La narrativa di Luciano Bianciardi può essere schematizzata suddividendola in due grandi filoni: quello pseudo-autobiografico, attraverso cui l’autore racconta le vicissitudini del lavoratore “quartario”, ovvero dell’intellettuale integrato al meccanismo di produzione capitalistico; e quello risorgimentale, coerente sul piano tematico ma composito su quello estetico.
Infatti, i cinque romanzi cui si fa riferimento risultano piuttosto eterogenei quanto a motivazioni e modalità della scrittura: se in alcuni (La battaglia soda[1] e Aprire il fuoco[2]) prevalgono le ragioni letterarie, che presiedono alla creazione di opere interessanti dal punto di vista stilistico e strutturale, in altri (Da Quarto a Torino[3], Daghela avanti un passo![4] e Garibaldi[5]), invece, predomina l’intento divulgativo di Bianciardi, da un lato interessato alla diffusione di una conoscenza più minuziosa del Risorgimento, dall’altro attanagliato da preoccupazioni economiche che lo portano a un uso “mestierante” della scrittura.
Nonostante tali disomogeneità, questo secondo filone pare costituire, nella sua complessità, il polo di una dialettica interna allo scrittore, nella quale il rapporto con la materia risorgimentale rappresenta un momento di fuga, e di reazione, rispetto a un presente deludente, che si invera nella sconfitta progressiva del Bianciardi uomo, votato all’autodistruzione.
Le storie relative all’Unità d’Italia consentono all’autore toscano una sorta di regressione all’infanzia e alle prime sue letture, e dunque a uno stato di purezza non più recuperabile: la nostalgia che a tratti affiora nei romanzi risorgimentali è, dunque, prima ancora che per un’epoca in cui erano possibili schietti eroismi, per l’esperienza culturale di quel lettore antico, bambino, in cui Bianciardi si immedesima, sfuggendo il disastro della sua vita presente.
Tra le letture dell’infanzia-adolescenza spicca, ovviamente, I Mille del grossetano Giovanni Bandi[6], veicolato allo scrittore dal padre Atide, riutilizzato da lui in varie opere e, soprattutto, spina dorsale della Battaglia soda.
In un’intervista uscita proprio nell’anno di pubblicazione di questo libro, il 1964, Bianciardi, riferendosi ad alcune celebrazioni del 25 aprile, fornisce un’ulteriore chiave di lettura del suo impegno in questa narrativa risorgimentale:
A un poeta, Alfonso Gatto, il compito di celebrare l’anniversario della Liberazione: giustissimo, perché solo attraverso i modi della poesia si è certi di poter celebrare evitando le secche della retorica. Il rischio c’è, palese, e noi ci cademmo cento anni or sono, quando si fece un mazzo d’ogni pianta, e si arrivò all’oleografia vieta: Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, Pio IX, che nel mondo di là giocano a carte e brindano alle fortune d’Italia. Bastava e avanzava per liquidare il Risorgimento, quello vero, nella tradizione popolare[7].
L’operazione di Bianciardi è, dunque, un’operazione in favore della verità, quantomeno di una verità storica che egli tenta di raccontare, in forma romanzesca, al grande pubblico sulla base di fonti plurime e non scontate; e l’esigenza intima di questa ricerca non sta soltanto nell’interesse per la storia risorgimentale, ma anche, e forse più, in quella sensazione di tradimento degli ideali originari (in questo caso resistenziali) che attraversa il dopoguerra italiano, viepiù un autore, come il nostro, che si sente irrimediabilmente schiacciato da una realtà che, in gioventù, sognava e si illudeva di poter costruire diversa.
Il Risorgimento, intanto, è per Bianciardi lo specchio più sincero dello spirito di divisione che da sempre anima gli italiani, evidente già nelle eroiche giornate milanesi:
Non si deve però credere con questo che i milanesi fossero fra di loro d’accordo su tutto. E meno ancora che, sul proprio avvenire, fossero d’accordo tutti gli italiani. Lo sappiamo bene, quanto sia e sia stato difficile mettere d’accordo fra di loro gli italiani. Anzi, i pareri, a Milano e altrove, erano, come sempre accade nelle faccende politiche, abbastanza discordi. E ancora oggi è piuttosto difficile orientarsi in tanta ricchezza – e divergenza – di idee, ideali, programmi[8].
Chi ha senz’altro chiaro, almeno nell’interpretazione bianciardiana, l’obiettivo dell’Unità d’Italia è Giuseppe Garibaldi, vero eroe positivo della narrativa risorgimentale dell’autore toscano, che ne traccia un profilo generoso: l’eroe dei due mondi è intanto un militare a un tempo ardimentoso e sagace, che praticamente non conosce vera sconfitta sul campo e che usa, nella battaglia, anche tutta la propria umanità, come evidente nel rifiuto di partecipare al sanguinoso, e per nulla eroico, assedio di Capua; d’altro canto, egli è anche ritratto come persona schietta e sincera, aliena da qualsiasi calcolo politico, al contrario di un Cavour interessato soltanto allo sviluppo del suo Piemonte e addirittura di un Mazzini che scopriamo machiavellico calcolatore.
Per l’anarchico Bianciardi è, insomma, la politica a tradire costantemente Garibaldi e in questa sua visione del Risorgimento quale opera di eroi sfruttata da un potere sempre riproducentesi non possiamo non vedere una lettura anche del dopoguerra italiano, con gli ideali della Resistenza traditi dalla neonata repubblica in salsa post-fascista e democristiana.
Il parallelo è evidente quando lo scrittore traccia il profilo di taluni garibaldini stravaganti, canaglie o suppergiù trovatesi nella mischia più o meno casualmente, ma non per questo meno eroiche, come non meno eroici, ad esempio, sono i partigiani «peggiori possibili»[9] che Italo Calvino afferma di aver voluto tratteggiare nel Sentiero dei nidi di ragno in reazione rispetto a certe derive anti-resistenziali:
Desiderato Pietri, corso di nascita, ma livornese di elezione, sergente nell’esercito sardo, aveva disertato per imbarcarsi sul Piemonte, non come guerriero, ma come cameriere, e con l’idea precisa di far soldi alle spalle della spedizione. Fu capace, durante la traversata, di farsi pagare anche un bicchier d’acqua. Aveva in tasca un bel passaporto francese, e intendeva piantare Garibaldi e la sua banda appena sbarcati in Sicilia. «Io sono qui,» diceva, «per fare il mestier mio e non per acchiappare il fumo». Ebbene, Desiderato Pietri fu il primo morto della spedizione. Sul campo di Calatafimi gettò la borsa, con dentro sessanta napoleoni d’oro, racimolati con le sue strozzinerie, si mise in testa un fez rosso, si inginocchiò a pregare, poi, primo e solo, marciò contro i cacciatori borbonici.
Pietro Becarelli si imbarcò (e non fu il solo) a Talamone. Chiedeva l’elemosina sulla strada di Orbetello, e lo convinsero a farsi soldato: meglio morire d’una fucilata che di fame, gli dissero. Bartolomeo Marchelli a Genova campava facendo il gioco dei bussolotti: a Salemi diventò il migliore istruttore delle reclute siciliane[10].
Per quanto riguarda il paese Italia che i garibaldini intendono unire, Bianciardi non tace circa le differenze profondissime esistenti tra le varie aree, evidenti a un contatto tra gli uomini che ci rende, ad esempio, l’immagine di un Meridione esotico agli occhi dei volontari; ed ancor più esotica appare la Sicilia, quasi Africa:
Pochissimi di loro sapevano cosa fosse, dove fosse, come fosse questa isola meravigliosa. Si ripensa subito a una bella pagina dell’Abba. Imbarcato sul Lombardo egli fruga nei suoi ricordi di bravo ragazzo “uscito dal fondo di una valle ignota, allevato da buoni frati, figlio di gente quieta, adorato dalla madre” e cerca una qualche immagine della Sicilia. Ma trova poco più che reminiscenze libresche: i prigionieri di Nicia liberati dai siracusani, dopo che questi ebbero sentito cantare i cori greci; la piazza di Palermo, dove fu fatto l’autodafé di fra Romualdo e di suor Gertrude; le parole del padre, che gli raccontava l’anno della fame, l’11, quando “la gente si nutriva di certe mandorle grosse come un pollice, portate di lontano … di lontano … dalla Sicilia … una terra che brucia in mezzo al mare”. […] Può darsi che l’Abba, qui e altrove, ami far della letteratura, ma lo stato d’animo pare autentico, ed altre testimonianze ce lo confermano: la Sicilia, per i Mille che salpavano da Quarto, era la terra di Vulcano, del fuoco, di Archimede, di Cerere, l’isola dei Vespri. E fra le tante cose che mancavano a bordo dei due vapori bisogna annoverare anche le carte topografiche della Sicilia. A Genova non si riuscì a trovarle[11].
L’esotismo del Meridione agli occhi dei piemontesi non impedisce l’emergere, nei romanzi di Bianciardi, di uno schietto riconoscimento delle potenzialità del Sud all’atto dell’Unità, potenzialità soverchiate da una cieca piemontesizzazione che finirà col relegare il Mezzogiorno a un’immagine stereotipata e inerte, come anticipato dalle parole di un capitano milanese:
«[…] Ah, se il Borbone non avesse ciurlato nel manico, al momento buono! Ah se fosse stato lui alla testa della rivoluzione, nel quarantotto. Tutto avea egli quel che bisognava per fare l’Italia! Per fare l’Italia, voglio dire, bella e ricca. Gli ingegni, le braccia, la natura benigna, una corona antica, il sostegno degli intellettuali più illuminati, una capitale grande e bella. Eccovi qua un piccolo esempio,» e c’indicava l’abitato di Pozzuoli con un ampio gesto della mano guantata, mentre il carrozzino correva sulla strada, «eccovi un piccolo esempio di ciò che l’Italia potrebb’essere. Bellissima e industre.» Tacque, gli scorsi nel volto un’ombra di apprensione, poi ricominciò: «E non sarà. Voglia il cielo ch’io sia cattivo profeta, ma anche in questo i piemontesi prevarranno, lasciando ai napoletani solamente i maccheroni e i mandolini, e pigliandosi il resto»[12].
All’immagine dell’Italia unita Bianciardi contrappone, dunque, l’immagine paradossale di un’Italia allo stesso tempo omologata e lacerata.
L’Italia è omologata nella misura in cui il processo di piemontesizzazione ha appiattito, seppur non completamente, le molteplicità presenti in epoca pre-unitaria in uno standard a misura del conquistatore:
«È veramente un tesoro che non deve andare perso,» intervenne il capitano Guzzetti «e invece io vedo il risico che nell’unità si abbia l’annacquamento delle parti. Già lo vediamo nelle fogge del vestire, che appena due o tre anni or sono eran diverse, e oggi già s’avvicinano a somigliarsi tutte, sì che non succede spesso di distinguere a colpo d’occhio un lombardo da un napoletano. Ho paura che sarà la stessa cosa per le canzoni, ho paura che presto gli italiani canteranno tutti la stessa zuppa, e Dio voglia che non sia una zuppa scipita e senza sugo. Sentite quant’è bella questa musica napoletana! Bella appunto perché unica e schietta. E così sono belle le mie canzoni brianzole, che dicono un’altra anima, e anch’essa di popoli, e sono belle le serenate veneziane, e le furlane che ballano nel contado di Treviso, e sono belli i vostri arguti stornelli toscani …»[13].
L’Italia nasce, invece, lacerata per le sue disparità socio-economiche, evidenti nel racconto che Bianciardi fa, anticipandolo rispetto al tempo della narrazione, di una guerra al brigantaggio paragonata per durezza e crudeltà alla guerra di riconquista fascista della Libia.
Egli legge con chiarezza nel fenomeno, ad un tempo, la conseguenza di un processo unificatorio unilaterale e forzato, e l’incipit dell’annosa e irrisolta “questione meridionale”, a sua volta comprendente una pluralità di problemi dell’Italia contemporanea:
Parve a molti un miracolo quello che si compiva a Torino nella primavera del ’61: ventidue milioni di italiani improvvisamente uniti in un sol regno. E miracolo fu veramente, ma insieme tremendo equivoco, che costerà agli italiani cento anni di dolorosissima storia: la guerra dei briganti, le sommosse del ’66, l’immagine radicata nel popolo dello stato oppressore, quello che esige le tasse e chiama a far la guerra, l’analfabetismo mai sconfitto, mezzo milione di emigranti che ogni anno lasceranno questa “porca Italia”, l’unità più volte messa in pericolo ad ogni crisi nazionale, il razzismo interno che sempre ha serpeggiato sottile nel costume nostro, la mafia, la miseria. Son tutte cose che oggi si riassumono con due parole: “questione meridionale”; è un eufemismo che piace ai sociologi, perché non dice la tragedia a cui soltanto allude. A tale “questione” noi non abbiamo ancora saputo dare una risposta, e son passati cento anni da quando essa cominciò; da quando in Torino si proclamava solennemente l’Italia unita[14].
Per comprendere fino in fondo tale lacerazione, l’opera di divulgazione e conoscenza dei meccanismi dell’Unità diventa indispensabile:
La verità è che il Risorgimento fece l’Italia quale poi ce la siam trovata noi italiani, lacerata e divisa. Divisa fra italiani ricchi e italiani poveri. Fra italiani del nord e italiani del sud. Fra italiani dotti e italiani analfabeti. Tutte divisioni che oggi noialtri italiani, faticosamente, penosamente, stiamo cercando di colmare. Ma per far questo dobbiamo sapere la verità su come l’Italia fu fatta. Dobbiamo insomma studiare sul serio la storia di quel “miracolo” che fu il nostro Risorgimento[15].
Ciò è ancora più importante se si pensa all’uso strumentale che può farsi della storia, piegandola a proprio piacimento, come lamenta l’alter ego Giuseppe Bandi:
Chi volesse saperne di più, vada a trovare le pagine che in questi anni si scrissero in sovrabbondanza dai pezzi ben di me più grossi, ma io dubito ch’egli verrà a capo di molto, perché anche se tutti costoro dichiaravano fin dal titolo di voler gittare lume sulle ombre di Custoza, in verità abbuiarono ciascuno la sua parte, al solo scopo di scansare le proprie colpe e di far cadere la vergogna sul groppone altrui[16].
Tuttavia la proposizione che Bianciardi fa del Risorgimento non può essere considerata puramente didascalica, né si può pensare che l’autore nutra una convinzione piena nel possesso di una verità di fronte alla quale egli si pone sempre in atteggiamento scettico, anche quando è lui stesso, come autore, a proporla al lettore. Bianciardi è invece ben conscio della falsificazione che sempre si insinua nel tragitto tra fatto e parola:
Tra le cose e le parole si situa insomma una brutale deformazione: ma siamo di fronte a una divaricazione necessaria tra oggetto e rappresentazione: frutto degli irrimediabili processi di falsificazione del reale con i quali il potere ammanta i propri interessi. […] La vocazione tragica della storia acquista allora i toni del grottesco, si perde nei rivoli laterali della farsa[17].
La deformazione grottesca della Storia funge innanzitutto da spia per l’individuazione della sempre incombente alterazione della realtà da parte del discorso, ancor più se questo discorso è codificato e cristallizzato da un potere istituzionalizzato rispetto al quale l’anarchico Bianciardi si pone in aperta contraddizione; e tale distorsione oleografica agisce, come già detto, nella memoria del Risorgimento come in quella della Resistenza.
La deformazione grottesca risulta, inoltre, funzionale al rispecchiamento del passato in una contemporaneità che trova la propria allegoria nel Risorgimento bianciardiano, come ben nota Emilio Tadini:
La rivoluzione mancata del Risorgimento diventa quasi una trasparente allegoria per parlare della situazione italiana quale Bianciardi poteva vederla e giudicarla nella propria attualità. È un po’ come se, parlando dei garibaldini, parlasse dei partigiani. Come se, parlando di certi politici e di certi militari piemontesi, Bianciardi parlasse del potere democristiano. Come se, parlando di una deviazione del Risorgimento, parlasse di una deviazione della Resistenza[18].
Nella Battaglia soda Bianciardi, come dice Carlo Varotti, esprime «l’amarezza della normalizzazione»; e la normalizzazione, tradimento del momento rivoluzionario, di rottura, rappresentato tanto dal Risorgimento quanto dalla Resistenza, passa intanto attraverso la vacuità, l’esteriorità dei cambiamenti formalmente attuati dalle strutture statali nascenti, come nel caso, più volte citato dal nostro nei suoi romanzi, dell’abolizione dei titoli nobiliari, di fatto ininfluente dal punto di vista sociale[19].
La motivazione di questa paradossale sconfitta nella vittoria viene individuata da Bianciardi, come già accennato, nel tradimento sempre perpetrato dal potere politico, anche da quello che tramite la rivoluzione si insedia, nei confronti degli spiriti eroici, come ad esempio il generale Villarey: «Uomini di questa tempra combattevano dunque nelle nostre file, e ancor oggi se io ripenso a tanto valore sprecato per l’inettitudine e la malignità di chi tutti sappiamo, mi vien voglia di mordermi i gomiti oltreché le mani»[20].
Oltre al potere politico, iconizzato nella figura di Camillo Benso di Cavour, il tradimento dell’eroico spirito rivoluzionario di tanti protagonisti del Risorgimento, da Garibaldi in giù, va imputato all’altra grande gerarchia contro cui si scaglia l’anarchico Bianciardi, ovvero quella militare, sulla cui inettitudine egli si sofferma più volte, con toni che variano dal drammatico al satirico.
Tuttavia la visione bianciardiana dei rapporti di forza all’interno dell’universo risorgimentale e della dialettica insistente tra normalizzazione e rivoluzione non è mai così netta, così manichea, ma sempre problematica, come risulta evidente, ad esempio, dalla vicenda di Giovanni Nicotera, uno dei sodali di Carlo Pisacane prima, di Giuseppe Garibaldi poi:
[…] questo Nicotera, che era un barone calabrese, fece poi una bella carriera politica, e diventò ministro dell’interno del governo italiano. Come a dire, capo della polizia. E fu un capo della polizia particolarmente duro nel domare le sommosse operaie. Ecco un’altra contraddizione su cui sarà bene riflettere un momentino: non sempre chi è rivoluzionario a vent’anni rimane rivoluzionario a sessanta[21].
Il seme del tradimento del moto rivoluzionario è, dunque, insito nel moto stesso e in chi lo esercita, perché le esperienze ci modellano e ci traviano, tanto che il vero spirito rivoluzionario, per il nostro, può essere identificato soltanto nei giovani, di ogni epoca e di ogni luogo:
Tutte le rivoluzioni del mondo non prenderebbero mai l’avvio se i primi a muoversi non fossero i ragazzi. Sta agli uomini andargli dietro, poi. Furono ragazzi, nel 1917, le prime vittime della fucileria zarista; furono ragazzi, scugnizzi, quelli che nel ’43 diedero l’avvio alla cacciata dei tedeschi da Napoli; e sempre ragazzi, anzi monellacci, quelli che nel ’56 a Budapest si avventarono con in mano una bottiglia di benzina contro i carri armati sovietici[22].
Pensando ai giovani e alla loro carica rivoluzionaria, e considerando l’insieme della narrativa risorgimentale del nostro, che si colloca principalmente sul finire degli anni ’60, alcuni esegeti, spinti in questa interpretazione da talune affermazioni dello stesso Bianciardi[23], hanno notato come lo scrittore, soprattutto in Aprire il fuoco, finito di scrivere nel marzo 1968, anticipi e in qualche modo prefiguri l’età della contestazione studentesca, una nuova rivoluzione che egli osserva da lontano, dal suo rifugio-carcere di Rapallo.
Più correttamente (anche alla luce di un’attenta disamina delle posizioni, mai troppo tenere, dell’autore grossetano sul ’68), Gian Carlo Ferretti legge nel romanzo bianciardiano un atteggiamento tipico dell’intellettuale italiano, ovvero quell’impeto rivoluzionario ben presto voltato in pessimismo e infine in disillusione:
Quell’anticipazione comunque, va ricondotta alla particolare sensibilità con cui Bianciardi rivive un atteggiamento ricorrente nell’intellettualità italiana: il vagheggiamento di eventi rivoluzionari, e il pessimismo sui loro esiti finali (dal Risorgimento alla Resistenza), con relativa caduta delle illusioni che ne erano scaturite. Riproponendo così, nella sua fantasiosa ricostruzione risorgimental-contemporanea, un motivo che in modo esplicito o implicito è già presente in tutte le sue opere precedenti[24].
La disillusione del Bianciardi uomo, dunque, se da un lato può essere inscritta all’interno di un carattere ben definito della schiatta dell’intellettuale italiano, dall’altro non può non comprendere nella sua delusione anche i momenti che avevano risvegliato le speranze, dal Risorgimento narrato alla Resistenza osservata da vicino, momenti che paiono mostrare incisa già al loro interno la sconfitta che sarà.
In questo senso l’Italia emerge dal racconto bianciardiano come caratterizzata da una dicotomia di atteggiamenti piuttosto marcata, segnata dall’oscillazione tra illusione e disillusione, tra eroismo e tradimento, tra rivoluzione e normalizzazione, tra diversità e omologazione, in una visione sì dialettica, ma orientata al prevalere dei secondi momenti, quelli della sconfitta, dell’amarezza e della nostalgia per quel che avrebbe potuto essere e non è stato.
Al di là di questo, mi piace chiudere con un brano di Daghela avanti un passo! che, in tempi di accese dispute su immigrazione, principio di nazionalità, ius soli, mi pare particolarmente significativo e rappresentativo della peculiarità del racconto risorgimentale di Bianciardi:
[…] Napoleone III se ne tornava a casa sua. Ma lasciava in Italia duemila morti. I loro nomi sono scritti, dal primo all’ultimo, sul piedistallo del monumento che all’imperatore eressero i milanesi. Li possiamo leggere ancora, al parco: quattro generali, una decina di colonnelli, una trentina di altri ufficiali, centinaia di umili soldati. Non tutti si chiamano, di nome, Jean, o Pierre, o Auguste. No, ce ne sono di quelli, e non pochi, che si chiamano Alì, Mohammed, Gamal. Tutti nati in Algeria: costituivano i reparti di prima schiera, e venivano chiamati gli zuavi. È bene rammentarselo: all’unità d’Italia hanno contribuito anche loro[25].
- L. Bianciardi, La battaglia soda, Milano, Rizzoli, 1964, ora in Id., L’antimeridiano. Opere complete, Milano, Isbn, 2005, vol. I, pp. 735-923. ↑
- L. Bianciardi, Aprire Il fuoco, Milano, Rizzoli, 1969, ora in Id., L’antimeridiano. Opere complete, op. cit., vol. I, pp. 925-1113. ↑
- L. Bianciardi, Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, Milano, Feltrinelli, 1960, ora come Da Quarto a Torino in Id., L’antimeridiano. Opere complete, op. cit., vol. I, pp. 279-464. ↑
- L. Bianciardi, Daghela avanti un passo, Milano, Bietti, 1969, ora in Id., L’antimeridiano. Opere complete, op. cit., vol. I, pp. 1115-1306. ↑
- L. Bianciardi, Garibaldi, Milano, Mondadori, 1972, ora in Id., L’antimeridiano. Opere complete, op. cit., vol. I, pp. 1435-1548. ↑
- G. Bandi, I Mille, da Genova a Capua, Firenze, Salani, 1902, poi Milano, Parenti, 1955. ↑
- L. Bianciardi, Vigili su se stessi oltre che sul nemico, in «Le Ore», 7 maggio 1964, ora in Id., L’antimeridiano. Opere complete, op. cit., vol. II, pp. 956-57. ↑
- L. Bianciardi, Daghela avanti un passo!, op. cit., p. 1123. ↑
- I. Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, vol. I, p. 1192. ↑
- L. Bianciardi, Da Quarto a Torino, op. cit., p. 303. ↑
- Ivi, pp. 292-93. ↑
- L. Bianciardi, La battaglia soda, op. cit., pp. 842-43. ↑
- Ivi, pp. 845-46. ↑
- L. Bianciardi, Da Quarto a Torino, op. cit., pp. 457-58. ↑
- L. Bianciardi, Daghela avanti un passo!, op. cit., p. 1306. ↑
- L. Bianciardi, La battaglia soda, op. cit., p. 894. ↑
- C. Varotti, Bianciardi riscrittore del Risorgimento, in La parola e il racconto. Scritti su Luciano Bianciardi, a cura di Carlo Varotti, Bologna, Bononia University Press, 2005, p. 118. ↑
- E. Tadini, Introduzione a La battaglia soda, Milano, Bompiani, 1997, ora in L. Bianciardi, L’antimeridiano. Opere complete, vol. I, pp. 2065-66. ↑
- Cfr. L. Bianciardi, Da Quarto a Torino, op. cit., p. 369, e Id., Daghela avanti un passo!, op. cit., p. 1228. ↑
- L. Bianciardi, La battaglia soda, op. cit., p. 895. ↑
- L. Bianciardi, Daghela avanti un passo!, op. cit., p. 1183. ↑
- Ivi, p. 1126. ↑
- Cfr. L. Bianciardi, Il nuovo Bianciardi è un ricordo del passato, intervista a Corrado Stajano, in «Avvenire», 22 aprile 1969, p. 5, e L. Bianciardi, Rimpatriato a Grosseto, intervista a Omero Marraccini, in «Il Telegrafo», 15 luglio 1970, p. 3. ↑
- G. C. Ferretti, La morte irridente. Ritratto critico di Luciano Bianciardi uomo giornalista traduttore scrittore, Lecce, Manni, 2000, p. 98. ↑
- L. Bianciardi, Daghela avanti un passo!, op. cit., p. 1192. ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)