Angelo Maria Ripellino poeta e traduttore

Author di Evgenij M. Solonovič

Desidero iniziare questo mio breve intervento ricordando uno scrittore che purtroppo non è più con noi, Andrea Camilleri, che oggi avrebbe potuto raccontare della sua amicizia con Angelo Maria Ripellino, quando entrambi collaboravano alla redazione dell’Enciclopedia dello spettacolo. Anni importanti, perché per Angelo il teatro era la vita, baroccamente intesa come “gran teatro del mondo”.

Ero un giovane traduttore ai primi passi quando conobbi nel 1957 Angelo Maria Ripellino, venuto a Mosca su invito dell’Unione degli scrittori per preparare due incontri fra poeti sovietici e italiani, il primo dei quali, sul tema “La poesia e la contemporaneità”, si svolse in Italia nel 1957 e il secondo a Mosca nel 1958.

In occasione di questo secondo incontro, venne approntata in Russia una smilza (117 pagine) antologia della poesia italiana, Iz ital’janskich poetov (Dai poeti italiani, 1958)[1].

Il curatore, Georgij Brejtburd, responsabile dei rapporti con l’Italia presso la sezione esteri dell’Unione degli scrittori, mi coinvolse nel lavoro, affidandomi la traduzione di due poesie, una di Ignazio Buttitta e una di Antonio Guerra, allora non ancora “Tonino”. Mi pregò anche di preparare il “podstročnik”, vale a dire la traduzione interlineare, di due poesie di Umberto Saba (Tre vie, Paolina) per Nikolaj Zabolockij. Brejtburd aveva affidato a Zabolockij anche la traduzione di tre poesie di Ripellino (Domenica, Febbraio, Non ho mai detto d’esser solo)[2], di cui aveva fatto lui stesso il “podstročnik”. La scelta mi parve particolarmente azzeccata, perché sia i versi giovanili di Saba sia quelli di Angelo, così intrisi di malinconia, formalmente tradizionali ma di una tradizione rivissuta e tornata a inventare, erano particolarmente vicini alla sensibilità poetica del tardo Zabolockij.

Ripellino compare nell’antologia con ben otto liriche (quattro tradotte da Boris Sluckij, tre da Zabolockij, una da Leonid Martynov), anche se allora non era noto come poeta ma come traduttore. Aveva, infatti, già pubblicato la sua famosa antologia Poesia russa del Novecento[3], suscitando l’ammirazione di Boris Pasternak:

Tout à l’heure j’ai reçu Votre Anthologie splendide, Votre présent inestimable. Vos traductions inspirées, que j’ai dévorées tout de suite, ont l’éclat d’une seconde parenté par leur ferme et vive décision, pleine d’assurance. Vous m’avez obligé pour toute ma vie par Votre préface. La profondeur de goût inné, montrée dans Votre choix est étonnante ! Vous êtes versé dans les affaires littéraires de notre mi siècle plus qu’aucun de nous et que moi-même[4].

Proprio in occasione del viaggio a Mosca nel 1957, Pasternak e il suo traduttore italiano si conobbero finalmente di persona. Fu Evgenij Evtušenko, le cui poesie Ripellino tradusse in seguito per la sua antologia, Nuovi poeti sovietici[5], ad accompagnarlo a Peredelkino, il villaggio degli scrittori a una ventina di chilometri da Mosca dove il poeta viveva in una dacia dell’Unione degli scrittori, e a raccontarmi l’episodio che mi accingo a riferire.

Pasternak era uscito sul terrazzino della dacia per andare incontro ai suoi ospiti e, alla vista del giovane siciliano, snello, con i baffetti, i capelli neri e gli occhi di carbone, lo aveva così apostrofato: “Lei è un poeta georgiano?”. Un equivoco comprensibile, perché Pasternak aveva evidentemente capito subito di trovarsi davanti a un poeta, il cui aspetto fisico aveva associato alla cultura georgiana, per lui una seconda patria, che gli permetteva di evadere dall’atmosfera soffocante che lo circondava. L’incontro fu importante per Ripellino, che stava preparando un’edizione dei poemi e delle poesie di Pasternak, comprendente anche le cinque poesie dal romanzo Il dottor Živago[6], a cui teneva molto. Giustamente, perché le sue brillanti versioni, animate da una musicalità che ha qualcosa di stregante, restano, secondo me, tuttora insuperabili.

Da allora, ho incontrato spesso Ripellino a Mosca, fino al 1967, quando fu ospite del IV Congresso dell’Unione degli scrittori dell’URSS, a cui Aleksandr Solženicyn aveva indirizzato una lettera aperta in cui proponeva di discutere «l’insopportabile oppressione» a cui la letteratura russa era sottoposta da parte della censura. Tornato in Italia, Ripellino pubblicò sulla rivista «L’Espresso» l’articolo I topi del regime[7], in cui, riferendo le proprie impressioni, definiva come «unica luce nelle tenebre fitte del IV Congresso degli scrittori sovietici» la coraggiosa lettera di Solženicyn. La conseguenza fu che venne dichiarato “persona non grata” e che quando poi, nel 1968, criticò, in una serie di reportage da Praga, l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, non poté più recarsi né lì né in altri paesi del patto di Varsavia.

Ho continuato a incontrarlo a Roma, quando mi capitava di venire, e spesso portavo dei libri che gli servivano per il suo lavoro, anche da parte di un amico comune, l’ispanista Nikolaj Tomaševskij (il figlio di Boris Tomaševskij), ma purtroppo ho dovuto escludere le sue poesie dall’antologia di poeti italiani del Novecento che stavo preparando e che ho pubblicato nel 1968[8]. Proprio per questa antologia, mi fu assegnato nel 1969 il Premio Quasimodo, congiunto al Premio internazionale di poesia Etna-Taormina, e ricevetti l’invito a venire in Italia a ritirarli. Purtroppo, il giorno prima della partenza, mi comunicarono che non potevo andare in Italia perché Aleksandr Solženicyn era stato espulso dall’Unione degli scrittori e bisognava, quindi, evitare situazioni scabrose. Rimasi, perciò, a casa e chiesi a un amico italiano il favore di contattare la giuria e di riscuotere per me i soldi del premio, che avrei ritirato non appena se ne fosse presentata l’occasione. Solo molti anni dopo sono venuto casualmente a sapere che la proposta di assegnarmi il premio Quasimodo veniva proprio da Angelo Maria Ripellino, il poeta che ero stato costretto a escludere dall’antologia.

Ho dovuto, quindi, aspettare la fine dell’Unione Sovietica per poterlo ricordare e tradurre, come avrei sempre voluto. Nel 1998, ricorreva il settantacinquesimo anniversario della sua nascita, così, alla Casa degli scrittori a Mosca, ho organizzato, assieme al traduttore Gario Zappi, che allora lavorava all’ambasciata italiana, una serata in sua memoria. L’incontro, a cui partecipò, seppur con grande ritardo causa bufera di neve, anche Andrej Voznesenskij, poeta che Ripellino aveva tradotto[9], ha visto un pubblico attento e composito ascoltare la lettura delle sue poesie, ricordi e lettere delle sue allieve, brani musicali che aveva amato.

Per quell’occasione avevo tradotto alcune poesie di Ripellino che decisi di pubblicare assieme a un’introduzione sulla rivista «Inostrannaja literatura» (‘La letteratura straniera’). In un primo momento la redazione accettò la mia proposta e già tutto era pronto, compresa l’introduzione, quando ci ripensarono e mi dissero che non c’era bisogno di mettere anche le traduzioni: bastava l’introduzione con la citazione dei versi che venivano analizzati. Mi arrabbiai molto di questo improvviso dietro front e subito inoltrai la mia proposta alla rivista «Novyj mir»[10], che pubblicò le poesie e l’introduzione, riscuotendo grande successo. Successivamente queste traduzioni sono apparse nella mia antologia Poeti italiani tradotti da Evgenij Solonovič[11].

Parlare di Ripellino traduttore è allo stesso tempo facile e difficile: dirò solo che il traduttore rivaleggiava con i poeti tradotti. La sua antologia del 1954 è un lavoro straordinariamente maturo, che rivela il poeta nelle scelte lessicali, nelle metafore audaci che restituiscono l’alone e l’essenza degli originali. Ripellino è sempre poeta, anche quando scrive saggistica. I suoi versi sono eccezionali e inattesi, ma anche molto diversi fra loro: ai toni malinconici dei versi giovanili subentrano nella maturità connotazioni grottesche e ironico-patetiche che accompagnano il controcanto più intimo e sfuggente, e il ritmo diventa sempre più febbrile.

Concludo queste mie brevi note con alcune sue poesie che ho tradotto in russo, e in cui ho rispettato ritmo e assonanza, ricreando le rime esatte, dove ci sono in italiano, e le coincidenze di vocali o consonanti. Mi sembrano un esempio ben riuscito di fedeltà ai testi originali e un bel ricordo del mio amico Ripellino, poeta e traduttore.

Il buon tempo antico era una grossa mela

posata su una nuvola d’ovatta,

uno specchio barocco con una succosa candela,

una grossa rosa spampanata.

Il buon tempo antico era mia madre

col macinino del caffè tra le ginocchia,

e le nere gelse e i sonagli del mare

e il crepitare verdognolo di una ranocchia.

Il buon tempo antico era il signor Botticelli

con un bouquet di variopinte primavere

e una manciata di tremuli uccelli.

Era il calduccio di casa nelle umide sere,

l’infuso di tolù, menta e limone

e i pupi di zucchero sul canterano.

La casa ora è cieca, ma un fioco lampione

si ostina a illuminarla, avvizzito guardiano.

***

В доброе старое время на облаке ватном лежало

крупное яблоко. В доброе старое время

барочное зеркало отражало

свечу и пурпур розы осенней.

В доброе старое время была моя мама

с кофейной мельницей, зажатой между коленей,

и бубенцы прибоя за пеленой тумана,

и зеленое ква-ква-ква лягушиных бдений.

В доброе старое время был синьор Боттичелли

с пестрым букетом весен в природной раме,

где горстка трепетных птиц выводила трели.

Домашнее было тепло холодными вечерами,

настой толутаново-мятно-лимонный,

сахарные куклы на допотопном комоде.

Дом нынче слеп, но фонарь, старый страж бессонный,

светит сверху ему при любой погоде.

***

***

Lamento di un vecchio violino

Suono perché non voglio morire.

Lo so, se tacessi non si fermerebbero

né i tacchi a spillo, né le gonfie

balene infarcite dei tram,

né i tanti pennacchi a due gambe.

Ma alla finestra spalancata

Suono musiche ardenti e severe,

e non importa se nessuno si accorge di me,

del mio legno sciupato, del mio

gracidio di ranocchia sfiatata.

Se tacessi, sarebbe lo stesso, Signor Sherwood,

ma io debbo, ma io debbo sonare,

illudermi d’esser vivo, Signor Sherwood,

anche se quei pellicani là sotto

barcollano senza notarmi.

Il mio sguardo è inchiodato alla vita,

come a un abisso di ghiaccio abbagliante,

e suono, benché rauco, per vivere ancora.

***

Плач старой скрипки

Я играю, потому что не хочу умирать.

Знаю, и без моей игры продолжали бы

двигаться и туфли на шпильках, и туго

нафаршированные киты-трамваи,

и ходячие портупеи.

И тем не менее у распахнутого окна

я играю бравурное что-нибудь

или скорбное, и не важно, что дела

нет никому до меня, изношенной деревяшки,

до кваканья усталой лягушки.

Без моей игры мир не стал бы ни лучше, ни хуже,

но мне нельзя, нельзя не играть,

не тешить себя, что жизнь продолжается, даже

если эти пеликаны внизу

переваливаются, не замечая меня.

Мой взгляд, синьор Шервуд, пркован к жизни,

словно к ледяной ослепительной бездне,

и я играю, пусть хрипло, играю, чтоб выжить.

***

***

Racconto

Ivan Ivanovič, secondo consigliere

dell’Ambasciata sovietica a Roma,

vuol disfarsi della maschera di Gogol’

che lo opprime.

Maschera con grande Naso.

Si gonfia come ampolla di cerusico

nei suoi deliri.

Vuol regalarla, ma gli amici non la vogliono:

“Abbiamo la casa piena”.

La getta dalla finestra, ma gliela riportano.

La abbandona in un deposito di moderni

Rifiuti di pittori, ma il custode gliela rende.

La Sacra Famiglia la respinge.

Intrighi del capitalismo?

O intrighi del viceconsole?

***

Рассказ

Ивану Ивановичу, второму советнику

Советского посольства в Риме,

действует на нервы маска Гоголя,

висящая на стене.

Маска с выдающимся Носом

чудится ему огромным

больничным поильником.

Он подарил бы ее друзьям, но те не берут:

«Некуда вешать».

Выбрасывает в окно – приносят обратно.

На склад современного художественного брака

Не принимают.

Святое семейство открещивается от нее.

Происки капитализма?

Или козни вице-консула?

  1. Iz ital’janskich poetov, a cura di G. Brejtburd, con prefazione di A. Surkov, Moskva, Izd. Inostrannoj literatury, 1958, pp. 70-76.
  2. Queste poesie, apparse sulla rivista «La fiera letteraria», 6/02/1955, sono poi state incluse nella prima raccolta di A. M. Ripellino, Non un giorno ma adesso, Roma, Grafica, 1960.
  3. A. M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma, Guanda, 1954.
  4. R. Giuliani, C. Scandura (a cura di), Negli anni di Živago: due lettere inedite di Pasternak a Ripellino, in «Nuova Rivista Europea», 10/11, 1979, p. 98.
  5. Nuovi poeti sovietici, a cura di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 1962.
  6. B. Pasternak, Poesie, introduzione e versione di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 1959.
  7. A. M. Ripellino, I topi del regime, in «L’Espresso», 13 giugno 1967, p. 11.
  8. Ital’janskaja lirika XX veka, a cura di E. Solonovič, introduzione di A. Surkov, Moskva, Progress, 1968.
  9. A. Voznesenskij, Poesie, in Nuovi poeti sovietici, Torino, Einaudi, 1962.
  10. A. M. Ripellino, “Ja igraju, potomu čto ne choču umirat‘”, traduzione e introduzione di E. Solonovič, in «Novyj mir», 12, 1998.
  11. Poeti italiani tradotti da Evgenij Solonovič, Moskva, Raduga, 2002, pp. 486-89.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)