Il riferimento alle opere e alla statura etica di Manzoni costituisce una costante, variabile nel tempo, nella carriera letteraria di Pomilio, sul terreno saggistico e in quello creativo, con il capolavoro del Natale del 1833, Premio Strega del 1983, a suggellare un confronto serrato sul senso dell’«accadere» nella storia e sulla possibilità della fede nel mondo degli uomini, dominato dall’evidenza del male che colpisce l’individuo e la collettività. Nella notevole produzione saggistica, Pomilio si interroga anche, in modo a mio avviso significativo, sul declino dell’autorevolezza morale manzoniana in scrittori di qualche decennio posteriori in un clima storico e di sensibilità religiosa del tutto diverso, in particolare nell’ambito degli studi sul Verismo, su De Roberto e intorno a Pirandello.
Il presente intervento prosegue idealmente l’esperienza del 2017 ideata con Pierantonio Frare della pubblicazione congiunta tra le riviste «Testo» e «Studium» di due numeri monografici su Manzoni e gli scrittori del Novecento[1], a cui, negli anni, sono seguiti altri contributi sul tema, basti pensare al volume di Raffaello Palumbo Mosca, edito da Inschibboleth nel 2020, L’ombra di Alessandro. Manzoni nel Novecento[2].
Frare individua una funzione Manzoni in autori della seconda metà del Novecento molto diversi tra loro per obiettivi assunti, per mezzi impiegati nella scrittura, per contenuti, a dimostrazione della complessità e dell’altezza dei temi affrontati non solo nel romanzo, ma nell’intera opera manzoniana. Citiamone qualcuno, oggetto di saggi nell’iniziativa delle due riviste: Moravia, Calvino, Sciascia, Bassani, Testori, Fortini, Buzzati, Gadda, Primo Levi, Ginzburg fino ad autori contemporanei, come Eraldo Affinati e Fabio Pusterla.
Coscientemente o no «si cerca Manzoni», e quella di Pomilio è tra le voci più autorevoli e sintoniche in questa numerosa schiera di scrittori cui se ne possono aggiungere ancora altri particolarmente nella scrittura femminile, dal romanzo storico a quello intimo e familiare.
Già nel 1955, Pomilio pubblica nel «Ragguaglio delle attività culturali e artistiche dei cattolici in Italia» l’importante contributo Per una caratterizzazione della narrativa cristiana, ora meritoriamente riproposto nell’edizione postuma e ampliata di Scritti cristiani a cura di Marco Beck e con un’introduzione di Giuseppe Langella.
Il saggio si sviluppa in modo circolare, iniziando e concludendo il discorso chiamando in causa il massimo scrittore cattolico dopo l’Alighieri particolarmente attuale a metà del Novecento perché «mai in riposo» rispetto alla serietà, anche dolorosa, delle riflessioni morali che investono direttamente – è precipua convinzione di Pomilio lettore di Manzoni – la sfera sociale.
«Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero» è la sentenza manzoniana ripresa da Vigorelli nel suo Manzoni e il silenzio dell’amore (1954)[3] con il quale Pomilio avvia il saggio per concluderlo con il commento a un brano della celebre lettera a Chauvet, lasciando ai lettori un chiaro messaggio sulla necessità dello scrittore di essere autentico, non puntando su una comunicazione facile o commovente, ma piuttosto[4]
favorendo lo sviluppo della forza morale grazie alla quale si riesce a dominare e indirizzare le passioni. Ė di fronte alle passioni che hanno tormentato l’uomo che lo scrittore può farci concepire quel fondo comune di miseria o di debolezza che predispone a un’indulgenza frutto non di stanchezza o di disprezzo, ma di ragione e d’amore.
In quest’ottica, costruita sulle solide fondamenta di una «commozione intrisa di pietà», le «ragioni narrative» risiedono nell’esplorazione delle profonde radici morali dell’uomo; e nessuno più del cristiano può dirsi forte di una dottrina e di una tradizione che vanno in questa direzione. Il puro realismo, altro Leitmotiv del Pomilio saggista, riduce l’uomo a spazio, cellula geografica o storica, operando uno scisma esecrabile tra vero e reale, tanto che la narrativa verista di quegli anni (i primi dei Cinquanta) offre un’immagine dimidiata, lacerata, incompleta, sterile e rassegnata a non saper proporre valori positivi.
Mi riservo un approfondimento su queste decise parole di Pomilio, per capirne i riferimenti diretti, anche tenendo presente l’immagine e poi le ampie spiegazioni di poetica (in particolare la Nota all’edizione della trilogia dei Nostri Antenati, 1960) da parte di Italo Calvino, praticamente coetaneo dello scrittore abruzzese, sulla lacerazione della persona, nella storia generale e in quella individuale, rappresentata in quegli stessi anni dal Visconte dimezzato. Anni difficili, dove per entrambi il sintagma ha un valore di centrale spunto narrativo, non solo in chiave biografica o concettuale.
Per Pomilio, ancora nel saggio del 1955, è urgente tornare all’essenza del messaggio cristiano come veicolato da Manzoni, non evitando di rappresentare, vedi l’esempio di Graham Greene e François Mauriac, la colpa, la maledizione e la lontananza, ma come illuminate da una luce di possibilità, di Grazia, nel pieno di una sensibilità che potremmo fissare – con la perfetta definizione di Giorgio Bàrberi Squarotti[5] – nell’ambito del tragico cristiano rappresentato in modo superlativo, fra tradizione e attualità, nella stessa figura del Manzoni intento alla riscrittura del Giobbe nel Natale del 1833.
La lunga fedeltà che sfocia nel romanzo assieme ad altre citazioni importanti sparse nell’attività saggistica di Pomilio è testimoniata da quattro scritti su Manzoni di varia lunghezza che dovevano figurare nell’ampia raccolta saggistica a cura di Mirko Volpi, arrivata fino alle bozze di stampa e ad oggi rimasta nei cassetti dell’editore Aragno. I saggi del quadrante di fine Ottocento sono rifluiti nel bel volume Mario Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, del 2017, sempre a cura di Mirko Volpi con un’introduzione di Paola Villani, come vedremo brevemente a conclusione di questo saggio.
I quattro interventi manzoniani dovevano figurare nella raccolta, in un capitolo espressamente dedicato, il IV: A proposito del Manzoni minore, del 1959[6], e La spiritualità di Enrichetta Blondel, del 1983, chiaramente attinente ai materiali del romanzo, entrambi pubblicati da Tommaso Pomilio sul numero di «Studium» del 2017; De Sanctis e Manzoni: il maestro del realismo, del 1969, e il più lungo e articolato Natura umana e stato sociale nella visione del Manzoni del 1973, che riprende e amplia le prospettive del 1959.
Altri articoli di carattere occasionale su quotidiani con al centro Manzoni o problematiche legate alla sua opera si incontrano nell’utilissima bibliografia delle opere a cura di Paola Villani e Giovanna Formisano nel volume curato dalla Villani e dal sottoscritto per Studium nel 2014: Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli[7].
Introducendo il volume, la Villani nota utilmente lo specifico interesse di Pomilio di incrociare i dati biografici con l’opera, particolarmente rilevante, aggiungo, nel caso di Manzoni sull’origine e la persistenza del male nella storia e oserei dire nella famiglia stessa, come è noto flagellata da lutti e da morti precoci.
Con questi interventi di taglio narrativo, ma saldamente ancorati a letture aggiornate di esegesi manzoniana, Pomilio si inserisce autorevolmente nel dibattito sui Promessi sposi tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento di cui in parte riferisce, per gli aspetti che a mio avviso più riguardano lo scrittore abruzzese, Luciano Parisi, nell’utile volume Come abbiamo letto i Promessi sposi.
Pur cosciente di generalizzare, Parisi individua sul tema del Male, negli studi coevi agli articoli di Pomilio e che lo scrittore ben conosce, due linee critiche da cui, ovviamente, partono sfumature anche molto connotate da posizioni distanti: da una parte, con Ulivi e Angelini soprattutto, la valorizzazione della fede degli umili come speranza sempre accesa per la conversione dei potenti e quindi di un mondo migliore, comunque già giustificato dalla Croce, nell’ordalia delle sofferenze e del dolore, provocato molto spesso dalla dissennatezza umana che usa pessimamente il libero arbitrio; dall’altra – e Parisi individua negli studi di Jacques Goudet[8] la versione più autorevole –, quella parte della critica che vede in Manzoni un pessimismo radicale sulla storia degli uomini, maturato con gli anni, mal celato con il palliativo della Provvidenza.
Non è qui il caso di penetrare in queste affascinanti pagine di critica manzoniana per dettagliare l’inevitabile grossolanità di una divisione puramente scolastica ma non inutile; sottolineiamo, invece, quanto, nella direzione del tragico cristiano, Pomilio, più di vent’anni prima del romanzo vincitore dello Strega, giudicasse la Storia della colonna infame tra le opere più alte di Manzoni, trascurate dalla critica e che invece chiude il ciclo della maggiore ispirazione iniziato con gli Inni e proseguito con il romanzo. Non si tratta certo, come stigmatizza negli articoli del ’59, di un Manzoni minore, parlando a centotrent’anni dalla prima apparizione di quella cronaca della Peste. La vera colpevole della tortura e della morte innocente del Mora è la passione pervertitrice che anima negativamente le azioni umane descritte da Manzoni da storico e scrittore insieme: per Pomilio don Alessandro lascerebbe cadere quel fatto di cronaca senza lasciarsi sedurre dalle grandi possibilità fantastiche e drammatiche che il tema gli offre. In un’emblematica contraddizione, probabilmente cosciente frutto di un trasporto di anima affine, sintonica, almeno su certe problematiche dell’esistenza umana, egualmente in bilico tra saggistica e narrativa, lo scrittore del Quinto evangelio evidenzia quante volte nel corso delle pagine della Storia della colonna infame baleni la forza rappresentativa propria del romanzo, per esempio negli episodi tragici degli arresti, della tortura, della delazione; non si contano, poi, le massime morali, definite «stupende» dall’ammirato saggista, degne di stare alla pari con le più celebri dei Promessi sposi[9].
Ciò che si è detto ci aiuta del resto a comprendere come mai neppure come opera storiografica la si giudichi perfettamente riuscita. Si dice di solito che Manzoni storiografo è troppo sottile, troppo acuto, troppo moralista. Ma se questo è vero soprattutto se riferito alla Storia della colonna infame, è solo perché egli scrive da romanziere e con lo stato d’animo d’un romanziere. Quella sottigliezza che vi si ravvisa è la sottigliezza dello psicologo, quel moralismo è di chi, più che esaminare i fenomeni storici nella loro ampiezza, s’addentra nell’intimo delle coscienze a cercare moventi e colpe.
In Natura e stato sociale nella visione del Manzoni, Pomilio introduce un altro carattere di originalità della sua interpretazione manzoniana, dando all’etica cristiana delle opere una forte valenza sociale, rivalutando e valorizzando, dal punto di vista più schiettamente letterario, il dono dell’ironia manzoniana quale costante resilienza alla malignità del furore delle passioni scellerate. Un sincretismo culturale capace di far rifluire nelle pagine saggistiche la tensione socialista della gioventù con l’etica cristiana, grazie alla visione di una letteratura al servizio dell’uomo integrale, composto inscindibilmente di anima e di esigenze concrete, dipendenti soprattutto dal lavoro, terreno sul quale anche il Pomilio lettore di Manzoni auspica un assoluto senso di giustizia tra padroni e umili operai.
Se nella storia, di cui ribadisce il valore dell’accadere, a partire proprio dalla ripetizione di questo verbo fin dall’incipit dei Promessi sposi, in apparenza sembra regnare la ragione dei potenti rispetto a chi è destinato a passare inosservato sul palcoscenico della realtà, la situazione può rovesciarsi con le armi letterarie e umane dell’ironia e della pietas, caratteri precipui della lettura pomiliana:
L’effetto, l’effetto a sorpresa, e al limite l’ironia, sono ottenuti piuttosto con una rottura della continuità, la brusca slittata in basso che, contro ogni previsione, succede alle aspettative suscitate dal verbo accadde. Ma sono anche ottenuti attraverso un vistoso gioco di sproporzioni: dieci parole e più, e tutte di tono alto, per il governatore, il potente, il protagonista della grande storia, due soltanto, e talmente più dimesse, per colui che vi passa anonimo, senza in pratica lasciarvi traccia. Eppure per effetto di questo classico esempio di mons parturiens, in cui il monte è il Signor Gonzalo e il topolino, beninteso, è don Abbondio, accade un fatto straordinario: l’ironia, una volta tanto, lambisce appena don Abbondio e si sposta tutta in su, in direzione del potente: è come se un riflettore investisse dal basso la figura del Signor Gonzalo, ma, per un curioso effetto ottico, invece d’avvivarla, la pietrificasse, riducendola a simulacro, addirittura a statua funebre: la solenne sequenza dei suoi appellativi campeggia sì, ma al modo d’un epitaffio. A dirla altrimenti, pur nella sua brevità, l’inciso rappresenta il primo saggio del nuovo tipo di protagonismo – nuovo rispetto a quello delle due tragedie – che ispira e sorregge l’intera struttura del romanzo; il primo saggio, in altri termini, della inversione di tendenza attuata dal Manzoni «assegnando agli illustri della storia (come ha detto un suo critico) una parte secondaria e strumentale, e ponendo nella parte centrale e principale gli umili, gli ignoti di cui la storia tace».
Ne consegue il proposito di rompere con le convenzioni storiografiche ed estetiche fino a quel momento accettate con la conseguenza di una completa demistificazione dei protagonisti tradizionali della storia, e lo è
ma lo è in egual misura quella del modo tradizionale di concepire la storia, e di fare storia: alle «Attioni gloriose» da imbalsamare con gli inchiostri, succedono ora gli eventi di gente di «piccol affare», da narrarsi al contrario «schiettamente e genuinamente»; e se quelle sono «le spoglie sfarzose e brillanti» della storia, ne sono questi i fatti veramente «memorabili», meritevoli di «lasciarne memoria a Posteri»: senza parere, siamo nel cuore della poetica del Manzoni al momento in cui s’accinge a comporre il romanzo: la storia diseroizzata e la realtà degli umili fatta centrale, le loro condizioni, il loro destino poste al centro della meditazione morale ed estetica dello scrittore.
La domanda sul Male si ripropone subito dopo: il cattolico Manzoni non poteva porsi il problema se non in termini di responsabilità, cioè di libero arbitrio, regolato, nel caso dei giudici che avevano intravista la verità dalle «passioni pervertitrici della realtà», la vera radice del grande errore. Pagine altissime e complesse, ribadisce Pomilio, quelle della Storia della colonna infame, dove anche la linea illuministica della cultura manzoniana interseca la sua «sensibilità di cristiano», portando a compimento una dialettica iniziata all’epoca del Conte di Carmagnola: «i potenti da un lato, gli umili dall’altro; da un lato gli errori – o le colpe – di coloro che sono attori o artefici di storia, dall’altro la condizione di coloro che ne sono vittime».
Una visione che interviene indirettamente su di un altro nodo interpretativo importante dell’esegesi manzoniana, il rapporto di continuità o di rottura tra la cronaca e il romanzo[10], scegliendo nettamente la prima strada, con quell’anaforica ripetizione del sintagma delle «passioni pervertitrici» legate al libero arbitrio nella sua applicazione più deleteria.
La prospettiva del romanzo si amplia e Pomilio, con grande intelligenza e passione, la pone sotto le insegne del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia che illustra come Manzoni, scrittore sociale, abbia voluto, fin dall’inizio, porre l’accento sullo stato generale di coloro dei quali solitamente i libri di storia si dimenticano, partendo dalle esigenze degli umili per parlare poi dei potenti con il metro di giudizio dei primi. Congiunte perfettamente, in questa visione ricolma di pietas per quella immensa moltitudine di uomini che passa sulla terra senza lasciare traccia, le ragioni dello storico con quelle dello scrittore cristiano, questo ideale, scrive con finezza e intelligenza Pomilio, coincide con quello moderno di una storiografia democratica tesa a non dar conto soltanto delle azioni dei potenti, anzi, come scrive nelle pagine seguenti commentando l’Adelchi in questa chiave, promettendo una continua verifica della storia in cui diventa chiaro che i responsabili della malvagità, a prescindere dagli strumenti ciechi (i bravi), si trovano sempre dalla parte privilegiata della società. Pomilio ne tira le conseguenze, rischiando di oltrepassare la volontà manzoniana insistendo sugli aspetti sociali del monito catechistico della Morale cattolica per cui i peccati si aggravano in proporzione al danno che con essi si fa volontariamente al prossimo. Colpa pesante è dunque il malgoverno, accusa Pomilio in quei difficili anni Settanta in cui la contestazione produce anche degenerazioni violente, affiancando il terrorismo.
Tematiche che restano centrali, a mio modo di vedere, anche negli aspetti sociali, negli studi sul secondo Ottocento assieme ad altri interessi preminenti che potrei riassumere nelle seguenti linee esegetiche: letteratura come amicizia, per esempio tra Verga e Capuana e nel gruppo dei veristi che, come in uno specchio di ritorno inquadra nel passato le esperienze delle «Ragioni narrative» con i sodali Mimì Rea, Luigi Compagnone, Michele Prisco, Luigi Incoronato; la figura centrale ed eclettica di Luigi Capuana, tuttora trascurata e invece pirandellianamente assai più complessa dell’etichetta di teorico del Verismo; il silenzio di Verga, poeticamente interpretato nella complessiva decadenza del Verismo dopo una manciata di anni irripetibili; immancabile la questione del male nella storia, anche in forma di malcostume politico e corruzione, in cui si situano pagine fondanti sul bagliore inestinguibile della Provvidenza, rispetto alle forme di pessimismo radicale coltivate da Verga e soprattutto da De Roberto. Premetto questo sintomatico passaggio su Verga, soffermandomi poi sulla radicale visione della storia di De Roberto. In L’eclissi del Verismo scrive significativamente lo scrittore abruzzese, dopo aver spiegato come la fede venne meno in Verga non appena aprì gli occhi per scrutare a fondo la realtà regionale italiana in cui religione, patria, morale erano ignoti o ridotti a puri nomi: «Per nostro conto, abbiamo piuttosto sempre pensato a quanto apparirebbero simili il mondo di Verga e quello di Manzoni, se questo non fosse percorso dall’interno dal flusso provvidenziale della Storia». La componente sociale è forte, come mi pare di poter dire in tutto l’impegno saggistico di Pomilio, inscindibile dall’etica e dall’etica propria della letteratura[11]. Un tema che attraversa negli anni la narrativa di Pomilio, estremamente camaleontica, nella fedeltà ad alcuni super temi, come si è visto, dai romanzi della provincia italiana ai testi distopici a quella inimitabile filologia del verisimile che caratterizza i suoi capolavori.
Opportunamente Paola Villani, nella brillante introduzione, sintetizza l’approccio a De Roberto, lo scrittore più interessante sulla linea di capovolgimento di certe istanze manzoniane ben svelata da Pomilio e che costituisce il profilo più problematico della serie di personalità dell’ultimo scorcio dell’Ottocento e dei primi decenni del secolo successivo. Come per il «silenzio» di Verga, interessano a Pomilio i motivi dell’afasia derobertiana, a seguire la tragica descrizione di un Risorgimento tradito nella saga degli Uzeda. Proprio con l’incompiuto L’imperio questa paralisi della comunicazione trova un’immagine potente, emblematica[12]: «l’impossibilità di scrivere, la decostruzione dell’intreccio in frammento, che non di rado per Pomilio si faceva tema letterario», in particolare, aggiunge Villani, nella natura dialogica e aporetica della narrazione dei racconti del «dissesto» raccolti nel Cane sull’Etna.
Contando sul sostegno di critici della caratura di Carlo Bo e Luigi Russo, Pomilio afferma la centralità dei Vicerè[13], romanzo ancora trascurato dalla critica (oggi non credo che ciò si possa ancora affermare con cognizione di causa), considerandolo come la più seria proposta problematica che possediamo intorno alla mancata rivoluzione del Sud, come la più complessa messa in discussione dei valori risorgimentali tentata da un uomo dell’Ottocento in un momento in cui la Storia presentava a un tratto le sue scadenze; in fin dei conti, gli episodi politici del celebre romanzo al centro dell’incompiuta trilogia degli Uzeda[14] «sono essenzialmente la protesta di un liberale del Sud contro la classe dirigente del Sud, l’esplosione di un crudo disinganno di fronte a quella grande illusione tradita che fu per il Sud il 1860».
Il romanzo esce l’anno dei fasci siciliani, 1894, una coincidenza illuminante per Pomilio nella considerazione di un Risorgimento incapace di assolvere i compiti assegnati e assai lontano dal portare in quelle regioni una libertà sostanziale. L’arguzia critica dello scrittore abruzzese coglie in modo eccellente un aspetto giudicato negativamente dagli studiosi: l’assenza di tragico nello scrittore campano/siciliano, giudicata come realistica alla luce di quella dimensione tipica nella letteratura novecentesca italiana, di una riduzione delle azioni politiche alla meschinità di obiettivi puramente e bassamente economici. Un’etica talmente povera e angusta da richiamare, per contradditorio, il modello manzoniano; la condanna della società non serve a De Roberto[15],
come per esempio al Manzoni, a far piovere pietà sugli individui, ancor meno a cercare un contrappeso in una ragione storica o in una trascendenza. Al contrario la spietatezza con cui rappresenta gli individui gli serve a meglio condannare la società, a meglio mostrare l’impossibilità, non diciamo d’una trascendenza, ma neppure d’una storia. Se la storia, negli storicisti, è progressione in vista d’una logica, l’unica sua logica, nella visione di De Roberto, è d’essere senza progressione.
Un antistoricismo non astratto che assume tratti naturalistici ed è consapevole di consistere nei caratteri dei singoli protagonisti della famiglia vicereale degli Uzeda e che ha anche, nel suo sviluppo decisamente prospettico, una dimensione geopolitica molto precisa nel microcosmo siciliano, con tutte le differenze possibili da annettere a quel contesto meridionale così caro all’azione intellettuale di Mario Pomilio, dall’Abruzzo alla città partenopea, sempre presente nell’attività saggistica, dalla tesi di laurea su Pirandello fino agli ultimi saggi su Scarfoglio. Un’idea pessimistica della storia che si rinnova in una chiave diversa con Pirandello, nel definitivo declino anche della scienza positiva, discusso nell’ultimo saggio raccolto nel volume di Scritti sull’ultimo Ottocento, ma discusso fin dai tempi della monografia sull’agrigentino[16].
Tuttavia, l’orizzonte della Grazia e della Provvidenza nell’inquietudine manzoniana che mai abbandona Pomilio resta una possibilità concreta, nelle stesse modalità descritte negli Inni sacri e nel romanzo di Alessandro Manzoni. La testimonianza più significativa è negli Scritti cristiani, commentati straordinariamente in questo volume da Giuseppe Langella. Concludo citando il brano celebre di Lettera a una suora che racconta un evento che «in sé non ha nulla di straordinario», a prima vista, ma che ripete la millenaria fenomenologia dell’incontro cristiano, nell’ottica di un imprevisto foriero di speranza duratura[17]:
Ed ecco che ad un tratto mi veniva incontro lei, cambiandomi molte carte in mano e introducendo molte perplessità nel mio tranquillo universo laico. La scoperta tangibile, e non solo più per udito dire, che esistessero scelte simili alla sua, esperienze di vita così esclusive e sconcertanti vissute con un’intrepidezza così serena e così sorgiva modificava insomma radicalmente la mia visione del Cristianesimo e, oltre a spogliarmi della mia scorza polemica, che sarebbe stato il meno, infiltrava in me delle inquietudini che in seguito sarebbero venute fermentando per vie insolite. […] In breve, sono nato scrittore all’indomani di quell’incontro e assai probabilmente proprio in seguito a quell’incontro.
- Manzoni e gli scrittori del secondo Novecento, a cura di P. Frare, D. Iuppa, O. Ghidini, F. Pierangeli, in «Testo», 2, 2017: O. Ghidini, Il giardino, il vento, il cuore. Prime considerazioni su Manzoni e Bassani; L. Lenzini, Appunti su Manzoni e Fortini (e viceversa); F. Danelon, La vitalità di Renzo. Pier Paolo Pasolini e Alessandro Manzoni; D. Iuppa, Una figura sulla soglia: la Monaca di Monza nella drammaturgia di Giovanni Testori; G. Sandrini, La Pentecoste, la vigna di Renzo: Manzoni nella poesia di Zanzotto; A. Brambilla, Chez don Lisander. Una conversazione manzoniana con Emilio Isgrò; M. Migliorati, A proposito di Manzoni. Intervista a Fabio Pusterla. In «Studium», n. 6, 2017: G. Benvenuti, «Un solo nome». Manzoni in Sciascia; A. R. Daniele, Buzzati e le riscritture della peste manzoniana; R. Manica, Manzoni in Moravia; F. Pierangeli, Una forma bislacca e disarticolata. “Il viva San Marco” di Eraldo Affinati; Sul Manzoni minore. Due scritti di Mario Pomilio, a cura di T. Pomilio. ↑
- Si veda anche S. Poli, «Manzoni non è un pettegolezzo». Ginzburg, Pomilio, Sciascia, in «Autografo», 58, XXV, 2017, pp. 69-95 e la significativa S. S. Nigro, Quando un evento si ribalta in metafora. Prefazione a M. Pomilio, Il Natale del 1833, Milano, Bompiani, 2015, pp. 5-15. Ancora molto utile Manzoni e gli scrittori da Goethe a Calvino, a cura di L. Caretti, Bari, Laterza, 1995. Per il romanzo manzoniano resta essenziale il saggio di C. Damnotti, Il Natale del 1833: «un componimento misto di storia e d’invenzione», in Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli, a cura di P. Villani e F. Pierangeli, Roma, Studium, 2013, pp. 328-52. ↑
- M. Pomilio, Per una caratterizzazione della narrativa cristiana, in Scritti cristiani, a cura di M. Beck e con prefazione di G. Langella, Milano, Vita e pensiero, 2014, p. 121. Il volume di Vigorelli figura nella folta lista di libri letti in preparazione della stesura del Natale del 1833. Altra citazione importante di un libro che mi sembra oggi trascurato è quella da R. Montano, Manzoni o del lieto fine, Napoli, Conte, 1950. ↑
- M. Pomilio, Per una caratterizzazione della narrativa cristiana, op. cit., p. 123. ↑
- G. Bàrberi Squarotti, Il tragico cristiano. Da Dante ai moderni, Firenze, Olschki, 2003. ↑
- Si riporta direttamente la nota di Mirko Volpi inerente alle collocazioni su quotidiani e riviste dei quattro contributi manzoniani, redatta per il volume M. Pomilio, Saggistica, come si diceva mai arrivato alla pubblicazione. Ringrazio Tommaso Pomilio per avermi permesso la lettura di questi saggi come figurano nel volume, di cui si auspica una prossima pubblicazione: 1. A centotrent’anni dalla ‘Colonna infame’, in «Leggere», V/8-9, 1959, pp. 35-36; già, con titolo A proposito del Manzoni minore, in «Il Popolo», 28 luglio 1959. 2. De Sanctis e Manzoni: il maestro di realismo, in «Realtà del Mezzogiorno», XIII/7, 1973, pp. 617-22; già, con titolo Francesco De Sanctis e il Manzoni “realista” e leggere differenze nel finale, in «Il Mattino», 11 novembre 1965. 3. Natura umana e stato sociale nella visione del Manzoni, in Atti del Convegno manzoniano di Nimega, 16-17-18 ottobre 1973, a cura di C. Ballerini, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1974, pp. 11-24; poi in «L’Approdo letterario», n. 63-64, 1973. Era già apparso, in forma più breve, con titolo Le «immense moltitudini» ignorate dalla storia, in «La Discussione», n. 26, 28 giugno 1973, pp. 22-25; e ancor più scorciato, con titolo Manzoni e la scelta degli umili, in «L’Osservatore Romano», 20 maggio 1973. 4. La spiritualità di Enrichetta Blondel, in «L’Osservatore Romano», 7 marzo 1985; poi, con titolo Dal versante di Enrichetta Blondel, in «Il Nostro Tempo», 28 aprile 1985; in «Ianuarius», n. 5, 1985; in «Terra ambrosiana», n. 6, nov.-dic. 1985. Mi attengo alle versioni più lunghe riportate nel volume a cura di Mirko Volpi, che ringrazio di cuore per il notevole lavoro di raccolta, diviso in sei sezioni secondo l’ordine cronologico degli autori esaminati negli anni da Pomilio. ↑
- Si segnalano nella bibliografia di Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli, a cura di P. Villani e G. Formisano, pp. 436-94: Il sole di Zolà e l’ombra di Manzoni, in «Il Tempo», 2 ottobre 1977; Pomilio-Manzoni. Due scrittori una sola testimonianza a Giovanni Paolo II, in «Il nostro tempo», 24 maggio 1981; L’esigenza in Manzoni di cimentarsi in una storia dal basso, in «L’Osservatore romano», 18 dicembre, 1982; Manzoni superstar, in «Il mattino», 16 febbraio 1984; Bartoli e Manzoni, vaghe analogie, in «Il Mattino», 11 dicembre 1985; La giovinezza del Manzoni in un saggio di Gaetano Trombadori, in «Il Tempo», 26 aprile 1985. ↑
- L. Parisi, Come abbiamo letto i Promessi sposi, Torino, Edizioni dell’Orso, 2008, in particolare i primi tre capitoli dedicati rispettivamente a Ulivi, Angelini e Goudet, pp. 1-56. ↑
- I testi si citano nella versione stabilita da Mirko Volpi nelle bozze di stampa per il volume Aragno. ↑
- Si veda P. Frare, Leggere I promessi sposi, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 39-47, con la relativa bibliografia sull’argomento. Di Frare si veda anche La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Firenze, Olschki, 2006. ↑
- Si considera anche, compreso nel volume M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, op. cit., il saggio Socialismo e letteratura nell’ultimo decennio dell’Ottocento, pp. 152-80. ↑
- P. Villani, Introduzione. Un apocrifo Pomilio meridionale, in M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, a cura di M. Volpi, Milano, Prospero, 2017, p. XXXVI. ↑
- Due i saggi, capitoli ottavo e nono, su De Roberto risalenti al 1960 e 1961, raccolti in M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento: L’antirisorgimento di De Roberto, Il silenzio di De Roberto, pp. 73-109. ↑
- M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, op. cit., p. 79. ↑
- Ivi, p. 88. ↑
- Si veda sempre in M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, op. cit.: M. A. Grignani, Nota finale. Il Pirandello di Pomilio, pp. 289-94. ↑
- M. Pomilio, Scritti cristiani, op. cit., p. 53. ↑
(fasc. 49, 31 ottobre 2023)