Nel saggio Descrivere, narrare, esporsi Walter Siti ha parlato di Dante come «spina dorsale autobiografica» di Pasolini[1]. In effetti, la riflessione critica e le opere letterarie del poeta di Casarsa evocano spesso le terzine dantesche. Com’è noto, l’itinerario intellettuale di Pasolini è caratterizzato da una costante osmosi tra esperienze artistiche e interessi filologici. Se l’imprimatur critico alle Poesie a Casarsa è venuto da Gianfranco Contini, Pasolini deve allo studioso e ai suoi Preliminari sulla lingua di Petrarca[2] l’acquisizione di una certa lettura dell’opera di Dante, improntata alla contrapposizione tra il suo «plurilinguismo» e il «monolinguismo» del Canzoniere: un paradigma interpretativo che gli ha rivelato un poeta medievale vicino e solidale, plurimo e comprensivo, nonostante la distanza temporale[3].
La meditazione pasoliniana sulla Commedia prende corpo in un denso intervento del 1965, La volontà di Dante a essere poeta[4], riproposto nella silloge di saggi Empirismo eretico. Lo scritto è complesso e stratificato, guarda alla riflessione critica continiana e alla nozione di realismo elaborata da Auerbach, cita Freud ed Engels. Soprattutto è un originale saggio di critica militante che si condensa attorno ad aggettivi e sostantivi di notevole forza semantica, come «terribile», «drammatico», «sublime» o «scandalo». Non è casuale, peraltro, che questa eterodossa riflessione sia stata inclusa in una raccolta che comprende anche le Nuove questioni linguistiche, quell’intervento sull’omologazione mediatica, mercantile e tecnocratica dell’italiano che ha suscitato un dibattito intenso e articolato per tesi duramente contrapposte[5].
La volontà di Dante a essere poeta potrebbe essere riassunto in quattro linee contenutistiche essenziali: l’idea che Dante non solo abbia scoperto la “lingua”, ovvero il volgare, ma anche le “lingue”, ossia i suoi molteplici registri; l’attenzione dedicata al «discorso indiretto libero» della Commedia che implica la «coscienza sociologica» dell’autore; la contrapposizione tra monologismo e plurilinguismo e, ancora sulla scorta di Contini, l’antitesi fra i «due registri» danteschi, l’uno veloce, teologico, duro e sentenzioso, l’altro lento, analitico, introspettivo, profondamente umano; infine l’«unitarietà ossessiva di tono del poema» che tende ad assimilare l’uso delle parole potenzialmente «contaminanti». Come si vede, Pasolini dà una lettura affatto personale della nozione continiana di plurilinguismo, dichiarando il proprio interesse per quelle zone di instabilità, contraddizione e urto tra i registri che costituiscono il vero «scandalo» del testo dantesco e sono scaturigine di una poesia propriamente «sublime».
Procedendo con ordine, la proiezione identificativa del moderno scrittore in Dante e nella sua opera è evidente, su un piano immediato e di più facile comprensione, nella riflessione linguistica: l’autore del De vulgari eloquentia è stato il teorico e lo scopritore di «una lingua» grazie a un’eccezionale coerenza fra teoria e prassi, tra riflessione e scrittura. Ma le considerazioni di Pasolini si spingono decisamente oltre:
[…] nell’atto stesso in cui è nata in Dante la volontà a usare per la Commedia la lingua della borghesia comunale fiorentina, è nata anche la volontà di capire i vari sublinguaggi da cui essa è formata: gerghi, linguaggi specialistici, particolarismi di élite, apporti e citazioni di lingue estere, ecc. ecc. L’allargamento linguistico di Dante, dovuto allo spostamento del suo punto di vista in alto – l’universalismo teologico medioevale – non è solo un allargamento dell’orizzonte lessicale ed espressivo: ma insieme anche sociale[6].
Dante ha, dunque, operato la scelta del volgare fiorentino come entità storico-linguistica da contrapporre al latino in quanto “grammatica”, ovvero la lingua scritta dei dotti, il sermo universalis ch’egli percepiva come una costruzione artificiale. Com’è noto, la riflessione dantesca giunge a ribaltare il rapporto tra latino e volgare considerando quest’ultimo più nobile del primo, in quanto lingua originaria e lingua appresa spontaneamente dalla madre o dalla nutrice. Ad incipit del secondo capitolo del De vulgari eloquentia Dante condensa le proprie idee in due forti determinazioni aggettivali: «Hec est nostra vera prima locutio». Ma nella prospettiva pasoliniana è ancora più interessante la scelta che l’autore medievale ha operato in seno al volgare: «Egli combatteva su due fronti: quello teorico e ideologico universale dell’opposizione al latino, e quello teorico e ideologico particolare dell’opposizione a una eventuale istituzionalità conformista del volgare stesso»[7]. Poco dopo aver parlato di una nuova questione della lingua, dopo aver preso posizione contro l’italiano del neocapitalismo e dell’appianamento tecnocratico, Pasolini forniva, dunque, una lettura affascinante dell’opera dantesca in cui confluisce la sua attenzione alla varietà dei registri lessicali e linguistici, alle forme dialettali, ai diversi codici espressivi: non può non venir in mente il felibrismo casarsese apprezzato da Contini, la mimesi linguistica del romanesco nei romanzi di borgata, la contaminazione e l’attraversamento delle diverse forme espressive, dei diversi codici che l’autore di Ragazzi di vita ha perseguito nella sua ansia di significare e comunicare.
Il plurilinguismo dantesco sarebbe espressione di un’«immersione e una mimesis totale nella psicologia e nelle abitudini sociali dei suoi personaggi»[8]; è, dunque, la sostanza di quello che Pasolini chiama, in senso ampio e non rigoroso dal punto di vista narratologico, il «discorso indiretto libero» della Commedia. Per rappresentare questa idea il saggio, probabilmente memore della nozione di «carnevalesco» di Bachtin[9], ricorre a lemmi e sintagmi danteschi improntati allo spurio, al basso e al corporale:
Anche espressioni come “squadrare le fiche” o “fare del cul trombetta”, o parole come “dindi”, non sono dell’uso personale di Dante; appartengono ad una cerchia linguistica di periferia o di quartiere malfamato; comunque di gente semplice e plebea, dedita magari alla malavita (insomma quello che, in Italia, Engels chiamava Lazaronitum). Anche tali espressioni sono dunque mimetiche, usate da Dante per abbozzare con due segni tutto un intero possibile Libero Indiretto in cui rivivere psicologicamente e socialmente la realtà dei suoi personaggi di bassa estrazione e senza cultura[10].
Leggendo questa chiosa, non si può non pensare al descensus ad inferos dei romanzi di borgata, alla magistrale capacità mimetica di Ragazzi di vita, Una vita violenta e Alì dagli occhi azzurri, prove narrative caratterizzate da una ricca filigrana lessicale dantesca, recentemente indagata da Maria Sabrina Titone[11]. Quanto al discorso indiretto libero e alla sua accezione non rigorosa, è lo stesso Pasolini a chiarirne il senso:
In un mio saggio su “Paragone” ho appunto cercato di allargare la nozione strettamente grammaticale del “discorso libero indiretto”: mi dispiace di aver turbato con questo i sonni terminologici della critica universitaria che si dichiara tale. Insisto a dire che il discorso libero indiretto è molto più complesso e complicato di quanto appare nell’uso corretto: insisto a dire che il libero indiretto non può che avere un fondo sociologico, perché è impossibile “rivivere” il discorso particolare di un parlante se non se ne sia individuata l’estrazione sociale con le sue caratteristiche linguistiche (dice benissimo Barthes: “…ogni individuo è prigioniero del proprio linguaggio: fuori della sua classe, la prima parola lo segnala, lo situa interamente e lo mette in mostra in tutta la sua verità. È ovvio che uno scrittore, se vuol rivivere le parole di quell’individuo, deve saperle cogliere in tutta la loro esattezza sociologica”)[12].
Altro nodo del saggio è l’insistenza sul doppio registro dantesco, motivo che permette a Pasolini una più sottile lettura per speculum della Commedia:
Bisognerà ricordare ancora una volta che è il punto di vista teologico, in quanto funzionale, che dà al poema i ritmi veloci, l’escatologia impietosa e contenutistica; mentre è il punto di vista terreno, con i suoi interessi umani immediati, la lotta politica, letteraria, linguistica, religiosa, anche, quello che fa soffermare lo sguardo pieno d’un’infinita possibilità conoscitiva, sopra le cose del mondo: fissandole in quel modo irrazionale e inanalizzabile razionalmente, che incide gli endecasillabi del “registro lento” (che sono poi quasi tutti gli endecasillabi del poema, ma isolati) come fuori dal poema, nella fisica fissità dell’eternità poetica[13].
Più che insistere sull’indignatio civile o sulla lotta politica di Dante, queste note esprimono la convinzione che nell’opera del grande poeta vi siano certi «punti di frizione, di scandalo, di instabilità espressiva lungo la linea dove avviene il salto di qualità dei due “registri”»[14]. Notomizzando la Commedia, Pasolini procede per coppie oppositive, per forti antitesi: «punto di vista teologico» / «punto di osservazione sociologico», «registro rapido» / «registro lento», «realtà figurativa» / «realtà allegorica», «Dante narratore» / «Dante personaggio», «lingua della prosa» / «lingua della poesia», ma addiviene a un’originale sintesi in aperta polemica con quella critica ideologica che aveva ridotto la «fortuna» di Dante alla sola «funzione plurilinguistica», garanzia di realismo da una parte e, dall’altra, garanzia di «una scrittura concepita al di fuori di ogni diretta volontà poetica»[15]. In questo modo lo scrittore di Casarsa prende posizione contro una lunga tradizione critica che si è soffermata sulla pesantezza e impoeticità della poesia filosofica dantesca, dalle Prose della volgar lingua del Bembo a Croce. L’urto tra i due registri è, per Pasolini, la scaturigine delle «eternità poetiche» dantesche, il punto dove si scorge la fissazione irrazionale degli oggetti da parte del poeta. Siamo al centrum circuli del saggio del 1965: «Il reale momento sacro di Dante non consisterebbe dunque nella sua coscienza razionale teologica: ma si manifesterebbe in termini poetici, facendosi così laico, e, in qualche modo, letterario: “riesprimendo” autenticamente la metastoricità religiosa attraverso la storicizzazione di una “irrazionalità poetica”».[16] In questo passo appare scoperta la tensione identificativa in virtù della quale l’autore delle Ceneri di Gramsci rilegge il grande poeta del passato, proiettando la sua fede nella sacralità della vita.
Pasolini si spinge persino a ipotizzare in Dante «una volontà inconscia, un sistema bio-linguistico naturale»[17] che ne determina la volontà a essere poeta, ma si tratta di una strada impervia ch’egli non pratica fino in fondo[18]. Il moderno scrittore mette, invece, in evidenza «l’unitarietà ossessiva di tono del poema», una nozione in fondo non molto diversa dalla fissazione di tono già rintracciata nella poesia pascoliana[19] e persino dalla «realtà cristallizzata» espressa dal Canzoniere petrarchesco[20]. Partendo da Contini, dunque, Pasolini rimodula l’asserto del plurilinguismo e in ultimo pone persino il paragone, nei termini di un diverso monologismo, tra le terzine di Dante e i versi levigati di Petrarca.
In sintesi, la principale opera di esegesi pasoliniana della Commedia, non precoce e scritta nel pieno della maturità critica dell’autore, fa di Dante un modello non solo di varietas stilistica avvertita come propria, ma anche l’emblema del ritorno ossessivo a certe costanti tematiche. La pasoliniana lectura Dantis è un episodio paradigmatico di quello che Marco Marchi ha definito il «dantismo sostitutivo» del Novecento in nome della modernità e finanche dell’attinenza attualistica, e del «dantismo di risposta» che denuncia inefficienze, facilità di giudizio e dimenticanze esegetiche, non senza vis polemica orientata contro certa critica ideologica e accademica[21].
La volontà di Dante a esser poeta erge dichiaratamente lo scrittore medievale a modello. Non stupisce, dunque, che nell’intera opera di Pasolini, fin dagli esordi, siano presenti significativi prelievi lessicali danteschi che divengono particolarmente insistiti nel tornante degli anni Cinquanta. Le tarsie citatorie caratterizzano i romanzi ambientati a Roma tra le scarpate dell’Aniene, le borgate e i palazzi popolari: l’intertestualità che pone in rapporto l’Inferno dantesco con Ragazzi di vita e Una vita violenta, investita di quel valore affettivo di cui ha parlato Julia Kristeva[22], è funzionale a rappresentare la Città di Dio come una moderna Città di Dite[23]. E, se è facile scorgere il rapporto di transcodificazione tra le prose degli anni Cinquanta e le prime esperienze cinematografiche, in particolare la «trilogia popolare» composta da Accattone, Mamma Roma e dal mediometraggio La ricotta (pure così complesso nell’articolazione dei piani narrativi, negli aspetti parodici e nelle sue citazioni iconiche), è significativo che l’epigrafe di Accattone sia costituita dalle terzine del V canto del Purgatorio con l’evidente funzione di conferire uno statuto di duplicità al protagonista del film, a un tempo carnefice e vittima: «L’angel di Dio mi prese e quel d’inferno / gridava: “O tu del ciel, perché mi privi”? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lagrimetta che ’l mi toglie». Allo stesso modo, quasi a conclusione di Mamma Roma, la discesa agli inferi di Ettore, chiuso in cella e febbricitante, è simboleggiata dalla voce di un anziano carcerato che recita a memoria, davanti ai suoi compagni, le celebri terzine del V canto dell’Inferno: «Così discesi del cerchio primaio / giù nel secondo, che men loco cinghia / e tanto più dolor che punge a guaio […]». Terzine che, com’è noto, introducono il Dante personaggio della Commedia, dopo i canti proemiali, dopo l’attraversamento del Limbo e dell’Antinferno, dopo l’incontro con gli spiriti magni, al primo girone cui sono condannati i lussuriosi, ovvero al momento in cui la sofferenza infernale, fortemente connotata dal succedersi di percezioni uditive e visive, si rivela in tutta la sua forza drammatica.
L’ammirazione per la Divina Commedia ha indotto Pasolini a vergare gli originali poemetti delle Ceneri di Gramsci imitando la struttura metrica delle terzine dantesche, sovvertendone tuttavia il ritmo attraverso il ricorso all’ipermetria, all’ipometria o all’enjambement che, secondo la lezione di Pascoli, rendono quasi irriconoscibile l’endecasillabo. È nella raccolta dedicata alla caduta delle illusioni politiche, alla scoperta di Roma e delle sue periferie, alla vitalità del mondo delle borgate e dei borgatari che si scorge uno dei più vistosi prelievi danteschi, un sintagma che si carica di senso e riassume la visione pasoliniana: l’«umile Italia» di Dante, infatti, dà il titolo a uno dei poemi inclusi nella silloge e ricorre significativamente anche al suo interno. Il sintagma riscontrabile nel canto proemiale della Commedia è memore dell’humilemque videmus Italiam di Virgilio, ma, mentre nell’Eneide l’aggettivo ha un valore meramente descrittivo e geografico, in Dante assume un valore morale connesso alla profezia del Veltro, facendosi allusione al rinnovato spirito etico che deve liberare l’Italia dalla cupidigia incarnata dalla lupa. Pasolini, ben consapevole del valore della citazione di Virgilio posta nel canto proemiale della Commedia, ne rimodula il valore etico alludendo all’Italia proletaria. Nei versi dell’Umile Italia la nazione è rappresentata emblematicamente dalle rondini e dal loro volo sulla campagna romana, un evidente ricordo e rimodulazione dei sensi minimi della poesia pascoliana. Ad incipit della seconda sezione del poemetto un’iterazione, appena variata dal superlativo, dà enfasi alla citazione dantesca: «Ah, rondini, umilissima voce / dell’umile Italia! […]»[24]. Si noti che lo stesso sintagma è stato usato da Carlo Levi in Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia, il libro fotografico fortemente voluto da Giulio Einaudi, improntato a un meditato costrutto iconotestuale e pubblicato nel 1960[25]. La coincidenza non sembra casuale ed è probabilmente una spia rivelatrice dell’intenso dialogo tra Pasolini e Levi, raramente oggetto di riflessione critica.
La raccolta poetica data alle stampe nel 1971, Trasumanar e organizzar, include i componimenti scritti fra il 1968 e il 1970 e fin dal titolo, caratterizzato da un folgorante ossimoro, contrappone il «trasumanar» dantesco all’«organizzar» del linguaggio politico-sindacale. L’urto fra i due predicati apocopati rappresenta la dilacerazione del poeta, tentato dalla cogenza politica eppure incapace di ascriversi al ruolo di poeta civile, desideroso di resistere a ogni tentazione di poesia-azione o poesia-intervento. Nella silloge ogni assetto metrico viene progressivamente stravolto in favore di un’assoluta libertà strutturale, di una voluta caduta della tensione stilistica e di una consapevole fuga dalla letterarietà. Nonostante l’affermazione dell’inutilità della poesia, lo stesso rifiuto delle forme codificate è, in fondo, una riaffermazione di rinnovate possibilità poetiche. In questo senso il recupero del dantesco «Trasumanar significar per verba / non si porìa» riconduce all’ammissione dei limiti della parola, alla cospicua difficoltà di dire già denunciata dal poeta medievale che pure, col suo «plurilinguismo», con l’estensione stilistica, linguistica e contenutistica della sua opera ha allargato vertiginosamente il territorio e gli oggetti della parola poetica.
La frequentazione di Dante ha indotto Pasolini a concepire un disegno titanico, ambizioso e per definizione impossibile, quello della riscrittura della sua opera. Com’è noto, questo progetto è rimasto allo stato di abbozzo, per l’oggettiva difficoltà dell’impresa e perché, in modo sempre più evidente, l’opera pasoliniana tendeva al frammento, all’appunto, alla contaminazione, a quell’«irrisolutezza» di cui ha parlato Antonio Tricomi[26]. La Divina Mimesis, data alle stampe nel 1975, era definita dall’autore un «documento», un coacervo di abbozzi, un cimento che aveva in sé qualcosa di provocatorio: «Dò alle stampe oggi queste pagine come un “documento”, ma anche per fare dispetto ai miei “nemici”: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno»[27]. Il titolo che Pasolini ha scelto per quest’opera è una soglia al testo di carattere tematico[28] che, oltre a ricordare Auerbach, si carica delle molteplici sfumature semantiche messe in evidenza da Siti:
Un Dante preso terribilmente sul serio e incrinato dal senso di colpa; Dante “che può dire tutto” autorizza all’impresa onnivora, mimetica dell’intera latitudine della realtà (Divina Mimesis sta per “imitazione della Commedia” ma anche per “imitazione della sublime mimesi dantesca”). L’idea si condanna da sola mediante la propria enormità e oltranza […][29].
Pubblicata nel 1975, La Divina Mimesis consta di due canti e alcuni frammenti del III e VII canto, scritti in buona parte fra il 1963 e il 1965. Nel II canto, vergato nel 1963, si trova una significativa anticipazione del saggio La volontà di Dante a esser poeta che sarebbe stato pubblicato due anni dopo: «E poi stilisticamente, pensa, tu che sei maestro di queste cose, pensa che caso unico: lo spostamento del punto di vista in alto, che aumenta smisuratamente il numero delle cose e dei loro nomi, proprio nel momento in cui restringe e sintetizza il tutto»[30]. Rifare il viaggio di Dante significa, per Pasolini, «alzarsi», ossia «vedere insieme tutto da lontano», e «abbassarsi», cioè «vedere tutto da vicino» per rappresentarlo senza pudore. Un procedimento duplice e contraddittorio, confacente al sentire del «poeta della sineciosi»[31]. Tuttavia, venuto meno l’universalismo teologico medievale, l’unico modo per scrivere una «danteide» era ripercorrere la strada di Proust, recuperare cioè il punto di vista assoluto attraverso l’introspezione psicologica e il ripiegamento interiore. Per questo Pasolini, nel suo viaggio oltremondano, non trova altra guida, altro Virgilio che il se stesso di dieci anni prima, «un piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta» autore delle Ceneri di Gramsci[32]. La riscrittura della Commedia diventa, così, un itinerarium narcisistico, il bilancio momentaneo di un’esistenza, un confronto col proprio doppio ormai «destinato a ingiallire»[33]. Non a caso fin dal II canto il lessico dantesco è usato per rappresentare scenari che ricordano i romanzi di borgata: «Io lo vedevo camminare davanti a me, per l’erta folta di un’erbaccia cattiva e innocente: in uno di quei luoghi del mondo, in cui ancora, con tutto quello ch’è passato, ciò che conta è l’erba […]»[34]. Il plurilinguismo di Dante è piegato a una singolare partitura, degradata, inquietante e persino scatologica, ad esempio nella descrizione delle tre bestie del canto proemiale e in specie della Lupa, «con la carne divorata dall’abiezione della carne, fetida di merda e di sperma»[35], o nell’abbozzo del III canto dove gli ignavi, in conformità col contrappasso dantesco, corrono dietro a uno straccio, un vessillo stropicciato e stinto il cui simbolo è letteralmente uno «Stronzo»[36]. Nella varietà dei registri non manca un elenco delle piante care allo scrittore, un’enucleazione che pone in successione simboli narcisistici, emblematici di un regresso memoriale: l’umile erba delle borgate, la ginestra leopardiana, gli alberi delle Basse, le acacie del Kenia e dei Sud del mondo. Si tratta di una cumulatio che con straordinaria pregnanza riassume l’intera vita dell’autore, la sua scoperta della periferia romana e il suo terzomondismo, il suo utopico viaggiare alla ricerca di una realtà ancora pura, non contaminata e degradata dal consumismo. Incastonata nel II canto è una descrizione dei fiori di campo che ricorda la poesia di Pascoli, rimodulata attraverso motivi tipicamente pasoliniani come l’umiltà delle piante e la proiezione identificativa del poeta verso questi semplici «fratelli» vegetali (e «fratello», con relative catene sinonimiche, è una parola ad alta percentuale di occorrenze nell’intera opera poetica di Pasolini):
Guardavo ai miei piedi i fiori, che sbucavano tra l’erbaccia torva e innocente: ero come loro, gli increduli di morire, e destinati ad una vita di pochi giorni. Fiorucci senza nome […]. Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo![37]
Riscrivendo l’Inferno, Pasolini rispetta la struttura del canto proemiale che funge da introduzione all’intero trittico di cantiche, accenna all’«erta» e all’apparizione delle tre bestie investite di valore allegorico, ma introduce poi una forte variatio descrivendo l’incontro con se stesso e presentandosi sinteticamente, con quella forza brachilogica che tanto ha ammirato in Dante:
Sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre; vissi a lungo a Bologna, e in altre città e paesi della pianura padana – come è scritto nel risvolto di quei libri degli anni Cinquanta, che ingialliscono con me […] Fui poeta, – aggiunse rapido, quasi volesse dettare una lapide – cantai la divisione della coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita[38].
Il confronto col se stesso degli anni Cinquanta avviene, dunque, all’insegna della «divisione della coscienza» e della distanza dalla sua stessa opera che pure non si era data a facili illusioni progressive. Nel II canto Pasolini colloca i cenni critici sul lessico della Commedia e l’elenco vegetale dedicato ai fiori semplici, umili e fratelli a cui si è già accennato. Il frammento del terzo canto, dedicato agli ignavi, è un duro attacco contro l’uomo qualunque, contro «i moralisti del dover essere come tutti» che ricorda l’invettiva di Orson Welles nel film La ricotta. Il frammento del IV canto descrive il Limbo dei poeti piccolo-borghesi riuniti in una villa, figure deprimenti e tristi, ma pur sempre «figure economiche» soggiacenti ai processi di mercificazione dell’opera letteraria o al suo uso ideologico.
Tra le note poste a corredo del libello ne appare una particolarmente interessante, Per una «Nota dell’editore», in cui si immagina che l’editore abbia ritrovato casualmente gli appunti di un testo rimasto incompiuto, appunto La Divina Mimesis, e li abbia posti poi in successione cronologica, dandoli alle stampe senza realizzarne un’edizione critica. È la rimodulazione di un espediente statutario, quello del manoscritto ritrovato che riconduce alla memoria di Cervantes, Scott o Manzoni, un espediente che verrà ripreso in Petrolio, il romanzo magmatico e incompiuto con cui si conclude il percorso letterario di Pasolini.
Petrolio, pubblicato postumo per i tipi di Einaudi nel 1992, riprende in modo specularmente opposto la Nota all’editore della Divina Mimesis e viene presentato, in antefatto, come l’«edizione critica di un testo inedito» che contiene materiali diversi, persino inserti in greco antico e giapponese, documenti storici e politici relativi all’Eni, fotografie e illustrazioni:
Tutto PETROLIO (dalla seconda stesura) dovrà presentarsi sotto forma di edizione critica di un testo inedito (considerato opera monumentale, un Satyricon moderno). Di tale testo sopravvivono quattro o cinque manoscritti, concordanti e discordanti, di cui alcuni contengono dei fatti, altri no ecc. La ricostruzione si vale dunque del confronto dei vari manoscritti conservati (di cui, per es., due apocrifi, con varianti curiose, caricaturali, ingenue o “rifatte alla maniera”): non solo, ma anche dell’apporto di altri materiali: lettere dell’autore (sulla cui identità c’è un problema filologico irrisolto, ecc.), lettere di amici dell’autore a conoscenza del manoscritto (discordanti tra loro), testimonianze orali riportate su giornali o miscellanee, canzonette, ecc. Esistono anche delle illustrazioni (probabilmente ad opera dell’autore stesso) del libro[39].
In questa dichiarazione preliminare l’autore fa cenno a un’«opera monumentale» richiamandosi al Satyricon di Petronio, ovvero a un archetipo del romanzo classico e all’uso del prosimetrum, la commistione di versi e prosa che nel Medioevo ha trovato una delle espressioni più alte nella Vita Nuova di Dante. Pasolini, per indicare questa sua ultima opera, parla genericamente di «forma», ben consapevole della sua natura ibrida, magmatica e aperta, o fa cenno a un «poema». Come ha sottolineato Aurelio Roncaglia, il metaromanzo filologico preannunciato entro cui il romanzo si sarebbe dovuto inquadrare non ha avuto nemmeno inizio e lo stesso stato di elaborazione dei diversi materiali che compongono Petrolio appare assai diseguale[40]. L’opus magnum di Pasolini, nel suo equilibrio instabile e nella sua vocazione all’infectum, condensa la formazione del filologo e del linguista, la forza descrittiva e la peculiare attenzione fisiognomica dello scrittore di borgata, le iperboli erotiche e le aperture paesaggistiche, la tensione civile delle Ceneri di Gramsci e la capacità polemica dell’autore degli Scritti corsari.
Un prezioso indizio dantesco in Petrolio è riscontrabile nell’Appunto 19 a, dove viene descritta una valigia piena di libri in edizione economica contenente, tra l’altro, una copia della Divina Commedia con orecchietta all’inizio del XXIX canto del Purgatorio e un volumetto francese dalle pagine molto sottolineate, L’écriture et l’expérience des limites di Philippe Sollers. Se la citazione del canto purgatoriale con la sua processione mistica è la chiara sinopia delle Visioni del Merda, il riferimento a Sollers indica la vicinanza pasoliniana a una lettura della Commedia intesa come grande opera del linguaggio e del silenzio, ancora una forte antitesi non dissimile da quelle proposte nel saggio La volontà di Dante a esser poeta[41].
Lo stesso incipit di Petrolio, con la dissociazione del protagonista Carlo in due uomini perfettamente somiglianti, Polis, dall’«aspetto angelico», e «Tetis» dal «povero aspetto infernale», ha la forza di un’allegoria dantesca ma introduce, allo stesso tempo, al tema pasoliniano della dissociazione e del doppio già affacciatosi, con più scoperto autobiografismo, nelle pagine della Divina Mimesis. Di chiara eco dantesca è la lunga sequenza delle Visioni del Merda, soprannome dispregiativo e scatologico attribuito a un ragazzo sottoproletario, descritto da Pasolini con inconsueta crudeltà fisiognomica. Le Visioni, che occupano una parte significativa del romanzo, dall’Appunto 71 fino all’Appunto 74 a, percorrono come un degradato viaggio oltremondano quindici gironi e cinque Bolge. Peculiarità di questa riscrittura della Commedia che riprende il progetto della Divina Mimesis è la commistione tra le suggestioni dantesche e i toni del Pasolini corsaro, acuto osservatore delle trasformazioni sociali che hanno investito l’Italia. Così i gironi, segnati da variazioni luministiche che riprendono il simbolismo dantesco della luce o delle tenebre, rappresentano la bruttezza e la ripugnanza, la degenerazione antropologica degli italiani vittime del feticismo delle merci che assume un’immediata evidenza fisica: «Questi, dunque, nel Girone della bruttezza e della ripugnanza, imitano il Modello della bruttezza e della ripugnanza: che però – va tenuto presente – è uno dei tanti Modelli che essi imitano, come in un Culto. E li imitano, appunto, contemporaneamente»[42]. A precisare ulteriormente questo concetto Pasolini scrive: «Il secondo atteggiamento che deriva dall’approssimazione al Modello, è il silenzio. La parola è divenuta una parola di pura presenza fisica e mimica: l’espressione è devoluta al modo di essere del Corpo, e, in specie, alla capigliatura: modo di essere derivato appunto da un Modello indiscutibile, e la cui imitazione dice già di per sé tutto»[43]. Si susseguono gironi dedicati al conformismo espresso nel modo di vestirsi, nel Perbenismo borghese, nella Dignità borghese, nella Vigliaccheria, nell’Abiura, nell’Imitazione del tenore di vita borghese, persino nel Modello dell’Amore Libero inteso come triste ripiegamento narcisistico. E potrebbe sorprendere il ritrovare in questa singolare descrizione infernale anche il Modello dello Spirito Laico inteso, con i toni più risolutamente polemici della riflessione corsara, come un simulacro capace di «insinuare il Verbo dell’edonismo e del materialismo di carattere americano, o comunque tipico dell’intera nuova civiltà»[44].
Le pagine di Petrolio vibrano di indignazione e al tempo stesso tradiscono una sofferenza o un’insofferenza verso ciò che viene rappresentato, come ha sottolineato lo stesso autore: «Siamo verso la fine della Visione. Quanta fatica e angoscia mi sia costato descriverla, non voglio dirlo al lettore: mi basterà ricordargli che è atroce vivere e conoscere un mondo dove gli occhi non sanno più dare uno sguardo non dico di amore, ma neppure di curiosità o simpatia»[45]. Ricorrendo a espedienti danteschi, come l’evidenza iconica del mondo descritto, il Pasolini che aveva fatto della scuola francofortese e della «semiologia del quotidiano» di Barthes strumenti di acuta interpretazione della realtà ha realizzato la sua Commedia impossibile e programmaticamente incompiuta. Un’originale operazione proiettiva e identificativa nell’Alighieri, che conferma l’assunto della sottilissima esegesi medievale secondo cui non vi è libro che non si presenti ai nostri occhi come uno specchio o, per dirla con la moderna teoria della ricezione, non vi è testo che non parli al «repertorio» del lettore e alla sua ineluttabile «precomprensione».
- W. Siti, Descrivere, narrare, esporsi, in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998, vol. I, p. CXVI. ↑
- G. Contini, Preliminari sulla lingua di Petrarca, in «Paragone», II, aprile 1951, n. 16, pp. 3-26, poi in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-92. ↑
- Della sterminata letteratura critica sul rapporto tra Pasolini e Dante si vedano almeno S. Vezzana, Il dantismo di Pasolini, in Dante nella letteratura italiana del Novecento. Atti del Convegno di Studi Casa di Dante, Roma, 6-7 maggio 1997, a cura di S. Zennaro, Roma, Bonacci editore, 1979, pp. 279-89; M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Milano, Mondadori, 2007, pp. 37-56; G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Roma, Carocci, 2012, pp. 298-306; E. Patti, Pasolini after Dante. The «Divine Mimesis» and the Politics of Representation, Cambridge, Legenda, 2016; C. Pomarici, «Nient’altro se non l’asfalto e l’immensità». Ripetizione e continuità nella Divina Mimesis di Pasolini, in «L’ospite ingrato», n. 9, 2021, pp. 357-82. ↑
- P. P. Pasolini, La volontà di Dante a esser poeta, in «Paragone», XVI, dicembre 1965, n. 190/10, pp. 59-65, poi in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 104-14. ↑
- Su Pasolini e la «nuova questione linguistica» cfr.: La nuova questione della lingua, a cura di Oronzo Parlangeli, Brescia, Paideia Editrice, 1971; Sebastiano Martelli, Dal “linguaggio tecnologico” al “volgar’eloquio”. (Questioni e nuove questioni linguistiche di Pasolini), in «Misure critiche», VII, gennaio-marzo 1977, fasc. 22, pp. 55-74; Claudio Marazzini, Pasolini dopo le “Nuove questioni linguistiche”, in «Sigma», XIV, 1981, n. 2-3, pp. 57-71; Tullio De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in «Galleria», XXXV, gennaio-agosto 1985, n. 1-4, pp. 7-20; Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998; Mark Epstein, Pasolini: lingua, razionalismo e materialismo, in «Sinestesie», 2013, n. 11, pp. 63-76. ↑
- P. P. Pasolini, La volontà di Dante a esser poeta, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con uno scritto di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999, vol. I, p. 1376. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione. ↑
- Ivi, p. 1378. ↑
- Ivi, p. 1377. ↑
- Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 2001. ↑
- P. P. Pasolini, La volontà di Dante a esser poeta, op. cit., p. 1378. ↑
- M. S. Titone, Cantiche del Novecento. Dante nell’opera di Luzi e Pasolini, Firenze, Leo S. Olschki, 2001, pp. 70-85. ↑
- P. P. Pasolini, La mala mimesi, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., p. 1391. ↑
- P. P. Pasolini, La volontà di Dante a esser poeta, op. cit., p. 1386. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 1383. ↑
- Ivi, 1387. I corsivi sono dell’autore. ↑
- Ivi, p. 1384. ↑
- Ibidem: «L’unità poetica della Commedia, che, ripeto, ha qualcosa di terribile e forse, nel suo fascino sublime, di inconsumabile e di nemico, si presenta come un tutto irrelato: è, – ripeto – presumo – una volontà inconscia, un sistema bio-linguistico naturale. Su questa strada siamo nel buio e nello “stridor di denti”, conviene abbandonarla». ↑
- Il motivo della «monotonia» pascoliana percorre pressoché tutta l’Antologia curata da Pasolini; cfr. P. P. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e commenti, Torino, Einaudi, 1993. ↑
- P. P. Pasolini, La volontà di Dante a esser poeta, op. cit., pp. 1389-90. ↑
- M. Marchi, Introduzione a M. S. Titone, Cantiche del Novecento. Dante nell’opera di Luzi e Pasolini, op. cit., p. XI. ↑
- Cfr. J. Kristeva, Semeiotikè. Ricerche per una semanalisi, Milano, Feltrinelli, 1978. ↑
- M. S. Titone, Cantiche del Novecento. Dante nell’opera di Luzi e Pasolini cit., pp. 70-85. ↑
- P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, saggio introduttivo di F. Bandini, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2003, p. 802. ↑
- C. Levi, Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia, Torino, Einaudi, 1960, p. XIII. ↑
- Cfr. A. Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Roma, Carocci Editore, 2005. ↑
- P. P. Pasolini, Prefazione a Id., La Divina Mimesis, Torino, Einaudi, 1975. Tutte le citazioni successive saranno tratte da questa edizione. ↑
- Cfr. G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101. ↑
- W. Siti, Nota introduttiva a P. P. Pasolini, La Divina Mimesis, op. cit., p. VII. ↑
- Ivi, p. 25. ↑
- F. Fortini, La contraddizione, in Id., Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. 21. ↑
- P. P. Pasolini, La Divina Mimesis, op. cit., p. 16. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- Ivi, p. 21. ↑
- Ivi, p. 17. ↑
- Ivi, p. 33. ↑
- Ivi, pp. 27-29. ↑
- Ivi, p. 14. I corsivi sono dell’autore. ↑
- P. P. Pasolini, Petrolio, Torino, Einaudi, 1993, p. 3. ↑
- A. Roncaglia, Nota filologica, in P. P. Pasolini, Petrolio, op. cit., p. 571. ↑
- Cfr. Ph. Sollers, L’écriture et l’expérience des limites, Paris, Seuil, 1968. ↑
- P. P. Pasolini, Petrolio, op. cit., p. 333. ↑
- Ivi, p. 336. ↑
- Ivi, p. 354. ↑
- Ivi, p. 378. ↑
(fasc. 41, 5 dicembre 2021)