La seguente intervista fa parte del contributo dal titolo: Editoria scolastica digitale. I manuali di storia letteraria di Loescher e Zanichelli a confronto
Com’è cambiato, con l’avvento del digitale, il lavoro di ideazione, stesura e realizzazione dei libri di testo rispetto alla produzione di manuali cartacei “tradizionali”?
Corrado Bologna: Il cambiamento, a mio parere, non è sostanziale; e comunque non concerne in alcun modo l’ideazione e la stesura dei testi, che continuano a corrispondere ad alcune esigenze ineludibili di storicizzazione e di argomentazione, su cui l’avvento del digitale non ha potere. Ne ha, piuttosto, sul grado di concentrazione e di approfondimento mentale dei problemi per chi è disabituato ormai a leggere, e quindi a seguire le idee di chi ha scritto il testo, appropriandosene mediante una loro riorganizzazione originale. Parlano chiaro le specifiche statistiche prodotte dall’ISTAT intorno al rapporto fra la progressiva diffusione di smartphones e strumenti affini e l’altrettanto progressiva diminuzione della lettura, su qualsiasi tipo di supporto, sia cartaceo sia informatico, ma soprattutto la progressiva diminuzione delle capacità di interpretare testi complessi. Nessun sistema “digitale” insegna a compiere questo decisivo passo di maturazione, che è il fondamento della cultura. Al contrario, la “digitalizzazione” crescente, per numerose ragioni ben documentate, sta producendo un’altrettanto graduale perdita della forza di analisi critica e di ermeneutica testuale: e la cosa incomincia, finalmente, a preoccupare psicologi e sociologi, quindi anche insegnanti e responsabili della formazione pubblica in molti stati.
Si deve muovere, pertanto, da una premessa fondamentale. “Insegnare a leggere” (e non solo nel senso elementare del termine, che riguarda un’alfabetizzazione di primo grado) continua a rimanere il principale scopo di qualsiasi formazione all’età adulta, alla responsabilità individuale e collettiva, alla capacità di entrare attivamente nella società diventando buoni cittadini. “Insegnare a leggere libri” per “insegnare a leggere la vita”. Dunque, insegnare in primo luogo che i problemi vanno affrontati e risolti razionalmente, seguendo le leggi della logica e non solo sulla base delle emozioni; e quindi che l’addestramento di chi vuole crescere nell’autonomia e nella libera scelta passa attraverso la soluzione delle difficoltà, non attraverso la loro elusione.
Gli strumenti digitali “risolvono”, non “insegnano a risolvere”. Invece, confrontandosi con i classici della letteratura e dell’arte, con le loro proposte davvero complesse, originali, innovative, di “visione del mondo”, i giovani scoprono modi di essere e di pensare di cui non sono naturalmente dotati, e affinano i propri su di essi. I primi maestri devono essere i grandi scrittori, i grandi artisti, i grandi pensatori, i grandi scienziati di ogni tempo. Non importa tanto quale sia lo strumento con cui essi vengono scoperti, raggiunti, interrogati: conta lo sforzo di questo accostarsi al loro messaggio.
Provo a soffermarmi sull’assunto principale della sua domanda. Ideare un libro di testo del genere di una “storia e antologia della letteratura italiana” implica mettere a fuoco e trasmettere passo passo, nella trattazione dei singoli capitoli e paragrafi, una visione storiografica, storico-letteraria, storico-artistica, ma soprattutto civile, complessa e nel contempo chiara, articolata ma sempre riassumibile in modo limpido anche per il pubblico dei giovani studenti delle scuole medie superiori, che sono ormai tutti “nativi digitali”.
Il nostro tempo non ha bisogno di semplificazioni, le quali banalizzano i problemi difficili da risolvere: ed è quanto troppo spesso fanno gli strumenti digitali di uso comune, elaborati soprattutto per comunicare, ma non per interpretare, e usati per trasmettere immagini, suoni e parole, ma non per elaborare e condividere idee, pensieri articolati. Per sostenere e gestire la complessità del mondo, della vita, dei rapporti fra persone e interni ai gruppi e perfino alle masse, in un mondo “globale e digitale”, occorre in primo luogo insegnare a non temere la complessità dell’interpretazione, allenando la mente a controllare e a sfruttare le potenzialità meravigliose degli strumenti informatici, conservandoli nella loro funzione di strumenti, senza lasciare che il loro uso condizioni il modo di pensare e di agire.
Ciò che più serve al mondo di oggi e di domani, quindi, è una cultura della complessità, capace di non rifiutare, e invece di riconoscere e di imparare a interpretare sempre più approfonditamente la natura complessa del mondo globalizzato e informatizzato. Uno di questi strumenti ermeneutici, non sostituibile da alcuna forma “digitale”, è la letteratura. La letteratura non è solo una “disciplina di studio”, una “materia d’esame” da memorizzare e restituire in pillole nelle interrogazioni. La letteratura è un meraviglioso operatore di conoscenza del mondo. Apre mondi impensabili, insegna a immaginare la differenza, la lontananza, la possibilità: è uno dei più straordinari strumenti conoscitivi. Il “digitale” è, appunto, uno “strumento”, mentre la letteratura è un universo, un linguaggio estremamente articolato, anzi un mosaico di linguaggi diversissimi fra loro, e tuttavia riconducibili a un solo gesto mentale: quello di aprire i confini della mente, sondare le realtà che dietro di essi si profilano, coglierne la diversità e l’infinita potenzialità, accogliere la rivoluzionaria natura di Altro di questa potenzialità.
Suggerì questa soluzione Italo Calvino nel 1985, l’ultimo anno della sua vita, quando l’informatica era ancora agli albori, non esisteva di fatto Internet, e gli strumenti di telefonia mobile stavano nascendo, e servivano solo a comunicare a voce da lontano, sostituendo i telefoni fissi. Così si aprono le magnifiche Lezioni americane, scritte appunto nel 1985, e che rimangono uno dei testi più lucidi e profondi di antropologia culturale sul ruolo che la letteratura può ancora svolgere nella civiltà contemporanea: «Il millennio che sta per chiudersi ha visto nascere ed espandersi le lingue moderne dell’Occidente e le letterature che di queste lingue hanno esplorato le possibilità espressive e cognitive e immaginative. È stato anche il millennio del libro, in quanto ha visto l’oggetto-libro prendere la forma che ci è familiare. Forse il segno che il millennio sta per chiudersi è la frequenza con cui si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica cosiddetta postindustriale. Non mi sento di avventurarmi in questo tipo di previsioni. La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici».
La letteratura è un universo infinito, potenziale. È un sistema di universi possibili, molto più complesso di quanto il mondo digitale riesca a elaborare, perché costringe chi vi entra ad apprendere linguaggi molto diversi gli uni dagli altri, regole del gioco, punti di vista con cui attivamente confrontarsi, e non da subire passivamente. La letteratura possiede la capacità di offrire all’uomo, all’intera umanità di oggi e di domani, delle visioni del mondo molteplici, dei punti di vista conoscitivi ancora più complessi di quanto lo sia la realtà stessa.
Ascoltiamo ancora il Calvino delle Lezioni americane: «La fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità che nessuna opera riuscirà a mettere in atto. […]. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura avrà una funzione». L’uso della parola, la scrittura, sono strumenti di conoscenza, non puri accostamenti descrittivi alle “cose” che esistono, solide e opache, nel mondo. La parola può essere anche pensata come «un incessante inseguire le cose, un’approssimazione non alla loro sostanza ma all’infinita loro varietà, uno sfiorare la loro multiforme inesauribile superficie»: ma di fatto essa «collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto».
Queste idee di fondo sono facilmente identificabili nei manuali che ho approntato nell’ultimo decennio per la Loescher insieme con Paola Rocchi (Rosa fresca aulentissima e Fresca rosa novella nelle loro varie edizioni) e in quello che apparirà alla fine del 2019 (La letteratura, visione del mondo, scritto con Paola Rocchi e Giuliano Rossi): la letteratura è una rosa che fiorisce e profuma, è un meraviglioso potenziale di forza conoscitiva e coesiva capace di raccogliere intorno alla propria storia un sistema di identità e di differenze, di percezioni e di interpretazioni che attraversa i secoli.
Il “digitale” non ha mutato il “modo di pensare” di chi conosce e dòmina già una molteplicità di linguaggi e di strumenti in quanto ha faticato ad apprenderne l’uso, la fruibilità, l’utilità. Il rischio, semmai, è che proprio il “digitale” induca alla riduzione della fatica e dell’esercizio di apprendimento, abbassando dunque la soglia delle competenze conoscitive, elaborative, argomentative, cioè trasformando lo “strumento” in “realtà”, e nel contempo semplificando e banalizzando la “realtà” in “virtualità”.
Il “digitale” offre senza alcun dubbio canali rapidi ed efficaci di accesso alle potenzialità di conoscenza, ma non richiede (anzi, per sua natura ostacola) l’elaborazione dei dati e la loro analisi, connesse alla millenaria modalità analogica del pensiero umano. Quante volte guardiamo sconcertati, in autobus, in metropolitana, in treno, o perfino a tavola, gruppi di giovani (e ormai anche di adulti), tutti immobili, ammutoliti, che invece di parlare e giocare o scherzare fra di loro, cioè con persone reali e presenti, preferiscono chattare con persone virtuali, assenti. Non conosco descrizione più esatta di questo delirio di irrealtà, nel senso tecnico-psicologico del termine, di cui tutte le generazioni, ma soprattutto le più immature e quindi indifese, sono ormai preda, di quella trasmessa dalle parole famosissime di una rockstar, Vasco Rossi: «ognuno col suo viaggio,/ ognuno diverso/ e ognuno in fondo perso/ dentro i fatti suoi…».
«Sono connesso, quindi sono» sembra essere il motto vincente nell’attualità ingrigita e svuotata che la terroristica invasione del sistema digitale impone a un mondo in cui l’interiorità degli individui è sempre più vuota e solitaria. La solitudine minacciata dal continuo “non essere connessi alla rete” è un passo ulteriore nella frustrazione, perché si lega ininterrottamente alla pura virtualità di rapporti che fingono di essere genuini e invece schiacciano sull’istantaneità di botta-e-risposta banali la creatività del dialogo arguto, dello scambio a viva voce che implica la partecipazione del corpo, delle mani, delle espressioni del volto da cui trapelano le emozioni autentiche. Quella solitudine triste e muta con gli occhi sbarrati e fissi sugli schermi degli smartphones è cosa profondamente diversa dal silenzioso dialogo interiore che si instaura nell’atto di lettura, percorso di incontro e confronto con un Altro la cui parola viene accolta e meditata, e che è arricchente quanto il dialogo esteriore con un Altro in carne e ossa, nel contempo simile e diverso.
Se si riuscisse a coniugare il ricorso alle potenzialità sterminate del “digitale” con la necessità di un apprendimento progressivo e sempre consapevole, si otterrebbe (o si conserverebbe) quello spirito critico capace di gestire qualsiasi strumento come strumento, anziché come dominatore che induce alla servitù. Questo spirito critico è il vero fine della formazione, nel processo della quale il libro di testo è uno strumento, appunto, adatto a compiere ciò che conta: esercizi di complessità, esercizi di vita.
Paola Rocchi: Sulla realizzazione di un manuale scolastico, oltre al progetto autoriale e alle linee editoriali, pesano moltissimo le esigenze e le aspettative dei docenti che dovranno operare la scelta. E, per definizione, gli insegnanti “vogliono tutto”. Provo a spiegarmi meglio. Il docente medio oggi in Italia ha un’alfabetizzazione digitale migliore rispetto anche solo a una decina di anni fa; conosce e utilizza i principali programmi di videoscrittura, ha dimestichezza e familiarità con smartphone, tablet, LIM. E questo è un fatto. Ma spesso è stato trascinato su questo terreno da decisioni calate dall’alto (vedi il registro elettronico). Si aggiunga, inoltre, che la gran parte degli attuali docenti si è formata su una cultura basata sui libri e trasmessa attraverso la pagina scritta. Ciò, a mio avviso, li porta a vivere una condizione particolare: i loro modelli di riferimento restano gli strumenti tradizionali (il libro di testo cartaceo), ma devono fare i conti con generazioni di studenti immersi in una dimensione profondamente diversa e abituati a una parola scritta mediata non più dal libro o dalla pagina tradizionale ma da uno schermo digitale. Ne discende uno scenario complesso, in cui il libro di testo mantiene un primato dovuto in parte ai modelli culturali su cui si è formata l’attuale classe docente, in parte a una battaglia di resistenza contro gli strumenti multimediali, avvertiti spesso come avversari del libro, ma con cui si è chiamati inevitabilmente a fare i conti. Di qui la richiesta di manuali che si diramino in modo proteiforme, che non rinuncino alla narrazione, all’offerta di un numero di autori e testi sufficienti a dare al docente la facoltà di scelta, all’accompagnamento di schede, dossier, approfondimenti, espansioni cartacee e digitali impegnate a trasformare il volume in una sorta di surrogato delle Rete. Il fenomeno investe anche l’aspetto grafico: la pagina è multicolore, è articolata in parti di testo alternate a riquadri con valenza di finestre, è movimentata per suggerire accostamenti, spesso allo scopo più di suggestionare che di spiegare. L’indice del volume si offre, poi, come la punta di un iceberg: presenta un’offerta, ma ne promette la moltiplicazione attraverso le risorse web che i siti delle case editrici mettono a disposizione degli utenti. Chi si appresta a progettare un manuale oggi ha di fronte a sé, all’ingrosso, uno scenario di questo tipo. È chiamato a decidere fino a che punto salvaguardare la narrazione tradizionale, quanto affidare agli strumenti paratestuali, con quali criteri dislocare i materiali su carta o nel web, quali gerarchie seguire nel fare queste scelte. Quindi, senz’altro l’avvento del digitale sta modificando l’editoria scolastica, anche se ritengo che finora non ne sia stata colta l’effettiva specificità. Essa non può (e non deve) consistere unicamente in una sorta di “soffitta virtuale”, da cui andare a recuperare quanto non presente su carta, ma che poi si presenterà in formato elettronico con le stesse caratteristiche del manuale. Il lavoro da compiere, mi pare, debba andare verso un’altra direzione.
Quali strumenti digitali, in particolare, pensa che abbiano rivoluzionato i processi cognitivi e le metodologie didattiche e di quali pensa che non si potrà più fare a meno?
C. B.: Rispondo in maniera sintetica, e anche leggermente provocatoria: la mente umana. La quale, d’altra parte, non è solo uno “strumento”, e tanto meno un elemento “digitale”. Anzi, è un’entità sostanzialmente “analogica”, strettamente legata al corpo, alle emozioni, ai sentimenti, alle abitudini, ai comportamenti individuali e collettivi, all’ambiente e alle sollecitazioni che ne derivano. Le neuroscienze vanno illuminando sempre più la struttura complessa e dinamica della mente, capace di costituire assai ramificate e interconnesse reti neuronali-emozionali-cognitive in continua trasformazione, adattabili alle esigenze della soluzione di problemi costantemente variati.
Non vedo altre “rivoluzioni permanenti e irrinunciabili” dopo quella dell’elaborazione di una mente pensante, consapevole, capace di dotarsi di strumenti sempre più utili a migliorare la vita, controllandone l’uso per non diventare schiavo dello strumento stesso. Né riconosco nel sistema “digitale” qualcosa di cui “non si potrà più fare a meno”. Una breve rimeditazione della storia della tecnologia dimostra la caducità sempre più rapida di ogni strumento di volta in volta con grande entusiasmo ritenuto “indispensabile”, e sempre superato, spesso definitivamente eliminato. Qualsiasi “strumento” è, appunto, solo uno “strumento”, perfezionabile e superabile nel tempo: il fuoco adattato al riscaldamento e alla cottura dei cibi, l’uso della ruota (neppure in tutte le civiltà), l’invenzione di un veicolo capace di galleggiare e attraversare il mare, poi di altri in grado di volare riducendo i tempi di spostamento… Il pensiero corre veloce, ed elenca innumerevoli “strumenti” di cui si è creduto per qualche tempo che «non se ne potrà più fare a meno».
Forse, a pensarci bene, esiste uno “strumento” che ha davvero «rivoluzionato per sempre i processi cognitivi», dal momento che ha permesso di dare consistenza nel tempo e nello spazio al pensiero critico dell’uomo: è la coppia di atti insieme semplici e complessi, scrittura/lettura. Lo dice con chiarezza profetica Galileo Galilei alla fine della prima giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: «Sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta». L’unica cosa di cui l’essere umano non può e non deve fare a meno è lo spirito critico elaborato nella sua mente.
P. R.: In generale, tutte le invenzioni che hanno cambiato il modo di comunicare tra gli uomini hanno finito per incidere sui processi cognitivi e sulle metodologie didattiche. Dalla tavoletta cerata al tablet è stato così. Quanto ha cambiato la televisione la generazione dei nati negli anni Sessanta rispetto alle generazioni precedenti? E i videogiochi come agiscono sul modo di relazionarsi col reale? Sono questioni – mi permetto di dire – antiche (se le poneva già Platone nei confronti dell’avvento della scrittura), ma allo stesso tempo da non sottovalutare. Le ricerche in campo neuro-cognitivo dimostrano che l’organizzazione lineare del libro di carta presenta vantaggi indiscutibili in relazione ai processi di memorizzazione e di attenzione, consente di riesaminare continuamente quanto letto qualche pagina o qualche capitolo prima, alla luce di nuove informazioni acquisite proseguendo nella lettura. Favorisce la competenza argomentativa perché consente di strutturare il discorso secondo un impianto organicamente complesso e richiede maggiore attenzione sul piano dell’analisi, obbligando a tempi di lettura inevitabilmente più lunghi. Le difficoltà che incontrano gli adolescenti attuali con la pagina scritta e davanti a testi articolati possono essere messe in relazione con l’abitudine corrente a confrontarsi con testi brevi o disarticolati, “a misura di schermo”, con ritmi di lettura non continui e con una scarsa attenzione ai nessi logici, sostituiti dai meccanismi giustappositivi e analogici che governano la pagina web. Di contro, è innegabile che il ricorso agli strumenti multimediali apre a possibilità inedite anche sul piano didattico, favorendo alti livelli di lavoro cooperativo e laboratoriale. Al momento, però, l’orizzonte non è ancora così chiaro, come forse si vorrebbe far passare. Recenti ricerche hanno, infatti, dimostrato che l’utilizzo massivo delle nuove tecnologie alla lunga non produce miglioramenti apprezzabili sul piano dei risultati scolastici; anzi, rischia di ottenere effetti opposti. Meglio vanno le cose laddove la didattica tradizionale procede in sinergia con quella innovativa, individuando di volta in volta gli ambiti e gli obiettivi di applicazione della seconda rispetto alla prima.
Da autore di un manuale che presenta una forte connotazione innovativa, quale pensa che sia il futuro dell’editoria scolastica in rapporto al digitale in Italia?
C. B.: Una decina di anni fa incominciò a circolare nelle scuole superiori, venendo imposta “dall’alto”, cioè dagli organi ministeriali preposti alla formazione scolastica, una “lavagna elettronica”, la LIM (“Lavagna Interattiva Multimediale”), che ha avuto una sua diffusione anche attraverso corsi di formazione degli insegnanti. Tuttavia, questo strumento, come tanti altri di tipo “digitale”, sembra superato da ulteriori innovazioni tecnologiche, e parrebbe ormai sostanzialmente uscito di scena, sia per i costi elevati sia soprattutto per la difficoltà di adattare in tempi rapidi, durante le lezioni, la LIM alle esigenze didattiche di professori non sempre adeguatamente preparati all’uso di questo materiale. Anche il problema delle difficili e spesso alterne connessioni con Internet rende per ora strumenti di questo genere poco innovativi. Io stesso provai, e vidi provare specialisti più esperti di me: si riuscì a svolgere una lezione arricchendola di testi, di materiali visivi, fissi o in movimento, di links, ma senza ottenere risultati particolarmente clamorosi; almeno non tali da superare i confini raggiungibili da una buona lezione condotta con metodi tradizionali, anche se con l’aiuto di mezzi in grado di sollecitare l’immaginazione.
Per mia esperienza (oltre che insegnare da molti anni all’Università, da ultimo alla Scuola Normale Superiore di Pisa, propongo molte lezioni presso gli Istituti superiori di tutta Italia), continuo a ritenere che l’intervento “frontale” del professore, la forma del “seminario” ben preparato, la partecipazione attiva in diverse forme degli allievi all’attività formativa, in cui il libro di testo svolge un ruolo centrale, siano le espressioni più adeguate alla struttura scolastica.
Tuttavia, è necessario ammettere che l’ambiente di apprendimento tradizionale, senza venire stravolto dal momento che continua a rappresentare la base principale della trasmissione dei saperi attraverso la scuola, possa venire arricchito con le nuove tecnologie. Ad esempio, insieme con Paola Rocchi abbiamo deciso di allegare all’antologia da noi curata 3 DVD, contenenti 34 lezioni sotto il titolo complessivo Civiltà italiana in Europa, che l’editore Loescher ha presentato come “LibroLIM”. Il sottotitolo, La letteratura e le arti dal Duecento ai giorni nostri, fa cenno all’intreccio fra i punti di vista che la letteratura e le arti figurative lanciano sulla realtà, attraverso i grandi classici, per insegnare a ripercorrere, comprendere, amare, la grande civiltà europea delle parole e delle immagini nel loro reciproco influenzarsi e arricchirsi.
La dialettica feconda di immagini e parole, di ragionamenti e di emozioni che l’arte, la letteratura, il teatro, la musica, suscitano nel loro intrecciarsi e rilanciarsi idee, crea dei collegamenti mentali e affettivi, i quali danno vita a modelli di riconversione, di traduzione fra livelli diversi della realtà, consentendo di toccare in profondo i gangli della grande civiltà europea. Collegamenti di questo tipo potremmo definirli, con una formula di un grande antropologo della civiltà europea delle immagini, Aby Warburg, guardiani dei confini. Non nel senso, si badi bene, che essi custodiscono frontiere, barriere, divisioni: al contrario, nel senso che aprono impensati percorsi di comunicazione, permettendo di veder meglio la struttura su cui quella civiltà si impernia, i nodi e gli snodi su cui si articola.
È evidente che Internet offre a qualsiasi giovane una massa spaventosamente grande di seducenti materiali di ogni tipo, soprattutto visivo: ma ciò che manca sono proprio i collegamenti, i percorsi argomentativi, le dimostrazioni con prove alla mano. Insegnare significa mostrare la via, indicare un cammino, sostenere chi lo affronta, non portare in un istante l’allievo al termine della strada. Imparare vuol dire prima di tutto conoscere sé stessi, la propria mente, la mente degli altri esseri umani, a partire dai migliori, quelli che siamo soliti chiamare classici, e che sono maestri di tutti e proprietà di nessuno: patrimonio dell’umanità.
Perché leggere i classici?, si domandava Italo Calvino. E rispondeva, fra l’altro, che «i classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato»; e, ancora, che «i classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti». I classici, per queste ragioni, sono maestri di vita prima ancora che di letteratura. Insegnano a camminare, prima ancora che a leggere; a pensare, prima ancora che a scrivere. Sono certo che uno dei fini principali della formazione a comprendere la civiltà letteraria sia di trasmettere e far conoscere fino alle più profonde radici la tradizione culturale, letteraria, artistica, storica, politica che continuiamo a chiamare italiana ed europea.
Questo è il nostro primo e più necessario impegno etico e civile nei confronti dei giovani di oggi e di domani. Quando dico “impegno etico e civile”, non intendo affatto sottovalutare il valore primario che in sé la letteratura e il suo studio conservano per la formazione culturale delle nuove generazioni. Voglio, invece, sottolineare che questa attività ha un valore intrinseco di carattere civile, etico, perché insegna che i testi, le parole dell’Altro, vanno collocati al centro dell’apprendimento della storia letteraria. Il suo scopo, in questo modo, diviene insegnare a cogliere la complessità dei classici, la loro alterità, imparando a storicizzarli, ossia a riconoscerne la differenza, contemporaneamente restituendoli al loro tempo e innestandoli nel nostro, in cui quei testi giungono a leggibilità grazie agli strumenti interpretativi che il nostro tempo ha elaborato e raffinato.
Non mi stancherò di dire che l’editoria scolastica ha di fronte a sé, oggi e domani, prima di tutto questo impegno ad insegnare a capire e a gestire la complessità. Si tratta di un impegno necessario quanto arduo, eroico, anzitutto perché contrastato da vasti ambienti della società: in primo luogo, per quanto possa sembrare paradossale, da una parte non piccola delle famiglie. Queste ultime per un verso hanno ceduto all’invasività “liquida” delle forme “digitali” di distrazione, e di fatto di allucinazione (la maggioranza dei genitori non controlla e predetermina in maniera fisiologica i tempi di uso dei computers e degli smartphones, capaci di intridere in modo patologico la mente dei più inesperti, come la droga), e per un altro hanno interrotto, ormai, il loro rapporto fiduciario con la scuola, e non le chiedono più di “formare” i propri figli a entrare nella comunità degli adulti, ma sempre più frequentemente (la cronaca parla chiaro) esigono conferme e approvazioni indiscriminate, pretendendo soltanto risultati concreti, comunque positivi.
La prima tappa di questo impegno civile dell’editoria scolastica è la produzione di buoni libri di testo, che non si accontentino di inseguire le mode e l’abitudine giovanile a “rimanere connessi” senza interruzione. Si deve ripartire da zero, con uno sforzo immenso, nel confronto impari con la seduttività fascinosa degli strumenti “digitali”, insegnando a modulare e controllare con spirito critico i tempi e i modi di uso degli “strumenti di connessione”. Bisogna insegnare a ritrovare la connessione con sé stessi, con la propria interiorità, con la propria mente; e poi con il diverso, con l’Altro, con chi non la pensa come noi, e con cui ci si deve confrontare, anziché rifiutarlo a priori per tornare ad adagiarsi nell’assorbimento del già noto, nella pratica dell’astrazione nel mondo della virtualità e nella fuga nel puro divertimento (termine che significa, non lo si dimentichi: “perdita della strada”, “allontanamento dalla meta”).
P. R.: Io non credo che il libro tradizionale scomparirà; esso continuerà a svolgere ancora a lungo la propria funzione di strumento di trasmissione ed elaborazione della conoscenza. Allo stesso modo, penso che il modello culturale che il libro rappresenta vada salvaguardato assieme al ruolo insostituibile dell’insegnante. Ma, proprio per questo, la “professione di fede” del mio esordio deve fare i conti con la necessità di una revisione di queste funzioni e di questi ruoli. L’editoria scolastica, in parte, sta già avviandosi verso una maggiore diversificazione dei prodotti, anche se la strada va percorsa facendo valutazioni attente e non affrettate. Il manuale, a mio avviso, deve mantenere la propria connotazione, deve suggerire le chiavi di lettura dei contenuti disciplinari e dei problemi di senso a esso sottesi, senza abbassarne troppo la qualità ma contenendone la quantità. Non deve rinunciare a un’esposizione distesa dei nuclei concettuali del discorso e deve dare spazio all’argomentazione problematica delle questioni trattate, per far emergere il tessuto epistemologico e il linguaggio specifico della disciplina. In altri termini, non può rinunciare a un impianto che restituisca la complessità del pensiero umano, chiamato a dare ordine e gerarchia ai temi e ai problemi. Riserverei alle risorse tecnologiche il compito di consentire al docente e alla classe di appropriarsi di alcuni aspetti di questa complessità, attraverso esercizi, analisi, ricerche, approfondimenti, confronti con altri linguaggi, che il digitale e i suoi strumenti possono favorire in misura maggiore e più efficace rispetto alla bidimensionalità della pagina scritta.
A fianco ai testi misti, che presentano quindi un impianto tradizionale con implementazioni digitali, si stanno affermando sempre di più le piattaforme multimediali, ovvero ambienti di apprendimento totalmente digitali, che non prevedono l’uso di manuali cartacei e che, anzi, si pongono come loro sostituti. Pensa che l’utilizzo di questi strumenti sia auspicabile? Il libro di testo tradizionalmente inteso è destinato, col tempo, a scomparire?
C. B.: La scrittura e il libro sono forme culturali che per migliaia di anni hanno consentito all’uomo di raccogliere, trasmettere, far conoscere, conservare, discutere le proprie idee. La memoria umana si è plasmata per secoli sulla “forma-libro”: ancora oggi è difficile sostituire questa antichissima pratica di lavoro interiore, che richiede concentrazione, silenzio, solitudine. Gli scienziati hanno dimostrato, dati sperimentali alla mano, che l’immersione sregolata nel mondo virtuale riduce il numero di sinapsi create a livello neuronale per elaborare esperienze e conoscenze. È, invece, il confronto con la realtà delle cose, del mondo, degli uomini, il contatto con la “vita autentica”, ad alimentare la maturazione all’età adulta.
E, poi, la scienza ha provato che lo scrolling della lettura-video rallenta la memorizzazione e quindi l’analisi e l’elaborazione mentale dei dati acquisiti. Quanto alle altre forme di apprendimento attraverso il “digitale”, anche per le generazioni che si usa chiamare, appunto, “native digitali” si tratta di garantire che esse non causeranno (come purtroppo sta avvenendo) forme di analfabetizzazione secondaria. È necessario non perdere competenze: caso mai, acquisirne di nuove. Si deve aumentare la disponibilità di linguaggi e di strumentazione intellettuale, non ridurla delegando alla macchina di svolgere le fatiche di ricerca per noi. Il problema di base posto dal sistema “digitale” è proprio questo: l’assuefazione a pratiche di soluzione delle difficoltà di ricerca. La formazione dei giovani consiste nella creazione di un dispositivo sociale e civile che nelle società senza scrittura veniva definita iniziazione rituale alla vita adulta, e che la scuola ha sempre gestito proprio insegnando non solo a leggere e a scrivere, ma a pensare, a ragionare, dunque in primo luogo a ricercare, nel faticare per porre domande e per trovare risposte.
Rispetto alla tradizionale “forma-libro di testo”, che a mio parere conserva e conserverà anche in futuro una solidità centrale nel quadro dei sistemi di formazione dei giovani, ciò che può essere mutato non è la sostanza dei contenuti, ma piuttosto la modalità di presentazione della materia, con un maggiore ricorso a elementi che anni fa erano impensabili nei libri di testo, come schemi, tabelle, immagini. Ma, sviluppando la risposta alla domanda precedente, insisterei sul fatto che lo strumento digitale può aiutare in forma di integrazione e di collaborazione, non in alternativa, rispetto a quello cartaceo, a plasmare un’idea della letteratura come visione del mondo, come sistema complesso di interpretazione della realtà.
I giovani, assediati e sedotti dalle sirene informatiche, dai videogiochi, soprattutto dalla comunicazione vuota di contenuti a cui si riducono molte “reti sociali”, intese solo a tener aperto lo scambio puramente fàtico, non riescono più, ormai, a cogliere il senso di testi articolati e l’importanza di molte espressioni letterarie. Viene, così, messa a repentaglio la stessa vita democratica, che richiede da parte di ogni cittadino una partecipazione attiva alla formazione del consenso e della condivisione di intenti che chiamiamo politica, e alla cui base è necessario porre un fondamento di etica individuale e comunitaria.
Sarà, allora, maieutico e perfino terapeutico mettere sotto gli occhi dei giovani alcuni “luoghi” centrali della nostra civiltà letteraria, artistica, scientifica: l’appassionante scarto epistemologico della fulminea “visione” della luna attraverso il cannocchiale che Galilei realizza anche grazie alla propria eccellenza di pittore e la sua conoscenza dell’Orlando furioso; l’importanza decisiva della plastica rappresentazione del movimento mentale proiettato nell’architettura da un Bernini e da un Borromini; il cambiamento assoluto nella rappresentazione del reale che genera l’arte della luce e delle tenebre di Caravaggio. E questi non sono che pochi fra i numerosi esempi di innovatività capaci di spiegare il senso e le motivazioni delle nostre scelte di argomenti variati, non solo storico-letterari, che possano aiutare i professori a impostare le loro lezioni proiettando in aula i nostri video, con grande ricchezza di documentazione e di stimoli a creare reti di rapporti nuovi fra le discipline, impensati, insieme divertenti e istruttivi. Le videolezioni di cui parlavo, che, a volte, puntano su un tema o un problema centrale per un’età e altre scelgono di svolgere l’analisi di un testo rilevante o dell’ideologia di un autore-chiave di un’epoca storica, offrono ai professori molte occasioni di approfondimento, numerosi percorsi di scelta didattica per costruire percorsi didattici multipli, che coinvolgano le discipline fra loro e ne mostrino la sostanziale unità nella molteplicità. Sette-otto secoli di letteratura, di arte, di civiltà, possono essere attraversati e interpretati mettendo a disposizione dei professori e degli studenti filmati, documenti, monumenti con cui interagire aprendo percorsi secondari, focalizzando punti di interesse particolare, ritagliando capitoli che potranno diventare singole lezioni o cicli di lezioni.
Insegnare ad amare la letteratura e l’arte è ancora importante, in un mondo che sembra, ormai, dedicarsi solo alla comunicazione rapida e altrettanto rapidamente consumata.
P. R.: Credo di aver già risposto in termini generali a questa domanda nel punto precedente. In termini più specifici, ribadisco che mi sembra difficile e non auspicabile porre i due modelli in alternativa secca l’uno all’altro. Al momento, le piattaforme multimediali sono un universo molto variegato e multiforme, che si scontra con le difficoltà tecniche esistenti e una certa difficoltà d’uso, e con la resistenza di molti docenti. Esse implicano, infatti, un modo di operare profondamente rinnovato rispetto alla didattica tradizionale, perché altamente collaborativo e, allo stesso tempo, versatile. Ciascun docente può, infatti, personalizzare i percorsi di apprendimento dei propri studenti e interagire con gli studenti, le famiglie e gli altri colleghi. Tra i rischi connessi a questo sistema, senza voler entrare nella complessa questione delle dinamiche relazionali dell’insegnamento-apprendimento, segnalo il problema del controllo della qualità dei materiali presenti nelle piattaforme. Molti di quelli messi a disposizione sono auto-prodotti o caricati dai docenti che aderiscono e operano all’interno di questi ambienti; ora, mentre per alcune attività l’autoproduzione o l’utilizzo di contenuti disponibili può essere utile e interessante, ho forti perplessità sul demandare lo studio dei contenuti disciplinari a materiali di origine varia, spesso metodologicamente difformi, e non necessariamente controllati e validati sul piano della correttezza filologica e scientifica. Sotto questo profilo, si rischia di prendere a prestito uno dei lati più discutibili del mondo della Rete, applicandolo a un’attività delicata e importante come la formazione.
Leggendo la premessa a Rosa fresca aulentissima, colpisce molto il progetto alla base, ovvero quello di far in modo che si possa “leggere il mondo come un libro”[1]. Ora che l’accezione tradizionale di “libro” è venuta meno e che sono nate, invece, varie tipologie di testi, fruibili tramite diversi media, ora che la lettura non avviene più necessariamente tramite l’oggetto libro tradizionalmente inteso, nell’era del digitale, che tipo di significato può assumere questa affermazione?
P. R.: Credo che la metafora che è alla base della citazione di Calvino che fa da “stella cometa” al nostro progetto sia in grado di reggere all’impatto della contemporaneità e di autorigenerarsi al di là delle forme e dei modelli di riferimento. E questo perché, mai come ora, è fondamentale consentire alle nuove generazioni di comprendere la realtà che hanno davanti e insieme di poter intervenire su di essa alla luce di un pensiero, critico e complesso. Capire la complessità stratificata di una storia, di una narrazione, di un’opinione che si dispiega davanti ai nostri occhi significa allenarsi a leggere il mondo, entrare in relazione con un altro da sé e confrontarsi con esso. Significa allenare la mente a fare una ginnastica essenziale, che è quella di calarsi nella dimensione esterna per “misurare” la distanza che ci separa e/o ci avvicina a essa. E non è affatto detto che questa palestra non possa attivarsi anche in relazione e a contatto con una pagina web: entrare nella sua complessità, far emergere la sua grammatica e il suo modo di far entrare in sinergia coesione e coerenza son tutte attività che inducono la mente a comprendere, ragionare, interpretare. Oggi questa ginnastica rischia di essere però totalmente sostituita da un altro processo, quello per immersione, in cui la distanza tra il reale e il virtuale si annullano e, nei casi patologici, la dinamica prevede solo l’andata e quasi mai il ritorno a sé. Ne sono testimoni i sempre più frequenti casi di giovani la cui dipendenza dai social o dai videogame è arrivata a un punto tale da essere più pericolosa delle stesse droghe. Per questo leggere un testo letterario (di Dante come di Primo Levi, di Cervantes come di Manzoni, di Ariosto come di Calvino, Borges, Forster Wallace) è un’occasione che a scuola non si deve fallire né mancare. Quel testo, se troverà un insegnante capace di farlo parlare ai suoi studenti, può dialogare non solo col mondo esterno e quello interiore, ma può interagire con la dimensione dell’immaginario e persino della virtualità. Per farlo parlare, ogni strumento in grado di accendere una fiamma è lecito. Forse, in questo modo, si potrà stimolare anche una riflessione sulle forme in cui l’immaginazione umana si sposa con la tecnologia e mostrare un uso meno passivo e condizionante di quest’ultima.
Ancora, nella premessa, viene sottolineata l’importanza della correlazione intersemiotica fra le arti. Paola Rocchi afferma che la letteratura può essere goduta ancor più profondamente se messa in relazione a un quadro o a un ascolto musicale, ma che quest’operazione non è facile da compiere tramite lo strumento cartaceo. Le forme agili, liquide dell’articolazione digitale dei contenuti, la declinazione del linguaggio letterario nelle nuove forme della multimedialità pensa che favoriscano questa possibilità di commistione tra varie forme artistiche, sviluppando, quindi, anche le conoscenze transdisciplinari?
C. B.: Per rispondere a entrambe le domande richiamo qualche frase dell’Introduzione alla prima edizione di Rosa fresca aulentissima (2010): «Proponiamo di pensare la letteratura come visione del mondo, come specchio in cui si riflettono i grandi paradigmi culturali, le idee, i modelli profondi, le pratiche sociali, il profilo stesso di un immaginario collettivo che si tramanda e si conserva nei secoli. Riprendendo una bellissima formula di Dostoevskij suggeriamo che la letteratura sia quel magnifico spazio utopico della civiltà, quel complesso e miracoloso dispositivo antropologico che agisce sull’immaginazione, grazie al quale due più due non fa quattro, ma cinque. La letteratura offre il “resto”, il “di più” irriducibile a formule e a schematismi, a teoremi, a ideologie: è la fondamentale macchina operatrice di coesione e di coerenza che fa di una civiltà un soggetto unico e complesso; è attraverso la sua lente che si riesce a leggere il mondo come un libro. Nella storia della letteratura italiana si fa visibile la storia della civiltà italiana, la stupenda fioritura millenaria di una tradizione che il nostro impegno etico e civile è chiamato a trasmettere ai giovani di oggi e di domani».
E oggi, aggiungo, con le parole magnifiche del grande compositore Gustav Mahler, che «tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco». Dobbiamo mantenere acceso quel «fuoco» senza necessariamente venerarne le tracce, i detriti. È necessario imparare non solo a conservare con inerte tradizionalismo i valori trasmessi dalle civiltà che ci precedono: ma soprattutto a custodirne vivo il significato profondo, il senso appunto civile, etico e anche politico. Se vogliamo costruire un futuro davvero degno di essere vissuto, dobbiamo scoprire nel passato i segni lasciati dagli altri uomini che per secoli quel «fuoco» ha scaldato e illuminato. «La bellezza salverà il mondo», diceva nell’Idiota Dostoevskij, che ricordavo già nel 2010. Forse la bellezza non riuscirà, da sola, a salvare il mondo. Ma certo aiuterà gli individui a diventare migliori, dunque a cambiare il mondo, rendendolo più bello e più autentico, più prossimo alla verità, alla giustizia, all’equità.
Far memoria della tradizione vuol dire amare e recuperare nel ricordo attivo le vite di esseri umani le cui orme è necessario non tanto ricalcare in maniera pedissequa e inerte, quanto riconoscere, cioè conoscere sempre più a fondo individuando i legami che ci stringono a loro. Far memoria della tradizione significa pensare e progettare il futuro guardando alle radici del presente per riconoscere che esse affondano nel passato: innanzitutto, imparare a evitare gli errori compiuti dall’umanità. Il Novecento ci ha lasciato eredità spaventose, non ancora del tutto elaborate collettivamente, come dimostra la situazione di disagio, di paura, di incertezza, che, accompagnata a un rancore sordo che in certi casi diviene addirittura disperazione, impedisce di trovare soluzioni nuove ai problemi, ricacciando masse spaventate e insicure nelle braccia del populismo o, peggio, del razzismo, di cui abbiamo già, negli ultimi cent’anni, assaggiato la ferocia disumana, scaturita spesso da banali, quotidiani cedimenti alla discriminazione. Si deve comprendere che, per impostare l’avvenire in maniera consapevole e condivisa, occorre in primo luogo recuperare le forme della mediazione: l’elaborazione del passato che nutre il presente verso un futuro previsto e cercato, nei limiti del possibile organizzato, non solo atteso come un miracolo o un’epifania in cui l’uomo non ha strumenti di controllo.
Non tutto è “immediato”, non tutto va bruciato nell’attuale, nel momentaneo, nell’istantaneo. Gran parte della civiltà odierna, specialmente quella fondata sull’informatica e più ampiamente sulla “digitalizzazione”, percepisce il tempo solo in questa immediatezza perversa, nell’istantaneità del contemporaneo, del “qui e ora”. Sembra non esserci mai stato passato, e dunque si diffonde un’oscura, pessimistica e solipsistica idea che non valga la pena di lavorare per costruire un futuro migliore da condividere su scala mondiale: è nel presente che va goduta l’esistenza; l’importante è che l’“io” dòmini, colga ogni vantaggio, anche con la sopraffazione. Il narcisismo imperante assedia, e spesso cancella il dialogo, lo scambio con “gli altri”, i diversi da noi, che è tra le forme basilari della mediazione.
Continuo a pensarla allo stesso modo. Un libro non è solo un oggetto, ma anzitutto un soggetto, un individuo in cui un altro individuo, l’autore, ha riversato le sue idee, le sue emozioni, la sua visione del mondo. Un grande maestro della critica letteraria del Novecento, Ezio Raimondi, in un piccolo libro che ogni allievo (e ovviamente ogni professore) dovrebbe leggere e meditare, Un’etica del lettore (Bologna, Il Mulino, 2007), ha sottolineato, nel rapporto fra il lettore e il testo, «la ricerca eticamente vincolante di un denominatore comune di umanità», la fatica e l’impegno di «prendere in custodia un’entità umana in continua metamorfosi, sapendo che la metamorfosi investe sempre anche la nostra figura di lettori, in cammino (o in navigazione) attraverso il linguaggio del testo e quello del reale».
L’elaborazione di un testo didattico è un progetto culturale, ancor prima che editoriale. Corredare un manuale didattico cartaceo di un apparato multimediale, andando a instaurare, quindi, una correlazione, un’integrazione, tra diversi tipi di linguaggio, pensa che possa facilitare i più giovani nel capire e analizzare i processi culturali?
P. R.: Penso di sì. Non che prima queste operazioni non fossero possibili, ma ora sono sicuramente più agevoli, non solo per gli autori dei manuali ma anche per i docenti e gli studenti. Basti pensare alla straordinaria disponibilità di risorse audio e video che YouTube e altre piattaforme web offrono e a cui si può attingere velocemente e da ogni luogo dotato di connessione wi-fi. Studiare la storia più recente connettendosi in Rete e selezionando gli ottimi contenuti che alcuni siti offrono in termini di filmati o di videointerviste; leggere una pagina di Dante e contestualmente fare ricerche di lemmi o altro nei siti che permettono di navigare nella sua opera omnia; lavorare su una commedia latina o greca e recuperare spezzoni di versioni teatrali, metterle a confronto ecc.: sono solo alcune delle possibilità da esplorare in una didattica che utilizzi il manuale tradizionale, ma lo faccia interagire con altri linguaggi.
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- C. Bologna, P. Rocchi, Rosa fresca aulentissima, vol. I, Torino, Loescher, 2012, p. 3. ↑
(fasc. 26, 25 aprile 2019)