A volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l’attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata la Callas, quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione di lei. Ha contato molto nella creazione del personaggio… La barbarie, sprofondata dentro, che vien fuori nei suoi occhi, nei lineamenti, non si manifesta direttamente, anzi. Lei appartiene a un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Dunque in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio la complessa totalità di Medea.
(P. P. Pasolini, Appunti per Medea)
Medea è sacerdotessa di Ecate, la dea della morte.
(P. P. Pasolini, Appunti per Medea)
Questa mostra poggia su tre elementi fondamentali: Medea, Pasolini, e la camera oscura.
La fotogenia della Callas è un elemento entusiasmante per Pasolini, tanto più che l’inquadratura di Pasolini è da sempre un’inquadratura iconica, cioè da icona sacra, controsole, con il sole negli occhi, nei film come il fondo oro, velluto nero e luminosità del bianco nelle foto e lettura del bianco e del nero e del fotogramma in chiave caravaggesca, quel Caravaggio che da Longhi in poi era stato additato profeta della luce fotografica e cinematografica.
Quello che colpisce delle foto fuori scena, durante le pause delle riprese, è che mostrano l’adorazione della Callas nei confronti di Pasolini. Nadia Stanckioff che era la segretaria e l’assistente della Callas durante la lavorazione, racconta che Maria Callas, quando lavorava in Grecia o Turchia, era una diva, famosissima; Pasolini era nulla rispetto al potere divistico di Maria Callas, lui avrebbe potuto esserne quasi soggiogato, e invece nelle fotografie fuori scena, e non dunque quelle in cui recita, quando non è nell’incarnazione di Medea, è una Callas adorante, con un rapporto di affetto profondissimo, di ammirazione sconfinato per Pasolini, e con una Callas che mostra tutta la sua fragilità di donna, e di fanciulla; Pasolini individua, riesce a trasportare nel film l’elemento di smarrimento umano e di terribile nella figura di Medea grazie al fatto che Callas presenta questi due aspetti: può passare dall’essere una bambina a essere un’Erinni, c’è un momento in cui si veste dei suoi poteri magici, li recupera, e altri in cui li dismette completamente presentandosi indifesa e vulnerabile. L’innamoramento è il momento della massima vulnerabilità della donna, con la rinuncia ai propri poteri, rinuncia che viene poi ricambiata con l’ingratitudine: Giasone non ha alcun interesse a sposarsi con una ex strega, a mettersi in casa, come suol dirsi, una matta.
Pasolini ha sempre dichiarato che la pellicola è come un’ala di farfalla, è una delle cose più deboli, più fragili che si possano immaginare, ma è in questa evanescenza che si imprime l’evanescenza dell’apparizione, in cui si riesce a catturare per un attimo l’apparizione del numinoso, dato dalla pelle dal corpo dallo sguardo. Nella camera oscura avviene un’epifania e questa apparizione si coglie nella folgorazione della luce fotografica: la potenza della camera oscura, il suo segreto, come direbbe Roland Barthes, si manifesta come rivelazione.
Guardando, ad esempio, i fotogrammi, si comprende una cosa che nel film non risulta sempre evidente: l’uccisione dei figli da parte di Medea è una grazia. Lei sa di fare loro del bene, il più grande dei beni: questo è uno dei punti oscuri, dove non è più possibile, come accade in ogni civiltà, esorcizzare la maternità. La donna, per non far abitare il vuoto ai figli e il destino di insignificanza e miseria morale che li attende (diventeranno come Giasone, tutti diventiamo come Giasone), li restituisce al grembo della notte, attraverso la morte. C’è un’intera sequenza in cui Medea fa il bagno ai bambini e li asciuga: è di una maternità assoluta e poi c’è la foto di lei che ha in braccio uno di questi figli insanguinato come compimento del cerimoniale di accudimento.
Il film Medea è un viaggio nelle terre della desolazione delle donne, è un’allegoria del male e del dolore femminili, si dimentica la cronaca di Medea perché diventi la cronaca della storia delle donne, tanto che nelle fotografie, che si possono isolare rispetto al film dal flusso temporale e accidentale del racconto, si ha una vera e propria performance del dolore di essere donna, di essere stata donna per molte donne; è un film su un sentimento inconsolabile di Pasolini nei confronti della Callas, della propria madre, di Laura Betti, cioè la percezione che comunque le donne vengono da una storia di sofferenza e sono destinate a una storia di sofferenza.
La storia di Giasone e di Medea è quella del patriarcato più spudorato, più occidentalmente spudorato e disgustoso: l’eroe sfrutta i poteri di una donna e poi si vergogna di presentarla o di immaginarsela come moglie, ha bisogno di una ragazza innocua che può dominare, non può mettere su famiglia con una così.
Negli scatti è molto più forte l’iconologia, c’è una sequenza fotografica in cui Medea sta nel deserto sola e urla nella coscienza di quello che le sta succedendo: è iconologicamente somma perché il racconto fotografico diventa un racconto nelle forme del mito, perché è tolto dal flusso narrativo: l’intermittenza della fotografia dà assolutezza al fotogramma, lo isola, lo cristallizza, gli conferisce la forza assoluta dell’allegoria e delle visioni. Non è detto che ci fosse per forza consapevolezza della Callas o di Tursi o di Pasolini: questo è il prodotto dell’inconscio della macchina fotografica che cattura qualcosa autonomamente, sopportando il proprio delirio tecnologico, la propria insonnia tecnologica.
Nella Medea di Euripide, c’è un’assunzione, Medea viene portata da un carro con due grifoni in cielo, viene innalzata; in Pasolini c’è, invece, una morte spettacolare, catastrofica, cioè Medea segue i figli, li segue e li assisterà nell’orizzonte della fine, in questo senso è più moderno, più logico; rispetto poi a Seneca, che interpreta il furor come una passione malsana, Pasolini intende il furor come una consapevolezza viscerale del male di vivere, e della condizione della donna nella vita, lei che non si ritrova in una civiltà patriarcale. Medea passa attraverso il furor a ripristinare la propria magia, o esperienza sapienziale, inabissandosi nella maternità fino al punto luminosissimo dell’uccisione dei figli, intesa come massima cura materna.
L’essere cresciuti, per una madre, è dolore: ogni volta che un genitore vede il proprio figlio in pericolo o è in apprensione per lui, lo sogna piccolo e tornato neonato.
C’era una scena girata che, al momento del montaggio, Pasolini ha tagliato via: il momento in cui Medea, e cioè Maria Callas, cantava una ninnananna ai propri figli. Proprio verso la conclusione del film lo spettatore, all’improvviso, come in un incantesimo, avrebbe udito Medea cantare con voce stratosferica e straziata, cioè avrebbe udito la voce della Callas. Perché Pier Paolo Pasolini ha tagliato questa sequenza da sogno? O, meglio, perché ha deciso di udirla solo lui, di tenerne esperienza (“inconsolabile”, c’è scritto in un appunto) solo per sé e per sempre?
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(fasc. 17, 25 ottobre 2017)