Un notaio rimatore
Nato a Firenze tra il 1390 e il 1391, Niccolò Tinucci dedicò gran parte della sua vita all’attività notarile (circa dal 1409 al 1422), e partecipò a importanti eventi del primo Quattrocento fiorentino, tra i quali spicca il ruolo svolto in occasione dell’esilio di Cosimo de’ Medici (settembre 1433). La sua attività politica appare tuttavia ambigua nei pochi documenti che la testimoniano: in particolare, alcune lettere inviate tra aprile e luglio del 1431 ad Averardo de’ Medici, cugino di Cosimo, in cui lo si vede «aizzare con subdole insinuazioni contro gli Albizzi Averardo e, per mezzo suo, anche Cosimo»; e l’Examina, del 1433, ossia la «Confessione […] quando fu esaminato dinanzi alla Signoria di Firenze ed al Magistrato degli Otto», in cui si trasforma in «accusatore aperto dei Medici, protestandosi sviscerato albizzesco»[1]. In seguito, sappiamo con certezza che dal 1442 al 1444 dimorò a Firenze, poiché nel 1442 e nel 1443 vi nacquero, dal secondo matrimonio con Itta, i figli Giovanni e Bartolomeo. Poco dopo, il 20 agosto 1444, Tinucci morì, sempre a Firenze.
Quanto alla sua esperienza da rimatore, come evidenziato dalle ricerche di Mazzotta, moderno editore delle Rime[2], essa non è facilmente databile, in mancanza di documentazione autografa o comunque dettagliata sul piano cronologico; tuttavia, dai numerosissimi testimoni (quasi tutti quattrocenteschi) delle rime tinucciane è possibile ricavare, oltre a un quadro eloquente della fortuna che l’autore ebbe ai propri tempi, anche informazioni utili intorno alla cronologia della sua attività poetica[3].
Presentando questa tradizione manoscritta, Mazzotta evidenzia la frammentarietà del corpus da essa trasmesso; la presenza dominante del tema amoroso non basterebbe a far riconoscere nella produzione tinucciana un sia pur parziale ordinamento d’autore. In altra sede mi sono soffermata sulla possibilità, viceversa, di riconoscere tracce di ordinamento nella disposizione dei testi tràdita da importanti manoscritti[4]; tracce occultate da Mazzotta, che dispone i testi secondo un criterio di decrescente attendibilità attributiva, ritenendo che ogni disposizione riferibile al poeta vada negata, «non tanto perché con ogni probabilità remota dalle intenzioni dell’autore, quanto perché quasi inevitabilmente costellata di rime confezionate su commissione»[5]. Al di là del valore effettivo di tale argomento in merito alla questione posta, esso solleva uno specifico motivo di interesse nei confronti delle rime commissionate, se queste possono apparire così influenti nella caratterizzazione della produzione lirica tinucciana; i testi commissionati, d’altra parte, permettono, se il committente è personaggio noto, di ampliare le conoscenze storico-biografiche disponibili sul notaio fiorentino e sull’ambiente da lui frequentato: tutte ragioni più che sufficienti a motivare un primo approfondimento.
Le rime su commissione del Tinucci: ridefinizione del corpus
L’affermazione di Mazzotta sull’abbondanza di rime commissionate nella produzione lirica tinucciana si fonda sulla segnalazione di sei componimenti (16, 21, 22, 23, 39 e 40), in un totale pervenutoci di quarantasette, individuati sulla base delle didascalie presenti nei codici[6]. In realtà, nei testimoni censiti dallo stesso Mazzotta, il sonetto 39 non è accompagnato da didascalie; e come già Giovan Battista Casotti opportunamente osservava, il testo possiede tutte le caratteristiche di una «risposta per le rime»[7]: dunque di una corrispondenza poetica, che è altra cosa rispetto a una rima commissionata. Viceversa, a quest’ultima categoria bisogna ricondurre, ponendo più attenzione a didascalie e rubriche, i sonetti 6 e 44, come sarà opportuno verificare risalendo alla tradizione manoscritta[8].
I sette componimenti individuati hanno una differente diffusione, poiché la loro presenza all’interno dei manoscritti risulta disomogenea; infatti, 6 è tramandato da diciannove codici, 16 da cinque, 21 da quattro, 22 e 23 da due, 40 da uno e 44 da ventuno. L’irregolarità si riscontra anche nella disponibilità di informazioni paratestuali: solo in un manoscritto (FN⁴) il testo 6 è accompagnato dalla rubrica «Sonetto fatto per uno ch’era innamorato»; il 16 presenta la didascalia «Sonetto di ser Niccolò Tinucci raccomandando uno amante alla sua dama» solo in FR¹; in riferimento alla ballata 21, FN⁸ annota «Ser niccholò tinucci a pitizione d’andrea Lanberteschi per la chornelia del bene», mentre FR³ registra: «Ballata fatta per Andrea Quaratesi e per Cornelia sua manza». Anche per le ballate 22 e 23 solo FR³ fornisce una didascalia («Ballata fatta per Piero di Cosmo de Medici e per la Giovana degli Stroci»; «Ballata fatta per miser Ruberto Adimari ad instanza de Piero di Paci e per l’Alesandra de misier Palla degli Stroci»); infine, per i sonetti 40 e 44, didascalie esplicative si trovano soltanto in FR¹ («Sonetto di ser Niccolò Tinucci in servigio d’una gentile la quale fu amata da uno giovene et abandonola»; «Sonetto di ser Niccolò Tinucci a stança d’uno perfido innamorato»). Come questa rassegna già evidenzia, se per le tre ballate le didascalie precisano nomi contenuti nei versi mediante scrizioni criptiche, per i sonetti si hanno solo informazioni generiche. Per questo motivo, dei sette componimenti individuati ne tratterò qui solo cinque, su cui sussistono le condizioni per ragionare intorno alle circostanze in cui furono composti; tale non è il caso dei sonetti 6 e 44, che non presentano alcun dato interno che possa aiutare a ricostruirne la genesi.
Per esponenti di famiglie magnatizie dell’oligarchia fiorentina
Tra le Rime di Niccolò Tinucci sono comprese tre ballate, tutte scritte per committente noto, riconoscibile non solo dalle didascalie contenute nei manoscritti, ma anche dal comune ricorso all’espediente della scrizione criptica. Poiché l’ordine loro assegnato nell’edizione moderna non risulta utile all’analisi, partirò dall’ultima, la ballata 23, in cui l’amante si pone «in terra ginocchioni» per supplicare l’amata, «con pianti e orazioni» (vv. 12-13).
23
Ballata fatta per miser Ruberto Adimari ad instanza de Piero di Paci
e per l’Alesandra de misier Pala degli Stroci [FR3]S’a le’ s’andrà le lagrime e’ sospiri,
s’a le’ s’andrà ’l mio core
piangendo il servo more,
spero ch’aimpierò e miei disiri.
Sarie cosa crudel ch’i’ giovinetto 5
nella mie pura fede,
preso d’amor, così perda mie vita.
Aggi dunche piatà, donna, al suggetto
ch’omai senza merzede
veder non può tuo bellezza infinita. 10
I’ ti chieggio per dio, chiamando aita
in terra ginocchioni,
con pianti e orazioni:
«Soccorri al servo tuo prima che spiri!»[9].
Se le scrizioni criptiche inserite nel testo ai vv. 1-2 («S’a le’ s’andrà le lagrime e’ sospiri, / s’a le’ s’andrà ’l mio core») e 4 («spero ch’aimpierò e miei disiri») rivelano che Alessandra e Piero erano i nomi dei protagonisti, la didascalia allegata da FR3 precisa che il committente della ballata fu Piero de’ Pazzi, la sua amata Alessandra de’ Bardi Strozzi, e un ruolo di mediatore col poeta svolse un terzo giovane di nobili origini, Roberto Adimari. Questi dati consentono di ricostruire con una certa precisione la circostanza all’origine della ballata, ben nota da tempo grazie alla testimonianza di Vespasiano da Bisticci, alle ricerche di Casotti e Flamini, e a quelle di più recenti studiosi[10]. Come accennato, la giovane destinataria è Alessandra de’ Bardi (1412-1465), qui assimilata alla famiglia Strozzi perché già nel 1428, dunque quando aveva sedici anni, era stato stipulato il suo matrimonio per procura con Lorenzo Strozzi, figlio del nobile Palla di Nofri Strozzi: il più ricco e politicamente influente banchiere mercantile (nonché mecenate generoso d’arte e cultura) di tutta Firenze, prima dell’ascesa di Cosimo. Il matrimonio si celebrò fastosamente nel 1432, ma già nel 1434 Palla Strozzi fu condannato all’esilio, in seguito al rientro a Firenze di Cosimo de’ Medici. Tra questi due eventi, dunque intorno al 1433, Vespasiano colloca l’episodio a cui si riferisce la nostra ballata: di Alessandra si innamorò alla follia un adolescente, nato quattro anni dopo di lei (nel 1416: dunque più o meno diciassettenne), ma di rango nobiliare elevato, Piero de’ Pazzi: il quale giunse a una clamorosa iniziativa, così riferita da Vespasiano:
Questo giovane, transportato dalla voluntà, et non mutato per tanti segni veduti dell’onestà della pudicissima fanciulla, tornando la fanciulla dal detto monisterio […], il giovane l’aspettò a una isvolta per non essere veduto […]. Et passando s’inginochiò con uno coltello igniudo in mano; et passando glielo volle porgere, et ella si volse in là, et fe’ vista di nolo vedere. Egli le disse: Da poi che tu non mi voi vedere, togli questo coltello, et amazami. Fece la generosissima fanciulla vista che non lo dicessi allei, et volsesi coll’animo invictissimo pieno di sdegno per la sua presumptione, et non gli rispuose, ma andò a suo cammino[11].
Nel componimento tinucciano ritroviamo non solo i nomi di queste due figure storiche, ma anche la giovanissima età di Piero («i’ giovinetto», v. 5), e il suo pubblico gesto d’inginocchiarsi davanti all’amata (v. 12). Inoltre, la didascalia ci dice che, se la committenza del testo era di Piero, il rimatore fu incaricato attraverso un intermediario, Roberto Adimari, anch’egli appartenente a una delle più nobili e ricche famiglie di Firenze[12]. Tutti i personaggi coinvolti, dunque, appartengono a quello schieramento antimediceo che fu sgominato da Cosimo al suo rientro a Firenze: e la datazione ricostruita, il 1433, coincide perfettamente col periodo in cui l’autore, durante l’esilio del Medici, rivendicava (ad esempio nell’Examina) una fedele posizione filoalbizzesca.
L’amore di Piero de’ Pazzi per Alessandra de’ Bardi fu argomento anche di due canzoni di Antonio di Meglio, Alma gentil, nelle più belle membra e Andrà pur sempre mai co’ venti aversi. Il loro retroscena storico era già chiaro al Casotti, il quale però cadde in errore attribuendo al Tinucci la prima, poi riassegnata al vero autore dal Flamini[13]. Non pago, il Casotti volle riferire alla stessa vicenda di Piero e Alessandra anche i sonetti 16 e 40 del Tinucci, benché nessuna informazione essi ci forniscano intorno all’identità del committente. Così annotò l’erudito i due componimenti:
Questo sonetto [40] fu forse fatto ad istanza della Alessandra Strozzi, per Piero de’ Pazzi, dopo lo strano accidente accennato nell’annotaz. alla precedente canzone, e scritto da Vespasiano […].
Anche questo sonetto [16] può essere, che fosse fatto ad istanza di Piero de’ Pazzi, dopo il caso suddetto[14].
L’ipotesi avanzata da Casotti fu ripresa dal Flamini, il quale citò i sonetti 16 e 40 per ricostruire la genesi dell’errata l’attribuzione al Tinucci della canzone Alma gentil, nelle più belle membra: il copista di FN5, secondo Flamini, potrebbe infatti aver assegnato questo testo al notaio fiorentino perché questi «forse dettò, a petizione dell’Alessandra e di Piero de’ Pazzi, due sonetti, nel primo dei quali ella riprende l’amante, nell’altro questi implora pietà»[15]. Benché numericamente così distanti nell’edizione Mazzotta, i due sonetti figurano in effetti a stretto contatto nel ms. FR1 (cc. 201r-202r), anche se il 16 è tràdito anche da altri testimoni (a partire da FR3). Tuttavia, mentre quest’ultimo può anche riferirsi (come vedremo) alla condizione di Piero de’ Pazzi, il 40 è del tutto incompatibile sia con la durata della vicenda reale sia con il carattere onesto e riservato di Alessandra de’ Bardi, quali emergono dal citato ritratto di Vespasiano da Bisticci: nel sonetto, infatti, la voce femminile non rimprovera l’amante di eccessivo trasporto, ma di non provare più, dopo «molt’anni» di fervente devozione, quella passione amorosa che aveva suscitato in lei affettuosa (seppur onesta) pietà.
40
Sonetto di ser Niccolò Tinucci in servigio d’una gentile la quale fu amata da uno giovene et abandonolaTuo poter, tuo saper, tuo facultate
sai già che per molt’anni mi fu noto,
e per vederti fervente e devoto,
costretta fui d’aver di te pietate, 4
servando sempre ogni mie onestate.
E or ti veggio di tal voglio vòto,
e quai sien le cagion del rotto vóto
tu sai, e s’elle son già divulgate. 8
E dê’ stimar ch’egli è contr’a mie voglia,
cangiato avendo pel, gusto e costume,
fatto ribel di tuo propria salute, 11
né so a chi più che a me pesi o doglia
vederti esser fatto orbo senza lume,
nemico d’onestate e di vertute. 14
Le tuo non conosciute
vestigie vanno a rompere in iscoglio,
e per gran ben ch’i’ ti volsi me ’n doglio[16]. 17
Valutazioni diverse, seppur con estrema prudenza, si possono fare per il sonetto 16: la passione dell’amante, che nella ballata 23 si condensa nell’immagine del giovane in ginocchio che piange e supplica, qui viene restituita attraverso la sequenza incalzante di interrogative ed esclamative delle quartine, in cui il furore dell’amore rifiutato si manifesta in tutta la propria negatività.
16
Sonetto di ser Niccolò Tinucci raccomandando uno amante alla sua damaChe farai, dimmi, arai pur cor di petra?
o star vorrai pur con la mente altera?
o tigre esser, o orso, o qual più fera
crudel si sa che da pietà s’arretra: 4
aspido a d’Orfeo lira od altra cetra?
Manca a Vener per te forza in sua spera?
Cupido è pur quale in Farsalia el s’era,
se non gli hai tolto l’arco o la faretra! 8
Pieghiti il chiesto omai tanto perdono,
ché non è commendato almo protervo;
vincati el ben di tua propia salute, 11
ché in signor non fu mai bel né buono
cercar privarsi di fedel car servo,
né l’oprar contr’a sé fu mai virtute[17]. 14
La medesima sensazione si ritrova al v. 9, dove l’amante si rivolge alla dama quasi in tono imperativo; e ancora la terzina finale racchiude l’appello alle virtù e alla devozione religiosa dell’amata, che proprio per la sua dedizione non può abbandonare il «fedel car servo». A quest’ultimo verso è interessante paragonare i vv. 48-51 della canzone di Antonio di Meglio Andrà pur sempre mai co’ venti aversi, in cui l’amante si appella al forte senso religioso della donna:
Tu d’infimo suppremo
sola puoi farmi, onde, per Dio, ascolta
mia fede molta, – ch’al fervente servo
il buon giusto signor mai non fu acervo.
Per l’analoga collocazione socio-politica del committente, alla letteratura fiorita intorno all’amore di Piero de’ Pazzi può essere accostata, pur se relativa a episodio mai assurto a caso di cronaca, la ballata 21, i cui versi 1 («Né puro cor né lialtà né fede») e 4 («Andre’ a star in ogni ardente foco») rivelano in scrizione criptica i nomi dell’amante, Andrea, e dell’amata, Cornelia. Come poi rivelano le didascalie di FR3 e FN8, la figura femminile va identificata con Cornelia del Bene, mentre in quella maschile c’è discordanza tra i testimoni, divisi nel riconoscervi un Andrea Quaratesi o Lamberteschi.
21
Ser Niccolò Tinucci a pitizione d’Andrea Lanberteschi per la Cornelia del Bene [FR3]
Ballata fatta per Andrea Quaratesi e per Cornelia sua manza [FN8]Né pur cor né lialtà né fede
si volse a donna mai quanto facc’io,
che sol per te servir vita disio. 3
Andre’ a star in ogni ardente foco,
né temerei di pena
sol ch’i’ sperassi il tuo voler seguire.
Dunche piatà, per dio, ti prenda un poco,
ché se tal fé mi mena,
ragion non è ch’i’ ne deggia morire.
Saria in donna gentil troppo fallire,
se chi languir per lei, amando, vede,
con piatà no’l soccorre e con merzede[18]. 12
La questione dell’identità dell’amante non ha trovato finora soluzione; quanto all’amata, Casotti aggiunge, senza addurre documentazione, che Cornelia del Bene andò in sposa a Giovanni Spini[19]. D’altra parte, la ballata non presenta contenuti che esulino dal puro omaggio cortese a una dama: l’amante, naturalmente, enfatizza la propria condizione di servo d’amore, affermando di poter «star in ogni ardente foco» (v. 4), e di non temere nulla, pur di seguire l’amata, «il suo voler» (v. 6); ma non chiede che «un poco» di pietà (v. 7), anche perché per una «donna gentil» costituirebbe «troppo fallire» (v. 10) negare il proprio soccorso all’amante in fin di vita.
Anche in questo caso, tutte le famiglie coinvolte, e soprattutto quella dei Quaratesi, ci riportano tra le case più illustri del ’400 fiorentino, anch’esse (come i Pazzi) schierate su posizioni antimedicee, a difesa del sistema oligarchico[20]. Almeno fino al rientro di Cosimo dall’esilio, dunque, queste famiglie trovavano in Niccolò Tinucci un apprezzato cantore delle loro relazioni sentimentali, o dei reciproci omaggi sociali.
Ma poi anche per il giovane Piero de’ Medici
Con la ballata 22 l’area politica della committenza cambia completamente: la penna del Tinucci è ora addirittura al servizio di Piero de’ Medici, figlio di Cosimo il Vecchio[21]. Anche in questo caso, tanto il nome dell’amante (v. 12) quanto quello dell’amata (Giovanna, v. 1) sono rivelati nel testo attraverso scrizioni criptiche; e anche in questo caso, le loro famiglie (Medici e Strozzi) non sarebbero riconoscibili senza il supporto della didascalia del prezioso ms. FR3. La richiesta di aiuto è ora indirizzata ad Amore, il quale dovrà provocare nella donna «tal doglia al cor», che essa ne sia indotta a offrire la «suo grazia» (vv. 11-12).
22
Ballata fatta per Piero di Cosmo de Medici e per la Giovana degli Stroci [FR3]Che giova ’nnamorar di questa dea,
s’altri dê’ per superchio amor morire
o star sempre ’n tormenti e in languire? 3
E bench’ella dimostri aver merzede
con suo vago sembiante,
pur l’alma stanca desïando more.
Ma tu, Amor, che sai quanto la fede
merita d’uno amante,
deggi aiutar chi ’nnalza il tuo valore;
se tu se’, come dêi, giusto signore,
tu le farai tal doglia al cor sentire
ch’aimpierò con suo grazia il mio disire[22]. 12
Di Piero de’ Medici sappiamo ovviamente molto, tra cui l’anno di nascita, il 1416, e quello in cui sposò Lucrezia Tornabuoni, il 1444. Se la seconda data rappresenta necessariamente il termine ante quem di composizione della nostra ballata, più che altro perché coincide con la data di morte di Niccolò Tinucci, la prima permette di non risalire di più di dieci anni per fissare un plausibile termine post quem (1434), non a caso coincidente con il rientro di Cosimo a Firenze. Il testo tinucciano, d’altra parte, presenta molti punti di contatto con il sonetto xxxiii di Rosello Roselli[23]: anche il componimento roselliano è infatti dedicato a Piero de’ Medici, come si evince dalla dedica «Ad Petrum»; e anch’esso si riferisce all’amore del Medici per Giovanna (vv. 1-4):
Che giovan, nanzi a questa alma divina,
contrarie vie cercar per libertade,
essendo di virtù e di beltade
ornata sì che ’l cielo a lei se ’nchina?
La prima quartina roselliana e la ripresa tinucciana presentano del resto altre affinità: entrambe sono composte da un’interrogativa retorica in cui l’amante risulta prigioniero dell’amata, concordemente descritta come creatura celeste (xxxiii, 1: «questa alma divina»; 22, 1: «questa dea»); si deve, dunque, evincere una reciproca influenza di cui sono però oscuri i rapporti di derivazione, in assenza di informazioni cronologiche precise[24]. Del resto, l’idolo amoroso giovanile di Piero de’ Medici è anche protagonista di un sonetto di Mariotto Davanzati, Giunse a natura in ciel l’alto concetto. Anche per questo testo non si possiede alcun dato cronologico, ma la committenza del figlio di Cosimo e la consueta destinataria (Giovanna) sono testimoniate dalla didascalia «Del detto. Fecelo a Pier di Cosimo per la Giovanna»[25].
In anni tra i più convulsi del Quattrocento fiorentino, in cui i fiorentini più illustri e potenti si alternano sulla via dell’esilio, troviamo dunque Niccolò Tinucci impegnato a esprimere, su commissione, gli amori di giovani esponenti delle loro famiglie. Gli incarichi provenienti da Pazzi e Quaratesi durante l’esilio di Cosimo, da Piero de’ Medici dopo il ritorno del padre, confermano la facile adattabilità del nostro notaio ai diversi regimi politici, cui si accennava inizialmente sulla base di documenti d’archivio; ma soprattutto testimoniano la considerazione in cui era tenuto, trasversalmente, dalle famiglie più potenti. Anche i contatti con colleghi rimatori differenti (da quelli con Antonio di Meglio durante la stagione oligarchica a quelli con Roselli e Davanzati durante quella medicea) documentano la sua abilità nel relazionarsi con circuiti culturali diversi. Questi risultati, confermati dalla grande diffusione di alcune sue rime, possono essere spiegati solo attraverso un’approfondita analisi della sua produzione lirica, che invece, pur godendo di un’edizione critica, risulta ancora sostanzialmente inesplorata.
- Le due citazioni sono tratte da F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa, Nistri e C., 1891 (rist. Firenze, Le Lettere, 1977), pp. 293-94. L’Examina si legge in G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, vol. II, Firenze, Tipografia all’insegna di Dante, 1839, pp. 399-421; le lettere sono pubblicate in F. C. Pellegrini, Sulla repubblica fiorentina al tempo di Cosimo il Vecchio, Pisa, Nistri e C., 1880, pp. LXXXVIII e CXLIV. ↑
- N. Tinucci, Rime, ed. critica a cura di C. Mazzotta, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1974. ↑
- Alcuni riferimenti offre C. Lorenzi, Niccolò Tinucci, in Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di A. Comboni e T. Zanato, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2017, pp. 701-704. Sulla scrittura lirica del Tinucci, cfr. A. Lanza, La letteratura tardogotica. Arte e poesia a Firenze e Siena nell’autunno del Medioevo, Roma, De Rubeis, 1994, pp. 754-61. ↑
- Cfr. R. Marcozzi, Tracce di ordinamento macrotestuale nella lirica di Niccolò Tinucci, i.c.s. su «Interpres». ↑
- N. Tinucci, Rime, op. cit., p. LXXVIII. ↑
- Ivi, p. LXXVIII, nota 49: «A credere alle didascalie dei cdd., furono composti su commissione i sonn. 16, 39 e 40, e le ball. 21, 22 e 23; non ci sembra però improbabile che altri componimenti fra quelli a noi noti siano stati elaborati dal Tinucci “per conto terzi”». ↑
- G. B. Casotti, Prose e rime de’ due Buonaccorsi da Montemagno con annotazioni. Ed alcune rime di Niccolò Tinucci, Firenze, nella stamperia di Giuseppe Manni, 1718, p. 333 (e cfr. N. Tinucci, Rime, op. cit., p. 44, nota 1). ↑
- Citerò i testimoni manoscritti delle rime tinucciane ricorrendo al sistema di sigle introdotto ivi, pp. xx-xxviii. Del resto, solo cinque saranno i codici utili alla nostra analisi, tutti fiorentini: ossia i mss. della Bibl. Nazionale Centrale, Magliabechiano VII 1084 (FN⁴), Magliabechiano VII 1145 (FN5), Magliabechiano VII 1187 (FN8); e della Bibl. Riccardiana, 1114 (FR¹) e 1154 (FR³). ↑
- Ballata grande, di rime XyyX AbCAbCCddX. 1. L’avvio, con il medesimo acrostico di Alessandra, ricorda l’incipit di una ballata del tardo trecentesco F. Landini tràdita da FR3: «A le’ s’andrà lo spirto e l’alma mia». le lagrime e ’ sospiri: coppia dantesca (Purg., XXV 104, XXX 91 e XXXI 20), ma frequente anche in Petrarca (es. Rvf, 61, 11 e 364, 128). 3. servo more: l’espressione è presente in A. di Meglio, Rime, X 65, ma più interessa l’attestazione, assieme al verbo coniugato al gerundio, in Conti, SeC, 49, 7 («Aiuta il servo tuo, che amando more»). 4. Per la struttura dell’intero verso cfr. nota a 22 12, con maggior rilievo a Boccaccio, Ninf. Fies., 203, 6 «e adempierai ciò che ’l tuo disio spera». miei disiri: sintagma dantesco (Rime, 29, 27 e Inf., X 6). 5. cosa crudel: sintagma di G. d’Arezzo (Rime, XI 14). 6-7. nella mie pura fede, preso d’amor: calco dal Saviozzo, Rime 25, 4 («presa d’Amor nella mia pura fede!»). 8. Molte coincidenze lessicali con R. Roselli, extrav., a, 2-3 («ch’io tuo fedel suggetto, donna, sia, / aggi piatà»). Aggi dunche piatà: cfr. Dante, Rime, 12, 9. 10. La struttura del verso riprende Dante, Par., XX 71 («veder non può de la divina grazia»). bellezza infinita: sintagma petrarchesco (Rvf, 31, 7, 203, 5 e 261, 12). 11. Cfr. M. Malatesti, Rime, 60, 40 («io te supplico e prego e chiamo aita»). 12-13. in terra ginocchioni … orazioni: espressione presente in Boccaccio, Ninf. Fies., 182, 7, ma già elaborata dal Saviozzo in contesto più affine (Rime, 25, 150-151: «io mi gittarò in terra ginocchione / farò questa orazione»). ↑
- Per la Vita dell’Alexandra de’ Bardi, compresa nelle Vite di uomini illustri del secolo xv di Vespasiano, e in particolare per questa vicenda, cfr. l’edizione V. da Bisticci, Le vite, ed. critica e commento a cura di A. Greco, Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1970, vol. II, pp. 467-99, in particolare le pp. 480-82. Cfr. inoltre: G. B. Casotti, Prose e rime, op. cit., pp. 325-31; F. Flamini, La lirica toscana, op. cit., 430-33; G. D’Agostino, Transitional forms, conservative tendencies, Florentine pride and classical echoes in the Italian poetry set to music in the first half of the 15th century, in «Studi musicali», n. s., vii, 2016, n. 2, pp. 287-369, a pp. 358-63; e M. Doni Garfagnini, La “Vita dell’Alessandra de’ Bardi” e il “Libro delle lode e comendatione delle donne” di Vespasiano da Bisticci, in Ead., Il teatro della storia fra rappresentazione e realtà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. 267-97. ↑
- V. da Bisticci, Le vite, op. cit., vol. II, 481-82. ↑
- A questa famiglia apparteneva il dantesco Filippo Argenti. Ai tempi del nostro autore, un Alamanno Adinari fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1406, e “pseudocardinale” nel 1411 dall’antipapa Giovanni xxiii; alla metà del secolo risale invece il famoso Cassone degli Adimari dello Scheggia. ↑
- Cfr. G. B. Casotti, Prose e rime, op. cit., pp. 325-29; F. Flamini, La lirica toscana, op. cit., pp. 430-33. Entrambe le canzoni sono state modernamente ripubblicate, prima in Lirici toscani, op. cit., vol. II, pp. 72-79; poi, con assai maggior cura, in G. Pallini, Dieci canzoni d’amore di Antonio di Matteo di Meglio, in «Interpres», xxi, 2002, pp. 7-122, alle pp. 92-115: nessuno dei due editori, tuttavia, segnala l’occasione dei due componimenti nella vicenda che coinvolse Piero de’ Pazzi e Alessandra de’ Bardi Strozzi. L’errata attribuzione al Tinucci contenuta nel ms. FN⁵, e diverse congruenze fra l’episodio storico, la ballata tinucciana e il contenuto delle due canzoni, furono alla base dell’errore del Casotti. In particolare, lo stesso artificio retorico (la scrizione criptica del nome della donna) apre, oltre alla ballata del Tinucci, il congedo della canzone Alma gentil, nelle più belle membra (v. 137: «A le’ s’andrai, canzon, con umiltate») e, in modo un po’ differente, quello della canzone Andrà pur sempre mai co’ venti aversi (v. 137: «Alma gentil real, s’andrai qual dei»); mentre più generiche suonano in FN5 le didascalie («Canzon morale del detto messer Antonio, fatta per uno giovinetto / innamorato d’una fanciulla chiamata Alesandra»; «Canzon morale del detto messer Antonio, fatta per lo sopradetto giovinetto, perché la sua amata l’avea abandonato e erasi data a Dio»: ivi, pp. 93 e 105). ↑
- G. B. Casotti, Prose e rime, op. cit., pp. 330-31. Sui rapporti tra Antonio di Meglio e il Tinucci, cfr. R. Ruini, Per una biografia di Antonio di Meglio, in Quattrocento fiorentino e dintorni. Saggi di letteratura italiana, Firenze, Phasar Edizioni, 2007, pp. 97-123, a p. 115. ↑
- F. Flamini, La lirica toscana, op. cit., p. 432. ↑
- Sonetto caudato di rime ABBA ABBA CDE CDE EFF. 3. fervente e devoto: la coppia di sostantivi ritorna solo in M. del Giogante, Rime, XV, 59. 5. servando… onestate: locuzione presente in Petrarca, Tr. Pud., 141 («servaron lor barbarica onestate»). 8. divulgate: il riferimento alla “fuga di notizie”, circa le ragioni dell’abbandono della dama da parte dell’amato, indica che le figure in questione sono di dominio pubblico. 9-10. Riadattamento dei versi petrarcheschi: «ché vo cangiando ’l pelo, / né cangiar posso l’ostinata voglia» (Rvf, 360, 41-2). 10. cangiato avendo pel: ‘invecchiato’. Ricorda un altro luogo petrarchesco: «cangiando il pelo» (Rvf, 319, 12). pel, gusto e costume: la terna ricorda R. Roselli, Il Canzoniere, XXXV, 8 («mi fa cangiar color, costume e pelo»). 11. ‘essendo andato contro la tua stessa salvezza’. Il medesimo senso si trova in M. Malatesti Rime 37, 2 («li viene in odio la propria salute»); in F. d’Altobianco Alberti, Poesie, LXI, 10 («che torca gli occhi a sua propria salute»); e in A. Galli, Canz., 54, 2 («che sì te scorda la propria salute?»). propria salute: sintagma boccacciano: Filostr., VII, 47, 7. 12. pesi o doglia: la coppia di verbi è presente in Petrarca, Rvf, 268, 14 («e so che del mio mal ti pesa et dole») e Rime disp., CLXIX, 4 («Che di cor me ne pesa e me ne dole»). 14. nemico d’onestate: presente solo in A. Beccari, Rime, XXXIII, 10 («d’onestà nemico»). nemico… di vertute: cfr. Petrarca, Rime disp., CCXIV, 111 («D’ogni virtù nemici»), ma soprattutto A. Beccari, Rime, XLVIII, 37 («nemico de vertù»). 15-16. non conosciute vestigie: ricorda Dante, Par., V, 11-12 («alcun vestigio, / mal conosciuto»). 17. me ’n doglio: locuzione del Saviozzo, Rime, 106, 116 («me ne doglio»). ↑
- Sonetto di rime ABBA ABBA CDE CDE. 1-6. Lo schema delle domande retoriche è topos della lirica amorosa (cfr. ad es. Petrarca, Rvf, 132; 150; 273). 1. Che farai, dimmi: la formula è spesso presente in J. da Todi (Laude, 28, 35; 48, 31; 53, 1; 56, 30 etc.), ma qui ricorda più da vicino Boccaccio, Filostr. II, 64, 1-2 («Tu che farai? Deh, dilmi, starai altera, / e lascerai colui»). cor di petra: più che Dante Rime 45, 7 («sì che non par ch’ell’abbia cor di donna»), l’espressione segue da vicino Saviozzo, Rime 74, 88 («arieno inamorato un cor di pietra»). 2. mente altera: il sintagma è petrarchesco (Rvf , 21, 4), ma assume il significato espresso da Burchiello, Rime, CCXXXV, 68 («Vinse superbia, e ogni mente altera»). 3-5. Il paragone tra la crudeltà della persona amata e quella degli animali è un topos assai diffuso. L’immagine evocata dal Tinucci, per cui l’amata è più crudele di tigri, orsi e vipere ricorda G. Gherardi, Poesie, XXVI, 9-14 («Se orso, tigro, aspido o basilisco, / […] / udisson lo mio mal […] / aren piatà, ma il mio più car tesauro / mi schifa e fugge, o nel mirar mi liscia!»); Giusto, SeC, 80, 3-4 («qual è sì duro cor de tigre o d’orso / che a pianger meco non venesse omai?») e 129, 12-14 («e fu ’l mio affanno tal, che arebbe sazio / non pur Medea nel magior colmo d’ira, / ma d’un spietato tigre e ’l cor d’un orso») e A. Galli, Canz., 32, 74 («più cruda alla mia pena ch’orso o tigro»). 3. qual più fera: espressione di Dante, Rime, 45, 8 («ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo»). 3-4. fera crudel: altro sintagma dantesco (Inf., VI, 13 e VII, 15). 5. L’immagine ricorda Petrarca, Rvf, 239, 29 («et li aspidi incantar sanno in lor note»). aspido: ‘serpente’. Secondo i bestiari il serpente, pur di non ascoltare il suono dell’incantatore (qui Orfeo, l’incantatore per eccellenza), si tura le orecchie. 6. manca… forza: cfr. Boccaccio, Rime, 13**, 11 («e a me manca forza ad aspettare.»). Vener… forza: seppur di senso opposto, il riferimento alla «forza» di Venere si trova in D. da Prato, Poesie, XIV, 9 («Se te la forza di Venere atterra»). 8. Il verso richiama Saviozzo, Rime, 43, 13 («tolto ha l’arco a Cupido e ’l dolce strale»), benché sia evidente il ricordo di Petrarca, Tr. Mor. I, 11 («rotte l’arme d’Amore, arco e saette»). 10. almo protervo: l’associazione è presente solo in M. Malatesti, Rime, 32, 34-35 («acervo / animo, e sì protervo»). 11. vincati: cfr. Boccaccio, Am. Vis., XXVIII, 71 («vincati pietate / almen de’ tuoi»). tua propria salute: l’espressione figurava in Boccaccio, Filostr., VII, 47, 7; ma cfr. anche, per somiglianza di contesto, F. d’Altobianco Alberti, Poesie, LXI, 9-11 («Dunche chi fia sì scelerato e istolto / che torca gli occhi a sua propria salute / e non ricerchi l’ultimo contento?»). 14. Riscrittura del concetto espresso in Dante, Par., XVIII, 58-60 («per sentir più dilettanza / bene operando, l’uomo di giorno in giorno / s’accorge che la sua virtute avanza»). ↑
- Ballata mezzana di rime XYY AbCAbCCXX. 1. pur cor: sintagma petrarchesco (Rvf 215, 2 e 242, 10), ma interessante anche F. d’Altobianco Alberti, Poesie, CXXXIV 3-4 per la similarità del contesto («e non più che da me con puro core / mai fu seguita in terra donna alcuna.»). lialtà né fede: l’associazione è presente in A. Galli, Canz., 200, 4 e 254, 3-4 in cui vi è anche somiglianza di contesto («cum quella lialtà, cum quel amore, / cum quella fé che ’l buon servo far dei»). 3. Riscrittura di Dante, Rime, 7, 43 («ché sol per voi servir la vita bramo»), ma importante anche la variante di R. Roselli, Il Canzoniere, XV, 14 («chi sol per te servir la vita spera»). 4. star in… foco: immagine presente in F. Sacchetti, LdR, XXXV, 51 e 55 («conviemmi star languendo in cotal foco»; «pur se là starò in foco»), e in R. Roselli, Il Canzoniere, XXVIII, 3-4 («ed è tanto el diletto che mi piace / star dentro al foco, ove ogni male oblio.»). ardente foco: il sintagma, di derivazione duecentesca (Cavalcanti, Rime, XI, 2; G. d’Arezzo, Rime, CXXXI, 12 e CXXXVIII, 6), è attestato in Petrarca, Rvf, 352, 5 e altri, tra cui Saviozzo, Rime, 25, 117-18, interessante anche per la similarità del contesto («S’io mi gittasse in un ardente foco? / Ognun saria minore a quel ch’io sento»). 6. Riscrittura di Dante, Inf., XIX, 38-39 («e sai ch’i’ non mi parto / dal tuo volere»). 7. Dunche … per dio: interessante la corrispondenza con F. Malecarni, Poesie, III, 12 («Piatà dunque, per dio»). pietà… ti prenda: espressione presente in C. Angiolieri, Rime, XX, 2 e in Saviozzo, Rime, 97, 3, ma notevole la somiglianza con R. Roselli, Il Canzoniere, XXIV, 11 («per Dio, piatà ti prenda al mio gran male!»). prenda un poco: cfr. Boccaccio, Ninf. Fies., 296, 8 («ch’io teco prenda un poco di piacere»). 8. mi mena: espressione ricorrente in Petrarca a fine verso (Rvf, 125, 43, 207, 77, 240, 7, 276, 5 e 301, 8). 9. ne deggia morir: il costrutto si trova in Boccaccio, Filostr., IX, 7, 7 («ne deggia ire») e Tes., III, 57, 1 («io me ne debba gire»). 10. donna gentil: sintagma stilnovistico. 11. languir per lei: locuzione petrarchesca (Rvf, 174, 12-13: «che languir per lei / meglio è che gioir d’altra»). 12. con piatà no ’l soccorre: espressione simile in A. di Meglio, Poesie, II, 66 («se sol la sua pietà non mi soccorre»). ↑
- Cfr. G. B. Casotti, Prose e rime, op. cit., p. 324. ↑
- I Quaratesi furono una famiglia patrizia di Firenze di fazione inizialmente ghibellina, successivamente passata alla parte guelfa; un segno del loro mecenatismo è il Polittico Quaratesi, commissionato a Gentile da Fabriano nel 1425. All’epoca dell’ascesa medicea furono nemici di Cosimo il Vecchio e alleati di Niccolò da Uzzano, Rinaldo degli Albizi e Palla Strozzi; tra i suoi membri si distinse Castello di Piero, politico, priore nel 1428 e gonfaloniere di Giustizia nel 1441 e nel 1447 (cfr. D. Savelli, Santa Lucia de’ Magnoli a Firenze. La chiesa, la Cappella di Loreto, Firenze, Parrocchia di Santa Lucia de’ Magnoli, 2012). A Firenze vi furono due famiglie del Bene: la prima fu una delle più onorate nella Repubblica fiorentina per ricchezze, gradi e autorità, e ne fece parte il poeta Sennuccio; la seconda si chiamava anticamente Buonizzi (cfr. A. Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze al tempo dell’assedio. Racconto storico, Firenze, Stamperia Granducale, 1840, p. 707). La famiglia fiorentina Spini fu nota per l’attività bancaria (da cui l’omonima compagnia) sia in Francia che nel Mezzogiorno; era consanguinea degli Acciaiuoli (cfr. C. Tripodi, Spini, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 93, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2018). Dai Lamberteschi fu edificato l’attuale palazzo fiorentino Bartolommei-Buschetti (via Lambertesca 11): cfr. M. Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, Firenze, Le Lettere, 1995; e i numerosi documenti editi in http://san.beniculturali.it/web/san/. ↑
- Cfr. I. Walter, Medici, Piero de’, in Dizionario biografico degli Italiani, op. cit., vol. 73, 2009. ↑
- Ballata mezzana, con schema XYY AbCAbCCYY. 1-3: per i rapporti con analoghi componimenti di R. Roselli e M. Davanzati, si rimanda a quando indicato a testo. 1. questa dea: sintagma boccacciano (Tes., IX, 5, 7 e XII, 66, 6; Rime, 37*, 64). 3. star sempre ’n: espressione petrarchesca (Rvf, 64, 14). tormenti e in languire: i due termini sono spesso abbinati nei rimatori siciliani. 4. aver merzede: espressione petrarchesca (Rvf, 82, 11). 6. desïando more: espressione dantesca (Rime, 12, 4). 7-8. fede … merita: simile associazione in A. Galli, Canz., 259, 39 («Merita in terra tanto la mia fede?»). fede… d’uno amante: cfr. R. Roselli, Il Canzoniere, XXIX, 7 («con fé de vero amante»). 9. deggia aiutar: formula di G. d’Arezzo, Rime, XLVII 50 («aiutar deggia»). 10. giusto signore: altro sintagma guittoniano (Rime, XXVI 11), ma anche attestato nel corpus petrarchesco (Rime disp., IV 1). 11. al cor sentire: formula petrarchesca (Rvf, 217, 3-4: «ch’un foco di pietà fessi sentire / al duro cor»). 12. ch’aimpier ò… disire: espressione d’ascendenza dantesca (Par., XXII, 61-62: «il tuo alto disio / s’adempierà»), ma poi ricorrente in Boccaccio (cfr. Filostr., II, 101, 8; Tes., II, 83, 8; Amor. Vis., XLV, 54; Ninf. Fies., 203, 6). mio disire: sintagma specificamente dantesco (Purg., XXVI, 137 e Par., XXVII, 103). ↑
- Secondo la numerazione dell’ed. critica R. Roselli, Il Canzoniere Riccardiano, a cura di G. Biancardi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005, pp. 30-31. ↑
- L’incipit tinucciano riecheggia anche l’apertura della ballata xlviii di Cino Rinuccini, Che giova ’nnamorar de gli occhi vaghi (C. Rinuccini, Rime, a cura di G. Balbi, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 170-71). I contatti tra i due componimenti non riguardano ovviamente la figura femminile interessata, visto che il Rinuccini morì nel 1417, un anno dopo la nascita di Piero de’ Medici. Sono invece evidenti le scelte sul piano strutturale e tematico: entrambi i testi sono infatti ballate mezzane, in cui la ripresa ospita una domanda retorica; presentano l’allocuzione ad Amore e la richiesta al dio di condurre la dama nella sua «schiera», così ch’ella patisca le medesime sofferenze dell’amante. ↑
- Il sonetto è pubblicato col n. xv in Lirici toscani del ’400, a cura di A. Lanza, vol. I, Roma, Bulzoni, 1973, p. 429; la didascalia è attestata nel ms. FN nell’ed. N. Tinucci, Rime, op. cit. (FN2 nel vol. di Lanza). ↑
(fasc. 30, 25 dicembre 2019)