Per un ritratto di Max Jacob degli anni Venti secondo Emilio Cecchi: saggi dimenticati e lettere inedite

Author di Laura Giurdanella

L’“incontro” Jacob-Cecchi

Dopo poco più di dieci anni dall’ultima ricognizione sulla ricezione dell’opera di Max Jacob in Italia[1], un saggio sembra essere sfuggito all’analisi tanto dei critici jacobiani quanto degli studiosi italiani. Si tratta di un articolo apparso il 10 agosto 1923 sul quotidiano romano «La Tribuna», nella rubrica di critica letteraria Libri nuovi e usati a cura di Emilio Cecchi, e firmato con lo pseudonimo «Il tarlo»[2].

Nel tempo gli studi al riguardo sono stati esigui: anzitutto la sua ristampa con lievi aggiustamenti[3] si deve alla cura di Masolino D’Amico nella seconda raccolta postuma del critico fiorentino del 1969, in cui sono riuniti articoli e saggi sull’Otto-Novecento francese[4]; un anno dopo il contributo è menzionato nella Bibliografia degli scritti di Emilio Cecchi, curata da Scudder[5], come recensione dell’opera jacobiana Filibuth ou la Montre en or, ma per un commento puntuale bisognerà attendere il 2017, quando Orlando allestisce un’edizione integrale dei contributi cecchiani del periodo 1921-1923 sulla «Tribuna»[6]. In questa prospettiva, si propone una contestualizzazione del rapporto Jacob-Cecchi nonché una lettura critico-ermeneutica della prospettiva cecchiana sulla prima stagione poetica di Jacob. A tal riguardo, si rivelerà fecondo il carteggio – sino a oggi inesplorato e inedito – intercorso tra i due a seguito della pubblicazione del saggio in questione.

Ma procediamo con ordine.

Dopo aver collaborato con le maggiori riviste letterarie del primo Novecento, quali «Il Leonardo», «La Voce», «La Tribuna», «La Ronda», Cecchi è oramai un critico affermato e dalla personalità ben definita, noto per i suoi autorevoli contributi non solo sulla letteratura italiana ma anche sulle letterature straniere, con particolare interesse al mondo anglosassone, affrontato in maniera più organica e costante. Tuttavia, inizia a dedicarsi presto anche ad autori francofoni, belgi e francesi: tra tutti, al 1923 hanno già visto la luce articoli su Verhaeren («Il Fanfulla», 1910), Maeterlinck («La Tribuna», 1911), Balzac («La Tribuna», 1911), Gautier («La Tribuna», 1911), Flaubert («La Voce», 1911 e «La Tribuna», 1921), Claudel («La Tribuna», 1912), Gide («La Tribuna», 1913), Mallarmé («La Tribuna», 1913), Rimbaud («La Tribuna», 1914), Bergson («La Tribuna», 1915), Rivière («La Ronda», 1919), Valéry («La Tribuna», 1922), Proust («La Tribuna», 1922 e «Nouvelle Revue Française», 1923)[7].

Sempre sulla «Tribuna», dal 15 luglio 1921 il critico inaugura la propria «botteguccia di libri nuovi e usati»[8], rubrica attiva fino al 30 novembre 1923 che consta di poco più di un centinaio di testi pubblicati a cadenza settimanale. Come si legge in Orlando, «la nuova rubrica sembra iniettargli da subito una carica di entusiasmo, il desiderio di tornare a leggere con quella regolarità che da qualche anno non gli riusciva più»[9]. È questo il periodo di maggiore consapevolezza critica e anche stilistica di Cecchi.

Sulle colonne del quotidiano romano del venerdì 10 agosto 1923 appare, dunque, un contributo su Max Jacob, nella versione italianizzata «Iacob», e in particolare sull’ultimo «romanzo d’avventure»[10], «Filibuth ou la Montre en or (Edit. «Nouvelle Revue Française», Paris, 1923)»[11].

Il poeta-romanziere francese, nato a Quimper nel 1876 e cresciuto nella Bretagna cattolica, sin lì aveva pubblicato i romanzi per bambini Histoire du roi Kaboul Ier et du marmiton Gauwain (1903) e Le Géant du soleil (1904); il ciclo autobiografico Matorel, in cui attraverso tre generi letterari diversi – romanzo, poesia, e infine dramma – riassume il dilemma che lo tormenta tra esoterismo e cristianesimo, passando per la conversione, sino alla finale conquista del paradiso in Saint Matorel (1911), Les Œuvres burlesques et mystiques de frère Matorel mort au couvent (1912), Le Siège de Jérusalem, grande tentation céleste de saint Matorel (1914); e ancora La Côte, recueil de chants celtiques anciens inédits (1911), prima raccolta poetica per la quale dichiarerà a più riprese una predilezione[12] per il richiamo ai temi tradizionali delle canzoni e del folklore bretone. Del resto la Bretagna rappresenta l’eredità di esperienze, immagini e storie che porterà con sé a Parigi e che non resterà sopita. Anzi, ne scaturirà tutta una rielaborazione in chiave ironica e umoristica che costituirà la cifra stilistica della sua poetica tutta.

In seguito al suo soggiorno nella capitale (1900-1921), al numero 7 di Rue Ravignan a Montmartre (dal 1907), a due passi dal centro di elaborazione artistica che fu il «Bateau-lavoir», negli anni di piena maturazione dell’Esprit Nouveau a fianco di Picasso, Matisse, Salmon e Apollinaire, vede la luce il capolavoro con cui ha raggiunto la fama, Le Cornet à dés (1917). In questa raccolta, i principi di teoria espressi nella celebre Préface de 1916 prendono corpo nei circa duecento poèmes en prose apparentemente insignificanti, con parodie strampalate e associazioni di immagini improbabili. Al 1919 risale La Défense de Tartufe, opera narrativa autobiografica[13], definita come libro-chiave della sua produzione e della sua biografia[14]; al 1920 Cinématoma, una «collection de caractères»[15], come lo stesso Jacob lo ha definito. Datano invece 1921 Le Laboratoire central e Le roi de Béotie: il primo, raccolta di poèmes en vers in cui si fondono invenzioni fantastiche e accenti lirici in un contesto ormai spiccatamente moderno, tanto da rappresentare «la piena espansione tecnica dell’Esprit Nouveau nell’interpretazione jacobiana»[16]; il secondo, assieme a Le Terrain Bouchaballe del 1922, è una raccolta di racconti che contengono aneddoti, ritratti satirici sempre associati a elementi fantastici e di tagliente umorismo[17]. Infine, non possono non essere menzionati Art poétique, manifesto della sua poetica, e Le Cabinet noir, considerato il prototipo della scrittura jacobiana[18], in cui l’autore presenta una serie di lettere più o meno fittizie, indirizzate a lettori ben precisi dell’epoca, il cui obiettivo è tracciare un ritratto satirico della società provinciale e borghese. Entrambi ancora del 1922.

Non è possibile, tuttavia, stabilire se e quale opera Cecchi conoscesse della fertile produzione jacobiana dagli esordi agli anni Venti, ma ciò che è certo è un contatto – diretto e indiretto – con i racconti Filibuth ou la Montre en or, Le roi de Béotie, recensito nell’aprile 1922 come «uno dei libri più belli che si sia letti in questi ultimi tempi, se non il più bello addirittura»[19] da Alberto Savinio sulla «Ronda», e con Le Cabinet noir, anch’esso oggetto di analisi di Savinio nella «Ronda» di luglio-agosto 1922[20].

L’elzeviro cecchiano sulla «Tribuna» (agosto 1923)

Ritornando all’elzeviro della «Tribuna», tutto sembra avere inizio da un’attenta osservazione della «fisionomia» di Max Jacob, «formidabile elemento, di cui in critica non si tiene il conto che si dovrebbe»[21], a parer di Cecchi:

zucca pelata, gote e labbra rase, grosso naso ad ampolla, due sopraccigli che sembran rinforzati col carboncino; e uno degli occhi fa il possibile per stare fermo davanti all’obbiettivo: ma l’obiettivo è stato più lesto e ha colto nell’occhio l’inflessione, il fremito, o diciamo anche soltanto l’intenzione di una strizzatina niente affatto presbiteriana[22].

Sguardo acuto, quello del critico fiorentino, se, si fa per dire, alla sola vista di un «ritratto» e di alcune delle opere dello scrittore francese, sembra aver colto l’essenza della poetica jacobiana, quel «dramma sacro» condensato in una sola «strizzatina d’occhio». Sulla scia di Savinio, il quale lo aveva incoronato «uno dei più ferventi cultori di quella specie letteraria nominata delle quelconqueries»[23], poeta di «nullerie»[24], dedito a «combinare assonanze, bisticci e complicatissime freddure, con le quali si trastullava serenamente, nella beata soddisfazione di un giocoliere giapponese»[25], Cecchi ne condivide i tratti. Ma non solo.

Egli, se è vero che non si addentra nelle opere che andrà solo citando (Filibuth, ou la Montre en or e Roi de Béotie) – forse in controtendenza con il suo modus operandi del periodo[26] e a differenza dello stesso Savinio –, riesce invero nell’obiettivo di oltrepassare questo o quel romanzo, fornendo una visione d’insieme di lucidità e perspicacia rare. Ragion per cui si suppone che abbia letto molto di più di quel che ammette nell’articolo. Del resto, a una lettura completa del contributo, nell’economia del testo tutto, la recensione del racconto del 1922 occupa solamente una decina di righe e non a caso il titolo della riedizione a cura di D’Amico citava non l’opera, bensì il nome del suo autore. Basterebbero forse queste poche righe a dar prova della grande capacità interpretativa di Cecchi, il quale mette in luce almeno due meriti dello scrittore francese. Il primo: «Ché nessuna sorpresa è più gradita di quando essendoci annunziato il solito convertito, e aspettandoci, a malincuore, di vederlo apparire in veste profetica, o almeno inquisitoria, e in atto tonitruante, si vede invece uscir fuori un umorista»[27]. Cecchi nota come, dopo «quasi quindici anni di religione» (con esattezza dal 1909 al 1923), Jacob abbia «serbato […] un viso da caffe-concerto»[28], tipico del jongleur malizioso, del funambolo, dell’acrobata che ha segnato l’immaginario della sua prima stagione poetica. E ancora nell’articolo pubblicato sulla «Tribuna» si legge come tutto ciò costituisca in fondo l’origine stessa del suo slancio creativo: «in questa umoristica e femminile gracilità, è il suo limite: ma pure la sua grazia e il suo significato»[29].

Continuando nella lettura del saggio cecchiano, si giunge al secondo pregio attribuito all’autore francese: «Ma un altro merito convien riconoscere a Max Iacob […]. Egli non abusa della religione. Non vuol convertire il prossimo. E non fa scorpacciate, almeno letterarie, di sacramenti»[30]. In sostanza, Cecchi mette in luce «il dadaista, il fumista, l’eccentrico»[31] che è rimasto in Jacob, nonostante la sua svolta verso il misticismo, considerata la conversione avvenuta nel 1909 in seguito a un’apparizione divina[32]. E, prendendo in prestito ancora le sue parole, «nei suoi libri, la religione non entra che come immaginazione o nota sentimentale, e sempre delle più logore e limate»[33]. A confermare questa sua visione disincantata e sgombra da pregiudizi, che si potrebbe pensare parziale poiché strettamente limitata agli anni Venti, saranno successivamente gli stessi biografi jacobiani, facilitati da una prospettiva più completa sull’intera parabola esistenziale del poeta. A tal riguardo, Andreu scriverà che nel 1910 coesistono spiritualmente due uomini in Jacob: quello desideroso del sacramento del battesimo, all’indomani della prima apparizione divina, e quello affascinato dall’occultismo e intento a cercare negli oroscopi una risposta al dramma della sua vita[34]. Due anime antitetiche ma compresenti che non possono non trasparire, ad esempio, nel ciclo Matorel, in cui il cristianesimo e l’esoterismo si contendono l’animo e il cuore dell’autore[35].

La prima lettera inedita di Jacob a Cecchi (fine agosto 1923)

Se il riconoscimento a posteriori della critica jacobiana non fosse sufficiente a provare la lungimiranza della lettura cecchiana, si può chiamare in causa, dopo anni di silenzio sul rapporto Jacob-Cecchi, un carteggio inedito, a partire dalla lettera inviata dallo stesso scrittore francese immediatamente dopo la pubblicazione dell’articolo italiano sulla «Tribuna», e precisamente il 20 agosto 1923[36].

L’epistola è manoscritta con inchiostro nero su due facciate, punteggiate da due fori provocati dal faldone ad anelli in cui lo stesso Cecchi soleva organizzare il proprio archivio di corrispondenze private. La data, sulla parte destra della carta, è seguita, nel rigo successivo, da una postilla cecchiana dattiloscritta in inchiostro blu che precisa l’avvenuta risposta il 26 agosto dello stesso mese[37].

Dall’intestazione si prende atto che Jacob si trova a «Roscoff», nella proprietà «Clos-Marie», nel dipartimento del «Finistère», punta più estrema nel nord della Bretagna[38]. Per di più, da una consultazione incrociata degli apparati paratestuali delle opere jacobiane, si riscontra che proprio il giorno in cui veniva pubblicato l’elzeviro cecchiano, il 10 agosto 1923, Jacob dedicava ai principi Ghika, presso cui dimorava, l’edizione definitiva del Cornet à dés[39]. Come nota a latere, occorre segnalare l’assenza di accenti in diversi luoghi[40].

Sin dalle prime battute, Jacob esprime il proprio rammarico per non poter godere appieno del saggio cecchiano per via di una conoscenza circoscritta della lingua italiana. Ciò nonostante – continua –, ne sa abbastanza per dire che la «documentation est excellente», così come i giudizi espressi.

Solo dopo gli apprezzamenti iniziali, egli menziona gli amici Savinio e Soffici, incontrati a Parigi, da cui aveva sentito parlare proprio di Cecchi. Infine manifesta al proprio corrispondente la curiosità di leggere i suoi scritti, magari tradotti in lingua francese, e chiude la lettera con rinnovati ringraziamenti e attestazioni di simpatia.

Non sembra marginale la portata dell’epistola, ancor più se si considera come il carteggio abbia avuto inizio da parte di Jacob con il solo obiettivo di elogiare l’interpretazione accurata del critico italiano e ringraziarlo per aver fatto chiarezza su un concetto a lui tanto caro.

Difatti, a proposito della tendenza a voler far coincidere necessariamente l’opera e l’autore, Jacob si era già espresso al riguardo principalmente in due occasioni. Anzitutto nella programmatica Préface de 1916 al capolavoro del Cornet à dés in cui dichiarava: «une œuvre d’art vaut par elle-même et non par les confrontations qu’on en peut faire avec la réalité»[41]. La poetica degli anni Venti ruota attorno ai principi dell’estetica della «volonté», dell’«émotion» e della «transplantation»[42], secondo cui l’opera letteraria non è una mera espressione autobiografica dei sentimenti dell’autore, ma il frutto della sua attività pensante per mezzo dello stile, che ha il compito di separarla dal vissuto di chi l’ha concepita: «le style est la volonté de s’extérioriser par des moyens choisis»[43]. Come sostiene Rodriguez, l’opera lirica moderna, quindi anche quella jacobiana, non corrisponde neanche minimamente a un’espressione diretta del proprio io, ma è piuttosto il frutto del lavoro di una volontà precisa attraverso i mezzi del linguaggio[44]. Jacob, non a caso, sentenzia: «l’art n’est que le style»[45]. Per poi proseguire: «l’œuvre d’art doit être éloignée du sujet»[46].

Affinché ciò possa realizzarsi e dunque l’opera possa allontanarsi dal sé dell’autore, essa deve essere «située», ovvero slegata dal soggetto che l’ha generata, circondata dalla «sensation du fermé»[47], da un margine («marge»)[48] di compiutezza, che genera uno «choc»[49], quindi disorienta il lettore. È proprio tale movimento di separazione, di scissione che genera nel lettore «l’émotion artistique»[50] che «n’est ni un acte sensoriel, ni un acte sentimental»[51]. L’emozione artistica è piuttosto provocata quando l’opera distrae («l’art est proprement une distraction»)[52], quando consente la trasposizione del lettore in un universo altro rispetto a quello familiare da cui proviene («il faut transplanter»)[53]; in altre parole, quando destabilizza la coscienza razionale del lettore. Difatti, «l’émotion esthétique, c’est le doute» e «le doute voilà l’art»[54].

Seconda fenomenologia testuale cruciale, che sembrerebbe confermare l’intuizione cecchiana sulla necessità di separare l’«acrobata» e il «mistico» (poiché «la fantasia è svagata e la carne inferma»)[55], è racchiusa in Art poétique, dove lo stesso Jacob definisce la propria personalità «une erreur persistante»[56]. Ecco perché l’attitudine del fantasista «ironico e colloquiale, di cui Max Iacob è maestro»[57] – a dirla con Cecchi –, si traduce nell’umorismo più tranchant e si applica alle questioni esistenziali più grevi, sempre contornate da atmosfere di angoscia e colpevolezza[58]. Si ha come l’impressione che nelle sue opere egli voglia raccontare di sé ma al contempo si rifiuti. E questo lavorio – quasi schizofrenico – tra atto di volontà e desiderio negato consente all’autore di donare al lettore un’opera in cui la distanza da chi l’ha creata può consentirgli di ritrovare invece sé stesso, di immedesimarvisi.

La traduzione del saggio cecchiano nella rivista belga «Le Disque Vert» (novembre 1923)

Qualche mese dopo la corrispondenza di Jacob e Cecchi, la rivista belga «Le Disque Vert», diretta da Franz Hellens – convinto estimatore della prima ora dell’opera jacobiana –, decide di dedicare proprio «à Max Jacob et à son œuvre»[59] un numero monografico che rappresenta il primo omaggio a uno scrittore, nella storia del mensile, e in assoluto il primo per Jacob. Tra queste pagine trova spazio un contributo di Cecchi, l’unico tra l’altro affidato a un critico italiano: si tratta della versione in lingua francese del testo apparso nell’agosto dello stesso anno sulla «Tribuna», curata da «J. B.»[60].

Gli studi sull’edizione speciale non sono mancati. Tuttavia, in questo caso, l’attenzione è stata rivolta maggiormente ai critici di origine belga, nell’intento di testimoniare la stima di letterati e studiosi, quali lo stesso Hellens, Robert Mélot du Dy, Paul Fierens, Odilon-Jean Périer, Paul Méral, Henri Vandeputte et Robert Guiette[61]. A Cecchi si registrano, invece, scarsi riferimenti, e di certo nessun approfondimento intenzionale e puntuale che indaghi la questione[62].

Sembra, allora, opportuno fare luce sul testo francese che giunge, è letto e – vedremo – anche apprezzato dallo stesso Jacob. Sostanzialmente, i contenuti rimangono invariati, se non fosse per un refuso[63] e per l’omissione di cinque sequenze: la prima riguarda l’incipit, in cui il critico non solo contestualizza il proprio intervento nella rivista romana ma anche la sua conoscenza di Jacob[64]; la seconda tralascia un giudizio personale («Per fortuna, soggiungo»)[65]; la terza, un riferimento intertestuale di connotazione “nazionale” (una citazione di Benedetto Croce sull’incapacità di far critica)[66]; la quarta esclude un’accusa nei confronti di quei critici che diventano baluardi della «religiosità»[67]; l’ultima, ancora un giudizio di valore («Meglio, assai meglio»)[68].

Quanto alla scelta lessicale, risultano rilevanti alcuni luoghi[69]: all’inizio, la traduzione predilige «photographie» all’italiano «ritratto» e, se tale scelta potrebbe confermare probabilmente l’esattezza storica dell’episodio in sé, andrebbe però a eclissare la «poétique du portrait» jacobiana[70]; continuando, dopo l’aggettivo «humoriste» Berta sceglie di inserire un punto esclamativo, laddove, invece, nel testo originale Cecchi aveva optato per un punto e probabilmente anche qui l’intenzione del traduttore potrebbe far ipotizzare la volontà di enfatizzare la chiave cecchiana di lettura umoristica; gli aggettivi dell’espressione «la religione non entra che come immaginazione o nota sentimentale, e sempre delle più logore e limate» sono resi esclusivamente da «dépouillées», ma forse l’accezione di ‘abusato’ sarà stata considerata ripetitiva.

Un altro caso interessante potrebbe esser la modulazione applicata alla frase che segue:

Et si lui-même semble résolu à ne trouver bon que ce qui s’exprime par le moyen de ces formes, on ne comprendrait pas, nous dussions souhaiter qu’il dissimulât en lui le dadaïste, le fumiste et l’excentrique, et qu’il exagérât dans ses réflexes littéraires, l’homme de foi[71].

In realtà, nel testo cecchiano si legge:

E se egli stesso sembra risoluto a non riconoscere come buono che il tanto che si esprime attraverso queste disposizioni e riesce a organizzarle e giustificarle, non si capisce perché proprio a noialtri dovrebbe toccare di nascondere in lui il dadaista, il fumista, l’eccentrico, ed esagerare l’uomo di fede[72].

Come è possibile constatare, la traduzione francese carica lo stesso Jacob dell’operazione di dissimulazione, di “mascheramento in chiave religiosa” («nous dussions souhaiter qu’il dissimulât […] et qu’il exagérât […]»), mentre Cecchi sembrava impegnarsi affinché lui, e forse anche tutti i suoi colleghi, liberassero il poeta da un’etichettatura facile e semplicistica.

Le conclusioni, però, sia dell’articolo francese che di quello italiano, sembrano di nuovo risintonizzarsi: «Egli stesso, del resto, sembra aver chiaramente indicato il modo nel quale preferisce esser letto. […] Toujours mieux écrire», viene reso letteralmente.

La seconda lettera di Jacob a Cecchi (dicembre 1923)

Che l’omaggio del «Disque vert» sia stato letto e apprezzato dallo stesso Jacob non è solo un’ipotesi assai probabile. E a provarlo, nel nostro caso, è una seconda lettera di pugno jacobiano e indirizzata a Cecchi, anch’essa inedita e ad oggi non esplorata in maniera puntuale[73].

Questa volta, la carta manoscritta con inchiostro nero è datata 5 dicembre 1923 e risulta spedita dal «Monastère de St Benoit sur Loire / Loiret»[74], in cui Jacob si trova molto probabilmente dalla fine di settembre[75]. Da quanto emerge da una delle biografie, egli non gode di ottima salute nell’autunno del ’23, a causa di una congestione polmonare, poi pleurite, per la cura della quale nascono dei diverbi con la principessa Ghika presso cui risiede a Roscoff, tanto da costringerlo a far rientro a Saint-Benoît[76].

Non può passare di certo inosservata la frase di apertura dell’epistola («Je me félicite de vous avoir inspiré cette page de haute critique lucide»), che è emblematica della stima nutrita nei confronti del critico italiano. Continuando, Jacob precisa, invece, quanto in terra d’Oltralpe i critici non abbiano saputo delimitare «la part du catholicisme et celle du profane», tema comunque assai delicato nella bibliografia jacobiana.

Segue poi una serie di elogi sulle sue pubblicazioni, tra cui gli scritti «spirituels» della «Tribuna» e della «Ronda», da cui il poeta francese evince gli sforzi per il ripristino in Italia della tradizione classica. Missione, tra l’altro, condivisa da Jacob sin dalla prefazione del Cornet à dés del 1916, in cui l’autore fa riferimento al periodo classico come a un modello da seguire, tramite l’accostamento delle nozioni di «situation» e «style»[77]. Queste, come ricorda Rodriguez, in pieno stile Esprit nouveau mirano a una classicizzazione formale dell’arte e si oppongono in maniera netta ai principi dadaisti e a quelli surrealisti, contro cui la stessa «Ronda» in Italia lottava.

A chiusura della lettera, un ultimo, accorato, ringraziamento: «Merci, mon chère confrère, et croyez à ma gratitude émue et sympathique».

Uno sguardo finale sull’opera jacobiana: per una conclusione aperta

Come in una galleria umana in stile jacobiano, in cui i ritratti e le caratterizzazioni si pongono come generi letterari privilegiati, ma ancor prima contribuiscono a creare un’autentica «botanique humaine»[78], il critico italiano Emilio Cecchi sembra aver tracciato sulle pagine dei più autorevoli giornali italiani e belgi degli anni Venti il ritratto di Max Jacob con uno sguardo lucido e acuto. Un ritratto, inteso in senso pittorico, poiché frutto di un’osservazione dei tratti fisionomici dello scrittore francese, ma anche spirituale – per dirla con Jacob –, poiché in grado di rivelare l’essenza più nascosta e talvolta inafferrabile.

La pratica cecchiana sembrerebbe così rendere omaggio ai principi estetici della caratterizzazione dei personaggi jacobiani, in cui l’osservazione scientifica del soggetto rivela in realtà la sua coscienza. Quell’«inflessione», quel «fremito», colti nella «strizzatina niente affatto presbiteriana» del saggio dell’agosto 1923, si prestano come chiave di accesso per un’analisi della personalità e dell’opera che è stata giudicata appropriata dallo stesso autore.

Ora, vero è che dietro questo gioco di sguardi[79], questa oscillazione costante tra il funambolo e il mistico, si cela probabilmente l’essenza più profonda della produzione jacobiana risalente agli anni Venti; occorre, tuttavia, anche accennare al fatto che essa subirà un’evoluzione che culminerà nei Derniers poèmes en vers et en prose, pubblicati postumi. Qui la struttura narrativa e i temi trattati convergeranno verso una coerenza, una sintesi artistica tanto dei valori estetici quanto di quelli spirituali[80]. Non più due poli opposti, ma due realtà intrinsecamente fuse, come quella della visione infernale e della visione panteista racchiuse nella libellula di Confession à la mare ou la mare au Diable et l’autre[81]. Non più solo i movimenti casuali e disordinati delle acrobazie giovanili, o il puro divertissement verbale e la jonglerie fonetica, frutto della formazione parigina, ma una sintesi dei movimenti («mouvante et immobile libellule») in cui il mistero divino è calato nel mondo quotidiano della realtà.

Appendice

Criteri di edizione

Il testo delle lettere è stato trascritto nel rispetto delle caratteristiche interpuntive e paragrafematiche degli autografi.

Per quanto concerne la punteggiatura, la trascrizione è rimasta fedele anche in caso di interpunzione lacunosa, poiché la semantica non ne rimane inficiata, trattandosi essenzialmente di punti fermi al termine di una frase. A segnalare l’inizio di una nuova proposizione è sempre l’utilizzo della maiuscola.

Tuttavia, laddove gli accenti erano assenti per omissione o lapsus, essi sono stati normalizzati per agevolare la lettura del carteggio. Nella prima epistola, si riscontrano i seguenti casi: «aout», «desagrement», «a […] connaitre», «ou», «connait», «frequentai»; nella seconda, «monastere», «felicite», «connaitre». Stesso trattamento di normalizzazione è stato riservato al tratto d’unione tra le parole «vous même» e al segno diacritico della cediglia in «recu».

Quanto all’unica sottolineatura presente nella seconda lettera e relativa al titolo di un’opera di Cecchi («Poissons Rouges»), si è deciso di renderla con il corsivo.

Merita una menzione il sistema abbreviativo, tramite il quale Jacob sembra omettere alcune lettere in posizione mediana, come nei casi di «ls» per «les», «traductes» per «traducteurs», «paysags» per «paysages».

Infine, come accennato nel saggio, vanno segnalati gli interventi diretti di Cecchi, il quale, con l’intento di organizzare il proprio archivio personale, ha praticato dei fori ai margini delle carte per catalogarle in un faldone ad anelli (da qui la presenza di alcune ricostruzioni poste tra parentesi quadre) e, nella prima lettera, ha inserito a macchina, con inchiostro blu, la data di risposta («risp: 26 agosto ’23»).

***

Clos-Marie-Roscoff-Finistère

le 20 août 1923

risp: 26 agosto ’23[82]

Monsieur

Je n’ai jamais senti autant qu’aujourd’hui le désagrément à ne pas connaître les langues étrangères et dans un pays comme la France où nul ne les connaît.

J’en sais pourtant assez pour deviner que votre documentation est excellente : et vos jugements sur moi très sûrs.

Je n’ose vous parler de vous-même. Je me souviens d’avoir très souvent entendu votre nom quand jadis je fréquentai les amis d’Italie et de Paris, le groupe futuriste parmi lequel j’ai gardé de fidèles amitiés, comme Savinio par exemple et Soffici. Mais je ne me souviens pas d’avoir vu de traductions de vos œuvres. Si vous en [avez] de traducteurs, je serais heureux de les lire.

Recevez mes remerciements et l’expression de ma sympathie

Max Jacob.

*

Monastère de St Benoit sur Loire

Loiret

le 5 dec. 1923

Cher confrère.

Je me félicite de vous avoir inspiré cette page de haute critique lucide

On n’a jamais en France si bien délimité la part du catholicisme et celle du profane en moi. Je connaissais le talent du “fragmentiste” Cecchi [qui] m’a traduit de vos Poissons Rouges des poèmes d’une atmosphère très dense et des paysages d’une stylisation raffinée

J’ai pu suivre aussi vos efforts dans La Ronda pour le rétablissement en Italie de la tradition classique

Je connaissais donc vos dons de critique et quand grâce à des amis qui me faisaient connaître vos articles si spirituels de la Tribuna. J’ai cependant été cha[nt]é par vos pages sur moi qui sont très remarquables

Merci, mon cher confrère, et croyez à ma gratitude émue et sympathique

Max Jacob.

P.S. Je profite de cette lettre pour vous remercier de votre article sur Filibuth le meilleur que j’aie reçu.

  1. A. Marchetti, Les débuts de Max Jacob en Italie, avant qu’on ne l’y traduise, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 10, 2010, pp. 8-16; A. Bedeschi, « Je suis content qu’on me connaisse en Italie ». Max Jacob et ses livres traduits en italien, ivi, pp. 17-31. Per studi precedenti, si consultino almeno: J. F. Rodriguez, Presenza di Max Jacob in Italia: da “Lacerba” a “900” (1913-1927), Padova, CLEUP, 1996; Letture di Max Jacob, a cura di S. Cigada, Milano, Vita e Pensiero, 2001.
  2. Cfr. E. Cecchi, Libri nuovi e usati, in «La Tribuna», 10 agosto 1923.
  3. Si tratta soprattutto di segni interpuntori per scongiurare, ad esempio, l’utilizzo in una stessa proposizione di due occorrenze di due punti; e ancora si segnala la variazione di «tonitruante» con «tronitruante» e di «destinato» con «destino».
  4. Cfr. E. Cecchi, Aiuola di Francia, a cura di M. D’Amico con la collaborazione di P. Citati e N. Gallo, Milano, Il Saggiatore, 1969, pp. 372-75.
  5. Cfr. Bibliografia degli scritti di Emilio Cecchi, a cura di G. Scudder, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970, p. 80.
  6. E. R. Orlando, Emilio Cecchi: i «Tarli» (1921-1923), Tesi di Dottorato in Italianistica, supervisore A. Bettinzoli, co-supervisore D. Luglio, ciclo XXIX, Università Ca’ Foscari di Venezia e Université Paris Sorbonne, 2017.
  7. Cfr. E. Cecchi, Aiuola di Francia, cit. e, ad integrazione, il rimando va al lavoro di E. R. Orlando, Emilio Cecchi: i «Tarli» (1921-1923), op. cit.
  8. E. Cecchi, Libri nuovi e usati, in «La Tribuna», 15 luglio 1921.
  9. E. R. Orlando, Emilio Cecchi: i «Tarli» (1921-1923), op. cit., p. 92.
  10. D’ora in poi, si cita dalla recente edizione proposta da Orlando che corrisponde alle intenzioni originarie dell’autore ma anche alla versione letta all’epoca dallo stesso Jacob, mentre il titolo, per agevolare la consultazione dell’apparato delle note, è tratto dall’edizione curata da D’Amico: E. Cecchi, Max Iacob, in «La Tribuna», 10 agosto 1923, in E. R. Orlando, Emilio Cecchi: i «Tarli» (1921-1923), op. cit., p. 501.
  11. Giustamente prima D’Amico, poi Orlando hanno precisato che è il 1922 l’anno di edizione dell’opera jacobiana e non il 1923.
  12. «J’aimerais que tu aimasses cette “Côte” qui est l’expression la plus pure de ma vérité intérieure», in M. Jacob, Lettres à un ami. Correspondance 1922-1937 avec Jean Grenier, Cognac, Le Temps Qu’il Fait, 1982, p. 37, lettera del 21 settembre 1924.
  13. Cigada suggerisce di evitare l’uso improprio del termine “romanzo” per questa opera, ma anche per Le Roi de Béotie, Filibuth, ou la Montre en or e Le Terrain Bouchaballe. Cfr. S. Cigada, Max Jacob, in Letture di Max Jacob, op. cit., p. 15. Per un’evoluzione della scrittura narrativa di Jacob, cfr. A. Rodriguez, Le roman chez Max Jacob: une histoire de l’art, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 21-22, 2021, pp. 13-27.
  14. Cfr. J.-M. Varaut, Max Jacob pris au sérieux, in Id., Poètes en prison. De Charles d’Orléans à Jean Genet, Paris, Perrin, 1989, pp. 185-96.
  15. M. Jacob, Avis, in Id., Cinématoma, in Id., Œuvres, a cura di Antonio Rodriguez, Paris, Gallimard, 2012, p. 717.
  16. S. Cigada, Max Jacob, in Letture di Max Jacob, op. cit., p. 5.
  17. Cfr. A. Dickow, Trouver l’intrus: le théâtre dans Le Roi de Béotie”, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 19-20, 2019, pp. 263-76.
  18. Cfr. D.-M. Thibert, Notes pour une lecture du “Cabinet noir”, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 2, 1979, p. 65.
  19. A. Savinio, “Le Roi de Béotie” di Max Jacob, in «La Ronda», IV, n. 2, aprile 1922, pp. 142-46.
  20. A. Savinio, “Le Cabinet noir” di Max Jacob, in «La Ronda», IV, n. 7-8, luglio-agosto 1922, pp. 518-19.
  21. E. Cecchi, Max Iacob, art. cit., p. 500.
  22. Ibidem.
  23. A. Savinio, “Le Roi de Béotie” di Max Jacob, op. cit., p. 143. D’ora in poi, i corsivi delle citazioni cecchiane sono fedeli all’originale.
  24. Ivi, p. 144.
  25. Ivi, p. 143.
  26. Orlando nota che «il Cecchi dei “tarli” è incline a offrire ai propri lettori puntuali riferimenti testuali e rigorose interpretazioni critiche», in E. R. Orlando, Emilio Cecchi: i «Tarli» (1921-1923), op. cit., p. 103.
  27. Ivi, p. 500.
  28. Ibidem.
  29. Ivi, p. 501.
  30. Ivi, p. 500.
  31. Ivi, p. 501.
  32. Cfr. P. Brunel, Max Jacob à Montmartre, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 17-18, 2017, p. 165.
  33. E. Cecchi, Max Iacob, art. cit., p. 501.
  34. Cfr. P. Andreu, Vie et mort de Max Jacob, Paris, La Table Ronde, 1982, p. 72.
  35. Cfr. P. Andreu, Vie et mort de Max Jacob, op. cit., p. 74.
  36. L’epistola è contenuta nel fondo Emilio Cecchi (EC.I.208.1), custodito presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze. Si coglie qui l’occasione per ringraziare anzitutto gli eredi Cecchi per la fiducia accordata e, al contempo, tutto il personale dell’Archivio nella persona della direttrice, dott.ssa Manghetti, nonché la Regione Toscana per il via libera alla pubblicazione integrale delle carte, che segue in Appendice.
  37. Purtroppo, non risulta alcun carteggio con Cecchi tra le carte dell’archivio di Max Jacob, conservate presso la Bibliothèque Jacques Doucet di Parigi. Nessuna menzione, quindi, nel faldone “Max Jacob. Lettres reçues” del fondo francese.
  38. La lettera ci consente di aggiornare la lista dei luoghi in cui ha alloggiato Jacob, puntualizzando che il 20 agosto 1923 egli si trova ancora nella dimora dei Ghika e probabilmente, solo dopo aver spedito la lettera in Italia, si è potuto recare presso i Massons. Cfr. P. Andreu, Vie et mort de Max Jacob, op. cit. p. 165; H. Dion, Les logis de Max Jacob, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 5, 1983, p. 72.
  39. M. Jacob, Le Cornet à dés, con una prefazione di M. Leiris e un dossier di É.-A. Hubert, Paris, Gallimard, 2003, p. 14.
  40. Si rimanda ai Criteri di edizione in Appendice per ulteriori dettagli.
  41. M. Jacob, Préface de 1916, in Id., Le Cornet à dés, op. cit., p. 24.
  42. Ivi, pp. 19-24. Cfr. T. Hermans, Max Jacob: Style, Situation, in Id., The Structure of Modernist Poetry, London, Routledge, 1982, pp. 118-51.
  43. M. Jacob, Préface de 1916, in Id., Le Cornet à dés, op. cit., p. 19.
  44. A. Rodriguez, Modernité et paradoxe lyrique: Max Jacob, Francis Ponge, Paris, J. M. Place, 2006, p. 58.
  45. M. Jacob, Préface de 1916, in Id., Le Cornet à dés, op. cit., p. 22.
  46. Ibidem.
  47. Ivi, p. 23.
  48. Ibidem.
  49. Ibidem.
  50. Ivi, p. 21.
  51. Ibidem.
  52. Ibidem.
  53. Ivi, p. 22.
  54. M. Jacob, Correspondance (1876-1924), Paris, Éditions de Paris, 1953, vol. I, p. 31.
  55. Le citazioni sin qui menzionate sono tutte tratte da E. Cecchi, Max Iacob, in «La Tribuna», 10 agosto 1923, pp. 500-501.
  56. M. Jacob, Art poétique, in Id., Œuvres, op. cit., p. 1349.
  57. E. Cecchi, Max Iacob, art. cit., p. 501.
  58. Cfr. A. Rodriguez, Le roman chez Max Jacob: une histoire de l’art, op. cit., p. 16.
  59. E. Cecchi, Max Jacob et l’Italie, in «Le Disque Vert», II, n. 2, novembre 1923, pp. 63-64, ora in Le Disque vert. Revue mensuelle de littérature. Le Disque vert – Écrits du Nord, Bruxelles, Jacques Antoine, 1970, pp. 557-58.
  60. «J. Berta», in J. Robaey, Max Jacob e i poeti belgi del «Disque vert», in Letture di Max Jacob, a cura di S. Cigada, Milano, Vita e Pensiero, 2001, p. 135.
  61. Cfr. Letture di Max Jacob, op. cit., pp. 133-58; S. Fishbach, «Ce fut comme une apparition»: Max Jacob et Jules Supervielle, in «Les Cahiers Max Jacob», n. 13-14, 2013, pp. 197-214.
  62. Cfr. J. Robaey, Max Jacob e i poeti belgi del «Disque vert», op. cit., p. 135 ; A. Marchetti, Les débuts de Max Jacob en Italie, avant qu’on ne l’y traduise, op. cit., p. 12.
  63. «George Eobey» invece di «George Robey».
  64. L’omissione riguarda la seguente porzione testuale: «Si può fare una specie di pendant al “colonnino” di venerdì scorso […] non incoraggia a imbarcarsi troppo letteralmente in visioni ed aspettazioni ascetiche e monacali», in E. Cecchi, Max Iacob, art. cit., p. 500.
  65. Ibidem.
  66. «Parlando di certi articoli velenosissimi […] buona lettura di fantasia»: ivi, pp. 500-501.
  67. «Non si può aver gran stima del gusto di quei critici […] voluminosa e commossa»: ivi, p. 501.
  68. Ibidem.
  69. Nel paragrafo che segue le citazioni in francese sono tratte dal testo Max Jacob et l’Italie (in «Le Disque Vert»), mentre quelle in italiano dal testo di Cecchi (in «La Tribuna»).
  70. A. Rodriguez, Le roman chez Max Jacob: une histoire de l’art, op. cit., pp. 13-27.
  71. E. Cecchi, Max Jacob et l’Italie, art. cit., p. 558.
  72. E. Cecchi, Max Iacob, art. cit., p. 501.
  73. Di nostra conoscenza è solo una citazione in Emilio Cecchi. Mostra bio-bibliografica, a cura di R. Fedi, con la collaborazione di C. D’Amico de Carvalho, (Palazzo Strozzi – Firenze 1979), Firenze, Università degli Studi di Firenze-Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux, 1979, p. 25.
  74. Lettera di Jacob a Cecchi del 5 dicembre 1923, contenuta nel Fondo Emilio Cecchi (EC.I.208.2) presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze. Anche questa carta risulta forata, come la prima (cfr. supra).
  75. Cfr. H. Dion, Les logis de Max Jacob, op. cit., p. 72.
  76. Cfr. P. Andreu, Vie et mort de Max Jacob, op. cit., p. 165.
  77. Cfr. A. Rodriguez, Le roman chez Max Jacob: une histoire de l’art, op. cit., pp. 23-24.
  78. Ivi, p. 20.
  79. A proposito della dimensione del gioco nella poesia di Jacob, si veda: M. Marchetti, L’espace du jeu dans “Le Cornet à dés”, in Max Jacob poète et romancier, Atti del convegno di Pau (1994), a cura di C. Van Rogger Andreucci, Presses universitaires de Pau et des Pays de l’Adour 1995, pp. 123-28.
  80. Cfr. M. Modenesi, «De la terre au ciel»: Max Jacob et le petit poème en prose, in Letture di Max Jacob, op. cit., pp. 101-31; C. Van Rogger-Andreucci, Poésie et religion dans l’œuvre de Max Jacob, Paris, Honoré Champion, 1994.
  81. M. Jacob, Derniers poèmes en vers et en prose, préface de J. M. G. Le Clézio, Paris, Gallimard, 1961, p. 91.
  82. Nota dattiloscritta di Cecchi.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. II)