosi di deposizioni, documenti e testimonianze; utilizzando un linguaggio asciutto, scarno, lineare, cercò di portare alla luce una storia messa nel dimenticatoio e di fare giustizia.
Così si conclude il processo Todeschini con una sentenza che sembra finta tanto è teatralmente di parte. Isolina Canuti, si legge fra le righe, se l’è voluto. La sua leggerezza l’ha perduta, peggio per lei. D’altronde un giornale l’ha pure scritto: il tenente Trivulzio ha lungamente sofferto ed espiato per una “leggerezza” che i socialisti non dovrebbero certo condannare, essi che praticano “l’amore libero”. Quasi che l’assassinio facesse parte dell’amore libero.
Nella sentenza comunque si fa capire che Trivulzio sì, è stato leggero, forse un poco incosciente, ma cosa conta la vita di una ragazzina di famiglia oscura, povera e di scarsa moralità di fronte all’onore dell’esercito? Ed è quello che alla fine trionfa, contro tutte le evidenze con la forza di una ideologia che doveva esprimere l’ideale del paese9.
Il 1984 fu la volta del Treno per Helsinki, pubblicato da Einaudi, che tratta il tema del Sessantotto. Armida, la protagonista, ritorna con la memoria agli anni passati, rievocando immagini, momenti, volti e sogni. Nello specifico, ricorda il viaggio in treno per arrivare a Helsinki, un viaggio vissuto con degli amici, durante il quale l’entusiasmo, la passione, un grande fervore si mescolano con le complicazioni e le difficoltà dell’amore, quasi sempre non corrisposto, mentre l’amicizia resta un legame forte e solido. Nella narrazione sono presenti molti dei temi ricorrenti nelle opere della Maraini, ossia l’aborto, la violenza e l’omosessualità, e il testo risulta essere intrigante, curioso e interessante, dal ritmo frenetico.
Nel 1997 uscì un altro suo libro, Dolce per sé, pubblicato da Rizzoli. Uno scambio di lettere durato sette anni, dal 1988 al 1995, tra Vera, la protagonista, e l’amica Flavia – che inizialmente ha solo sei anni: vi si ricorda l’amore per un giovane violinista, Edoardo, zio di Flavia. Le lettere sono a tratti coinvolgenti a tratti monotone, con un linguaggio ricco di diminuitivi; la vita descritta si snoda tra viaggi e concerti, ma la scrittrice cerca di raccontare anche la stanchezza del vivere, la debolezza e la forza di ogni donna. Il titolo stesso, che richiama le Ricordanze di Leopardi, allude a un altalenante movimento tra presente e passato, tra il pensiero vivo e contemporaneo e la memoria.
Pensavo di non scriverti più e invece eccomi di nuovo qui con carta e penna. È curioso che fra tutte le persone che conosco io abbia voglia di parlare soprattutto con te. (…) Eppure mi sembra che da questa distanza, per qualche misteriosa alchimia ottica, io ti veda proprio vicina come se tu fossi a pochi centimetri dal mio naso. E il vederti accanto mi rallegra, mi dà voglia di parlarti come parlerei ad un’altra me stessa invisibile e segreta10.
Il 2009 vide la luce La ragazza di via Maqueda, pubblicato da Rizzoli. Si tratta di una raccolta di racconti, frutto sia di immaginazione sia di ricordi nei quali si descrivono, sempre tramite figure di donne, alcuni luoghi e paesaggi cari alla scrittrice, come Roma, la Sicilia e l’Abruzzo. Il titolo della silloge, tratto da uno dei racconti contenuti nel libro, fa riferimento a una delle principali strade di Palermo.
Il testo si presenta lineare e coinvolgente, mentre il linguaggio si fa corposo nella descrizione dei posti vissuti e raccontati dall’autrice, in una Sicilia incantata e incantevole, dal mare immenso e straordinario, dove, però, si vedono prostitute bambine che colpiscono il cuore della scrittrice e lo colmano di tristezza, mentre riecheggia la memoria della sua infanzia e degli anni trascorsi nell’isola, arcaica e rigida, dopo l’esperienza del Giappone.
Roma porta alla mente gli anni della giovinezza, dei viaggi, e il ricordo di sguardi e amici, tra cui quello indelebile della voce, dell’intelligenza e dei silenzi di Pier Paolo Pasolini, di cui la Maraini avverte sempre la mancanza.
L’Abruzzo, infine, rappresenta la maturità, la tradizione, nonché il luogo in cui la Maraini ha deciso di restare in solitudine per dare vita ai propri scritti.
La ragazza di via Maqueda è un altro modo, nonché un’altra occasione, per raccontare le donne e il loro coraggio, i loro drammi e i loro trascorsi difficili, nel cammino verso la consapevolezza di sé, ribellandosi a ogni adattamento, sottomissione e/o rassegnazione.
Sono quasi le otto. Piove. I marciapiedi di Palermo emanano un odore insistente di pesce secco e arance amare. Le palme hanno le foglie lucide. Gli ombrelli corrono, ruotano su se stessi come in una coreografia teatrale. Le vetrine dei negozi sono rigate d’acqua. I lunotti delle automobili si coprono di perluzze luccicanti11.
Un altro grande successo di Dacia Maraini è rappresentato da Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza, pubblicato nel 2013, ancora una volta da Rizzoli. L’opera, dalla forma più di un diario che di un vero e proprio romanzo, è un elogio della libertà di non possedere, di abbracciare la povertà, messo in atto attraverso una scelta estrema, quella che vede Chiara di Assisi disobbedire ai canoni dell’epoca e proseguire la propria vita nella solitudine della clausura, dedicandosi esclusivamente alla vita spirituale, nella consapevolezza delle proprie decisioni, e divenendo un esempio di donna di grande coraggio. Il testo si muove continuamente tra passato e presente, è un inno alla disobbedienza e alle donne che portano avanti le proprie convinzioni, in un’epoca dominata, ancora una volta, dalla figura maschile.
Ma povertà non è solo una bella parola, una idea astratta e attraente: povertà significa mancanza di ogni comodità, mancanza di cibo, mancanza di pulizia, di vestiti caldi, di un cuscino per la testa, di una sedia per non stare in piedi, di una medicina quando si è malati, di una coperta calda, di un paio di scarpe. Si può amare tutto questo? (…) Una povertà prescritta può essere terribile e detestabile. Ma la povertà stabilita con un atto di impegno può dare una grande autonomia. Non dipendere da nessuno, nemmeno dal proprio corpo, è un atto di libertà12.
Il 26 ottobre 2017, infine, viene edito Tre donne (Rizzoli). Ritorna, ancora una volta, il tema dell’amore vissuto diversamente da tre generazioni collegate fra loro. Protagoniste sono Gesuina, Maria e Lori, rispettivamente una nonna, una madre e una figlia, che hanno uno sguardo dissimile, delle diverse esperienze alle spalle e un differente modo di sentire e di vivere la vita e i sentimenti. I loro equilibri verranno stravolti dal tradimento di un uomo, più che dalla sua presenza, il che porterà dei cambiamenti, ponendo la passione e l’amore per la libertà al centro dei loro desideri e della loro esistenza. Il nuovo romanzo della Maraini vuole dare voce al punto di vista di ogni donna, ripercorrendo la bellezza di tutte le età della vita.
Fra le altre opere più importanti si ricordino almeno: Lettere a Marina (Milano, Bompiani, 1981), Voci (Milano, Rizzoli, 1994), La nave per Kobe: diari giapponesi di mia madre (Milano, Rizzoli, 2001), Colomba (Milano, Rizzoli, 2004), Il gioco dell’universo (Milano, Mondadori, 2007), con il quale ha vinto il Premio Cimitile per la sezione narrativa, Il treno dell’ultima notte (Milano, Rizzoli, 2008), La grande festa (Milano, Rizzoli, 2011).
Oltre ai premi già citati, le è stata conferita la Laurea Honoris Causa in Studi teatrali dall’Università degli Studi dell’Aquila, nel 2005; le sono stati, inoltre, attribuiti: il Premio leopardiano “La Ginestra”, nel 2007; il Premio “Alabarda d’oro per la letteratura”, nel 2012; il Premio “Dante d’Oro” per gli opera omnia, dal salotto letterario Bocconi d’Inchiostro, dell’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano, nel 2014. È tra le scrittrici italiane contemporanee più conosciute e tradotte nel mondo.
Riferimenti bibliografici:
- C. Pasquinelli, La donna e il divorzio, in «L’Unità», 7 maggio 1974;
- F. Manescalchi, Per la donna con furore, in «L’Unità», 23 maggio 1974;
- D. Maraini, Isolina, Milano, Rizzoli, 1992;
- Ead., Bagheria, Milano, Rizzoli, 1993;
- Ead., Dolce per sé, Milano, Rizzoli, 1997;
- Ead., Donna in guerra, Milano, Rizzoli, 1998;
- Ead., Ma il dolore non ha una bandiera, in «Corriere della Sera», 5 ottobre 2001;
- Ead., L’età del malessere, Torino, Einaudi, 2006;
- Ead., Il treno dell’ultima notte, Milano, Rizzoli, 2009;
- Ead., La ragazza di via Maqueda, Milano, Rizzoli, 2009;
- S. Giovinazzo, A. Stoppini, Il volto delle donne. Conversazione con Dacia Maraini, Roma, Edizioni della Sera, 2010;
- Esordienti: lavori in corso. Da Dacia Maraini a Paolo Giordano. Trenta consigli d’autore, a cura di N. Perilli, Roma, Giulio Perrone Editore, 2011;
- D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano, Rizzoli, 2012;
- Ead., Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza, Milano, Rizzoli, 2013;
- F. Depaolis, W. Scancarello, Dacia Maraini, bibliografia delle opere e della critica (1953-2014), Pisa, Bibliografia e informazione, 2015;
- D. Maraini, J. Farrell, La mia vita. Le mie battaglie, Pisa, Della Porta Editori, 2015;
- C. De Gregorio, Non chiedermi quando, Milano, Rizzoli, 2016;
- E. Murrali, Lontananze perdute. La Sicilia di Dacia Maraini, Roma, Giulio Perrone Editore, 2016.
- C. De Gregorio, Non chiedermi quando, Milano, Rizzoli, 2016, pp. 35-36. ↵
- D. Maraini, Bagheria, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 36-37. ↵
- C. De Gregorio, Non chiedermi quando, op. cit., pp. 21-22. ↵
- D. Maraini, Le poesie delle donne, in D. Maraini, J. Farrell, La mia vita. Le mie battaglie, Pisa, Della Porta Editori, 2015, pp. 127-28. ↵
- C. Pasquinelli, La donna e il divorzio, in «L’Unità», 7 maggio 1974. ↵
- Ibidem. ↵
- F. Manescalchi, Per la donna con furore, in «L’Unità», 23 maggio 1974. ↵
- Ibidem. ↵
- D. Maraini, Isolina, Milano, Rizzoli, 1992, p. 182. ↵
- D. Maraini, Dolce per sé, Milano, Rizzoli, 1997, p. 64. ↵
- D. Maraini, La ragazza di via Maqueda, Milano, Rizzoli, 2009, p. 24. ↵
- D. Maraini, Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza, Milano, Rizzoli, 2013, p. 84. ↵
(fasc. 18, 25 dicembre 2017)