La mia forza è la forza di dieci,
perché il mio cuore è puro.Alfred Tennyson
Guardare l’arte di Arthur Rackham[1. L’articolo è una rielaborazione di un capitolo del volume D. Sarrecchia, Andersen e La sirenetta. Iconografia di una fiaba (1873-2013),con introduzione di M. Panetta e in appendice la prima traduzione dall’originale danese di H. C. Andersen, La sirenetta (1941), Roma, Arbor Sapientiae editore, 2015.] si traduce in un’inevitabile immedesimazione, in una lettura accogliente senza essere scontata, in un pellegrinaggio in cui, invece di andare avanti, si cammina all’indietro, senza alcuna nostalgia del presente.
La responsabilità è della sua capacità di saper proiettare il fruitore in un tempo inventato, in uno spazio della mente dalle linee marcate, dai colori autunnali privi di gelo: un mondo fatto di fate, di elfi, di bambini, di orchi e di strane creature che si esibiscono in uno spettacolo allestito apposta per lui, per condurlo con loro lontano, affinché creda davvero a ciò che vede impresso su un foglio. Un vento tiepido che attraversa la durezza di un tratto ammorbidito dagli acquerelli tenui e dalla delicatezza dei soggetti rappresentati, una sorta di “sogno di una notte di mezza estate”, connesso ad una spinta ribelle nei confronti di un’era dalle grandi contraddizioni. Infatti, all’epoca vittoriana, nella quale vive Arthur Rackham, consegue una forma quasi di escapismo dalle decisive evoluzioni, che comportano non poca pressione sulla società.
Proiettandosi nell’epoca vittoriana, si aprono le porte di un grande salone e ci si imbatte nella perseverante oscillazione tra fede e scienza, nella critica e decisiva rivoluzione industriale, nelle ferite sociali tra sfruttamento e ipocrisie, nelle cicatrici psicologiche di una società sfiancata dai compromessi, in un ricercato eroismo letterario, nelle dipinte passioni preraffaellite.
La cosiddetta Fairy painting nasce proprio in questo lussuoso, dispersivo e turbinoso salone nel quale si rimane affascinati ma anche storditi, e l’escapismo che ne consegue matura quelli che successivamente diventeranno i grandi capolavori dell’illustrazione.
Nei suoi fogli bianchi, Rackham, tra i massimi esponenti della Golden Age of Illustration[2. Un fenomeno nato in America, riguardante libri e riviste. La Golden Age nacque per una serie di cambiamenti sociali e industriali, ovvero l’avvento di nuove tecniche di stampa in fase di sviluppo, una produzione di carta sempre più conveniente, un’efficiente distribuzione in tutto il continente facilitata dalla costruzione di ferrovie; inoltre, la popolazione si stava espandendo e, insieme ad una florida industrializzazione, migliorarono in media anche le condizioni sociali. Improvvisamente gli artisti ebbero la possibilità di guadagnare enormi somme di denaro, e insieme di dare una svolta alla loro carriera, un fatto che attirò numerosi talenti, data la difficoltà per un pittore di farsi conoscere attraverso gallerie d’arte e mostre. In Europa, gli artisti della Golden Age sono stati influenzati dai Preraffaelliti e da altri tipi di correnti ispiratrici come i movimenti Arts and Crafts, Art Nouveau e Les Nabis. Tra i più importanti artisti, ricordiamo Walter Crane, Edmund Dulac, Aubrey Beardsley, Arthur Rackham e Kay Nielsen. Per gli americani, The Golden Age of Illustration si concluse nel 1930, quando i progressi della riproduzione fotografica e l’avvento della fotografia a colori avevano gradualmente escluso gli illustratori dal mercato.], mescolerà influenze di artisti come Albrecht Dürer, George Cruikshank, John Tenniel e Aubrey Beardsley, accogliendo il mondo incantato dei Fairy Tales, abitati da ninfe, fate, folletti, gnomi e creature soprannaturali, esaltandone la bellezza selvaggia, spesso inquietante, mista ad un’intrinseca grazia quasi palpabile, in un’arte nella quale atmosfere oniriche e luoghi incantati rivelano un mondo nel quale c’è bisogno di sognare e ove tutto è possibile, in cui ogni cosa che può essere sognata si può anche toccare. Sono disegni quasi animati, dal ruolo estetico e pedagogico, ma che non si accontentano di fare da semplice contorno ad una storia: essi stessi vogliono essere la storia, ed è così che Rackham concepisce le proprie illustrazioni.
Disegnatore inglese di grande talento e prestigio nell’epoca vittoriana, Arthur Rackham diviene noto per le illustrazioni di fiabe e classici per bambini. Nonostante le tematiche molto spesso legate al mondo dell’infanzia, egli riesce a mantenere nel disegno un rigoroso senso della realtà, dando alle proprie creature tratti umani, personalità e naturalezza. La sua arte, suggestiva e coinvolgente, riuscirà ad influenzare molti degli artisti successivi e lo stesso studio Disney, per la realizzazione del primo lungometraggio, si ispirerà fortemente ad alcune sue illustrazioni per Biancaneve.
Nato a Londra il 19 settembre 1867, in un quartiere centrale ricco di vivo fermento culturale, sviluppa fin da piccolo una forte propensione al disegno e dimostra un’incredibile bravura con l’acquerello. All’età di sedici anni inizia a viaggiare, diretto in Australia, impiegando il lungo tempo passato in mare disegnando, e torna a Londra con un bagaglio carico di studi, schizzi e bozzetti. Inizialmente, egli pubblica le proprie illustrazioni su delle riviste e, in questa prima fase artistica, si delinea uno stile caratterizzato da una costante presenza del nero e della linea pura:
La tecnica usata da Rackham era laboriosa e richiedeva una notevole perizia: abbozzato il disegno con una matita morbida, definiva le forme più precisamente aggiungendo via via i contorni e i dettagli. Terminato il bozzetto, tracciava quindi le linee a penna e inchiostro indiano, rimuovendo alla fine il sottostante strato a matita. Per ottenere un risultato finale a colori, prima di iniziare il disegno a matita passava uno strato di colore giallo chiaro sulla carta, aggiungendo poi vari altri strati di colore trasparente – soprattutto blu chiari, verdi e rossi ‒ a seconda delle necessità, una volta ultimato il disegno[3. Cfr. il sito dedicato alle Fiabe: www.fiabesca.blogspot.it (ultima consultazione: 19 febbraio 2015).].
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento diviene giornalista e illustratore e il suo primo libro di disegni viene pubblicato nel 1893. Il suo è un successo immediato e stupefacente: nei primi anni Novanta pubblica circa un volume all’anno, promuovendo e vendendo le proprie illustrazioni originali in occasione di mostre che tiene annualmente. Il 6 settembre 1939, all’età di settantadue anni, muore di cancro, a Limpsfield, lasciando un’eredità artistica dal valore inestimabile: oltre 60 libri illustrati, tra cui le opere di Shakespeare, Charles Dickens, James Barrie, Lewis Carroll, le fiabe dei fratelli Grimm, Andersen e Perrault. Sono da considerare indimenticabili il “suo” Peter Pan nei giardini di Kensington (1906), la “sua” Alice nel Paese delle Meraviglie (1907), il “suo” Gulliver (1909) e la “sua” Undine (1909).
Avvicinandosi alle due protagoniste delle fiabe, Undine e La sirenetta, è difficile non lasciarsi suggestionare dalla loro “somiglianza”, e non solo per le loro origini marine: entrambe sono, infatti, incomplete, alla ricerca di un’anima, cacciatrici di amore, privilegiate prede di una solitudine desolante.
Di grande ispirazione per Hans Christian Andersen, la fiaba di Friedrich de La Motte-Fouqué viene scritta nel 1811 e da subito concepita come un capolavoro. Undine, ninfa emersa dai flutti, è in cerca del vero amore per ottenere un’anima, ma destinata a rinunciarvi per la debolezza del suo amato, che, nell’insicurezza del proprio cuore, sceglierà “l’altra”, condannando a morte se stesso e segnando l’infelice ritorno della ninfa alle acque del mare.
Si tratta, dunque, di due fiabe molto simili tra loro, ma con un finale diversamente drammatico: com’è noto, la Sirenetta di Andersen perde, infatti, il proprio amore, rinunciando alla possibilità di riconquistarlo e di diventare umana, ma scamperà alla malefica profezia di mutarsi in schiuma del mare e potrà lenire i propri dolori e quelli del mondo tramutandosi in una delle figlie dell’aria, diffondendo buone azioni e guadagnando, così, l’immortalità. Un finale amaro, se pensiamo che la sirena perde tutto per un amore che non le è destinato, ma mai così amaro come il finale di Undine, costretta ad uccidere il cavaliere Hulbrand von Ringstetten, mentre baciandolo rapisce il suo ultimo respiro, per poi tornare alla condizione iniziale, quando ancora non conosceva l’amore, con la differenza che, dopo averlo conosciuto, la sua esistenza diventa un limbo senza via d’uscita.
Quelle lacrime penetrarono negli occhi del Cavaliere fluendo attraverso il suo petto in un dolce e caro dolore, finché il respiro gli si spense e il suo corpo esanime reclinò giù dalle belle braccia di lei, sopra i guanciali del letto. «L’ho ucciso col mio pianto»[4. Cfr. F. de La Motte-Fouqué, I. Bachmann, Ondina. La ninfa che divenne donna per amore, Napoli, Filema edizioni, 2004, pp. 106-107.].
Il ritratto che Rackham fa di Undine (cfr. supra, fig. sulla sinistra) è lo specchio di un’inquietudine segreta, accarezzata dal suo silenzio, sigillata dal mare: lo stesso mutismo della sirenetta, la stessa fame di amore, lo stesso grido interiore, lo stesso silenzio assordante. La marea la avvolge senza averla vinta, perché la sua è una risurrezione o un mesto ritorno a casa, ma non una debole sconfitta, anche se la tragica fine della storia direbbe il contrario. I capelli bagnati ma leggeri seguono il movimento delle onde, le quali sembrano accompagnarla, se non darla alla luce.
Il fascino di questo ritratto sta nel contrasto tra la ferma resistenza suggerita dalla posizione delle braccia, in tensione, con i pugni stretti (come per rifiutare quella sensazione di eterno ritorno alla quale ella tenta di sfuggire), con gli occhi chiusi e il viso volto altrove (come per non vedere ciò che l’aspetta, una volta varcata la terra azzurra); e la dolcezza di un abbandono consolatore (nelle vesti bagnate che si fondono con le onde), la tensione sciolta nel suo discendente ritirarsi, nell’evaporare della sua identità rubata dal dolore e intrappolata nel ricordo d’amore: d’altronde, «pur pagato col prezzo di una eroica dolorosa solitudine, l’incanto di acque rigeneratrici non si eclissa con la stessa rapidità degli amori a cui ha dato alimento»[5. Ivi, p. 143.].
Al Cavaliere che vede in lei un “paradiso” verdeggiante e fiorito, promette una felicità sconosciuta, ma lascia intravedere anche l’ombra di una pesante ipoteca. L’amore totale non tollera abbandoni o tradimenti, pena la morte di entrambi gli amanti[6. Cfr. F. de La Motte-Fouqué, I. Bachmann, op. cit., p. 139.].
Di Undine abbiamo molte illustrazioni di Rackham, molte a colori e solo un paio in bianco e nero; nella rappresentazione della storia, l’artista ha privilegiato i dettagli, non solo quelli tecnici ma anche quelli graficamente contenutistici. Difatti, rimane fedele all’atmosfera plumbea e romanticamente stratificata della narrazione, valorizzando, sia con il bianco e nero sia con il colore, il climax delle pulsazioni della fiaba. Undine vi è protagonista indiscussa: in lei si muovono irriverenza e grazia, innocenza e sensualità, ambiguità e purezza, sublimate dall’armonica avvenenza delle forme in stile preraffaellita e delle dolci contaminazioni con l’Art Nouveau, che temperano la durezza della linea di contorno onnipresente, tipica dei primi incisori tedeschi. Tante influenze pittoriche in un’unica mano, capace di una rielaborazione personalissima fondata su un lavoro stratificato e di dettaglio, rivelano in Undine uno stile unico e raffinatissimo.
La Sirenetta di Andersen, a differenza di Undine, si avvale dell’opportunità di riscatto offertale dalle figlie dell’aria per potersi salvare dal proprio annientamento. Quinta figlia del Re Tritone, realizza il sogno di andare a vedere il mondo emerso, una volta compiuti i quindici anni, ed è lì che si imbatte nel bellissimo principe del quale si innamora subito e che salverà dal violento naufragio del quale la sua nave rimane vittima, nella tempesta. Egli, purtroppo ancora destabilizzato, scambia la propria salvatrice per una giovane fanciulla vista da lontano, che correva a cercare aiuto.
Malinconica e afflitta dall’enorme abisso esistente tra lei e il principe, essendo ella una sirena e dunque priva di un’anima, e cosciente che alla fine dei suoi trecento anni si dissolverà in schiuma del mare, senza la possibilità di rivivere, come è noto la Sirenetta decide di recarsi dalla Strega del Mare, che le offre la possibilità di avere un’anima umana e delle gambe in cambio della sua voce. Ella accetta: emerge dalle acque marine alla conquista del principe, il quale, pur affascinato da lei e deciso a prendere moglie, un giorno si reca in un regno e si imbatte nella stessa ragazza vista in lontananza al momento del suo risveglio; pensando sia lei la sua salvatrice, egli sposerà la principessa, lasciando la Sirenetta in preda alla disperazione e allo sconforto. Rifiutando la possibilità di uccidere il principe per evitare la propria malasorte, ella è, comunque, pronta a divenire schiuma del mare, quando le figlie dell’aria l’accolgono tra loro per premiare la sua bontà ed evitarle la morte eterna in cambio delle sue buone azioni, per le quali le spetta il Paradiso.
Tra le raffigurazioni di Rackham della Sirenetta, ritroviamo una manciata di illustrazioni in bianco e nero a campiture piatte, dallo stile quasi fumettistico, dove si rilevano, in linea generale, una definizione decisa del tratto e una tipologia di composizione richiamante il grottesco; d’altronde, anche Rackham, oltre a Nielsen, subisce l’influenza dell’arte di Aubrey Beardsley, inebriata in parte dall’«impressione di una complessiva monocromia»[7. Cfr. il sito cit.: www.fiabesca.blogspot.it] dovuta, invece, a «certe stampe giapponesi tanto in voga nell’Ottocento, e all’opera di Hokusai in particolare»[8. Ibidem.].
La sirenetta ne è una chiara esemplificazione: nell’immagine riportata (cfr. supra, la figura a destra), Rackham «coniugò gli stilemi dell’Art Nouveau con le figurazioni favolistiche e grottesche tipiche della tradizione anglosassone»[9. Cfr. il sito dell’Enciclopedia italiana Treccani: www.treccani.it (ultima consultazione: 19 febbraio 2015).], con un vago accenno al Fairy Pantings. La protagonista viene rappresentata solo una volta in primo piano, avvolta dalle onde del mare che si intrecciano con i tentacoli di creature marine, quasi fossero decorazioni liberty, e con il corpo generoso di una sirena troppo matura per la sua età (ha solo quindici anni), elementi che di certo addolciscono la composizione, ma che tendenzialmente la privano di pathos, sottolineandone la funzione ornamentale: il corpo poco esile e di un’accennata abbondanza priva la Sirenetta dei caratteri della giovinezza. Inoltre, Andersen descrive il regno del mare con dovizia di particolari, rendendolo vivo, quasi animato, ma esso, assieme al contesto, in Rackham fa solo da sfondo: tutto gira intorno alla quieta malinconia della giovane sirenetta, tutto è condensato nella forza del suo amore disperato che, impavida e muta, ella seguirà, accettando il proprio destino, qualunque esso sia.
Leggendo La Sirenetta, ci si accorge di come sia proprio la protagonista a delineare la storia, dando un colore e una forma al resto, a ciò che rimane alle sue spalle: per questo le rappresentazioni fini a se stesse non funzionano con questo personaggio. Potevano piacere o essere le più richieste, allora, ma Hans Christian Andersen era esigente e pretese qualcosa di più della bellezza: l’anima.
In Undine si nota un’aggressività placata dal tormento amoroso, un risveglio sensoriale in lotta con un assopimento della speranza, una sorta di bovarismo ribelle che porta la ninfa a dileguarsi alle sue condizioni. Nella Sirenetta si coglie, invece, l’ingenuità rotta da una punitiva illusione, da un sentimento più grande di lei che può solo sognare, da una spietata educazione sentimentale che, diversamente da quanto suggerisce Flaubert, la priva anche dell’aspettativa come forma di piacere più puro, non potendo ella scegliere liberamente un verginale ritiro. In entrambe un dolore, in entrambe una crescita, una morte e, in modo diverso, un riscatto nei confronti di una solitudine imposta, di un castigo che punisce la forza di due cuori puri.
Citando, in conclusione, Sibilla Aleramo,
Pensarsi come l’abisso, su cui si adagiano le superfici apparentemente solide della civiltà, è sicuramente più esaltante che rassegnarsi a quello “sguardo lucido e mesto” che subentra al “gelo” e all’“estasi” della favola amorosa e che profila, come via d’uscita dall’altalena di amori e odi, il “fastidioso obbligo di vivere per sé”[10. Cfr. F. de La Motte-Fouqué, I. Bachmann, op. cit., p. 144.].
(fasc. 1, 25 febbraio 2015)