Introduzione
Queste pagine, che raccolgono insieme una breve intervista, un’introduzione critica e una serie di testi inediti del poeta spagnolo Jacobo Cortines, nascono da un’occasione concreta e fortunata: la consegna all’autore spagnolo del prestigioso Premio Internazionale “Fondazione Roma ‒ Ritratti di poesia” nell’ambito della manifestazione omonima tenutasi a Roma lo scorso 5 febbraio, nella quale chi scrive ha avuto il privilegio di presentare il poeta al pubblico italiano e di tradurre alcuni suoi testi.
Da qui, dunque, dal sodalizio stabilitosi tra il poeta e il suo traduttore, scaturisce la serie di liriche che presentiamo più avanti in versione bilingue, e da qui anche un primo, estemporaneo apporto alla sezione “Traduzione e inediti” della rivista «Diacritica»; una sezione che nella mente dei suoi ideatori vuole appunto raccogliere, diffondere e commentare contributi inediti più o meno recenti della produzione e riflessione letteraria contemporanea, in particolare nella loro dimensione interlinguistica e strettamente traduttologica. Vi troveranno spazio sia contributi teorici in materia di traduzione sia testi inediti di autori stranieri, accompagnati, questi ultimi, da puntuali versioni italiane realizzate da esperti della disciplina (linguisti, studiosi, traduttori editoriali ecc.) e da più o meno estese note introduttive a beneficio dei lettori.
Nel nostro caso, che coincide con l’occasione inaugurale, proponiamo dunque una breve antologia lirica di Jacobo Cortines, scrittore colto e fedele alle radici della sua terra così come alla grande tradizione poetica spagnola. Alcune liriche sono apparse dieci anni fa sulla rivista «Smerilliana», sempre affiancate da una nostra versione e introduzione1, e oggi appaiono in una nuova veste; sì, perché le traduzioni scadono, e il linguaggio poetico è in continuo mutamento, come gli occhi e il cuore dell’interprete. I componimenti tratti dall’ultima raccolta dell’autore, Nombre entre nombres (2014), che si compone in buona parte di un lungo poema dedicato al buen retiro di campagna dell’autore, appaiono invece per la prima volta in lingua italiana.
Jacobo Cortines (1946) è nato a Lebrija, in Spagna, nel cuore dell’Andalusia. Ha insegnato per molti anni Letteratura spagnola presso l’Università di Siviglia e, oltre a numerosi saggi di carattere accademico, a libri di prose e volumi di memorie, ha pubblicato cinque raccolte di poesia per le quali ha ottenuto importanti riconoscimenti dalla critica, dagli esordi di Primera entrega (1978) a Pasión y paisaje (1983), da Carta de junio y otros poemas (1994) a Consolaciones (2004), con cui ha ottenuto il “Premio de la Crítica”, fino all’ultimo e già ricordato Nombre entre nombres (2014). Dal 1996 è membro della Real Academia Sevillana de Buenas Letras e da alcuni anni dirige la collana di poesia «Vandalia» per la Fundación José Manuel Lara, una delle istituzioni più attente alla promozione della cultura spagnola contemporanea. Ha inoltre tradotto in castigliano i Trionfi (1983) e il Canzoniere (1989) di Petrarca, e infatti proprio al grande poeta italiano, con Orazio sullo sfondo, l’autore deve alcune delle caratteristiche più significative della propria poesia: da una parte la padronanza e la rigorosità del ritmo e della versificazione, l’indiscutibile nitore stilistico, dall’altra le suggestioni dettate dalla natura e dal paesaggio – quello andaluso nel suo caso – e la costante indagine psicologica. Il lavoro poetico di Cortines si esercita così in maniera delicata su se stesso e sugli altri esseri che ne accompagnano l’avventura esistenziale, sull’ambiente che inevitabilmente condiziona l’uomo e il suo peregrinare nella storia, una storia fatta di volti, di momenti e di luoghi, privata e insieme universale.
In tutti i libri che ne raccolgono la trayectoria lirica l’autore ricorre continuamente al lessico e agli stilemi cari alla grande tradizione classicista, esibendo un campionario delle possibilità che si offrono all’imitatio ben al di là dei confini della modernità e proponendo uno spettro tematico di grande varietà, che spazia dal riconoscimento e dall’ossequio nei confronti dei motivi più “classici” della poesia di ogni tempo (amore, morte, memoria, fede ecc.) alla reinterpretazione e perfino alla demistificazione di questi ultimi alla luce di un disincanto dettato dall’esperienza, da un’intelligenza che non sembra piegarsi ad alcuna “ortodossia”, ad alcuna idea reçue. Non vi è quasi mai, in effetti, nella poesia dell’autore spagnolo un indugio manieristico o narcisistico sulle forme vuote, su ritmi o motivi consolidati e privi di un concreto sviluppo e coinvolgimento emotivo: pur fondandosi sulla grande lezione dei Maestri, sulla sicurezza stilistica che nasce dalla forza dei secoli e dal carisma dei protagonisti della storia della lirica, il dettato di Cortines è sempre diretto, il suo discorso limpido, la sua poesia onesta, per dirla con Saba.
Anche il lessico, l’utilizzo palese di alcune formule, la ricorrenza di certe immagini topiche che si richiamano apertamente alla tradizione petrarchesca e petrarchista, che in Spagna influenzò in modo ampio e diffuso la grande stagione del Siglo de Oro, di cui alcuni dei rappresentanti più significativi furono proprio andalusi, da Herrera a Góngora, non costituiscono esclusivamente un bagaglio di lieux communs validi per tutte le stagioni; al contrario, in ogni richiamo tematico, in ogni evocazione linguistica, Cortines dipana il mondo delle immagini senza tempo della poesia per metterle in discussione in capite e in membris, per operare un originale lavoro di decostruzione e ricostruzione umana e letteraria. Proprio l’originalità, l’affrancamento dagli stereotipi culturali della contemporaneità gli consente di prendere a piene mani, e senza ubbie, dall’universo classico – come dicevamo, non solo Petrarca e la poesia aurea ispanica, ma anche i grandi autori latini, da Orazio a Virgilio e a Ovidio – e di affrontare il mondo di oggi alla luce delle urgenze e delle passioni dell’uomo di ogni epoca. In questo senso, di fronte al minimalismo dilagante nella poesia − non solo spagnola − degli ultimi decenni Cortines reagisce sobbarcandosi il peso “massimo” delle humanae litterae, confrontandosi con le ansie e i bisogni sempiterni dell’essere, con i gradi più alti del linguaggio e dello stile.
Una breve conversazione con l’autore
Desideriamo concludere questa parte introduttiva con le parole stesse del poeta, che al di là di quanto abbiamo detto contribuiscono senza dubbio a chiarire moventi e finalità della sua scrittura lirica, a evidenziarne le scelte e gli obiettivi essenziali dall’interno del fluire dei versi. Proprio nell’occasione sopra ricordata, durante il festival “Ritratti di poesia”, abbiamo dunque accompagnato la lettura dei testi con una breve conversazione, più che un’intervista, di cui di seguito condensiamo l’essenza e i passaggi principali.
La scrittura poetica come «forma de felicidad».
M. L.: In una recente intervista rilasciata a «El correo de Andalucía» in occasione dell’uscita di Nombre entre nombres e intitolata significativamente Escribir poesía en Sevilla es una forma de felicidad, hai preso una posizione forte rispetto al problema della scrittura lirica. Puoi spiegare di che felicità si tratta? È una felicità personale, collettiva; un godimento tutto interiore o una sorta di empatia con l’ambiente che ti circonda? Oppure è un modo di dar voce alla felicità che inevitabilmente circonda la vita, una felicità epicurea e lucreziana che risiede nella natura stessa delle cose, nell’uomo e nel paesaggio che lo circonda?
J. C.:La felicità di cui parlo riguarda entrambi gli aspetti, quello personale e quello che risiede nell’universalità della natura e dei sentimenti. Larra, uno dei più tormentati scrittori iberici del XIX secolo, diceva che «escribir en España es llorar», accostando la scrittura alla disperazione, per altro assecondando una tradizione che ha contato con illustri predecessori ed epigoni; per me, invece, e oggi più che mai, scrivere poesia può essere un modo per essere felici, per esprimersi liberamente dinanzi al dolore e alle difficoltà dell’esistenza e al di là delle richieste dell’establishment politico o letterario. All’interno della sua poesia il poeta è libero davvero, può prendersi il suo tempo e le sue licenze, può portare sempre a compimento il proprio progetto etico ed estetico senza dover rendere conto a nessuno – né a un’ideologia né a un credo religioso né all’editoria di mercato −, e questa è una condizione di estrema felicità.
Labor limae et mora…
M. L.: Se uno si mette a farti i conti in tasca, sorvolando sulla tua silloge d’esordio (Primera entrega, 1978), tra una raccolta e l’altra hai fatto trascorrere sempre almeno un decennio. Del resto, è quello che fanno i grandi poeti, è quanto raccomanda il “tuo” Orazio nell’Arspoetica. Ma al di là della suggestione e della citazione in questo ciclico intervallo c’è una tua ragione personale, diciamo “di poetica”, o è solo attesa paziente e premurosa, «mora» appunto, per dirla sempre con i latini? Oppure, per rifarci al linguaggio scientifico, è il periodo del tuo percorso interiore?
J. C.:È vero che è un intervallo “oraziano”: proprio il poeta di Venosa diceva che occorre far passare dieci anni tra un libro e l’altro. Ma non è un tempo “calcolato”, in realtà non ci faccio caso; tuttavia, prima di pubblicare una poesia – figuriamoci un’intera raccolta – la rivedo molte volte, taglio e aggiungo parti negli anni. Indipendentemente dal labor limae, però, dal lavoro di cesello che riservo ai miei versi, è anche vero che tra una raccolta e l’altra ho sempre pubblicato altri libri dalla natura più varia. Ad esempio, al 1983 risalgono sia Pasión y paisaje sia la mia traduzione in volume dei Trionfi di Petrarca, ma tra quel libro e il successivo Carta de junio y otros poemas (1994) ho dato alla luce diverse opere in prosa, saggi accademici e soprattutto la versione castigliana del Canzoniere (1989). E qualcosa di simile è accaduto anche nel decennio successivo e in quello appena trascorso, durante i quali ho sempre alternato la scrittura poetica con quella saggistica e memorialistica e con l’attività traduttiva.
Una poetica in pillole
M. L.: A mio parere, e senza cavillare troppo, la tua poesia appartiene a pieno titolo alla corrente universale e senza tempo del “classicismo”, all’interno del quale, come abbiamo sottolineato, si notano in particolare accenti oraziani e petrarcheschi, che alternano il canto sereno della natura all’elegia, l’anelito e il desiderio trionfante alla nostalgia e alla coscienza della perdita. E a ciò si accorda anche la scelta dei metri, il ritmo e la musicalità dei tuoi versi. Sei d’accordo con questa interpretazione?
J. C.:Senza dubbio, ho uno sguardo costantemente rivolto ai grandi autori della tradizione classica e romanza, da Petrarca ai grandi poeti spagnoli della prima età moderna: questi ultimi, insieme ai latini, mi hanno offerto le coordinate essenziali del far poesia sul piano linguistico e retorico, mi hanno illustrato le possibilità dei versi e dei generi, tra cui ho potuto poi spaziare. In effetti, in me convivono le cifre stilistiche e spirituali che hai messo in evidenza, anche se ci tengo a sottolineare che i materiali provenienti dalla tradizione sono sempre filtrati dallo sguardo di un poeta contemporaneo, il quale spesso mette in discussione, quando non capovolge del tutto, i motivi, le immagini e i valori cantati dal classicismo. A volte, l’abito e le misure tradizionali con cui si presentano i versi nascondono in realtà una serie di significati tutt’altro che “classici”, tutt’altro che lineari o apollinei. È qui che viene fuori il mio “impegno” poetico, nella messa in gioco dell’ortodossia lirica dall’interno, nel rovesciamento dei concetti o delle idee inventariati dalla casistica più consolidata per aprirmi a scenari nuovi, per esperire nuovi vettori del senso e della forma.
Nota alla traduzione
Due parole, infine, sul metodo impiegato nella traduzione italiana dei testi. Data l’alta formalizzazione di questi ultimi a livello di ritmo e misura, nella versione italiana abbiamo optato per riprodurre integralmente la struttura metrica dell’originale, cercando di volta in volta soluzioni sintattiche e linguistiche atte a non perdere la musicalità dell’endecasillabo, che innerva gran parte della lirica di Cortines. Questo verso spesso proposto in alternativa o in alternanza con il settenario e l’alessandrino, secondo una modalità particolarmente cara alla tradizione ispanica, è modulato in alcuni casi dal poeta agli estremi della cantabilità, mentre in altri accompagna invece più lentamente il poeta lungo i sentieri pensosi dell’elegia o perfino sul franto e tortuoso cammino della riflessione più cupa e dolorosa. Nella traduzione abbiamo dunque cercato di riproporre tutta questa varietas ritmica ed emotiva attraverso un calcolato uso del lessico e della sintassi, dell’estensione e della cesura, attingendo appieno alle possibilità offerte dal linguaggio poetico italiano e a una necessaria libertà nella disposizione degli elementi del verso. A questo proposito, non è superfluo ricordare quanto ha sempre sostenuto Giuseppe Sansone, traduttore del petrarchista spagnolo per eccellenza, Garcilaso de la Vega, e cioè che dinanzi a testi che fanno della compiutezza metrica e formale un fattore decisivo la traduzione «[…] trova la sua prima motivazione nella funzione ritmica, visto che è questa soltanto che garantisce il risultato poetico della versione lirica: per raggiungere il quale è assai di frequente indispensabile ridistribuire – nella caccia di battute e pause ovvero nella sinusoide melodica – i costituenti lessicali originari»2.
Alla solidità dello schema e del ritmo, del resto, nel caso della poesia di Cortines si aggiunge anche l’estrema limpidezza del lessico, una calcolata serie di scelte che tanto nella piena originalità quanto nel gioco dei rimandi e dell’intertestualità obbligano la traduzione a farsi carico di tutta la sostanza di un vocabolario selezionato. In linea con ciò, nelle versioni che proponiamo di seguito abbiamo cercato di recuperare anche tutta la pregnanza e la precisione della lingua di partenza − compresi certi echi e citazioni esplicite − forzandola esclusivamente, in alcuni luoghi, per garantire il ritmo e la musicalità dell’insieme testuale.
Testi (selezione e traduzione di Matteo Lefèvre)
Da: Pasión y paisaje. Poesía (1974-1982), Barcelona, Edicions del Mall, 1983.
Noche de tierraOscuro como seno de tiniebla, |
Notte di terraOscuro come seno atro di tenebra, |
El sueño y tus hormigasCuando más dulcemente al sueño te confías, |
Il sonno e le tue formicheQuando più dolcemente al sonno ti concedi, |
OlivarPeina de plata el viento los olivos, |
UlivetoD’argento pettina gli ulivi il vento, |
Noche desnudaDesnuda está la noche por tus ojos |
Notte nudaNuda resta la notte tra i tuoi occhi |
Da: Carta de junio y otros poemas, Granada, Editorial Comares, 1994.
En tu miradaToda tormenta cesa si tus ojos |
Nel tuo sguardoOgni tormenta cessa se i tuoi occhi |
Reflejo en la ventana [autorretrato]No son las ramas negras del naranjo |
Riflesso sulla finestra [autoritratto]Non sono i rami neri dell’arancio |
Hojas en blancoLa muerte es el ruido de unos pasos |
Fogli in biancoLa morte è nel rintocco di quei passi |
Da: Consolaciones, Sevilla, Fundación José Manuel Lara, 2004.
Uno másLa mañana como una mancha amarga |
Uno in piùLa mattina come una macchia amara |
En la tinieblaSi habito la tiniebla o en el fango |
Nella tenebraSe abito la tenebra o nel fango |
Beatus egoBlancas colinas de doradas cepas, |
Beatus egoBianche colline di dorate viti, |
Da: Nombre entre nombres, Sevilla, Renacimiento, 2014.
¡El nombre en mí! Entrando en mi [presente, como nube que baja y va envolviendo mi superficie toda, y yo dejándome empapar en su ámbito para regar los años de sequía, de anhelo interminable, de ausencias y de falta de esperanzas. El nombre que se adentra en la memoria y que quiere saltar hacia el futuro para hacerse impaciente el sueño ya cumplido. Pero es pronto, aún es presente y el presente es esto: suciedad y abandono, dentro y fuera.Limpiezas, desescombros, mediciones, planos que se dibujan y ejecutan. Los gruesos bastidores en los quicios y la puerta que a pulso subieron entre varios. ¡Qué sensación de espacio ya habitable! Y dentro el sol de pleno, y yo sentado en una humilde silla me imagino cómo ha de ser la casa, y me adormezco con el tibio calor sobre la nuca. ¿He vivido yo aquí? ¿En dónde estoy? ¿Cuándo ha sido este ahora? Y me siento enlazado con el tiempo, pero en ningún pasado, en un presente que es a su vez infancia, vejez, todo, suma de eternidades |
Il nome in me! Che entra nel mio [presente, come nube che scende e insieme avvolge tutta la superficie mia, e mi lascio impregnare al suo interno per irrigare le annate di arsura, di aneliti infiniti, di assenze e di penuria di speranze. Il nome che nella memoria irrompe e che vuole gettarsi nel futuro per mutarsi, impaziente, in sogno ormai compiuto. Però è presto, è il presente, ed il presente è questo: sporcizia ed abbandono, dentro e fuori. Pulizie, sgomberi, misurazioni, piani che si disegnano e si eseguono. Grosse cornici inserite nei cardini e la porta che a mano portarono su in molti. Che sensazione di spazio abitabile! E dentro il sole a picco, e io seduto su di un’umile sedia che mi immagino come sarà la casa, e mi addormento con tiepido calore sulla nuca. Ho vissuto qui io? Dov’è che sto? Quando è stato questo “ora”? E mi sento legato stretto al tempo, però in nessun passato, in un presente che al contempo è vecchiaia, infanzia, tutto,somma di eternità fratta in istanti identici e distinti. Solitudine è pure il tempo nuovo, e nella lunga estate di crepuscoli rossi quante volte a loro io ho pensato, a chi ormai giace, Adamo ed Eva, accanto a questo nome che non siamo riusciti a pronunciare e insieme a riscattare. Che nostalgia impossibile di un abbandono che non ha altra fine che il comune riposo sotto la stessa terra amata, eppure senza vederci, parlarci, sentirci. Frutti entrambi di un’anteriore messe |
- Cfr. J. Cortines, Poesie scelte, traduzione e cura di M. Lefèvre, in «Smerilliana», 6, 2005, pp. 27-38. ↵
- Cfr. G. Sansone, Traduzione ritmica e traduzione metrica, in La traduzione del testo poetico, a cura di F. Buffoni, Milano, Guerini e Associati, 1989, p. 15. ↵
- Si lascia il testo in originale, oltre che per ragioni di ritmo e musicalità, per l’evidente richiamo a due grandi poeti del Cinquecento spagnolo: l’espressione «soledad sonora» («solitudine sonora») è infatti una ripresa esplicita del celebre ossimoro di San Juan de la Cruz; mentre il termine floreale «azucena» («giglio»), e specialmente posto alla fine del verso, richiama direttamente le atmosfere liriche del petrarchismo e in particolare di Garcilaso de la Vega (ad es. En tanto que de rosa y azucena, sonetto XXIII). ↵
(fasc. 1, 25 febbraio 2015)