Forme del picaresco, del Bildungsroman, della fiaba nel “Sentiero dei nidi di ragno”

Author di Giovanni Barracco

La questione della forma

La storia della ricezione critica del romanzo mostra come fin dalle prime recensioni, come anche lungo le prime analisi, il discorso sul Sentiero dei nidi di ragno si sia organizzato intorno a un nodo formale, il tema – e quindi il problema – di una sua intima duplicità, di una sua strutturale ambiguità[1]. L’intuizione di Pavese, che tanto avrebbe pesato nel tempo, che rintracciava in Calvino lo scoiattolo e lo scrittore fiabesco[2] e individuava nel romanzo un «sapore ariostesco, sebbene declinato secondo l’Ariosto dei nostri tempi, Stevenson, Nievo, Kipling, Dickens, che si traveste volentieri da ragazzo»[3], più che consentire una quieta lettura favolistica del romanzo, indirizzò la critica proprio all’approfondimento, all’interrogazione di questa endiadi. Endiadi che, esplicandosi nell’apparente oscillazione del racconto tra il piano della realtà e quello della fiaba, rivelava un’ambiguità di fondo dell’opera – formale e ideologica – che si costituiva a un tempo come il cuore del problema del romanzo e il fondo sul quale giaceva la sua consistenza, il suo ineffabile spessore poetico.

All’indomani della Prefazione all’edizione del 1964[4], e dopo l’osservazione di Asor Rosa in merito a quella componente ideologica che si configura come «garante della saldatura tra ideale e reale»[5], che rappresenta l’asse su cui si regge l’opera calviniana, la critica cominciò a mettere a fuoco l’ambiguità del romanzo, riconoscendola nelle forme di (1) elemento strutturale, che operava a diversi livelli testuali, narratologici, tematici e stilistici; di (2) elemento strutturante il romanzo, necessario al suo stesso svolgersi, e di (3) elemento costitutivo dell’opera, che aveva accompagnato Calvino sin dal principio della sua ideazione e stesura, consustanziale al romanzo stesso[6]. Che questa ambiguità fosse presente a Calvino lo si osserva leggendo la Prefazione, in cui la conclusione dello scrittore ‒ che, tracciando un bilancio della narrativa resistenziale, riconosce nella Questione privata di Fenoglio il più autentico romanzo della Resistenza[7] ‒ porta a pensare, rifacendosi a Calligaris, che:

se Calvino vede in Fenoglio la resistenza così com’era, rinnegando così l’immagine idilliaca di un mondo conciliato definitivamente grazie alla resistenza vittoriosa, è segno che l’illusione del ’46 è crollata, che il sacrificio di allora gli appare ormai vanificato, che tra ’46 e ’64 si è insinuata una crisi storica – e dunque per il nostro scrittore anche formale – che noi crediamo di poter situare alla soglia degli anni Cinquanta[8].

Lungo la Prefazione del 1964, Calvino tocca tutti i problemi che, mentre ricostruiscono l’atmosfera storico-culturale all’ombra della quale egli mise mano al romanzo, costeggiano il nucleo formale contraddittorio del Sentiero: il problema del punto di vista e la scelta della terza persona, il tema del coinvolgimento autobiografico, l’opzione del punto di vista infantile, il rapporto tra narratore orale e scrittore, la rappresentazione dei personaggi, la questione ideologica e storica della Resistenza – la speranza che essa potesse costituire un momento di vera rottura, che portasse a una realtà differente – e il problema concettuale e politico del Neorealismo; infine, più in profondità, la concezione che avrebbe dovuto sorreggere il romanzo, che fosse possibile cioè una conciliazione tra individuo e storia, io e mondo, una conciliazione che, sebbene nelle forme trasfigurate del fiabesco, avrebbe potuto compiersi.

In sostanza, se dopo il Sentiero «la delusione del soggetto storico non si limita a mutilare la fiaba della sua principale scelta formale (la prospettiva infantile) […] [ma] diventa anche crisi cosciente della fiaba [perché] il soggetto ormai ha perso il controllo della storia»[9], e le sue conseguenze sono l’approdo a un modulo fiabesco depurato della sua problematicità intima, formale e storico-politica, come sarà con il Visconte del ’52[10], il Sentiero rappresenta invece un momento complesso nella parabola dello scrittore, in cui il tentativo di operare una saldatura tra il piano ideologico e quello letterario, attraverso una forma romanzo e un personaggio volutamente, insistentemente infantile, regressivo, escluso, reietto, dà luogo a un testo in cui l’elemento contraddittorio, l’ambiguità di fondo che si registra su più piani, a cominciare da quello formale, per proseguire su quello del contenuto, è costitutivo del romanzo, necessario al suo svolgersi, e testimonia non solo il tentativo di conciliare l’io e il mondo, l’individuo e la storia, ma anche il fatto che è nello scacco, nell’inconciliabilità tra questi piani, ultimo esito del romanzo, nella struggente consapevolezza di una disarmonia ormai intervenuta tra l’io e il mondo – e di una non più possibile saldatura sul piano ideologico del rapporto tra l’io e la realtà –, che risiedono il suo nucleo oscuro e pulsante, la sua forza e il suo valore – oltre anche le pretese del suo autore.

Contraddittorietà storiche, ideologiche, formali, nella stesura del romanzo

Lo scopo di questo contributo è duplice: da un lato sottolineare come le strutture del fiabesco, del picaresco e del Bildungsroman interagiscano nel romanzo e concorrano a produrre questa contraddittorietà, questa ambiguità che rende illusorio lo scioglimento positivo e finisce, invero, per evidenziare la concreta drammaticità di un percorso di iniziazione mancata che conduce non alla maturazione bensì alla cognizione del dolore dell’essere “gettati”, nel mondo, all’agnizione della disarmonia tra il sé e il tutto[11]. Dall’altro, si vuole far luce su come questa ambiguità strutturale sia un esito inevitabile – il solo possibile – del problema romanzesco, allorquando Calvino elegge, come protagonista della vicenda, un fanciullo, un ragazzetto (persino l’età del personaggio, il suo statuto socio-ontologico, di non-più-fanciullo e di non-ancora-adolescente, è ambiguo), intorno al quale si organizzerà di conseguenza una materia che non può che restituire, nel racconto di Pin, la storia della ormai impossibile riconciliazione con il mondo e con la storia. L’intersecarsi delle forme del fiabesco, del picaresco e del Bildungsroman, se concorre a produrre un oggetto contraddittorio nella forma, per le istanze da cui muove e le tensioni cui aspira, al tempo stesso dà vita a un’opera che proprio attraverso questa intima, ostinata contraddittorietà invera la sostanza ustoria della formazione negativa novecentesca, compiendo il senso del romanzo. In sostanza, anche Pin – come prima di lui per il Pietro tozziano, il Sergio di Conservatorio di Santa Teresa, Agostino e non solo[12] – è un personaggio attraverso il quale si procede a tematizzare la negatività, a sottolineare, del processo iniziatico, il viluppo di incomprensioni e traumi, la somma delle esperienze che non conducono a nessuna conoscenza razionale di sé e del mondo, le sconfitte del tentativo di decifrare e chiarificare alla coscienza la realtà, ancor più se inserito in un universo in cui la grande storia – la Resistenza, la guerra, la chiamata all’impegno – pulsa e sembra poter offrire a chi ambisca raccontarla, dopo averla vissuta, una piena significazione di sé, sembra dare la possibilità di una conciliazione di nuovo possibile tra il sé e il mondo, di poter plasmare la realtà, dare una direzione al mondo.

Si tratta cioè, anche per il romanzo calviniano, di un’operazione strutturalmente complessa, che si inserisce nella tradizione, ancora da studiare con sistematicità, di quella particolare forma di romanzo di formazione che è il “romanzo di formazione della crisi”[13], nella sua specificità italiana; il romanzo in cui, per l’appunto, i piani del picaresco e del fiabesco, lungo i cui moduli corre un insistito autobiografismo, si intersecano in una forma di romanzo di iniziazione mancata, dove l’accento è posto non sullo scioglimento positivo, bensì sulla crisi del soggetto – una crisi che coinvolge il sé e il circostante, qui acuita dalla problematica storico-ideologica sul cui asse ruota il progetto calviniano.

È ormai acquisito che all’origine del Sentiero vi era il tentativo di trovare una via, all’interno del panorama di una letteratura resistenziale, della e sulla Resistenza, alternativa all’annullamento del soggettivismo vittoriniano di Uomini e no e all’autobiografia che rinuncia alla Resistenza di Pavese[14]. Calvino sottolinea che, quando cominciò «a scriver storie in cui non entravo io»[15], vide che tutto «prese a funzionare»[16], tanto che «più lo facevo oggettivo»[17] e più il racconto gli «dava soddisfazione»[18]. La via dunque sembrò essere quella della terza persona, ma di una terza persona dietro cui si intravvedeva l’autore[19]; una terza persona particolare, un «ragazzo, un monello»[20], un mezzano, un servo, un buffone[21], il cui sguardo rimandava al rapporto complesso, contraddittorio, che si era instaurato tra Calvino e la Resistenza, a sua volta riflesso del complesso rapporto che, mediante la Resistenza – e le speranze che questa aveva acceso – si sperava si potesse ristabilire tra l’uomo e la storia. Un rapporto difficile, tanto da fargli scrivere che quello «tra Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m’ero trovato ad avere io. L’inferiorità di Pin di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese»[22]. Come anche la spregiudicatezza di Pin, in fondo, gli corrispondeva, come intellettuale.

Si diceva dell’ambiguità: se Cecchi aveva visto nel romanzo «l’acquisizione piena della favola e il suo maturo innestarsi sul reale»[23], anni dopo questa problematica, nel rapporto tra fiaba e realtà, avrebbe interessato critici quali Falaschi, Grimaldi e Piras, che avrebbero insistito molto sulla confusione, sulla contraddittorietà e sulla problematicità come cifre proprie del romanzo: l’idea di un finale di romanzo, con Pin e Cugino che camminano insieme lungo un sentiero che vorrebbe essere luogo della riconciliazione, che rappresentasse un tentativo, andato a buon fine, di conciliazione allegorica tra uomo e mondo, io e storia, così come era stata proposta da Calligaris, sarebbe stata messa in dubbio sia dal fatto che il sentiero subisce la violazione, nel racconto, da parte di Pelle[24], che lo penetra, giungendo a rubare la pistola, sia dall’attento studio del tessuto romanzesco in cui, secondo Piras, «il senso è sia una istituzione prestabilita, che occorre far apparire, sia un senso in formazione, risultante di collegamenti sotterranei»[25].

Ma anche, soprattutto, sono le scelte di Calvino, che rompono le convenzioni del fiabesco e il suo impianto[26], che smentiscono le considerazioni e le aspettative a proposito di una formazione conciliante. In tal senso, a Grimaldi che insisteva sulla problematicità di Pin, «personaggio sospeso tra storia individuale e epos collettivo»[27], vale la pena accostare, guardando a Milanini, l’idea che la sostanza profonda del romanzo risieda proprio in una problematica ambiguità del personaggio – le cui contraddizioni storico-esistenziali (fin troppo scoperto rinvio al problema ideologico con cui Calvino dové fare i conti durante la stesura del testo) e le cui peripezie configurano come sola iniziazione possibile quella alla cognizione della linea d’ombra, alla coscienza oscura della disarmonia tra il sé e il tutto[28] ‒ e del suo “procedere”[29].

L’irruzione di Pelle nel luogo incantato di Pin e il furto della pistola-talismano, oggetto sul cui valore pure la critica si è divisa, sono premonizioni della minaccia sia allo scioglimento positivo della storia sia alla possibilità della saldatura positiva, nello scioglimento, del rapporto tra soggetto e storia, del dominio del primo sulla seconda. La fragilità del segreto dei nidi di ragno si fa metafora della fragilità della fiaba come soluzione formale, quasi Calvino prevedesse che l’illusoria conciliazione tra soggetto e storia si sarebbe spezzata e che la fiaba si sarebbe rivelata impotente a rappresentare un rapporto non più classicamente armonico, ma anzi affatto alienato. L’incrinatura, dopo il ’46 e la fine del governo di unità nazionale[30], della fiducia politica nella possibilità storica nata dalla Resistenza si riflette nell’incrinatura della forma fiabesca del romanzo, di cui rimane un’atmosfera e di cui resta, al fondo, una tensione illusoria – la tensione all’unità, alla conciliazione. Ciononostante l’opera ‒ che porta la traccia di questa incrinatura ‒, attraverso i moduli del picaresco, le peripezie del protagonista, e per mezzo del suo punto di vista, prende le forme di un romanzo di agnizione negativa, di iniziazione mancata, di un romanzo di formazione che ha il suo centro proprio nella tematizzazione della negatività.

Sembra allora riconosciuto il fatto di trovarsi di fronte a un romanzo segnato dalla duplicità, che potrebbe essere confermata attraverso una sequenza di episodi: se la pistola è l’oggetto magico che «stabilisce un rapporto diverso tra chi la possiede e la realtà che la circonda, ed è in grado di trasformare l’eroe e il suo mondo»[31], questa non produce tale effetto se non in senso apparente, perché ciò che Pin ricava dal furto è una delusione – sebbene sia proprio a quell’altezza che la vicenda si innesca, e inizia l’avventura, la peripezia. Quando Pin evade dal carcere, invece di riconoscere in Lupo Rosso il suo eroe, viene quasi scacciato, e ne ricava anche qui una delusione – sebbene sia proprio in quel frangente che conoscerà Cugino. Il gioco della guerra e quello dell’eros ‒ la trasfigurazione fiabesca dei quali è resa attraverso quel dispositivo dello sguardo, già presente nel primissimo Calvino, costituito dal distanziamento, dall’allontanamento, per adattare alla propria prospettiva ciò che si vede, nella speranza di poter comprendere, capire, «possedere»[32] ‒ si risolvono entrambi in uno scacco, una sconfitta della comprensione, dietro cui non è difficile rintracciare, a una lettura psicanalitica, i segni di un’intima complicatezza che trascende il dato di una mera anagrafica acerbità[33].

Ora, mentre il movente dell’opera è rintracciabile nel tentativo di trovare «il senso della storia»[34] e nella possibilità che un senso della storia possa essere offerto, attraverso il romanzo, alla letteratura e all’uomo stesso (come la figura di Kim e l’intero capitolo IX del romanzo, con il dialogo serrato e convinto con Ferriera sembrano dimostrare[35]), la struttura del romanzo rivela un’intelaiatura sorretta da tre moduli ‒ il fiabesco, il picaresco e il formativo-iniziatico ‒ che, oltre a essere forme filogeneticamente consequenziali[36], costituiscono i tre assi lungo i quali si interseca la vicenda di Pin, attraverso i quali è possibile comprendere appieno e cogliere la struttura del romanzo e la compiutezza delle sue conclusioni – e dunque comprendere appieno l’inquietudine, l’oscuro sentimento dello scacco che accompagna il protagonista nella vicenda e che si rivela nel finale.

Fiabesco e picaresco nel Sentiero dei nidi di ragno

Sulle strutture del fiabesco, subito riconosciute, la critica si è spesa a lungo, arrivando, nel caso di Irman Ehrenzeller, a inserire il romanzo nelle fin troppo stringenti maglie della dinamica d’intreccio della fiaba magica proppiana, rintracciando nello svolgersi della fabula la struttura fiabesca della serie di prove necessarie per entrare nel mondo degli adulti, dove le prove sono altrettante peripezie «che fanno parte di un vero e proprio rito di iniziazione»[37]. Insieme a ciò, va considerato il dispositivo fiabesco come rispondente al tentativo di allontanare la realtà in modo da «poterne osservare la complessità senza scivolare nell’autobiografismo patetico o nel documento»[38].

Alla fiaba appartengono oggetti-talismano, come la pistola, di cui si è detto, e al favoloso appartiene la trasfigurazione del paesaggio da parte dell’occhio di Pin, in una scansione degli spazi in cui il bosco è ora luogo cupo e periglioso ora luogo amico e d’avventura, dove il sentiero dei nidi di ragni si contrappone alla realtà della casa della Nera, e dove l’innesto della favola nella realtà consente al lettore di quest’opera aperta di comprendere più a fondo la difficoltà del protagonista di pervenire a una chiarificazione dei fatti al di fuori di sé, come potente e plastica rappresentazione di una difficoltà di chiarificazione dei moventi della guerra, della Resistenza, degli uomini e, infine, della storia.

Come per le strutture del fiabesco, così si possono rintracciare i moduli del picaresco andando oltre la semplice constatazione di un’atmosfera picaresca e di un personaggio venato di una natura picaresca. Luperini parlava di un «fresco fascino e di una levità picaresca»[39] tipica del filone fantastico e avventuroso, ma a testimoniare la presenza dei moduli del picaresco nella struttura romanzesca è lo stesso Calvino, nella Prefazione, quando ricorre al termine di “picaro” per rinviare al personaggio di Pin e alla sua vicenda, sottolineando la natura avventurosa della sua idea di Resistenza e dunque di romanzo[40], ma anche lo statuto ambiguo del personaggio – per l’appunto, il picaro[41]. In principio, lo scrittore ripercorre il rapporto tra il paesaggio e la storia, affermando come «lo scenario quotidiano era diventato interamente straordinario e romanzesco; una storia sola si sdipanava: era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati»[42]; in un secondo momento, presenta la scelta del personaggio Pin come la conseguenza di una necessità letteraria – per fare una letteratura che non tendesse alla retorica: «per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema […] decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio: tutto doveva essere visto dagli occhi di un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi […] in margine alla guerra partigiana, ma che […] ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…»[43].

Poi, lo scrittore introduce la possibilità del picaresco quando ripercorre il problema del «salto dal racconto picaresco all’epopea collettiva»[44], che avrebbe rischiato di «mandare tutto all’aria»[45] e che lo spinse a inventare il distaccamento – picaresco più del personaggio stesso di Pin – del Dritto, per «continuare a tenere la storia tutta sul medesimo gradino»[46], dopo che si era reso conto, notazione non secondaria, che «era il racconto che imponeva soluzioni quasi obbligatorie»[47].

In conclusione, riportando la figura di Pin – e la galassia dei personaggi della brigata[48] – e la sua istanza narrativa al proprio problema autobiografico-intellettuale – la questione della Resistenza come momento storico che potesse inaugurare una nuova saldatura tra ideale e realtà, e che dunque costituisse il momento di un nuovo dominio del soggetto sulla storia, e dunque una nuova possibilità della letteratura di porsi come dispositivo anche ideologico-pedagogico[49] –, Calvino concludeva ricordando come il romanzo fosse nato da un «senso di nullatenenza assoluta»[50], sorto dal fatto di non essere riuscito «a essere quello che avevo sognato prima dell’ora della prova; ero stato l’ultimo dei partigiani»[51] e «carico di volontà e tensione giovanili, m’era negata la spontanea grazia della giovinezza»[52], sicché aveva scelto come protagonista Pin, «un’immagine di regressione, un bambino»[53].

La ricchezza di riferimenti all’universo del picaresco, dal gruppo dei compagni di Pin alla natura avventurosa e lieve del racconto, fino al tentativo di trovare nella storia del protagonista una mise en abyme della propria vicenda biografica – e della sua generazione – sembra autorizzare una lettura in chiave proprio picaresca del romanzo, di un picaresco da intendere sia come atmosfera romanzesca (le mangiate nel bosco tra la brigata, le chiacchiere sfacciate degli adulti, il turpiloquio del protagonista, la vicenda avventurosa di Pin lungo una topografia fitta di ostacoli e opportunità, i capricci per ottenere il moschetto, gli scherzi crudeli subìti…) sia come elemento strutturante il romanzo, soprattutto se si pensa alla scelta del punto di vista, che è quello di un fanciullo, non ancora adolescente, che deforma e trasfigura l’intera realtà e gli eventi cui pure vorrebbe partecipare – e cui pure prende parte, se non fosse che lo fa senza davvero capire quello che accade.

Da un lato, abbiamo come tipico esempio di elemento picaresco, per rifarci a Francisco Rico, una genealogia degradata, la scelta di un personaggio orfano o quasi[54]. Dall’altro, sappiamo che le peripezie che accadono al protagonista acquistano rilevanza nell’intelaiatura del romanzo in quanto riferite al «caso»[55] finale, e cioè alla conquista dell’amicizia di Cugino (prima acquisizione, positiva, che afferisce all’asse del picaresco), e all’agnizione della cupa verità del dolore che incombe su di lui e che è il solo esito dell’approdo all’adultità – la consapevolezza della disarmonia, la fine del senso – e che oscuramente Pin presagisce (seconda acquisizione, negativa, che pertiene alla dimensione della Bildung).

A conferire una connotazione picaresca, sebbene problematica, che costituisce, dopo lo strato fiabesco, il secondo asse lungo il quale il romanzo si svolge, vi sono poi le scelte lessicali e, come detto, la questione del punto di vista. Per quanto concerne i campi semantici, lo spoglio lessicale avviato da Mario Alinei nel 1984 di un romanzo così particolare[56] mostrava «la ricchezza insolita del campo semantico dell’infanzia»[57], dell’allegria, nonché la caratterizzazione animalesca dei personaggi: queste scelte rivelano come Calvino «abbia concepito la guerra partigiana in chiave picaresca, quasi caricaturale, senza però che l’allegro prevalga sul serio»[58].

Per quanto riguarda il punto di vista, se è vero che Calvino rinunciò alla prima persona perché essa è sempre una «persona della crisi, della presenza, carica di spessore esistenziale, e si addice male alla rappresentazione di un mondo conciliato»[59], la scelta della terza persona non ha impedito alla critica di ravvisare come «l’avventura di Pin e dei ragazzi sia detta e vissuta al tempo stesso, così che il narratore colga il susseguirsi contraddittorio dei personaggi e vi si confonda»[60], né ha però per questo consentito una conciliazione finale. In sostanza, il punto di vista dal basso, di un fanciullo «escluso dai […] coetanei, deriso dalle donne […], strumentalizzato dagli uomini»[61], il personaggio, insomma, di Pin «assolve una funzione romanzesca fondamentale a livello di organizzazione del racconto e dei suoi contenuti»[62]: è il protagonista ma anche e soprattutto «“l’occhio” attraverso cui il lettore segue lo svolgersi degli avvenimenti, e la sua soggettiva prospettiva si affianca a quella del narratore sia nel riferire ciò che accade sia nello stabilire, al di fuori della diegesi […], dello sviluppo dei fatti, la gerarchia dei valori e dei significati dell’opera»[63].

Il terzo asse del romanzo: una Bildung negativa

È attraverso la questione del punto di vista che si giunge al terzo asse del romanzo, quello formativo-iniziatico, che a nostro giudizio implica i due precedenti, li assimila, inserendoli in una struttura più complessa, dove il magico-favoloso del mondo virato in fiabesco dagli occhi di un personaggio che rimane sempre al di qua della cognizione delle cose, e il picaresco come atmosfera e come natura del personaggio, presenza di un punto di vista abbassato e di peripezie necessarie alla costruzione di un esito finale – la conquista di Cugino, la cognizione oscura della disarmonia con il reale –, si organizzano in un’intelaiatura iniziatica negativa che rimanda al romanzo di formazione novecentesco, e specificamente alla sua forma italiana: quello in cui l’attenzione è posta non sullo scioglimento positivo della vicenda, bensì sulla tematizzazione della negatività. La vicenda di Pin assume i connotati individuali e universali della crisi dell’individuo, della crisi del soggetto di fronte alla realtà, della crisi dell’esperienza e della sua possibilità conoscitiva, infine del problema della conoscibilità e dominabilità del reale.

L’intera vicenda di Pin non porta mai a una maturazione, a ottenere una chiarezza, una verità sulle cose, sugli uomini. Pin è contrassegnato dall’isolamento e dall’estraneità, la lingua degli adulti gli è oscura (“gap, gap” le «parole nuove e colorate»[64], non scioglieranno il loro mistero ai suoi orecchi, come ai suoi occhi – al suo sguardo che osserva tutto di scorcio, e di nascosto[65] sembra sfuggire la decifrazione di quel che accade, la chiave per comprendere ciò che pure avviene, e che il lettore invece riconosce nitidamente[66]); ed è alla ricerca di quell’amico che lo possa condurre finalmente alla maturazione – all’approdo a un mondo, ideale fine ultimo per Pin, che di ogni mondo è l’escluso, quello dei fanciulli e quello degli uomini –, di un intermediario come Cugino che renda possibile a Pin acquisire consapevolezza di sé e quindi speranza nella possibilità di dominare la realtà fuori di sé.

Ma, come nei romanzi di formazione della crisi, come appunto nel Pietro di Con gli occhi chiusi e negli altri personaggi e simili e successivi, la vista di Pin spesso si ottunde ed egli è incapace di vedere a fondo. Avviene nell’episodio del morto riverso nel bosco, che spaventa Pin ma gli fa subito dire che a spaventarsi è stato un rospo: «Pin lo guarda incantato: c’è una mano nera che sale dalla terra su quel corpo, scivola sulla carne, si aggrappa come la mano d’un annegato. Non è una mano: è un rospo; uno di quei rospi che gira la notte e ora sale sulla pancia del morto; Pin con i capelli ritti e il cuore in gola corre lontano per i prati»[67].

Oppure accade quando non capisce fino in fondo il tradimento della sorella («è mia sorella, quella scimmia. Ha sempre fatto la spia fin da bambina. C’era da aspettarselo»[68]). Ma avviene anche in prigione, quando la realtà è trasfigurata nel meraviglioso («è una cosa bellissima stare seduti insieme con Lupo Rosso dentro il serbatoio: sembra di giocare a nascondersi. Solo che non c’è differenza tra il gioco e la vita, e si è obbligati a giocare sul serio, come piace a Pin»[69]). Il fatto è che:

La nuova condizione cui il personaggio perviene alla fine del romanzo non coincide con un sentimento di possesso e controllo sul mondo, ma con la dolorosa scoperta della necessità della propria solitudine e della propria estraneità: invece di conseguire un rapporto pacificato con l’esterno, egli acquisisce un “ostinato compiacimento nel rinserrarsi in una interiorizzazione forzata”, che tra i due poli opposti, il vicolo e il distaccamento, la storia e la natura, offre non certo un tramite di dialettica conciliabilità, ma piuttosto un mezzo per sfuggire ad entrambi, rifiutando ogni apertura verso qualunque altro da sé che non sia il riflesso speculare della propria nevrosi[70].

Da ciò non si può che pervenire a un decisivo rovesciamento del significato del luogo magico del sentiero: «l’incontro col proprio simile è concesso solo nell’ambito del sentiero, proprio perché tale spazio, «ben lungi dall’essere […] la “trasposizione fantastica” di una “visione conciliata del mondo”, […] si qualifica piuttosto come spazio del dissidio totale, metafora di una chiusura interiore, universo chiuso e privato in cui si coltivano le proprie frustrazione»[71]. Accanto all’inquieto simbolismo di una natura minacciosa (che pure verso gli altri, i partigiani, intrattiene un rapporto più sereno[72]) il senso della vista – la difficoltà di guardare, di vedere, e la posizione di Pin che osserva sempre di scorcio le cose, le azioni degli uomini – nelle forme di un continuo ottundimento, di una difficoltà di visuale, di una tensione a guardare che sfocia sempre in una tensione a capire sempre frustrata, rende plastico questo dissidio intimo, questa disarmonia.

L’ultimo asse della narrazione, quello dell’iniziazione-formazione, si inscrive così perfettamente con la rappresentazione di un personaggio la cui unica modificazione è interiore, ed è rappresentata da un’acquisizione di valore negativo – l’agnizione della disarmonia – a séguito delle esperienze vissute e narrate; si forma attraverso la graduale presa di coscienza dell’impossibilità di comprendere, padroneggiare, possedere per intero il mondo, e dunque nella consapevolezza dell’irrimediabile dissonanza tra io e mondo e, dal punto di vista storico-gnoseologico, si configura come lo scacco della pretesa del soggetto di dominare la storia (o, meglio, dell’intellettuale di compiere sul piano ideologico la saldatura tra il soggetto e la realtà).

Il finale del romanzo apre all’interrogativo sul dolore dell’iniziazione («E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano»[73]) ed è l’ultimo di una serie di momenti dominati dall’ambiguità e segnati dalla duplicità che, invece di modificare la condizione del personaggio, ne ribadiscono lungo la vicenda la «dolorosa consapevolezza della propria condizione di escluso, di non integrato, di inadeguato»[74]: la formazione di Pin è dunque la «storia di un’integrazione impossibile, e ciò che si modifica nel personaggio non è tanto nel suo effettivo rapporto con il mondo, quanto nella consapevolezza della difficoltà di qualsiasi integrazione»[75]. Questa duplicità e questa opacità della vista investono tutti i rapporti di Pin, segnati dall’impossibilità dell’incontro o dall’ambiguità: sospinto e scacciato verso Pelle o Cugino, Lupo Rosso, Baleno o il Dritto, il romanzo sembra condurre alla consapevolezza di un «sentimento della solitudine che costituisce un punto d’approdo, per una verità accertata e accettata dalla quale si deve ripartire per intrattenere rapporti non equivoci col prossimo e col mondo»[76].

Come nel finale di Agostino, anche qui la soglia dell’adolescenza si presenta carica di inquietudini, e la sola comprensione cui il personaggio può giungere è che «non era un uomo, e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse»[77]. Si può dunque dire che «l’ambiguità oscura, che esplode nel lieto fine negato ha ancora oggi una forza innegabile e vitale e fa del Sentiero un testo importante»[78], testimonianza di un’opera aperta, attuale, sul tema della crisi e dell’irriducibile frattura ormai inveratasi tra individuo e storia, uomo e natura, la speranza di una maturazione e la cognizione che la sola maturazione possibile è quella al dolore, alla consapevolezza della solitudine.

Il romanzo di un’iniziazione mancata è in realtà il romanzo di un’agnizione avvenuta, storia di un’iniziazione (in negativo) che, innervata in una trama picaresca e attraversata dallo spirito del fiabesco che trasfigura la realtà nella misura in cui questa ci viene raccontata – descritta – dal punto di vista di Pin, si compie in una tensione alla Bildung che può realizzarsi solo nelle forme di una Bildung negativa, di una presa di coscienza che l’armonia tra io e mondo – che sul piano ideologico si sarebbe potuta tradurre nel nuovo dominio del soggetto sulla storia, e nell’avvento di un momento nuovo nella vita degli uomini, vera posta in gioco dell’avventura resistenziale, e prima scaturigine da cui discende il Sentiero come opera pensata da Calvino – è perduta per sempre, e che l’adultità – se ha ancora un senso considerarla come un approdo – è solo cognizione del dissidio, dell’impossibilità di dominare la storia, della disarmonia che regola i rapporti tra le cose e l’io – e che destina il singolo a un’irriducibile solitudine, una distanza, per rifarsi a Cases, che pure non impedisce l’afflato, la tensione struggente alla ricomposizione. E che legittima, nelle forme della letteratura, la scelta, ancora, dell’impegno – sebbene forte di questa nuova consapevolezza.

Se Cases riprendeva per il primo Calvino le categorie di “romanzo di educazione” e “romanzo di sviluppo”[79], lo faceva proprio alla luce di quella tensione originaria racchiusa nel Sentiero, che ne fa un romanzo di formazione anche secondo l’antico compito che questo genere si prefiggeva, quello cioè di essere un’opera aperta che doveva essere completata dal lettore – conclusa la formazione del romanzo, nella vita. Milanini scrive di un’opera aperta, la cui posta in gioco, che è il suo stesso senso, è lasciata nelle mani del lettore[80]; la vicenda di Pin, nata da una tensione ideologica, progettata superando la problematica del coinvolgimento autobiografico, della retorica resistenziale, concepita in un momento di fiducia nella storia e scritta quando questa fiducia è già stata delusa, implica in sé l’incrinatura di questa fiducia, e ne esplica il fallimento in una forma complessa, in cui all’intelaiatura romanzesca contribuiscono il fiabesco e il picaresco, e che si risolve non sul piano di un’armonia in sede ideologica, ma su quello di un’agnizione della disarmonia tra soggetto, storia, realtà e natura che è l’esito più terso che un “romanzo di formazione della crisi” – erede della crisi modernista[81], del problema della Bildung, dell’impossibilità della comprensione dell’esperienza – possa avere, di certo, in quegli anni in Italia, davanti a una simile materia romanzesca che implicava a un tempo ideologia e vita, storia e natura, io e collettività – quale è stato il caso della vicenda resistenziale e del tentativo di raccontarla.

  1. Elencare qui i contributi sul Sentiero è impossibile, per cui si rimanda alla Bibliografia sul romanzo in A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino [1991], Milano, Mursia, 2022. La duplicità, la contraddittorietà formale, a sua volta esplicazione di una duplicità di contenuto, è ravvisata, tra gli altri, come si vedrà, da Falaschi, Pampaloni, Guglielmi, Piras, Grimaldi, oltre che ovviamente, e successivamente, da Calligaris, Cases e Milanini. Sul rapporto tra i primi critici e i nodi (le problematicità formali e politiche) della narrativa resistenziale cfr. G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976 e le riflessioni sul Sentiero di C. Milanini, Neorealismo. Poetiche e polemiche, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 90-98.
  2. Così nella recensione al romanzo pubblicata su «l’Unità», 26 ottobre 1947, confluita in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi [1951], Torino, Einaudi, 1990, pp. 244-47.
  3. C. Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., La letteratura americana e altri saggi, op. cit., p. 246.
  4. Di qui in avanti si farà riferimento a I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno [1964], Milano, Mondadori, 2002.
  5. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 123. A. Asor Rosa tornerà più volte sul primo Calvino e sul problema della petizione ideologica e del rischio del populismo. Cfr. A. Asor Rosa, Calvino dal sogno alla realtà, in «Mondo operaio», aprile 1958, come le pagine in A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Scrittori e massa [1965], Torino, Einaudi, 2015.
  6. L’intersecarsi di questi tre elementi è all’origine delle riflessioni più acute sulle dicotomie che attraversano il Sentiero, le contraddittorietà, le ambiguità, di cui per primo mise in luce la crucialità C. Cases, Calvino e il «pathos» della distanza [1958], in Id., Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1974. Ma sull’elemento strutturale di simile dicotomia cfr. anche la lettura del romanzo di un esponente della neoavanguardia come A. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964.
  7. I. Calvino, Prefazione cit., p. XXIII: «fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio […] il libro che la nostra generazione voleva fare».
  8. C. Calligaris, Italo Calvino, Milano, Mursia, 1973, p. 19. Calligaris coglie l’ambiguità formale del romanzo – anche in una prospettiva esistenziale, e non solo storico-letteraria –, pur optando infine per una lettura positiva del finale.
  9. C. Calligaris, Italo Calvino, op. cit., p. 22.
  10. Si noti che, nella ricostruzione del romanzo di formazione novecentesco italiano, Clelia Martignoni preferisce guardare al Barone rampante, lasciando da parte il caso, ben più problematico e meno ideologicamente nitido del conte philosophique del ’57, già privo dell’inquietudine del Sentiero sulla questione del rapporto tra romanzo, vita, storia, soggetto e natura. Cfr. C. Martignoni, Per il romanzo di formazione nel Novecento italiano: linee, orientamenti, sviluppi, in Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di M. C. Papini, D. Fioretti, T. Spignoli, Pisa, ETS, 2007, pp. 57-93.
  11. È su questa linea che si sviluppa il dibattito sul Sentiero: semplificando, tra un’interpretazione positiva e una negativa del romanzo, della scena finale, delle peripezie e del significato – compreso o incomprensibile – che queste acquistano nel romanzo e agli occhi del lettore. Alla posizione di Calligaris – la più matura nel proporre una concezione costruttiva (positiva) della formazione di Pin, accanto alle letture più semplici dell’opera – si preferisce quella proposta da Milanini su «Belfagor», forte di un’interpretazione esistenzialistica della vicenda del personaggio, ora in C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990, pp. 13-37.
  12. I personaggi giovani del romanzo italiano del Novecento – qui si è citato Con gli occhi chiusi, Bilenchi, Moravia, ma ad essi si potrebbero accostare i personaggi dei romanzi di Quarantotti Gambini, Bassani, Morante ecc. ‒ sono segnati dal problema della conoscenza, dal trauma dell’esperienza, dal dramma della perdita di unità tra il sé e il tutto. Mi permetto di rimandare in tal senso ad alcune considerazioni sul rapporto tra Erlebnis e Erfahrung in G. Barracco, Modernismo europeo e cultura italiana in Conservatorio di Santa Teresa di Romano Bilenchi, in «Naslede», n. 54, 2023, pp. 133-47.
  13. La definizione è la sola che possa spiegare e rimandare alla specificità del romanzo di formazione nel tempo del modernismo in Europa, da un lato, e alla specificità del romanzo di formazione italiano, prettamente novecentesco e tematizzante la negatività, romanzo, cioè, sempre di crisi. Mi permetto di rimandare ad alcune considerazioni sul tema in G. Barracco, Vocazioni irresistibili, vuoti vertiginosi. Il romanzo di formazione italiano negli anni Ottanta del Novecento, Roma, Studium, 2019.
  14. Calvino fa riferimento nella Prefazione a questa divaricazione di soluzioni – peraltro osservata anche dai critici della narrativa resistenziale, in primis Falaschi.
  15. I. Calvino, Prefazione cit., p. XX. Storie in cui, cioè, “non entrava l’io”.
  16. Ibidem.
  17. Ibidem.
  18. Ibidem.
  19. Sulle interferenze, la relazione e la presenza dell’autore-Calvino dietro lo sguardo di Pin cfr. le dense osservazioni di E. Grimaldi, Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, in «Misure critiche», gen.-mar. 1976, pp. 33-59.
  20. Così F. Fortini, Due storie di ragazzi, in «L’Avanti!», 13 novembre 1947.
  21. Ibidem.
  22. I. Calvino, Prefazione cit., p. XX.
  23. E. Cecchi, Il visconte dimezzato, in Id., Di giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954) [1954], Milano, Garzanti, 1977, pp. 314-17.
  24. Come Calligaris stesso, comunque, riconosce.
  25. F. Piras, Arbitrarietà e motivazioni nel Sentiero dei nidi di ragno, in Dalla novella rusticale al racconto neorealista, con pref. di S. Maxia e G. Pirodda, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 155-69.
  26. La lettura proppiana del Sentiero, pure suggestiva (cfr. C. Irmann-Ehrenzeller, La struttura fiabesca nelle prime opere di Italo Calvino, in «Cenobio», ott.-dic. 1987, pp. 339-56) non pare del tutto adeguata a comprenderne le implicazioni, poiché gli elementi – personaggi, oggetti, atmosfere, peripezie – non riescono a risolversi tutti all’interno degli schemi del fiabesco, anzi sovente vi sfuggono.
  27. E. Grimaldi, Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, art. cit.
  28. Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit. Si ricordi che Calvino si laureò a Torino con una tesi su Conrad.
  29. Milanini descrive proprio il “lieto procedere” del romanzo – e di Pin – pur davanti alla cupa realtà del racconto di un’iniziazione negata.
  30. È uno dei cardini del discorso di Calligaris, quello di una genesi sofferta del romanzo come irrisolto tentativo, per intervenuti mutamenti storico-politici (la fine del governo di unità nazionale), di scrivere un’opera testimone di una nuova concordia, di una, appunto, nuova fase della storia – e dell’uomo. Senza confidare troppo nelle equazioni esatte tra storia e letteratura, non si può non rimarcare come l’elemento storico-politico incida nella poetica e nelle scelte letterarie di Calvino.
  31. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 94. Ponti non è persuasa di questa interpretazione, troppo stringente, come anche E. Grimaldi in Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, art. cit.
  32. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 98.
  33. Così C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit., pp. 32-33.
  34. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 45.
  35. Il capitolo IX, problematico e inespungibile – anche a detta dello stesso Calvino nella Prefazione – e la figura di Kim sono stati oggetto anch’essi di innumerevoli letture, molte di esse attente alla formazione di Kim e alle formazioni speculari di Kim e Ferriera. Sulla specularità tra Kim e Pin cfr. V. Spinazzola, L’io diviso di Italo Calvino, in Id., L’offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento, Napoli, Morano, 1990 (pubblicato nel settembre 1987 su «Belfagor»), pp. 43-74.
  36. Nella storia dei generi – e delle forme originarie – letterari, fiabesco, picaresco e formativo-iniziatico intrattengono un complesso rapporto filogenetico e ontogenetico. Tra i tanti studi sul picaresco cfr. F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, Milano, Bruno Mondadori, 2001. Per il romanzo di formazione, oltre alla troppo limitante analisi di Moretti (F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 2001), tra i tantissimi contributi cfr. per le fonti cavalleresche E. Köhler, Il sistema sociologico del romanzo francese medievale in «Medioevo romanzo», III, 1976, pp. 321-44, e Id., L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della tavola rotonda, Bologna, il Mulino, 1985 e, per l’Otto-Novecento, L’avventura della conoscenza. Momenti del Bildungsroman dal Parzival a Thomas Mann, a cura di R. Ascarelli, U. Bavaj, R. Venuti, Napoli, Guida, 1992.
  37. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 93.
  38. Ivi, p. 98.
  39. R. Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Loescher, 1981, Tomo secondo, p. 764.
  40. Sui riferimenti letterari calviniani, già rintracciati da Pavese, si guardi all’autore stesso e ai suoi interventi su «l’Unità»: la sua riflessione letteraria muoveva da una predilezione per Verga, Omero e Sherwood Anderson, per «raggiungere una letteratura della verità nella quale lo scrittore non rimanesse schiacciato dal peso della mera oggettività né si ponesse nei termini borghesi e intellettualistici con cui generalmente la “cultura” racconta “il popolo”» (A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 41). Nella Prefazione, Calvino stesso esibisce tra i suoi riferimenti Hemingway, Stevenson, Nievo.
  41. Sulla proteiformità del picaro e sulla sua natura sfuggente, a doppio filo legata al genere del picaresco, cfr. gli studi contenuti in Le maschere del picaro. Storia di un personaggio e di un genere romanzesco, a cura di A. Gargano, Pisa, Pacini, 2020.
  42. I. Calvino, Prefazione cit., p. IX.
  43. Ivi, p. XII.
  44. Ivi, p. XIV.
  45. Ibidem.
  46. Ibidem.
  47. Ibidem.
  48. La cui rappresentazione, esente da manicheismi, costituisce, come grumo di vitalità, un punto di forza del romanzo.
  49. La questione pedagogica è sottesa al discorso di Calvino, e innerva le sue riflessioni coeve alla stesura del romanzo, in linea con la questione di un’arte come pare di un sistema culturale posto al centro di un processo necessario di risveglio politico.
  50. I. Calvino, Prefazione cit., p. XXII.
  51. Ivi, p. XXI.
  52. Ibidem.
  53. Ivi, p. XXII.
  54. Cfr. F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, op. cit.; ma anche la sintesi che della teoresi richiana fa A. Gargano, Il romanzo picaresco tra realismo e rappresentazione della realtà, in F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, op. cit., pp. 159-74.
  55. Ci riferiamo a F. Rico, Il romanzo picaresco e il punto di vista, op. cit., sul Lazarillo de Tormes, quando sottolinea la funzione strutturante del “caso” narrato, cornice e contenuto del romanzo; p. 13: «il nucleo del Lazarillo, in tal modo, si trova nella sua conclusione».
  56. Cfr. M. Alinei, Spogli elettronici dell’Italiano letterario contemporaneo: I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Bologna, Il Mulino, 1973. Calvino già nella Prefazione sottolinea l’importanza della questione della lingua per la narrativa resistenziale, e del rapporto con la temperie dell’espressionismo.
  57. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 47.
  58. M. Alinei, Lessico come romanzo, romanzo come lessico, in «Lingua e stile», marzo 1984, pp. 148-62: 153.
  59. Così, rifacendosi a Barthes, C. Calligaris, Italo Calvino, op. cit., p. 12.
  60. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 85.
  61. Ivi, p. 50.
  62. Ivi, p. 49.
  63. Ibidem.
  64. Così il narratore, nel descrivere l’esperienza della lingua degli adulti da parte di Pin, pp. 12-13.
  65. Cfr. le riflessioni sul “voyeurismo” di Pin in C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit.
  66. A riprova della natura di opera aperta del romanzo, che «è concepita e costruita dall’autore in modo da stabilire con lui [il lettore] un rapporto di collaborazione attiva» (A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 46).
  67. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, op. cit., pp. 84-85.
  68. Ivi, p. 139.
  69. Ivi, p. 48.
  70. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 129, che cita all’interno il lavoro di E. Grimaldi, Storia di Pin. Virtualità e azione nel Sentiero dei nidi di ragno, art. cit.
  71. E. Grimaldi, citato in A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., pp. 129-30.
  72. Cfr. F. Migliaccio, Il paesaggio nella narrativa di Italo Calvino. L’immagine della natura, l’esperienza della camminata, in Convocare esperienze, immagini, narrazioni. Dare senso al paesaggio, vol. 2, a cura di S. Aru, M. Tanca, Udine, Mimesis, 2015, pp. 99-110.
  73. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, op. cit., p. 159.
  74. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 98.
  75. Ivi, p. 95.
  76. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit., p. 34.
  77. Così conclude il narratore in A. Moravia, Agostino [1943], Milano, Bompiani, 2014, p. 169.
  78. A. Ponti, Come leggere Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, op. cit., p. 116.
  79. In C. Cases, Calvino e il «pathos» della distanza, op. cit., il germanista si rifà alle categorie di Entwicklungsroman e di Erziehungsroman, “romanzo di educazione” e “romanzo di sviluppo”, articolazioni problematiche nel panorama degli studi di germanistica sul genere Bildungsroman. Cfr. su tutti L. Köhn, Entwicklungs-und Bildungsroman. Ein Forschungsbericht, Stuttgart, J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1969.
  80. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, art. cit., p. 36.
  81. Sul rapporto tra romanzo di formazione e modernismo, tra gli altri, cfr. la panoramica dell’ultimo capitolo della ultima ed. di F. Moretti, Il romanzo di formazione, op. cit., Un’inutile nostalgia di me stesso.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)