Alla ricerca del genere letterario: poetica della mediazione e “narrativa integrale” nella trilogia di Luciano Bianciardi

Author di Daniel Raffini

«Guarda che nel libro sono pochissime le cose non vere»[1]: così scrive Luciano Bianciardi in una lettera del 18 ottobre 1962 all’amico Mario Terrosi, riferendosi a La vita agra. La predilezione per il vero va legata senz’altro alla lunga fedeltà al giornalismo, attività a cui Bianciardi si dedica a partire dal 1952 e per tutta la vita, scrivendo «quasi mille articoli su una trentina di testate diverse»[2]. Negli scritti giornalistici di Bianciardi anteriori al suo esordio di narratore è possibile rintracciare molte delle scene e dei temi che saranno al centro dei suoi romanzi. La letteratura arriva, insomma, dopo un periodo di apprendistato sulla realtà. Il passaggio dalla scrittura dal vero alla scrittura di finzione sarà graduale e mai completo; anzi, potremmo dire che proprio su questo confine Bianciardi resterà in bilico come un funambolo per tutta la sua vita. La tensione verso un difficile equilibrio tra spinte contrapposte è ciò che caratterizza la ricerca letteraria di Bianciardi e che si rispecchia nel suo percorso di scrittore e nella sua poetica.

Una prima rottura che percepiamo all’interno della scrittura bianciardiana riguarda la tenuta dell’unità del genere letterario. Bianciardi non è certo l’unico a lavorare in questa direzione, ma ciò che ci interessa sono le modalità e le ragioni che portano lo scrittore a questo risultato. Un primo elemento di rottura del genere in Bianciardi si concretizza nell’inserimento, nei suoi romanzi, di lunghe digressioni di tono saggistico. Ciò che va subito sottolineato della pratica di contaminazione messa in atto da Bianciardi è la compromissione con la realtà. Appare, dunque, interessante percorrere l’opera di Bianciardi, lo smottamento che opera nella nozione di romanzo, attraverso la lente (d’altronde suggerita dallo stesso autore) dell’impegno.

Lo sperimentalismo di Bianciardi non è fine a sé stesso, ma risponde a certe esigenze dell’epoca e alla missione che lo scrittore si pone nei confronti del reale. Per Bianciardi il presente esige nuove forme per essere narrato, forme che rendano più incisivo il discorso, che veicolino più efficacemente un messaggio di denuncia. Non è la letteratura che rappresenta la realtà, ma la realtà che entra nell’opera, la insidia e la modella secondo le proprie esigenze di rappresentazione. In questo movimento inverso – uno spostamento spontaneo della letteratura verso la realtà – sta tutta la ricerca letteraria di Bianciardi e il suo lavoro sul genere letterario. La preminenza del reale e il radicamento della letteratura di Bianciardi nelle scritture di realtà, in ciò che in termini più recenti chiameremmo non-fiction, è evidente fin dagli esordi dello scrittore. All’interno della struttura del reportage, ricco di dati e statistiche, e attento nel seguire i momenti della cronaca, I minatori della Maremma alterna inserti dal tono narrativo. D’altro verso alcuni passi – anche di carattere tecnico – di questo reportage entreranno quasi inalterati nel secondo capitolo della Vita agra, in cui viene raccontato l’incidente di Ribolla[3].

La contaminazione tra diversi linguaggi e forme della scrittura è evidente anche nei romanzi, in particolare nei tre di cui mi occuperò in questa sede: Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra[4]. Partiamo dalla definizione: romanzi. In una lettera a Tullio Mazzoncini del 9 dicembre 1969 Bianciardi scrive: «I miei cosiddetti romanzi in realtà sono dei saggi travestiti»[5]. Ritengo tuttavia che quest’affermazione non vada presa troppo alla lettera: dobbiamo piuttosto considerarla come un’attestazione della destabilizzazione del genere e una sottolineatura dell’impegno formale praticato dall’autore su questi testi. Il termine romanzo rimane valido per descrivere le tre opere di Bianciardi prese in esame, che rappresentano una forma di romanzo diversa rispetto a quella tradizionale, ma d’altronde – come si accennava – la destabilizzazione del genere non è un’operazione portata avanti solo da Bianciardi. Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra sono dei romanzi perché la loro componente principale è narrativa e il loro scopo è rappresentare in forma estetica la realtà. La mediazione estetica operata da Bianciardi conferisce letterarietà a questi testi, li distingue dagli articoli giornalistici da cui spesso derivano, e si esprime nelle forme della condensazione e dell’idealizzazione. Il romanzo di Bianciardi condensa la realtà, comprimendo le sue possibili variazioni all’interno di una vicenda spesso ricorsiva, frammentaria e incompiuta, e allo stesso tempo la idealizza perché ne estremizza le polarizzazioni, le rende palesi e le rappresenta attraverso personaggi fortemente connotati.

Qual è dunque la funzione della contaminazione? Secondo Bachtin i «generi extraletterari sono introdotti non per “nobilitarli” e “letteraturizzarli” ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria»[6]. La funzione di un inserto di carattere storico-erudito, sociologico o pamphlettistico resterebbe, dunque, quella che è nei generi di origine anche quando questi inserti sono calati in un contesto narrativo. Questo è senz’altro vero per le opere di Bianciardi, nelle quali addirittura potremmo dire che gli inserti extraletterari assumano a volte una funzione straniante. Tale funzione si avverte, ad esempio, nel momento in cui gli inserti sono posizionati come incipit dei romanzi. Il lavoro culturale si apre sotto le mentite spoglie di un saggio storico erudito, con il racconto delle diverse teorie sull’origine di Grosseto. La città, che di lì a poche pagine diventerà il luogo dell’azione della narrazione, viene connotata nell’incipit attraverso informazioni di carattere storico, erudito, etimologico. Una modalità di esordio che ritroviamo anche nella Vita agra, che si apre sull’origine e l’etimologia del nome del quartiere braidense di Milano. Tale espediente, che potrebbe essere letto come un tentativo di contestualizzazione, risulta in realtà straniante. Ripercorrere la storia e l’origine del luogo è un’operazione non funzionale allo sviluppo della narrazione, un puro esercizio di stile e sfoggio di erudizione da parte del narratore-intellettuale, che poco o niente ha a che vedere con la storia che si racconta; mentre, mettendosi nell’ottica dell’intenzione dell’autore, tali inserti hanno la funzione di offrire spunti a livello interpretativo, extranarrativo, e ci permettono di ricostruire alcuni frammenti di una poetica letteraria[7].

In entrambi i romanzi la contestualizzazione storico-geografica iniziale appare in realtà decontestualizzata, perché non appropriata al genere letterario che il lettore si era costituito come orizzonte d’attesa; ma, d’altro canto, questi incipit atipici aiutano a mettere subito in evidenza l’ibridazione del genere e abituano il lettore ad allontanarsi dal proprio orizzonte d’attesa. Tra i due, l’incipit del Lavoro culturale mantiene un tono narrativo e meno straniante rispetto a quello della Vita agra. Nel primo romanzo il narratore, infatti, presentando le varie teorie sull’origine della città, propone al contempo un piccolo spaccato – non esente da toni satirici – della società cittadina dell’epoca, offrendo un aggancio utile all’avvio dell’azione del romanzo.

La connotazione storico-erudita iniziale sfuma ben presto nella narrazione, ma altri esempi di contaminazione emergono nel corso dell’opera. Nel terzo capitolo del Lavoro culturale assistiamo all’ingresso in scena del personaggio di Marcello e nuovamente il testo devia verso la speculazione storica e sociologica. L’esperienza bellica vissuta dai due fratelli permette loro di riflettere meglio sul senso della guerra, sul fatto che sono sempre i contadini a combatterla e che da questi contadini loro, gli ufficiali, sono diversi in tutto tranne che nella paura delle bombe. È il riflesso di un Paese spaccato a metà:

Perché c’era voluta la guerra a farci capire che esistono due Italie? Da una parte l’Italia dei contadini, quelli che lavorano, e poi fanno le guerre; dall’altra l’Italia del signor generale, del vescovo, del federale. E noi cosa stiamo a farci? Dobbiamo scegliere, o di qua o di là. Noi abbiamo studiato, diceva Marcello, ma quel che abbiamo imparato non servirà a niente, se non ci aiuta a capire le ragioni dei contadini; se non ci aiuta ad evitare di doverceli portare dietro un’altra volta, domani, e morire insieme senza nemmeno esserci guardati in faccia, senza mai esserci capiti[8].

La narrazione vira verso l’analisi sociologica, l’impellenza della realtà porta lo scrittore gradualmente verso una scrittura non finzionale, facendo strabordare il testo dai confini del romanzo verso i territori del saggio. In questo non manca, ancora una volta, una carica etica: Marcello sostiene che «la cultura non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male»[9]. Possiamo individuare in questa affermazione la stessa propensione di Bianciardi, che a questo scopo vota la propria scrittura: «Ogni cultura dimostra la sua forza e la sua modernità solo confrontandosi con tutta la realtà storica e sociale che ci sta dinanzi, solo se riesce a liberare tutti, a liberare i contadini, a capirli, a farceli simili a noi»[10]. Ma questo non basta: dall’altra parte ci sono – come vedremo – le ragioni dell’arte, da bilanciare.

Da uno spunto di realtà nascono lunghe riflessioni che variano verso le tonalità della scrittura argomentativa, come le considerazioni sullo statuto del cinema tra le arti che appaiono nel quarto capitolo, quando il narratore riflette sulla storia della letteratura intesa come una preistoria del cinema:

Del resto anche i grandi poeti del passato, pur non avendo avuto a loro disposizione il mezzo tecnico che si chiama cinema, del cinema avevano previsto ed anticipato la tecnica espressiva […]. Tutta la storia della poesia italiana noi avremmo potuto riscriverla da un nuovo angolo visuale, come storia di un cinema senza macchina da presa[11].

Ciò che è in discussione è ancora una volta una visione di poetica, un’idea di letteratura come occhio sulla realtà: non occhio impersonale e neutro (come voleva il Neorealismo), ma uno sguardo che si avvale di determinate tecniche per restituire la realtà connotandola dei significati che in essa sono insiti, ma che potrebbero sfuggire a una visione veloce. «Io non sono un fotografo, ma un pittore, non sono un tecnico ma (scusami tanto) un artista, non voglio fare dei ritratti somiglianti, ma espressivi, non voglio comprenderti […] ma solo creare una immagine viva e (scusa ancora la superbia) esteticamente bella»[12]: così si esprimeva Bianciardi ai tempi dei Diari universitari. La letteratura in questo senso avrebbe una funzione arricchente sulla realtà: è questo, mi sembra, uno degli scopi della scrittura di Bianciardi. La letteratura deve essere avvicinata al cinema, poi, anche perché esso è un mezzo espressivo popolare[13]. Di qui l’autore si riaggancia alla narrazione, esce dalla speculazione, e passa a raccontare della fondazione del cineclub a Grosseto.

Nel quinto capitolo del Lavoro culturale incontriamo un’altra digressione non richiesta dal contesto narrativo, stavolta sulla storia del libro. Spesso, come in questo caso, le digressioni erudite di Bianciardi non si amalgamano alla narrazione, prendono spunto da essa, virano verso la saggistica, perdono la caratterizzazione della voce narrante: non hanno una funzione diegetica, ma tendono a destabilizzare il genere, l’orizzonte d’attesa e lo stesso impianto narrativo, venendo percepiti come malfunzionamenti del sistema. La digressione sulla storia del libro scende in dettagli tecnici sui materiali e racconta l’evoluzione storica dell’oggetto libro. Potrebbe stare a segnalare l’attenzione che chi legge dovrebbe porre sulla forma del libro, un invito a riflettere sul romanzo e sulla sua strutturazione – che in Bianciardi è piuttosto destrutturazione. L’unica funzione narrativa della digressione è sostenere la tesi secondo cui la nascita della stampa ha dato inizio alla crisi del libro e, con l’aumentare delle copie disponibili, sono iniziati a mancare i lettori: «Nell’antichità era il lettore che cercava il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore»[14]; ma la frase invita ancora una volta a riflessioni che esulano dalla narrazione in senso stretto. Notiamo che le digressioni erudite di Bianciardi seguono spesso uno schema ricorrente: l’autore parte da lontano (un’origine antica, l’etimologia del nome) per spiegare un fenomeno contemporaneo. In queste acrobazie temporali s’insinua in molti casi l’ombra dell’ironia. La funzione satirica delle digressioni si svela apertamente nel sesto capitolo, che a livello formale introduce un’ulteriore novità: il capitolo è del tutto scorporato dalla narrazione e si presenta come un piccolo pamphlet satirico, che prende in giro il linguaggio fatto di formule vuote e ripetitive del lavoro culturale, dandone allo stesso tempo un esempio concreto nel suo farsi in quanto prodotto di lavoro culturale.

La destabilizzazione del genere letterario assieme alla forte valenza metanarrativa di molti passaggi dei romanzi presi in esame porta a interrogarsi su quale fosse l’obiettivo letterario di Bianciardi, a chiedersi a quale tipo di narrazione tendesse la sua speculazione. Ci viene incontro in questo senso un passo dal secondo capitolo della Vita agra. Qui l’azione della scrittura del romanzo entra direttamente in scena e viene commentata:

Non fu così, certamente, ma così avrei potuto pensare e scrivere, dieci anni or sono, la serata in casa del pittore con Ettore e Carlone. L’avrei pensata e l’avrei scritta come un bitinicco arrabbiato, dieci anni or sono, quando il signor Jacques Querouaques forse non aveva nemmeno imparato a tirarsi su i calzoni. L’avrei fatto, ma mi mancò il tempo e mi mancarono i mezzi[15].

Il momento della scrittura, ci dice insomma Bianciardi, ne influenza le modalità, in primo luogo in risposta agli stimoli esterni, ai modelli letterari contemporanei, e cita gli esponenti della Beat Generation e Jack Kerouac, seppur storpiandone umoristicamente i nomi[16]. La sequenza metaletteraria prosegue nelle pagine successive e ci aiuta a definire meglio il progetto letterario di Bianciardi, che potremmo riassumere nella formula da lui utilizzata di «narrativa integrale»[17]:

Vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, e tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti e cittadini e congedati all’esercito, insomma interi. […] Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle[18].

“Integrale”, nel senso che rimanda a una realtà intera e complessa; “integrale”, nel senso etico di integro (la radice latina è la stessa: intĕger), cioè una narrazione che non scende a compromessi; “integrale”, che integra, riassume, una realtà più ampia attraverso episodi fortemente significativi. In questo termine leggiamo il proposito, che assume tratti utopici, dell’autore: condensare nella pagina la società contemporanea e i mutamenti in corso, dipingere (non fotografare) quello che vede e quello che prova sulla sua pelle; riportare i lettori, in quanto essere umani, alla loro responsabilità di fare i conti con la realtà.

Ciò che rimane da capire è come Bianciardi e i suoi personaggi si collochino all’interno di questa realtà, in particolare in relazione alle correnti culturali del tempo. Ci vengono incontro in questa ricerca alcuni personaggi secondari che, attraverso brevi incursioni dialogiche all’interno dei romanzi, offrono lo spunto per un’interpretazione metaletteraria che ancora una volta ci permette di chiarire il senso che Bianciardi vuole dare alla sua scrittura e il suo posizionamento culturale. Il primo episodio di questo tipo è nel quarto capitolo del Lavoro culturale. Presso il cineclub appena fondato interviene «un critico venuto apposta da Roma»[19], un intellettuale di sinistra che tiene una conferenza sui film sovietici. Interrogato da Marcello su alcune questioni tecniche concernenti Ladri di biciclette, il critico romano boccia il film perché l’operaio rappresentato da De Sica «non è inserito nelle lotte del lavoro dei nostri giorni»[20]. Il critico guarda solo il contenuto, per lui «Ladri di biciclette interessa solo nella misura in cui riesce a porre in forma popolare un problema d’importanza nazionale»[21]. Ma per Marcello questo non basta: il contenuto, che si concretizza nel caso di questo film nel problema della disoccupazione, non può bastare; un prodotto artistico va considerato, sì, nel suo carattere di opera popolare e di impatto sociale, ma a questo va aggiunta la tecnica, anch’essa potenzialmente rivoluzionaria. Non basta insomma dire le cose, ma occorre trasporle in un sistema estetico che le tenga insieme, che ne consideri il senso complessivo e lo condensi in una vicenda, anche disorganica, come sono quelle dei romanzi di Bianciardi. Marcello individua il «nocciolo drammatico dell’opera del De Sica» nella «solitudine dell’uomo»[22], che il critico romano aveva rifiutato in quanto elemento che allontana dal popolare.

Una funzione simile a quella del critico romano è rintracciabile in un personaggio secondario della Vita agra. Arrivato a Milano, il protagonista-narratore del romanzo vuole scrivere della strage di Ribolla, ma dal giornale presso cui collabora gli viene risposto che la notizia è troppo vecchia. Si rivolge allora al dottor Fernaspe, direttore del quindicinale di spettacolo per cui lavora[23]. La risposta del dottor Fernaspe sulla questione di Ribolla è tutta letteraria, come se le vite e le morti dei minatori non fossero altro che la trama di un romanzo, da analizzare secondo i metodi della critica e da collocare all’interno delle ultime tendenze letterarie:

“Vedi, è un buon tema, e sono sicuro che tu sapresti svilupparlo bene, ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo”.

“Come sarebbe” gli chiesi.

“Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori dal pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?” Feci cenno di sì, lui prese un’oliva dal bancone e continuò:

“Lì c’è già un netto accenno di passaggio dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla storia. La terra trema è un classico, no? Un classico del neorealismo. Insomma più avanti non si va, col mondo del lavoro, i pescatori, la presa di coscienza dei loro problemi eccetera. Il verismo di Verga diventa neorealismo e si esaurisce così. Il tuo tema, stando almeno a come me lo presenti, è sempre nel vecchio filone neorealista, e perciò è superato. Senso invece segna una svolta e un nuovo avvio, è già realismo, già storia. Da Boito, attraverso Fattori, si arriva alla constatazione della fine di un’epoca, che richiama la fine della nostra epoca”[24].

Con la messa in parodia di questo personaggio, Bianciardi pone il problema di una narrazione che riporti le vicende degli ultimi fuori dalla stilizzazione e li reinserisca in un racconto che sia in primo luogo di denuncia, in cui l’autore e il lettore siano effettivamente coinvolti, in prima persona[25].

Attraverso i due episodi, quello del critico romano e quello del direttore Fernaspe, Bianciardi mostra la propria distanza dagli intellettuali a lui contemporanei. La cultura del suo tempo sembra essere schiacciata, nella rappresentazione polarizzata e idealizzata che qui se ne dà, tra due visioni opposte: una, rappresentata dal critico romano, poco attenta al problema estetico e teorico della rappresentazione; l’altra, di cui è portatore Fernaspe, lontana da una vera e profonda partecipazione alla questione sociale, con l’appiattimento della realtà a narrazione e la conseguente perdita di forza della denuncia. Questi sono i due estremi tra cui si posiziona Bianciardi, alla ricerca di quel difficile bilanciamento di cui si parlava in apertura. Un posizionamento che ricorda quello del critico Michail Bachtin, che si era trovato in Russia a operare in un contesto contraddistinto da due scuole teoriche contrapposte: il Formalismo, che sgancia l’opera dal contesto, e il Realismo socialista, per il quale l’arte deve essere espressione della classe operaia. È lo stesso dilemma in cui si sente Bianciardi: la necessità di trovare una mediazione tra le ragioni dell’arte e l’impellenza della realtà. Per Bachtin, come per Bianciardi, «la poetica non può essere staccata dalle analisi socioculturali, ma non può neppure venire dissolta in esse»[26]. I modi della rappresentazione, insomma, sono influenzati dal contesto sociale e culturale a cui si riferiscono. In Estetica a romanzo Bachtin sostiene ancora che:

L’autonomia dell’arte è fondata e garantita dalla sua partecipazione all’unità della cultura, dal fatto che in essa occupa un posto non soltanto originale, ma anche necessario e insostituibile; in caso contrario, questa autonomia sarebbe semplicemente arbitrio e, d’altro lato, si potrebbe imporre all’arte qualsiasi fine e destinazione, estranei alla sua natura nudamente fattuale[27].

Bianciardi cerca una mediazione tra opposte spinte e rappresenta questa ricerca attraverso i suoi personaggi. Nella sua definizione di romanzo polifonico, Bachtin si riferisce alla società russa in frammentazione, all’interno della quale ogni personaggio rappresenta una voce distinta. Come abbiamo visto, nei romanzi di Bianciardi intervengono personaggi secondari a portare visioni diverse, anche se al centro rimane la voce principale, che sia quella sdoppiata di Marcello e Luciano in Il lavoro culturale e L’integrazione o quella unica della Vita agra. La necessità di una voce forte rientra nella pratica autofinzionale di Bianciardi, ma allo stesso tempo è frutto della materia rappresentata, una società che si va polarizzando in due estremi, le due Italie di cui parla Marcello nel Lavoro culturale. Una realtà polarizzata che tenderà poi a omologarsi, come ci racconterà di lì a poco Pier Paolo Pasolini. Tra le due Italie c’è l’Italia di mezzo, che è l’osservatorio scelto da Bianciardi per guardare ai fenomeni in atto e cercare una mediazione che non sia appiattimento e omologazione (come invece sarà). La centralità della questione è dimostrata dal fatto che nell’Integrazione torna nuovamente la teoria delle due Italie. Parlando della provincia, di Grosseto, Marcello la definisce «una fetta d’Italia che sta scomparendo»:

E sai perché sta scomparendo? Perché è troppo soddisfatta della sua composta perfezione, e non riesce a trovare alcun aggancio con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente. Non trova un aggancio con questa, e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame, che campa con centomila lire annue per famiglia, che non sa né leggere né scrivere. Fra queste due Italie per diverso motivo depresse, come suol dirsi oggi, la nostra Italia di mezzo non riesce a trovare la mediazione. Star lì è comodo quanto vuoi, ma non serve a nulla. Io credo che noi due siamo venuti quassù proprio per questo, per tentare la mediazione[28].

Il discorso di Marcello riguarda la società, ma anche la letteratura: Marcello e Luciano in quanto letterati cercano una mediazione che è prima di tutto culturale ed estetica, così come Bianciardi. La grossa iniziativa che percorre le pagine dell’Integrazione è la scrittura di una «vera storia d’Italia», composta da «una vastissima serie di inchieste approfondite, ciascuna su di un aspetto della realtà italiana»[29], con lo scopo di «scavare pezzo per pezzo il territorio del paese: una specie di moderna campagna archeologica, vastissima»[30]. La questione della sociologia torna spesso nel romanzo e rappresenta il motivo di scontro tra Marcello e la direzione: uno scontro che potremmo leggere come contraltare diegetico delle digressioni sociologiche extradiegetiche presenti anche nel Lavoro culturale e nella Vita agra.

La necessità di una mediazione, nella società è nella letteratura, è il motivo per cui il romanzo di Bianciardi deve avere un punto di vista forte, un personaggio (fortemente autobiografico, o meglio autofinzionale)[31] che serva da osservatore dei fenomeni sociali in atto. Il principio dialogico del romanzo polifonico bachtiniano è rispettato attraverso le posizioni ideologiche (ideologemi) di vari personaggi che entrano in rapporto, appunto dialogico, con il protagonista.

Per Bachtin come per Bianciardi, la voce del personaggio-ideologema è riconoscibile in primo luogo attraverso la lingua. Nei primi due romanzi la voce autofinzionale centrale si sdoppia nei fratelli, due voci vicine ma non del tutto assimilabili, a rappresentare un tormento interiore dell’autore. Il ricomporsi dei due personaggi in un unico nella Vita agra rappresenta allo stesso tempo una riconciliazione e una sconfitta: l’autore si riconcilia con sé stesso nel momento in cui accetta la sconfitta della propria missione sociale. Quella che spesso viene considerata una sconfitta letteraria è, in realtà, una sconfitta della storia. Nell’Italia degli anni Sessanta la mediazione di cui parla Marcello nell’Integrazione non si è realizzata. Il finale del romanzo sposta l’azione al presente, rendendo palese «la doppia ottica “allora-ora”»[32] di cui ha parlato Rita Guerricchio: «Da allora sono passati due anni, e molte cose sono cambiate»[33], esordisce il nono capitolo. L’integrazione è avvenuta, alla grande impresa culturale si sostituisce il lavoro imprenditoriale nel campo dell’editoria tecnica. Da intellettuale militante, Luciano diventa un «dirigente in formazione»[34], pienamente integrato nel sistema del miracolo economico: «Inutile dire quindi che sono contento delle mie responsabilità: ho la sensazione, finalmente, di essere nel giusto, nel gioco anzi, di partecipare costruttivamente alla vita di questa grande città»[35]. Marcello invece si ritira a vita privata, continua a lavorare saltuariamente solo per mantenersi, saltando da un progetto all’altro e dandosi all’alcool. Sono le due anime dello stesso Bianciardi, tra integrazione e autodistruzione: come sappiamo prevarrà, tristemente, la seconda.

Il finale dell’Integrazione segna il distacco dalla missione della mediazione. Nella Vita agra il protagonista, dopo il fallimento dell’idea di far saltare il torracchione (idea che non andava di certo nella direzione di una mediazione), finisce per rimanere schiacciato dalla nuova società dei consumi, del cosiddetto miracolo economico: vive in disparte, nascosto nel suo appartamento a lavorare sulle traduzioni, e spende tutti i ricavi per mantenersi un posto in quella società che disprezzava. Wanda Santini ha fatto notare che La vita agra può essere definito «un fenomeno rilevante nel tessuto non solo letterario della cultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta» e rappresenta «un esempio di risposta stilisticamente individuata agli stimoli offerti dalle trasformazioni economico-sociali dell’epoca»[36]. Possiamo affermare, dunque, che il romanzo è riflesso di un fenomeno sociologico e fenomeno sociologico esso stesso. Si rafforza, così, l’idea che la sconfitta di Bianciardi non sia tanto una sconfitta dello scrittore o del suo proposito letterario, quanto la disfatta di quella realtà a cui il romanzo dava voce in maniera problematica. Gli effetti del romanzo di Bianciardi sulla società circostante, sul target sociale di riferimento e infine sullo stesso autore ci permettono di guardare a La vita agra come a un oggetto significativo all’interno del campo sociale e culturale dei suoi anni. L’accenno di Santini alla risposta «stilisticamente individuata» riporta ancora l’attenzione sulla rilevanza della ricerca di Bianciardi in termini di genere letterario e linguaggi. L’interpretazione della Vita agra come oggetto sociologico rimanda, inoltre, all’ideale bianciardiano di narrativa integrale, in cui autore e lettore sono direttamente coinvolti.

Ci sarebbe infine la questione personale: cosa rappresenta per l’uomo Luciano Bianciardi la sua letteratura? Una domanda che la forte carica autobiografica di questi romanzi non ci permette di ignorare. Si percepisce anche a una prima lettura come i romanzi abbiano per il loro autore una funzione catartica, esorcizzante, ma come di una catarsi al rovescio, in cui l’oggetto di liberazione diventa luogo di stratificazione del male. In realtà, la funzione della scrittura per Bianciardi va oltre questo, è una funzione autoriflessiva e oggettivante dell’io. Bianciardi guarda sé stesso e il mondo da fuori, con lo sguardo esterno di un «io estroflesso»[37], come un Dio guarderebbe le sue creature degeneri (ma non dimenticando che tra esse c’è lui stesso). In un passo dei Diari universitari parlando della sua impossibilità di credere in Dio, Bianciardi scriveva: «Anch’io devo oggettivare l’esuberante mio spirito, porre fuori di me una parte di me, per guardarla come un oggetto, per appoggiarmici come un bastone»[38]. Mentre il credente guarda a sé stesso attraverso Dio, Bianciardi non può: «Posso e devo restare qui, attaccato alla terra, con l’occhio rivolto alla storia e alla realtà. Storicismo? No, è una disgrazia. Eppure sono sempre un metafisico, sono sempre un uomo»[39]. È come se l’autorappresentazione bianciardiana fosse la risposta all’impossibilità di credere in Dio, il romanzo un surrogato della metafisica e allo stesso tempo una maledizione.

Per tornare alla destabilizzazione del genere letterario, in conclusione occorrerà dire che, se nel Lavoro culturale essa si esprimeva principalmente attraverso la contaminazione, con La vita agra l’autore porta a compimento un altro aspetto, che nel primo romanzo appariva meno forte: la forma romanzo perde la propria linearità, diventa ricorsiva. I capitoli non si dispongono necessariamente in ordine cronologico, ma possono rappresentare punti di vista o focus diversi su uno stesso momento: «Costruirò la mia storia a vari livelli di tempo, di tempo voglio dire sia cronologico che sintattico»[40], scrive Bianciardi parlando della narrativa integrale. E ancora: «Proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa del tavolino»[41]. Un proposito che in effetti possiamo riconoscere nella scrittura della Vita agra, in cui troviamo concetti espressi in un capitolo ripetuti, magari in forma condensata, in altri passaggi del romanzo, come se si trattasse di letteratura orale, in cui certe formule e certi argomenti aiutano la memorizzazione dei contenuti (vero refrain del romanzo è, ad esempio, il calcolo delle spese mensili del protagonista: entrate e uscite, alla ricerca di una quadra). La ricorsività è anche tematica: La vita agra descrive una vita fatta di giornate che vanno avanti in maniera meccanica, uguali alle precedenti e alle successive, in una lotta contro i tempi serrati dell’economia neocapitalista e in attesa della morte intesa come liberazione[42]. Il cambiamento della forma del romanzo rispecchia un cambiamento sociale. Tra Il lavoro culturale e La vita agra è avvenuta la definitiva sconfitta degli ideali e delle speranze sorte dopo la Resistenza e ha prevalso una nuova realtà di marca spiccatamente neocapitalista. Per questo nella riedizione del 1964 del Lavoro culturale Bianciardi decide di aggiungere un nuovo capitolo, a mo’ di finale: Ritorno a Kansas City, cioè ritorno a Grosseto. Come nella conclusione dell’Integrazione, anche in questo nuovo finale del Lavoro culturale la narrazione effettua un salto in avanti e racconta il mutamento avvenuto nel giro di pochi anni.

Nella commistione tra realtà e narrazione, tra contenuto e tecniche espressive, stanno la ricerca estetica e la poetica letteraria di Bianciardi. Un percorso certamente difficile, che però attraverso la sua stessa esposizione in chiave metaletteraria assume oggi ai nostri occhi una compiutezza e un senso. Bianciardi ha saputo indicarci il proprio cammino mentre cercava di percorrerlo, additando la meta nel momento stesso in cui continuava a inciampare negli ostacoli che da uomo e da scrittore trovava lungo il percorso. Il romanzo di Biancardi si assume il difficile compito di tenere insieme in una struttura non più adatta, e per questo adattata, le forze disorganiche e le spinte centrifughe di una materia (la realtà) che pure si ostina a voler rappresentare. Il risultato è uno sgretolamento del genere stesso, ma non il suo collasso; quello di Bianciardi è un romanzo in tensione, una tensione che è insieme estetica, linguistica e narrativa. Il romanzo diventa un contenitore inadatto, uno stampo in cui viene riversata una materia liquida, ma in fin dei conti l’unico strumento ancora servibile.

Il romanzo è per Bianciardi la forma per rappresentare la realtà, ma tutte le possibilità che la scena letteraria a lui contemporanea propone gli sembrano false o peggio dannose. E allora opta per una forma di narrazione che definisce “integrale”, la quale risulta estremamente problematica nella sua applicazione, ma che trova il suo equilibrio nella tensione e nel suo autodenunciarsi come esperimento, come momento di una ricerca, attraverso un continuo discorso metaletterario più o meno esplicito. La difficoltà emerge, forse, alla lettura e a volte è stata considerata un limite dello scrittore; tuttavia, Bianciardi ha tentato con questi romanzi una difficile mediazione, ponendosi un problema teorico fondamentale e complesso, quello di una rappresentazione che, allo stesso tempo, fosse fedele alla realtà e riuscisse a rendere giustizia delle ragioni dell’arte, in un momento per di più in cui la realtà e l’arte vivevano una fase di forti mutamenti e incertezza. Su questo dobbiamo basare la valutazione – o meglio la rivalutazione – di un testimone e interprete unico per la sua lucidità e il suo progetto letterario, che ha saputo restituirci, senza fare sconti a sé e agli altri, un momento di passaggio cruciale per la storia sociale e culturale italiana.

  1. M. Terrosi, Bianciardi com’era (Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano), Grosseto, Il paese reale, 1974, p. 39.
  2. M. Coppola, A. Piccinini, La mosca sul muro, in L. Bianciardi, L’antimeridiano. Opere complete, vol. 2, Milano, Isbn, 2008, p. VII.
  3. Per questi aspetti cfr. D. Raffini, Il lavoro tra reportage e narrazione. Il caso della miniera, in «Νότος. Espaces de la création: arts, écritures, utopies», n. 4, 2017, pp. 4-21 (https://notos.numerev.com/articles/revue-4/235-il-lavoro-tra-reportage-e-narrazione-il-caso-della-miniera: ultima consultazione 21/05/2022).
  4. Carlo Varotti individua nella «tendenza verso l’ibridazione delle forme che, innestando sul tessuto narrativo frequenti inserti critico-saggistici, produce una scrittura divagante e composita» (C. Varotti, Luciano Bianciardi, la protesta dello stile, Roma, Carocci, 2017, p. 74) uno dei caratteri che uniscono i tre romanzi bianciardiani.
  5. L. Bianciardi, Da alcune lettere a un amico grossetano, in «Confronti», II, 3, ottobre 1972, p. 33.
  6. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 2001, p. 218.
  7. Carichi di significato extranarrativo sono, ad esempio, i frequenti rimandi all’origine delle parole e alla lingua in generale. Scrivono in proposito Coppola e Piccinini: «L’ossessione per la filologia […] Le parole sono l’idea fissa al centro del suo delirio autoreferenziale: smascherarne il senso, mostrare il sipario e la buca del suggeritore; additare i vezzi e le mode verbali non serve ad altro che a demistificare una volta di più la figura dell’intellettuale impegnato, moderno» (M. Coppola, A. Piccinini, Luciano Bianciardi, l’io opaco, in L. Bianciardi, L’antimeridiano. Opere complete, vol. 1, Milano, Isbn, 2005, p. XIX).
  8. L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 39.
  9. Ivi, pp. 39-40.
  10. Ivi, p. 40.
  11. Ivi, p. 51.
  12. L. Bianciardi, Diari universitari, in Id., L’antimeridiano. Opere complete, vol. 1, op. cit., pp. 1917-18.
  13. L’idea di un’arte popolare di ascendenza gramsciana ricorre spesso nei romanzi di Bianciardi, così come nella sua vita: basti pensare all’impresa del cineclub. Sul rapporto Gramsci-Bianciardi cfr. R. Gerace, Il mito mancato. Bianciardi e Gramsci, in Una vita agra. Luciano Bianciardi dal «Lavoro culturale» a «Aprire il fuoco», a cura di Arnaldo Bruni e Elisabetta Francioni, Milano, Ex Cogita, 2018.
  14. L. Bianciardi, Il lavoro culturale, op. cit., p. 65.
  15. L. Bianciardi, La vita agra, Milano, Feltrinelli, 2019, p. 28.
  16. Sui rapporti tra Bianciardi e la Beat Generation ha scritto Giuseppe Nava: «Il personaggio bianciardiano, già deluso in partenza dalla conclusione negativa dell’esperienza politica di provincia, appare votato a ripercorrere indefinitamente parabole di scacco e frustrazione, che lo avvicinano alle posizioni degli scrittori americani della “beat generation” e dei “giovani arrabbiati” inglesi: non per nulla Bianciardi sarà il primo a far conoscere in Italia questi autori, traducendo nel 1961 una loro antologia per l’editore Guanda. Come loro, il protagonista di Bianciardi vive tutto nel presente, ormai scisso dal passato e incapace di progetti per il futuro dalla condizione in cui è murato. Non gli resta, per sentirsi vivo, che la rabbia, come reazione istintuale ed estrema difesa. […] Sotto il profilo letterario quella rabbia trova il suo equivalente in una forma di espressionismo linguistico e di contaminazione degli stili, che è stata ricondotta a Gadda, ma che in realtà discende soprattutto dal suo lavoro di traduzione, da Kerouac e Miller in particolare, e che si apparenta all’opera di Mastronardi» (G. Nava, L’opera di Bianciardi e la letteratura dei primi anni Sessanta, in Luciano Bianciardi tra Neocapitalismo e contestazione, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 17).
  17. Alcuni commentatori hanno ridimensionato l’importanza di questa sequenza metaletteraria a causa del suo carattere ironico e a tratti caricaturale, e dell’incertezza su a chi attribuire la voce narrante. Credo tuttavia che le indicazioni e le citazioni estrapolate possano essere considerate come espressione o almeno specchio dell’idea di poetica dello stesso Bianciardi, in particolar modo perché collegate – come si vedrà – ad altri elementi di poetica che emergono dai romanzi.
  18. L. Bianciardi, La vita agra, op. cit., pp. 29-30.
  19. L. Bianciardi, Il lavoro culturale, op. cit., p. 54.
  20. Ivi, p. 55.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Il personaggio è ispirato a Guido Aristarco, direttore della rivista «Cinema Nuovo», presso la quale Bianciardi lavora per alcuni anni a partire del 1956 (cfr. C. Varotti, Luciano Bianciardi, la protesta dello stile, op. cit., p. 12).
  24. L. Bianciardi, La vita agra, op. cit., pp. 47-48.
  25. L’episodio viene contestualizzato da Varotti: «Il romanzo è del 1962, ma la scena va collocata nel 1955, al tempo della famosa e dibattutissima polemica su Metello (1955) di Pratolini: l’episodio che avvia la crisi definitiva del neorealismo e dei suoi moduli narrativi» (C. Varotti, Luciano Bianciardi, la protesta dello stile, op. cit., p. 11).
  26. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 2002, p. 53.
  27. M. Bachtin, Estetica e romanzo, op. cit., p. 6.
  28. L. Bianciardi, L’integrazione, Milano, Bompiani, 1076, pp. 30-31.
  29. Ivi, p. 33.
  30. Ivi, p. 34.
  31. Per definire la costruzione dell’io dei romanzi bianciardiani come autofinzionale ci viene incontro – tra le altre – l’analisi di Massimo Coppola e Alberto Piccinini: «Bianciardi usa sempre la prima persona, ma il suo personaggio ricostruito è una funzione della realtà, non è mai vera autobiografia; non c’è autocoscienza, né monologo interiore compiuto. L’io di Bianciardi è un’ombra stesa tra l’io autobiografico nascosto e l’assenza di un vero alter ego letterario. È una maschera, un’autocostruzione, una dissimulazione. Una sorta di io opaco, in definitiva, la sua unica risorsa espressiva ed esistenziale» (M. Coppola, A. Piccinini, Luciano Bianciardi, l’io opaco, op. cit., p. VII).
  32. R. Guerricchio, La vita agra, in Luciano Bianciardi tra Neocapitalismo e contestazione, op. cit., p. 70.
  33. L. Bianciardi, L’integrazione, op. cit., p. 101.
  34. Ivi, p. 104.
  35. Ibidem.
  36. W. Santini, L’Italia agra delle antilingue: forme della dis-integrazione nella narrativa di Luciano Bianciardi, in «Carte Italiane», VIII, 2, 2012, pp. 94-95.
  37. M. Coppola, A. Piccinini, Luciano Bianciardi, l’io opaco, op. cit., p. VII.
  38. L. Bianciardi, Diari universitari, op. cit., p. 1922.
  39. Ivi, p. 1923.
  40. L. Bianciardi, La vita agra, op. cit., p. 28.
  41. Ivi, p. 29.
  42. La ricorsività in realtà interessa l’intera trilogia: molti sono gli elementi ricorrenti all’interno dei romanzi e di raccordo tra le diverse opere, pur considerando il cambiamento di struttura della Vita agra, come ha fatto notare Rita Guerricchio: «Il narrato, si direbbe, cresce ricalcando ossessivamente se stesso, e in grazia di una struttura che, volendo considerare l’intera trilogia, si rivela costruita per accumulo o moltiplicazione a raggera dei motivi, dove cioè alla stratificazione lineare che contrassegna al loro interno Il lavoro culturale e L’integrazione, siano subentrati nella Vita agra, l’informale e il composito» (R. Guerricchio, La vita agra, art. cit., p. 73).

(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)