Il metodo “Dante spiegato con Dante” nell’esegesi dantesca del XIX secolo

Author di Valentina Petrini

Tra le differenti metodologie impiegate nel corso dell’Ottocento per lo studio delle opere dantesche, la più controversa è probabilmente quella di «spiegar Dante con Dante». Se la teorizzazione di tale principio aveva radici più profonde ed era riconducibile al Cinquecento, è pur vero, come evidenziava Giambattista Giuliani, che «il modo, e la sicura possibilità di recare la cosa in atto, è il freno, che bisogna stabilire in simile lavoro. Or questo nol pensò alcuno mai né certo v’ebbe chi siasi accinto a condurlo»[1]. Era questo, secondo lo studioso, a costituire il principale carattere di novità da lui introdotto nella critica e nella filologia dantesche rispetto ai secoli precedenti.

Nel XIX secolo in Italia lo studio di Dante conobbe nuova linfa, nuove scoperte, un rinnovato interesse filologico che portò a esperienze tra le più diverse, specializzandosi con l’applicazione sempre più sistematica del metodo lachmanniano e, successivamente, del metodo storico. In questo panorama si colloca la messa a punto di quel metodo, basato sul principio dell’intertestualità, denominato «Dante spiegato con Dante».

Per comprendere appieno come tale metodologia si sia inserita nel campo degli studi danteschi dell’Ottocento, occorre volgere lo sguardo ad alcune edizioni di inizio secolo che divennero, per gli studiosi successivi, un imprescindibile punto di riferimento.

Tra queste va sicuramente annoverata quella approntata dal Foscolo: nel Discorso edito a Londra da William Pickering veniva presentato il progetto di un lavoro assai ampio che, tuttavia, l’autore dei Sepolcri non riuscì a portare a termine. Fu solo nel 1842, grazie a Mazzini, che ebbe inizio la pubblicazione dell’opera, durata all’incirca un anno. Il criterio guida dell’edizione foscoliana, che emerge con evidenza nel secondo volume, è quello dell’ope ingenii del curatore: come infatti metteva in luce Karl Witte,

le ragioni che determinarono la scelta del Foscolo […] sono quasi sempre dedotte da argomenti secondarj, come sarebbe l’armonia del verso, l’eufonia, e cose simili; ma invano si cerca di stabilire principj di critica, che, escludendone l’arbitrario, potessero dar certa legge alla scelta da farsi fra le lezioni.

Del 1837 è la Divina Commedia ridotta a miglior lezione coll’aiuto di vari testi a penna dell’Accademia della Crusca curata da Fruttuoso Becchi, Giovanni Battista Niccolini, Gino Capponi e Giuseppe Borghi. L’intento dei curatori in questo caso non era tanto quello di proporre un nuovo testo critico del poema quanto di adottare delle lezioni soddisfacenti a colmare gli errori dei predecessori. Tale obiettivo portò a procedere per loci critici per i quali però, avverte sempre il Witte, non furono sempre collazionati tutti e venti i codici di riferimento.

Due furono, nello specifico, i criteri alla base della nuova edizione cruscante: da un lato, si preferì la lezione contenuta nella maggior parte dei testimoni; dall’altro, come affermato dallo stesso Becchi, quello della lectio facilior, che trovò poco concordi alcuni degli editori successivi, primo fra tutti lo studioso tedesco, in quanto ritenuto un principio poco affidabile contrariamente a quello della lectio difficilior.

Tra coloro che preferirono intraprendere un’ulteriore strada ci fu Marco Giovanni Ponta (Arquata Scrivia, 14 aprile 1799-Casale Monferrato, 21 luglio 1849). Entrato a far parte della congregazione dei Chierici Regolari di Somasca, lo studioso ottenne la cattedra di Filosofia nel Liceo di Genova e successivamente quella di Matematica e Astronomia presso il Collegio di Sant’Antonio Abate di Lugano. Dapprima indirizzato verso lo studio delle opere di Petrarca e di Boccaccio, successivamente il Ponta si dedicò a indagare la Commedia e le opere minori di Dante. Nel primo saggio di argomento dantesco, risalente al 1840, Petrarca e Dante vengono posti a confronto attraverso una serie di osservazioni linguistiche legate all’utilizzo degli aggettivi “vivo” e “morto” e del verbo “squadrare”[2], anticipando in parte quello che sarà il metodo adottato dallo studioso nei suoi studi successivi. Già dal 1842 con il saggio Interpretazione del verso di Dante: “Perch’io te sopra te corono e mitrio” Purg. 27, iniziarono a delinearsi alcuni principi cardine di tale norma, a cominciare dall’obiettivo principale: «far conoscere per via spedita e chiara qual fosse il vero intendimento del poeta, e quali i mezzi posti in opera per riuscire al fine proposto»[3].

Il criterio dell’intertestualità per il Ponta si traduce in uno studio accurato delle opere dantesche per desumere da queste gli argomenti filosofici e teologici (nonché il significato dell’allegoria) che permeano l’opera del sommo poeta. L’attenzione non è tanto rivolta alla ricostruzione del testo alla ricerca della lezione considerata migliore, ma al suo significato originario. Fondamentale è, dunque, la concordanza con il pensiero filosofico e morale dell’autore e delle sue fonti, in particolar modo quelle latine: «a conoscere ed afferrare il vero di (una) frase non basta, anzi poco o nulla giova, il valore dei vocaboli per sé, ove non venga confortato dall’attenta disamina della dottrina»[4]. Tale necessità verrà ulteriormente evidenziata nello studio, pubblicato l’anno seguente, sulla «principale allegoria della Divina Commedia». In questo, oltre a mettere in evidenza l’elemento metodologico innovativo da lui introdotto rispetto ai commentatori precedenti (tra i quali Rossetti, Foscolo, Marchetti, Lombardi e Scolari), il Ponta sintetizza in maniera ancora più incisiva la direttiva da lui seguita:

Io intendo solo a contrapporre alle loro le sentenze dello stesso autore, che essi ed io abbiamo studiato: ma con questa intenzione, che mentre essi conducono Dante a confermare le proprie supposizioni; io null’altro voglio supporre che quello stesso che Dante mi preparò ne’ suoi scritti […] Per interpretare le profonde verità, che egli nascose sotto bella menzogna, fa mestieri non fantasia, ma lunga, paziente e ponderata lettura de’ suoi dettati: non immaginazione, ma diligente applicazione degli alti principii filosofici e teologici da esso manifestati[5].

Lo studio analitico delle opere considerate “minori” è pertanto imprescindibile: è in queste, infatti, che si celano la “dottrina” e i “sentimenti” necessari per commentare correttamente le parole di Dante. Fu proprio «cercando la chiave della Divina Commedia nelle Opere minori» che lo studioso «gettò la prima base di quella scuola che si proponeva di spiegare Dante con Dante, stabilita e propugnata in seguito dal Giuliani»[6].

Il maggior sostenitore di tale metodo fu per l’appunto il già citato Giambattista Giuliani, che l’applicò in maniera sistematica allo studio di tutte le opere dantesche, pur apportando diverse modifiche rispetto a quanto proposto dal maestro. Somasco e piemontese come il Ponta, il Giuliani nacque a Canelli il 4 giugno 1818 e morì a Firenze l’11 gennaio 1884[7]. Dopo il suo ingresso nell’ordine, si dedicò prevalentemente allo studio della Matematica e della Logica, andando a ricoprire nel 1838 la cattedra di Filosofia razionale presso il Collegio Clementino di Roma. L’anno seguente lo studioso passò a insegnare Filosofia nel Collegio di Sant’Antonio a Lugano, tappa fondamentale per la sua formazione: qui, grazie ai preziosi insegnamenti del Ponta, come si è visto, il Giuliani fece propria l’idea di commentare la Commedia attraverso i riferimenti alle altre opere del Poeta. La permanenza dello studioso presso il collegio somasco fu breve: la salute cagionevole lo costrinse infatti, nell’agosto 1841, a partire per Cherasco e, poco tempo dopo, per Roma. Due anni più tardi il padre somasco decise di abbandonare gli studi scientifici per dedicarsi a quelli danteschi; al 1844 risalgono i primi scritti sull’argomento tra cui Dei pregi e di alcune nuove applicazioni dello Orologio di Dante immaginato e dichiarato da Marco Giovanni Ponta[8]. Nel saggio dedicato agli studi compiuti dal maestro, il Giuliani riporta solamente nove dei ventitré passi scelti dal Ponta per spiegare la «regola generale per la soluzione dei quesiti orarii» presenti nella Commedia. Riproponendo il quarto di questi («lo bel pianeta che ad amar conforta (Purg. I, v. 19)»), lo studioso, sulla base di numerosi rimandi intertestuali, concorda con l’interpretazione secondo cui il «bel pianeta» non sarebbe il Sole, come aveva precedentemente ipotizzato Giulio Perticari, bensì Venere[9]:

Non è a metter dubbio che Venere sia desso il bel pianeta che piove influssi, e così ingenera gli stimoli d’amore. Dante nel Pur. c. 28, V. 96; e nel Par. c. 8, v. 1 e seg.: ed in più luoghi del Convito ha per ferma l’opinione, che tutto da questo pianeta si debba riconoscere il virtuoso amore, da cui gli uomini, colpa le loro malvage passioni, empiamente si torcono. E vorremo poi vedere quel grande in discordia con se stesso? Ciò non può essere di lui che tutta dinanzi alla mente avea ordita e spiegata la gran tela de’ suoi pensieri, ed a cui bastava la vista per iscoprirne eziandio i più piccioli nodi. Nel resto, che ei distinguesse il sole dalla stella palesemente si vede nella canz. Donna pietosa e di novella etade (V. N. p. 44), dove trovansi queste espresse parole: Poi mi parve vedere a poco a poco / Turbar lo sole ed apparir la stella[10].

I principi guida della metodologia sviluppata dal Giuliani furono, però, delineati con chiarezza nel 1846 con il Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia di Dante Allighieri. Dal momento che critici ed esegeti schiacciavano l’opera di Dante sotto il peso delle proprie interpretazioni, il padre somasco, vittima in seguito della stessa accusa, conchiudeva che per interpretare correttamente la Commedia «doveasi tenere la sola e più verace e men pericolosa via, che è: di recar Dante a spiegare sè stesso»:

Quando nel farmi a spiegare il divino Poema m’incontrava (che non era di rado) a qualche luogo difficile, metteva ogni diligenza e sforzo per trovare o farmene sovvenire al pensiero alcun altro somigliante, e se dopo un paziente esame l’uno mi si dimostrava a bastanza rischiarato dall’altro o vicendevolmente, io mi teneva contento. Ove questo non paresse, mi faceva a ricercare e meditare le opere minori del sommo Poeta: e di queste assai del frequente e con grandissimo frutto mi trovai. Mancandomi esse, ricorreva agli autori che Dante lungamente studiò e fece a noi conoscere per suoi cari e fidi maestri. […] Qualvolta mi fallirono questi opportuni soccorsi, mi rivolsi agli antichi commentatori, degnissimi sempre della fede maggiore: e se le interpretazioni loro mi si chiarivano in accordo colle aperte e costanti opinioni del Poeta, liberamente le elessi: se poi ne andavano lungi o discordi, mi piacque abbandonarle. Allora mi poneva a leggere e studiare ne’ moderni. […] Quando tutto ciò mi venne meno, […] lasciai che ciascuno vedesse e giudicasse a modo suo: mal piacendomi di sopraggravare co’ miei i dubbi altrui[11].

Al di là dei numerosi commenti dati alle stampe nel corso della sua vita dal Giuliani, il documento che più di tutti permette di crearsi un’idea precisa su come lo studioso operasse in divenire sul testo dantesco è rappresentato da una copia del poema (nell’edizione del 1854 curata da Brunone Bianchi per Le Monnier) da lui posseduta e fittamente annotata[12]. Un esempio emblematico è rappresentato dalla pagina relativa a Purgatorio XXV, 26-42. Il nucleo tematico attorno al quale ruota la maggior parte delle postille è il verso 31 del canto: se il Bianchi aveva optato per la lezione «se la veduta eterna gli dispiego», il padre somasco mostra di preferire «se la veduta interna gli dislego», come si legge invece nel Paradiso, a cui rimandano, infatti, le annotazioni in interlinea: «interna: Par. XIX, 60»[13] («com’ occhio per lo mare, entro s’interna») e «dislego: Par. XXXIII, 31» [«perché tu ogne nube li disleghi]». Per «veduta interna» il Giuliani intende «vista della mente», come nella Monarchia (menzionata sul margine destro della pagina: «veduta interna: vista della mente, Mon. II, 1 Ɵ») e nel significato attribuito dal Petrarca ad «occhio interno» nel v. 12 («Ché più bella che mai con l’occhio interno») del sonetto Spinse amor e dolor ove ir non debbe. In questo caso la citazione del sintagma petrarchesco è seguita da un numero di pagina («Petrarca, p. 294»), che certo rimanda a un’edizione del Canzoniere petrarchesco posseduta dal Giuliani. Come evidenzia lo studioso sul margine sinistro della pagina, la «veduta interna» coincide con gli stessi «raggi della mente» di cui si parla in Paradiso, XIX, 52-54 («dunque vostra veduta, che convene / essere alcun de’ raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene»). Lo stesso concetto viene espresso con diverse perifrasi anche in altre opere di Dante, prima fra tutte il Convivio, cui lo studioso rimanda nelle annotazioni successive: «gli occhi intellettuali: Con. II, 5 r», «gli occhi della mente umana ossia gli occhi della ragione, Con. I, 4. 6; II, 5. p. IV, 15». Un’altra interessante postilla a margine, col suo rinvio a «Canzoniere pag. 203», pone come termine post quem di parte delle postille il 1863, anno in cui il Giuliani diede alle stampe La Vita Nuova e il Canzoniere di Dante Allighieri. Alla pagina 203 del volume si trova, infatti, la canzone dantesca Doglia mi reca ne lo core ardire, i cui versi 48-50 («Questo servo signor tanto è protervo, / Che gli occhi, ch’a la mente lume fanno, / Chiusi per lui si stanno») vengono così commentati dal Giuliani:

Questo servo (l’appetito sensitivo) fatto signore della ragione, cui dovrebbe servire, tanto è protervo (baldanzoso), che per lui gli occhi della mente stanno chiusi alla luce del vero. Sicché l’uomo, che se ne lascia vincere, fatto ha la mente sua negli occhi oscura (Purg., XXXIII, 126)[14], e però ha l’occhio dell’anima intento alle folli cose, è fuori di conoscenza e della verità[15].

Ancora alla lezione «veduta interna» è dedicata l’intera annotazione posta sul margine inferiore di pagina 424, dove viene puntualmente motivata tale scelta:

Se gli libero la mente dal legame, in che lo tengono i suoi dubbi, se queste piaghe mentali gli risono, onde veggo il vero ec. Deve certo leggersi veduta interna gli dislego, perché qui si tratta di sanare le piaghe dell’intelletto ovvero della mente, e queste non possono essere che ignoranze ed errori, onde la mente è come legata e impedita a conoscere il vero. Quindi altrove a significare ch’egli fu chiarito d’alcun dubbio ed errore, sì occorre che per fargli chiara la sua inferma vista, gli fu data soave medicina (Par. XX, 141)[16]. E il detto Bernardo prega Maria che disleghi a Dante ogni nube di sua mortalità (Par. XXXIII, 31)[17] e l’errore è pur come nebbia che fiede l’intelletto: Pur. XXVIII, 90 […][18].

Due sono gli obiettivi principali che il Giuliani si prefissa volendo «spiegar Dante con Dante»: la ricostruzione del testo critico delle opere dantesche e l’interpretazione delle parole del poeta. Se, tuttavia, il primo fine riuscì ad essere portato a termine, il commento integrale alla Commedia non fu mai concluso.

La metodologia propugnata dal Giuliani si fonda su alcuni pilastri fondamentali: il confronto sistematico tra tutti gli scritti danteschi, la conoscenza dell’usus scribendi di Dante, lo studio accurato delle fonti di cui si servì il poeta (seppure in misura minore rispetto al padre Ponta) e il sistematico raffronto tra il linguaggio dantesco e l’uso vivente di Toscana, che costituisce l’apporto più innovativo introdotto dallo studioso.

Un caso particolarmente degno di nota è costituito dall’Epistola a Cangrande della Scala, documento intorno al quale nel XIX secolo si accesero animate dispute e di cui il padre somasco, insieme al Ponta, fu uno dei primi a difendere l’autenticità. Nella prefazione al suo studio del 1856 Del metodo di commentare la Divina Commedia. Epistola di Dante a Cangrande della Scala, il Giuliani spiega come si fosse deciso

a volgarizzare di nuovo quell’epistola, perchè assai notevoli mende si discopersero nel testo, e perchè le traduzioni del Fraticelli e del Missirini non si concordano sempre colla mente dell’Autore. Ai pensieri del quale io mi tenni ristretto in ogni possibile maniera, adoperando, giusta l’uopo, le conformi parole che egli mi somministrava nella Commedia e nelle opere Minori[19].

Un parametro importante, aggiunge inoltre il Giuliani, per l’attribuzione a Dante dell’epistola allo Scaligero è la conformità, nella forma così come nello stile, agli altri scritti del poeta:

la forma che Dante di continuo strettamente segue ne’ suoi ragionamenti […], mediante la quale il discorso muove sempre dai sommi e fondati principii onde le verità si conchiudono, scorgesi intera nella Dissertazione allo Scaligero, nè si differenzia punto da quella improntata nella Monarchia, nel Volgare eloquio e nelle tre Cantiche. Sopra ciò, quivi occorrono le istessissime frasi, le voci barbare e scolastiche, il duro stile, gli esempi, sinanco i sillogismi che s’incontrano qua e colà nelle opere di Dante latinamente scritte[20].

Il valore esegetico attribuito dal Giuliani alle opere minori appare, quindi, evidente fin dai suoi primi saggi dedicati all’argomento; ciononostante, una descrizione puntuale del suo modo di procedere verrà da lui stesso fornita solo nel 1861 nel capitolo Dante spiegato con Dante. Nuovi commenti alla Divina Commedia, contenuto nella silloge Metodo di commentare la Commedia di Dante Allighieri:

in prima cercai di raffrontare la Commedia ne’ luoghi simili, e degli uni mi valsi ad illustrare gli altri, o a vicenda. Poscia dispiegatemi alla mente le svariate fila di quella immensa tela, m’ingegnai, per quanto era in me, di contesserle insieme con quelle della Vita Nuova, del Convito, della Monarchia, delle Lettere, delle Canzoni, delle Egloghe e del Volgare Eloquio[21].

Se per Marco Giovanni Ponta l’obiettivo principale nell’adozione del metodo “Dante spiegato con Dante” era giungere all’interpretazione del pensiero filosofico e teologico di Dante, nel caso del Giuliani l’attenzione è volta in principal modo alla ricostruzione del testo dantesco. Facendo proprio lo spirito risorgimentale e romantico del suo tempo, lo studioso giunse alla conclusione che il «sommo poeta» dovesse essere considerato l’essenza stessa dell’italianità: il padre della letteratura italiana, avendo fatta propria e nobilitata la lingua del popolo all’interno delle sue opere, non poteva che essere ritenuto anche il fautore dell’«italico idioma».

Seppur non facente parte della metodologia presa in esame, merita un accenno l’innovazione principale introdotta dal Giuliani nell’ambito degli studi danteschi, ovvero quella di raffrontare, a livello lessicale e sintattico, il linguaggio dantesco con quello dei contadini toscani. Una necessità che dipendeva dalla convinzione che nel linguaggio popolare toscano si continuasse la stessa lingua che Dante aveva trasfuso nelle proprie opere:

l’Italia possiede tra i molti dialetti e popoli un Popolo, il quale da lunga e diversa fortuna de’ tempi e convivente anche in luoghi disgiunti da qualsiasi cultura intellettuale, mantiene tuttodì incorrotta la favella de’ suoi padri, la favella de’ primi e più sinceri autori di una nuova Letteratura, la favella del solenne Maestro della Civiltà moderna, Dante Allighieri[22].

Anche in questo caso non si tratta di una novità vera e propria in quanto già il Tommaseo, fin dalla prima edizione del suo commento alla Commedia del 1837, aveva adottato questo particolare confronto. Occorre, tuttavia, notare che tra i due studiosi esistono alcune differenze metodologiche. Nella maggior parte delle note linguistiche introdotte dallo studioso dalmata nel suo commento, la spiegazione del termine analizzato si esaurisce in frasi come «vive in Toscana», «è del toscano», «s’usa in Toscana»; il Giuliani tende, invece, ad argomentare maggiormente la propria chiosa, riportando l’antefatto che sta alla base di quello specifico rimando al toscano dell’uso. Mentre nel primo la fraseologia di riferimento non viene quasi mai annotata, se non per quanto riguarda i proverbi e i modi di dire, nel secondo, al contrario, l’esempio tratto dalla lingua del popolo è sempre presente. Infine, mentre il Tommaseo spesso si limita ad affermare genericamente che un vocabolo «vive in alcune aree della Toscana», nel Giuliani si nota un’accuratezza quasi dialettologica che lo porta a specificare, oltre alla variante diastratica, anche quella diatopica, con precisi riferimenti al paese o alla frazione di provenienza del suo informatore.

Il confronto operato dal padre somasco tra la lingua di Dante e quella usata dai contadini delle campagne toscane comparve, per la prima volta, nel saggio del 1857 Dante spiegato con Dante: nuovi studi sulla «Divina Commedia». Commentando il verso 63 di Paradiso III («sì che raffigurar m’è più latino»), il Giuliani riscontrò il medesimo uso dell’aggettivo latino, nel senso di ‘chiaro’, nella frase di un contadino di Cavinana: «quel vocabolo è tuttor vivo in Toscana; ed io intesi a Cavinana un cotale che, rimproverando con aperti modi il suo compagno, pur gli diceva: “tel dico latino io?”»[23]. Se in questo caso la parola del popolano toscano viene in soccorso allo studioso per commentare correttamente il verso dantesco, in altri casi l’uso vivente serve a emendare il testo critico dell’opera dantesca: è quanto accade, per esempio, nell’edizione del Convivio curata dal Giuliani e pubblicata tra 1874 e 1875. Qui, alla riga 90 del capitolo XXIX, la «meliga» viene, infatti, sostituita con la «saggina» («e siccome d’una massa bianca di grano si potrebbe levare a grano a grano il formento, e al grano sostituire saggina rossa […]»).[24] Si tratta ovviamente di un intervento sul testo del tutto arbitrario in cui le parole dei contadini, che avevano spiegato al padre somasco come la saggina possa assumere il colore del mattone, assumono un valore eccessivo:

Ed in cambio di “meliga”, che è la lezione Volgata, non indugia punto di scrivere “saggina” […] giacchè è voce tuttavia nell’uso di Toscana, dove inoltre v’ha ancora de’ contadini che, specialmente quando l’annata è brusca, si giovano della saggina mista col segalato per farne pane. E questo riesce proprio, per dirla al modo che dicono essi, del color di mattone[25].

Particolarmente complessa è la posizione del Giuliani circa l’uso dei testimoni manoscritti. L’avversione nutrita dallo studioso nei confronti dei codici delle opere dantesche dipende principalmente dalla scarsa fiducia nell’opera di trascrizione dei copisti. Nonostante tali remore, che verranno sempre evidenziate nelle lettere a Karl Witte (strenuo difensore, al contrario, dell’autorità dei codici), fin dal 1844 il padre somasco si mostra comunque disponibile al confronto con la tradizione dei testi a penna. Non solo, in alcuni casi è lo stesso studioso a dare la caccia ai manoscritti, collazionando le diverse lezioni, e optando per l’una piuttosto che per le altre senza ricorrere a scelte congetturali. Tuttavia, la scarsa validità attribuita da Giuliani ai codici è uno degli aspetti del suo metodo che scatenarono maggiori polemiche non solo tra i contemporanei, ma anche tra gli studiosi successivi.

Coetaneo del Giuliani (nacque nel 1835 e morì qualche anno dopo lo studioso piemontese nel 1916), Edward Moore si avvicina molto, come metodologia di indagine, a Karl Witte, dedicatario dei Contributions to the textual Criticism of the Divina Commedia del 1889. Il principio cardine sul quale s’impernia tutta l’opera dello studioso è lo stesso del dantista tedesco: non ammettere nel testo dantesco una sola lezione assente nei codici o che non possa essere derivata dalla tradizione manoscritta.

Nonostante l’estrema fedeltà nei confronti dei testi a penna, tuttavia anche il Moore, così come il Giuliani, nutriva numerose riserve circa la bontà dell’opera degli amanuensi: lo studioso gallese sottolineava, infatti, come un grande numero di errori derivasse dall’ignoranza dei copisti di fronte a parole sconosciute, aspetti formali inconsueti, lingue diverse o a un senso diverso rispetto a quello letterale. Da ciò erano derivate la riscontrata tendenza a prediligere la lectio faciliorthere is a tendency to take the obvious and prima facie sense of words or expressions, and without further reflexion to adapt the surroundings accordingly»)[26] e a emendare per congettura, seguendo criteri estetici o metrici preferiti al significato del verso.

La ricostruzione stemmatica, così come per il Witte, è l’obiettivo principale del Moore che, per risalire alle famiglie di testimoni, si distacca però in parte dal suo maestro attribuendo valore, oltre che all’aspetto sintattico e ritmico dei manoscritti, anche a quello linguistico e ortografico. L’unico metodo adottabile per poter classificare i manoscritti è quello di individuare alcuni loci critici: questi, tuttavia, non devono essere scelti per il loro carattere generale o coincidere con un canto intero (come nel caso del Witte), ma essere passi selezionati la cui validità critica sia già stata comprovata da altri studiosi sulla base di principi critici a priori. Il Moore vuole arrivare così a individuare varie classi di codici in cui sia possibile distinguere tra quelli ritenuti più fedeli all’originale e quelli che, al contrario, essendo meno attendibili, dovranno andare incontro a un processo di epurazione sulla base di principi critici a posteriori.

Diverse sono le metodologie di indagine sviluppate nel corso dei secoli da parte degli editori che vengono condannati dallo studioso; particolarmente interessante è, però, ciò che il critico scrive a proposito del metodo adottato dal Ponta prima e dal Giuliani poi. A differenza di altri, infatti, il Moore non condanna totalmente l’idea di spiegare Dante con Dante, ma ne mette in luce i limiti di applicabilità, sottolineando l’importanza di distinguere tra coerenza o incoerenza di una lezione rispetto al pensiero dell’autore e la somiglianza tra passi simili:

One (of these methods) is the consistency or inconsistency of rival readings with sentiments elsewhere expressed by the author himself. I say consistency or inconsistency, not mere resemblance, since we have already seen that the reminiscence of other similar passages and the direct effort to reproduce or imitate them, is itself a distinct source of the introduction of false readings. The late Professor Giuliani insisted most strongly on the importance of interpreting Dante by himself — taking as the motto of his works “Dante spiegato con Dante”[27].

Per il Moore una metodologia congetturale, come quella strenuamente difesa dal Giuliani, non poggiante su testimoni manoscritti non può essere ritenuta universalmente valida. Lo studioso offre alcuni esempi di proposte avanzate dal padre somasco che, proprio per questa ragione, non possono essere accettate: è quanto accade per il verso 95 del canto XVII dell’Inferno «Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne / ad altro forse, tosto ch’i’ montai / con le braccia m’avvinse e mi sostenne». «Ad altro forse» viene emendato dal Giuliani con «all’alte fosse»: il Moore commenta tale scelta evidenziando come il criterio seguito non sia quello della collazione del manoscritti (dal momento che nessuno riporta «all’alte fosse»), ma solamente quello estetico: «Giuliani in his recent Ed. of the Div. Com. (Florence, 1880) adds another guess, “all’alte fosse” which is, I believe, as absolutely devoid of any MS. authority whatever, as it certainly is of poetic taste»[28]. Lo stesso avviene in merito al verso di cui si è già largamente trattato di Purgatorio XXV «se la veduta etterna li dislego». Anche in questo caso la lezione adottata dal padre somasco «la veduta interna gli dislego» viene ritenuta una mera congettura: «Giuliani reads veduta interna, purely e conj., as it would seem. At any rate I do not think I have ever met with interna in any MS. in this passage, nor does Giuliani profess to have done so, though the words are often confused elsewhere, e.g. Par. XVII 9, XXIII. 115, & c.»[29].

Tuttavia, il Moore propone anche all’attenzione dei suoi lettori un caso che dimostra come, occasionalmente, il metodo “Dante spiegato con Dante” possa essere efficacemente applicato. Questo si verifica quando due lezioni, anche se divergenti, vengono egualmente riportate dai manoscritti: «an example of the occasional applicability of this principle to the decision between various readings will be found in the discussion of Purg. XXII. 5, 6, and XXVII. III, in the latter of which the MSS. are nearly equally divided between men lontani and più lontani»[30].

La fortuna di questa metodologia deve tener conto del contesto in cui è stata sviluppata: la filologia dantesca in Italia nel corso dell’Ottocento, come si accennava all’inizio di questo contributo, conobbe varie fasi in cui la soggettività delle scelte operate dagli editori venne più o meno accettata.

Tra coloro che fecero proprio il principio di spiegar con Dante con Dante, seppur con precisi confini, ci fu Antonio Lubin, dantista di origini croate e professore all’Università di Graz. Particolarmente interessante è lo scritto da lui pubblicato nel 1884 intitolato Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche in cui lo studioso, oltre a rispondere alle critiche mosse al suo commento alla Commedia, esplica in un breve discorso iniziale i pericoli di tale metodo e il modo in cui questa debba intendersi.

Il rischio principale evidenziato dal Lubin è quello che il Giuliani, proponendo l’applicazione di questo criterio, voleva scongiurare e del quale, in realtà, cadde egli stesso vittima, ovvero la proposta di lezioni congetturali legittimate dal nome di Dante:

Da che fu essa proclamata dal Giuliani, si presentarono al pubblico con quella divisa molte interpretazioni dantesche, dalla lettura delle quali si rileva che quegli autori, per averla assunta, si credettero di aver per essa conseguito il brevetto d’infallibilità, o un salvacondotto per i loro errori. Sotto quell’usbergo si credettero autorizzati di spacciare, a nome di Dante, cose da Dante non mai pensate, anzi in opposizione a quelle da lui anche chiaramente dette. E dopo quella formula ne vennero delle altre. E si spiegò Dante coll’arte di Dante; colla maniera di Dante; ed ora si cercano le interpretazioni dantesche nel generale sistema di Dante che si rivela in tutte le opere di lui. — Belle parole, molto promettenti, che non preservano però nessuno dall’inciampare[31].

Nonostante la pericolosità di cadere in interpretazioni e lezioni in cui l’ope ingenii del curatore prende il sopravvento, il Lubin evidenzia tuttavia la necessità di rifarsi a tale formula, da lui definita «canone ermeneutico», seguendo alcuni criteri fondamentali. Prima di tutto:

in ogni questione dantesca, quella soluzione è la vera, la quale si ottiene da Dante; e che quindi necessariamente cadono a fronte di essa tutte le altre, siano di chi si sia, dal più antico al più moderno degli interpreti, si chiami esso l’Ottimo o Pietro o Iacopo di Dante, della Lana, Boccaccio, Buti, Landino, Vellutello, Lombardi, Foscolo, Rossetti, Filalete, Blanc, Witte, Tommaseo, Giuliani ecc, ecc., non monta: ove sia Dante spiegato veramente con Dante, la questione è finita e la controversia cessa[32].

Non basta confrontare due passi tratti dalle opere dantesche per poter spiegare l’autore attraverso i riferimenti presenti nella sua opera: è necessario «il concorso di tutti che ne hanno un evidente rapporto». Il fatto che i luoghi posti a paragone presentino espressioni simili non è, inoltre, sufficiente a provarne la validità, ma è necessario che essi esprimano il medesimo concetto; infine, un passo controverso, prima di poter essere usato come conferma del pensiero dantesco, deve essere chiarito nel suo significato, sia questo letterale o allegorico.

Ad eccezione di rari casi, come quello appena presentato, con la fine del secolo in Italia si assistette a una decisa e irrimediabile svalutazione del metodo “Dante spiegato con Dante”. Con l’affermazione del metodo storico, le critiche al mancato riferimento ai codici divennero ancor più incisive. Il primo dal quale giunsero ferree opposizioni fu Pio Rajna, che nella sua edizione critica del De vulgari eloquentia del 1896 passò in esame quella proposta dal Giuliani traendone un giudizio alquanto negativo. La stessa mancanza di presa in considerazione della tradizione manoscritta evidenziata dal Rajna venne messa in luce da Michele Barbi che, con le sue accurate ricerche sui manoscritti della Commedia, della collazione dei codici aveva fatto il fulcro del proprio metodo d’indagine.

In conclusione, volgendo un rapido sguardo anche alla cultura letteraria italiana di inizio Novecento, questa appare caratterizzata da una generale reazione al dantismo accademico di cui si fece portavoce Benedetto Croce nel saggio La poesia di Dante. Il pensiero crociano non potrebbe essere più diverso da quello propugnato dal Ponta e dal Giuliani poco più di mezzo secolo prima. Riprendendo una tendenza che caratterizzò anche la critica dantesca del primo Ottocento, Croce attribuisce un ruolo assolutamente marginale alle opere minori, ritenute mere esercitazioni in vista del risultato finale del poema: «la poesia di Dante è principalmente, e si potrebbe dire quasi unicamente, la poesia della Commedia, perché nella Commedia egli giunse tutt’insieme alla piena originalità e all’eccellenza artistica»[33].

Contro gli «allegoristi, gli aneddotisti, i congetturisti» Croce avanza la proposta di «gettare via» i commenti che «invece di fornire i soli dati giovevoli alla interpretazione storico-estetica, esibiscono cose inopportune ed estranee»[34]. A questo si accompagna la necessità, per chi vuole interfacciarsi con Dante, di un’adeguata preparazione filologica, ma, specifica ancora il critico, «la mediazione deve condurre a ritrovarsi con Dante da solo a solo, ossia a mettere in immediata relazione con la sua poesia»[35]. Da qui dunque la condanna definitiva di quella che Croce definisce «danteità», ovvero del metodo “Dante spiegato con Dante”:

Ma parrebbe inutile ripetere cosa che dovrebbe ormai ritenersi evidente: che Dante poeta non combacia con Dante critico, e che l’atto della creazione poetica e l’atto del pensamento filosofico di essa sono due atti distinti e diversi, e che perciò bisogna trattare la poesia dantesca, non secondo Dante, ma secondo verità: al modo stesso, del resto, con cui si trattano Platone e Aristotele secondo non la loro filosofia, ma quella che, per il critico, è la nuova verità della filosofia, e Omero non secondo la poetica degli aedi, d’altronde poco nota, ma secondo la verità eterna della poesia. Se si volesse far altrimenti, se si volesse pensare Aristotele con Aristotele e Dante con Dante, si entrerebbe in un disperato tormento, nell’impossibile sforzo di mutilare il nostro animo e la nostra mente […][36].

  1. M. A. Bruno, La vita e gli scritti di G. B. Giuliani, Firenze, Le Monnier, 1921, p. 65.

  2. M. G. Ponta, Interpretazione dell’addiettivo vivo e morto in alcuni versi del Petrarca e di Dante, e del verbo squadrare, in «Annotatore piemontese», 1840, pp. 201-19, 367-87.

  3. F. Calandri, Della vita e delle opere di Marco Giovanni Ponta, Casale, Scrivano, 1854, p. 10.

  4. M. G. Ponta, Interpretazione del verso di Dante: “Perch’io te sopra te corono e mitrio” Purg. 27, in «Giornale Arcadico», XCI, 1842, pp. 134-49, cit. a p. 135.

  5. M. G. Ponta, Nuovo esperimento sulla principale allegoria della Divina commedia di Dante Allighieri, in «Giornale Arcadico», XCVI, 1843, pp. 165-314, cit. a pp. 169-70.

  6. M. G. Ponta, Orologio dantesco e tavola cosmografica, a cura di C. Gioia, Città di Castello, Tip. dello stabilimento S. Lapi, 1892, p. 12.

  7. Per la biografia completa e gli studi di Giambattista Giuliani si permetterà il rimando a V. Petrini, Giambattista Giuliani: Dante e le parlate popolari toscane nelle ricerche di un piemontese spiemontizzato, Tesi di dottorato, Università del Piemonte Orientale, 2020. Cfr. l’URL: http://hdl.handle.net/11579/115030.

  8. G. Giuliani, Dei pregi e di alcune nuove applicazioni dello Orologio di Dante immaginato e dichiarato da Marco Giovanni Ponta, in «Giornale Arcadico», XCVIII, 1844, pp. 195-217.

  9. Ivi, p. 198.

  10. Ibidem.

  11. G. Giuliani, Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia di Dante Allighieri fatto dal P. Giambattista Giuliani C. R. Somasco, Genova, F.lli Pagano, 1846, p. 4.

  12. In merito alla copia della Commedia postillata dal Giuliani si veda V. Petrini, La Commedia postillata di Giambattista Giuliani, in «Bollettino dantesco per il settimo centenario», 2020, pp. 50-62.

  13. Qui il Giuliani rimanda erroneamente a «Par. XX, 41».

  14. Anche qui è errato il rinvio del Giuliani a «Purg., XXXIII, 26».

  15. G. Giuliani, La «Vita Nuova» e il «Canzoniere» di Dante Allighieri ridotti a miglior lezione e commentati, Firenze, Le Monnier, 1863, p. 286.

  16. Altro errato rinvio dello studioso a «Par. XX, 41».

  17. Cfr. Paradiso XXXIII, vv. 31-33 («perché tu ogni nube li disleghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ’l sommo piacer li si dispieghi»).

  18. Cfr. Purgatorio XXVIII, v. 90 («e purgherò la nebbia che ti fiede»).

  19. G. Giuliani, Del metodo di commentare la Divina Commedia, Savona, L. Sambolino, 1856, prefazione.

  20. G. Giuliani, Del metodo di commentare la Divina Commedia, op. cit., p. 15.

  21. G. Giuliani, Metodo di commentare la Commedia di Dante Allighieri, Firenze, Le Monnier, 1861, pp. 151-52.

  22. G. Giuliani, Dante e il vivente linguaggio toscano, Firenze, Stamperia Reale, 1872, p. 6.

  23. G. Giuliani, Dante spiegato con Dante: nuovi studi sulla Divina Commedia, in «Rivista contemporanea», XI, 1857, pp. 226-42, cit. a p. 227.

  24. G. Giuliani, Il Convito di Dante Allighieri reintegrato nel testo con nuovo commento, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1874, pp. 514-15.

  25. Ivi, p. 772.

  26. E. Moore, Contributions to the textual criticism of the Divina Commedia, Cambridge, University Press, 1889, p. XVII.

  27. E. Moore, Contributions to the textual criticism of the Divina Commedia, op. cit., p. XXXVII.

  28. E. Moore, Contributions to the textual criticism of the Divina Commedia, op. cit., p. 371.

  29. Ivi, p. 420.

  30. Ivi, p. XXXVII.

  31. A. Lubin, Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche, Trieste, Balestra, 1884, pp. 5-6.

  32. Ivi, p. 6.

  33. B. Croce, La poesia di Dante, 2ᵃ ed. Bari, Laterza, 1921, p. 33.

  34. Ivi, p. 26.

  35. B. Croce, La poesia di Dante, op. cit., p. 26.

  36. Ivi, p. 28.

(fasc. 41, 5 dicembre 2021)

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