Mi son dunque fatto uom di penna, con ben poca bravura ma almeno con netta la coscienza che può anche quella servire al bene della patria, quando sia adoprata ben aguzza e intinta nell’inchiostro della verità, perché la storia non s’arresta, e se gli anni e le forze non mi basterebbero più oramai a scendere sul campo, e la sciabola e il revolver son lì tra i trofei […] poss’io ben infiammare con lo scritto l’animo dei giovani alle battaglie future. […] Mi son fatto uom di penna e l’adopro come meglio so per propagare la verità e l’amore d’Italia […][1].
Con queste parole, Bianciardi assegna allo scrivere una funzione ben precisa, corrispondente, all’incirca, alla funzione ideologica di cui parla Genette[2], ma anche, quasi, sostitutiva dell’azione, come aveva affermato Alfieri nel trattato Della tirannide. Rivolgendosi alla libertà, Alfieri diceva, infatti:
io, che per nessun’altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli[3].
E, se l’io narrante, un maggiore dell’esercito garibaldino poi confluito nell’esercito piemontese, ricorda di essere stato costretto ad abbandonare il comando del suo battaglione a seguito della decisione del consiglio di disciplina, dall’altra parte, convinto che la penna è uno strumento «non meno efficace [della spada] se adoprato per il verso giusto e con la punta bene inzuppata e aguzza», ritiene che «per smettere la spada si dovea prima compiere la bella opera»[4]. Agire è perciò necessario, e per farlo è importante una solida preparazione, come si evince dal titolo dell’opera, citazione di un passo dell’Arte della guerra di Machiavelli, riportato in esergo: «Questi sono i modi che si possono tenere da una battaglia, quando dee passare, sola, pei luoghi sospetti. Ma la battaglia soda, senza corna e senza piazza, è meglio»[5].
Agire in maniera efficace e intelligente e ricordarlo attraverso lo scrivere sono, quindi, due facce della stessa medaglia, sulla base dell’idea, anche machiavelliana, della storia maestra di vita. E il Risorgimento, come è noto, è il periodo su cui Bianciardi ha maggiormente puntato la sua attenzione ‒ in quanto origine dei mali del presente ‒, fin dal 1952, quando ha pubblicato sulla «Gazzetta» di Livorno un articolo sulla diversione di Zambianchi[6]: Bianciardi vi ricostruisce, attraverso «una solidissima ricerca documentaria»[7], gli eventi susseguitisi tra l’assedio di Capua e la battaglia di Custoza, mettendo in evidenza gli sbagli, i limiti di un processo storico troppo spesso liquidato in maniera frettolosa. «Tornare al passato», dunque, per «capire» meglio «il presente»[8] e rendere palese «la nuda verità, sempre invisa a’ poltroni ma se Dio vuole amatissima dai galantuomini»[9]. La nota polemica verso una certa letteratura del Risorgimento è dichiarata in modo esplicito, chiamando in causa i destinatari, veri protagonisti del testo, di cui Bianciardi cerca il consenso:
Chi volesse saperne di più, vada a trovare le pagine che in questi anni si scrissero in sovrabbondanza dai pezzi ben di me più grossi, ma io dubito ch’egli verrà a capo di molto, perché se anche tutti costoro dichiaravano fin dal titolo di voler gittare lume sulle ombre di Custoza, in verità abbuiarono ciascuno la sua parte, al solo scopo di scansare le proprie colpe e di far cadere la vergogna sul groppone altrui[10].
Bianciardi intreccia, dunque, un dialogo tra fonti storiche e testi letterari; alla lettura e allo studio di Custoza, del generale Alberto Pollio, Bianciardi abbina quelli di Da Custoza in Croazia. Memorie di un prigioniero di Giuseppe Bandi[11] e di Le armi l’amore di Emilio Tadini, componendo un lavoro che solo apparentemente è un romanzo storico. Se i riferimenti al presente («Quelle due parole aggiunte non poteano certo piacere ai lumaconi della politica piemontese, i quali allora come sempre vollero che l’Italia si facesse per i loro tortuosi intrighi»[12]) potrebbero spiegarsi alla luce dell’esempio manzoniano, la precisione con cui vengono indicate le date dei vari eventi («L’ultima volta che parlai con il gran vecchio fu il primo novembre del sessanta, […]»; «il giorno undici di quello stesso novembre arrivò il foglio […]»; «Così quel glorioso anno mille e ottocento sessanta terminava con una triste sciagura, […] Io sbarcai a Livorno la vigilia di Natale»)[13] e, pure, la frequente alternanza fra presente e passato[14] rimandano, invece, al genere memorialistico e all’autobiografia. È, cioè, come se Bianciardi volesse partire da un’«esperienza personale per sviluppare una teoria sociale che assume caratteri generali»[15]. La data riportata nell’ultima pagina (giugno 1964), quella reale di stesura del testo, svela difatti la finzione narrativa e mette in evidenza come i caratteri di vari generi letterari siano amalgamati e inseriti in un contesto straniante.
L’io narrante riferisce alcuni fatti in cui si è trovato coinvolto allo scopo di rendere note alcune sue opinioni (l’avversione per il clero, per la politica piemontese, l’amore per la giustizia), avvicinandosi così al genere saggistico. Bianciardi, d’altronde, crede che «la distinzione tra narrativa e saggistica […] ha una mera ragione di comodo, e crea confini quanto mai labili e inconsistenti»[16]. I procedimenti adottati in questa direzione sembrano rifarsi alle due tipologie di trattato cinquecentesco. Così, per esempio, egli prima enuncia un concetto generale («Il lettore avrà già capito che a me i tribunali portarono sempre disgrazia»[17]), poi presenta degli episodi per dimostrarlo. Altre volte, invece, espone, in linea con la forma del trattato dialogato, alcuni concetti, come avviene nella conversazione fra il signor Montella e il capitano Guzzetti. Le parole di quest’ultimo mostrano la persistenza, nel Novecento, di tutta una serie di problemi rimasti insoluti in seguito al processo risorgimentale:
Dice il marchese d’Azeglio che fatta l’Italia bisogna fare gli italiani, e così dà per sottinteso che tocca a’ piemontesi di foggiare gli italiani a loro immagine e simiglianza. E così sbaglia, perché gli italiani han da farsi da soli, portando ciascuno la sua pietra all’edificio. Unità deve significare non già il prevalere di una parte sull’altra, ma invece il concorrere delle due al proposito comune. Vi dirò che purtroppo questo non sta succedendo, e la guerra dei briganti ne è una prova: i piemontesi ne esciranno di certo vittoriosi, ma allora noi avremo che il Settentrione trionferà sul Mezzodì, che le due parti non si saranno unite, ma la seconda soggetta alla prima. Avremo scacciato i tiranni solo per diventare noialtri tiranni a noi stessi, e i soverchiati non se ne dimenticheranno, farneticando tuttavia della rivincita, e io mi vorrei sbagliare, ma temo proprio che non basterà un secolo di travagli per sortire da questo viluppo che chiamammo miracoloso, senza badare punto alle vipere che ci si nascondevano nel mezzo. È sempre stata questa la brutta sorte delle guerre civili[18].
In altri casi, i fatti attestano alcuni principi di validità universale, evidenziati dai giudizi del narratore, che, in tal modo, esercita la sua funzione ideologica, di commento, esponendo una sorta di filosofia spicciola nata dall’esperienza quotidiana: «sempre e per tutto il troppo stroppia»; «Confesserò che mi sentivo fiero di questa lode che ci veniva dal popolo, insegnando il latino che la voce del popolo è la voce di Dio»; «Così va il mondo, ma gli uomini dovrebbero pensare due volte a quel che stanno per dire, e non aprire la bocca tanto per dare fiato, a rischio di sbugiardarsi subito nel fatto»; «spesso accade appunto così nell’amicizia, dove si cerca un completamento di sé e non una rassomiglianza»; «E così mi vo ripetendo che il cuore delle persone dev’essere parecchio fondo, se non riesci a leggere nemmeno ciò che si contiene in quello di chi t’è stato tanto vicino, e tanto bene t’ha voluto sempre»; «Così è fatto l’uomo, che alle volta agogna una cosa, la chiede, l’ottiene, ma nel tempo di mezzo fra il chiedere e l’avere si scorda il suo desiderio, o anche lo rinnega»; «il miglior condimento è volersi bene»[19].
Altre sezioni hanno, invece, carattere più propriamente narrativo, come quella che contiene il racconto del modo in cui l’io narrante trascorre il periodo natalizio in famiglia. Il taglio narrativo del testo si evince, ancora, dalla conclusione, in cui il narratore dà notizie sulla vita sua e degli altri personaggi alla fine delle vicende risorgimentali, come pure dagli aneddoti con cui sono introdotte figure di rilievo della battaglia risorgimentale come Pisacane, Mazzini, Bixio.
Il resoconto della gita compiuta a Ischia, con la descrizione coloristica del Monte Epomeo, inserita nella descrizione più ampia dell’isola, potrebbe considerarsi, poi, un Baedeker. L’orientamento del testo di Bianciardi in questa direzione è dimostrato, del resto, dalle aspettative di Griziotti («se la buona ventura mi porterà a viaggiare da quelle parti»[20]) e da alcune annotazioni su varie località: Pavia è un’«antica e bella città»[21]; Genova è una «bellissima città»[22]; la Toscana è «bella», come, pure, la Lombardia[23]; Virginia è entusiasta dei luoghi visitati, Genova, la Riviera, «le […] belle spiagge toscane e le pinete», vere e proprie «meraviglie»[24]. L’io narrante si emoziona di fronte all’Arno («a scaldarci il cuore bastava lo spettacolo di tante bellezze profuse a piene mani dalla natura e dall’arte»[25]), ed è stimolato a riflettere dalla bellezza del paesaggio di Borghetto sul Mincio:
E veramente da quella felice altura si scorge vastissimo tratto d’una campagna dolcissima, di poggi ondulati fino a quetarsi nella piana che taglia come una gran riga lo stradone di Villafranca, e tutto è verde d’un verde tenero così diverso dal verde cupo della campagna fiorentina. […] insieme concludemmo rammaricandoci che una così bella veduta di macchie e sodi e pascoli, con fronde e acque limpidissime, e specialmente quelle che dietro di noi versava il Mincio il mezzo al Borghetto, e vi s’aggruppavano le casipole come papere al bagno, fosse guasta dall’ingombro di uomini, carri e cavalli, e tutti animati dalla perversa volontà di uccidere[26].
E, ancora, un Baedeker può essere considerata la descrizione della «bella gita» compiuta a Pisa, in cui «le belle cose che […] si possono vedere e godere» sono intrise di memorie letterarie, a partire dalla sua «aria dolce e pigra e mite» che affascina Leopardi fino al «sito» in cui sorgeva «la Torre della Fame, teatro dell’infamia del povero Ugolino»[27]; analogamente, a Firenze, l’io narrante ricorda che Dante aveva definito «sfacciate» le donne che, invece, a lui sembrano solo «belle e gentili»[28]. È, d’altra parte, una vera e propria geografia letteraria quella cui allude Bianciardi quando fa dire a Dossena, a proposito di Peschiera: «Il bello e forte arnese […] come scrive padre Dante»[29]. E, non a caso, è Dossena, dietro cui si cela Giampaolo Dossena[30], a precisare, dopo aver recitato i versi 73-78 del XX canto dell’Inferno: «Nel nostro maggior poeta l’invenzione si sposa sempre e felicemente all’esattezza, e questo è per me segno d’arte grande. Si potrebbe quasi andare in battaglia con un dantino in tasca, sicuri di trovarlo più preciso di mille carte topografiche»[31].
I riferimenti letterari costellano comunque tutto il testo, come dimostra, pure, il commento a proposito di Ippolito Nievo:
con lui perirono i non pochi volontari che si erano imbarcati, e fra gli altri, con le carte dell’intendenza, il colonnello Ippolito Nievo, che fu gentiluomo d’animo squisito e scrittore non mediocre. Così quel glorioso anno mille e ottocento sessanta terminava con una triste sciagura, e non per il nostro esercito soltanto, ma fors’anche per le patrie lettere[32].
Bixio, così, è paragonato al «furioso Orlando quando gli pigliano le mattane»[33], Fanti «lasciava gli ufficiali in camicia rossa nel limbo, o anzi nel purgatorio»[34]; l’io narrante mette «qualcosa nelle bramose canne»[35], richiamandosi a Inferno, VI, 27 («la gittò dentro a le bramose canne»). Inoltre i rimandi al mito («Destatomi dalle braccia di Morfeo»; «paragonabile soltanto a quello che a’ suoi tempi fece Ercole forzuto nelle stalle di Augia»[36]) o, comunque, alle letterature antiche («quasi per voler confermare ciò che scrive Menandro commediografo, essere cioè destinato a morire giovane quello che gli dei hanno troppo caro»; «pregando i numi che mi dessero la rettorica d’un Marco Tullio»; «s’ascoltò una lezione intera sulle Vite di Plutarco»; il padre «traduceva il latino solenne e tragico di Seneca»; Garibaldi lascia «scritto il suo nome nel marmo dell’ideale monumento che ognuno di noi porta nel cuore [allusione ad Orazio]»[37]) attestano l’impianto classicistico della prosa di Bianciardi. Lo dimostrano, anche, alcuni costrutti latineggianti: participi passati che ricalcano gli ablativi assoluti («Distrutta dai federati […] la fattoria del padre, caduto combattendo un suo fratello […], costretta la famiglia intera […]»[38]), inversioni del complemento di specificazione («era della giovane un prozio»[39]), proposizioni subordinate simili alle infinite («ed io immaginai esser egli un suo parente»[40]). E, a livello linguistico, sulla base toscana, notiamo come ‘uscire’ sia «escire», ‘discutere’ «concionare» e, qua e là, ricorrano dei motti latini. Queste scelte sono funzionali all’assunto.
Bianciardi mira alla risoluzione dei problemi sociali, a combattere la corruzione in nome dell’onestà. Proprio per questo, l’io narrante è contento per la «coscienza d’aver sempre fatto il mio dovere»[41], fedele alle raccomandazioni del padre: «Rimani onesto e bravo come ti fu insegnato. Non te ne verrà grande vantaggio, se non quello d’una coscienza pulita»[42]. Non desidera altro che «denunciare le magagne al fine unico di correggerle»[43].
Alla fine del libro, dunque, tirando le somme dell’esperienza risorgimentale, l’io narrante si dice certo che «i nostri governi s’adopreranno perché a tutti sia dato il pane, il lavoro, e principalmente la libertà»[44], garantendo la giustizia: principi che affondano le loro radici nell’epoca romana, nel mos maiorum (non a caso la sorella dell’io narrante si chiama Sestilia), ma che Bianciardi vede traditi nel suo presente, sollecitando così l’interpretazione dei lettori. A questi il narratore spesso si rivolge, mettendo in evidenza come Bianciardi conosca i principi fondamentali dell’estetica della ricezione. È sicuramente, il lettore di Bianciardi, molto vicino al lettore modello di Eco, basandosi, comunque, sulla tradizione letteraria. Come Manzoni e come Bandi, Bianciardi dichiara di non voler tediare il lettore: «timoroso come sono che il mio paziente e buon lettore si tedi e perda la pazienza sua fin qui tanto benevola e grande»; «Il lettore non mi vorrà male ‒ e temo anzi che me ne sarà grato, avendogli io risparmiato di noiarsi troppo ancora»; «Chiedo quindi perdono se profitto della sua pazienza»[45]. Mira invece a informarlo: «Sappia il lettore che […]»; «Sappia dunque il lettore che nel cinquantanove […]»; «Sappia il lettore che mi toccarono finalmente quindici giorni di licenza […]»[46]. Ed anche lo spazio concesso, nella vicenda, all’azione dei giornali e dei giornalisti conferma l’importanza dei lettori.
Come Bandi, poi, Bianciardi si appella all’autorevolezza del lettore per garantire la veridicità del racconto: «il lettore ricorderà che a Marsala costui volea sparare»; «il lettore lo rammenterà»; «Il lettore ricorderà come Mazzini […]»; «Il lettore forse non avrà scordato chi fosse costui»; «il lettore dovrebbe rammentarsene»[47]. Ma, soprattutto, Bianciardi mantiene un costante dialogo con il lettore, per stimolarne le capacità immaginative e guidarne l’interpretazione, esercitando, in tal modo, una funzione di comunicazione[48]: «Dovetti perciò, col rammarico che lascio immaginare al lettore, vergare un biglietto»; «Il lettore avrà già capito»; «era appunto, come il lettore avrà forse indovinato, […]»; «il lettore avrà già capito la dovizia dei fioriti moccoli in lingua senese»; «il lettore avrà già capito la rabbia che provai»; «non mi sarà difficile confessarlo, a me stesso e al lettore»; «Il lettore non dee pensare che in questi righi il Maestro desse […] i numeri»; «Il lettore attento mi obbietterà […]»[49].
All’interpretazione dei lettori, inoltre, Bianciardi sottopone l’agiografia di Garibaldi, come pure i problemi formali che la mescolanza dei generi determina:
Ma ora io m’avvedo che al posto di marciare col passo misurato e sicuro del buon raccontatore, io qui vado innanzi a lanci peggio del gangherù, se vogliamo dirlo alla lucchese, dimenticando di guardare non solamente l’orologio, ma persino il lunario, e metto prima quel che dovrebb’essere dopo. Il mio paziente lettore me lo perdonerà, e a mia scusa potrei aggiungere soltanto che, a parte la mia poca bravura, può sempre succedere che l’empito di voler dire quel che ti preme soverchi e annienti il proposito di raccontare come si deve, e cioè per filo e per segno[50].
Bianciardi usa un linguaggio figurato, anche questo funzionale al ruolo interpretativo del lettore. Il linguaggio figurato serve infatti a orientare il lettore stesso. Molto usati sono i paragoni. Per spingere i lettori a giudicare sbagliata la decisione dei piemontesi di sciogliere il gruppo dei volontari, il narratore dice: «Come limoni spremuti […] ci buttavano via»; «ci vogliono buttar via come scope vecchie»; «[…] che si volesse fare lo spurgo degli ufficiali garibaldini, quasi fossero lumache da cucinare poi col peperoncino rosso»[51]. Per rappresentare in modo negativo gli ufficiali piemontesi afferma: «come due fratelli, appoggiati col gomito a una specchiera, sì che guardandoli non due ne vedevi ma quattro»; «aprivano e chiudevano la bocca, come fanno i pesci quando avviene loro, in fondo ai pozzi, di beccare l’erba mora»; «escirono dalla mia casa dritti e magri e inteccheriti da sembrare quattro cipressi»; i parlamentari «si scalmanavano come tanti sensali a un mercato di paese»[52]. Ricorrenti sono anche le metafore zoomorfe: «il calabrone»; «i quattro corvi»; i «lumaconi della politica piemontese»; i «lumaconi di Torino»; i «lumaconi torinesi»; «lumaconi piemontesi»; «caproni generali piemontesi»; «il pensiero d’essere pecora segnata nel libro nero di chi non m’amava»[53]. Con lo stesso significato, l’io narrante usa i suffissi alterativi: i «generaloni piemontesi»; i «generaloni»; «questi due ufficialetti»[54]. Un teatro è, invece, considerato il parlamento, «con gli scanni disposti in tanti mezzi cerchi sempre più alti, e sul davanti il posto pei signori ministri del governo, come se fossero su un palcoscenico», anche se le conversazioni dei deputati sembrano «un mormorio d’alveare», così da dare l’impressione di «un laborioso sciame d’api intento a raccogliere il nettare dei più svariati e olezzanti fiori della penisola, e di trarne poi il miele delle buone leggi»[55].
Alcune metafore nascono, poi, da un bisogno di concretezza e presentano fatti e individui sotto una luce positiva: «Fu davvero questa una bella passata d’aglio sulla bruschetta del nostro quotidiano vivere da soldati»[56]. In questo ambito possiamo anche collocare alcune espressioni idiomatiche: «come tutti i garibaldini io non ho e non ebbi mai l’abito di cercare le pulci nelle cuciture della camicia, perché era una camicia rossa e dunque pulita»; «era suo costume tenersi sempre sulle larghe e non lasciarsi stringere i panni addosso»; «la mia risposta non andò molto a fagiuolo»; «avrei potuto, come dicono i nostri contadini, levarmi la sete col prosciutto»[57].
In questo modo Bianciardi mostra, all’interno di una volontà sperimentale, l’unitarietà della sua produzione, visto che anche nei risvolti di copertina delle edizioni Feltrinelli inserisce appelli al lettore, «riflessioni sulla letteratura, […] sulla realtà politica, sociale, culturale contemporanea e del recente passato»[58].
- L. Bianciardi, La battaglia soda, Milano, Bompiani, 2016, pp. 192-93. ↑
- G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1986, p. 304. ↑
- V. Alfieri, Della tirannide: il testo si legge anche su Liber Liber (URL: https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/a/alfieri/della_tirannide/pdf/della__p.pdf), p. 4. ↑
- L. Bianciardi, La battaglia soda, op. cit., p. 101. ↑
- Ivi, p. 8. ↑
- Su questo argomento Bianciardi torna nel 1960, pubblicando, su «Historia», un altro articolo su Zambianchi: La strana missione dello ‘scellerato’ Zambianchi, seguito da: Da Quarto a Torino. Breve storia dei Mille (1960); Aprite il fuoco (1969); Daghela avanti un passo (1969); Vita di Garibaldi (1972). ↑
- S. Giannini, Bianciardi ed il Risorgimento, in «Il gabellino». Periodico della Fondazione Luciano Bianciardi, anno 8, numero 13, giugno 2006, p. 13. ↑
- E. Tadini, Introduzione a L. Bianciardi, La battaglia soda cit., p. VII. ↑
- Ivi, p. 187. ↑
- Ivi, p. 165. ↑
- Bianciardi dedica «alla memoria di Giuseppe Bandi» (ivi, p. 7) La battaglia soda. Com’è noto, quando aveva otto anni gli viene regalata una copia dei Mille di Giuseppe Bandi, «il libro che amerà di più in assoluto per tutta la vita» (Luciana Bianciardi, Cronologia, ivi, p. X). ↑
- Ivi, p. 91. ↑
- Rispettivamente, ivi, pp. 9, 15, 22. ↑
- Basti solo qualche esempio: «il Vagaggini […] volle appuntarsi anche la mia misera ottava sul dietro del foglio dove ci avea ritratti, un foglio che ho poi conservato e anzi mi sta ora sott’occhio, e qui voglio riportarlo, […] per il caro ricordo di quella bella serata fra amici di Siena nel caffè del signor Bianciardi, agli sgoccioli del sessanta» (ivi, pp. 30-31); «Era una canzone napoletana, […] e me la ricordo ancora, un’antica canzone […]» (ivi, p. 115); «Ricordo quel giorno come se fosse oggi» (ivi, p. 128). ↑
- S. Magni, L’ossessione dell’anarchico Bianciardi per il Risorgimento, in «Italies», 2011, 15, pp. 225-41; https://journals.openedition.org/italies/3088. Sull’argomento, anche A. Bruni, “Io mi oppongo”: Luciano Bianciardi garibaldino e ribelle, Ariccia (RM), Aracne, 2016. ↑
- L. Bianciardi, Più robusto e sempre più giovane il 24° Premio Viareggio, in «La gazzetta», 18 agosto 1953, ora in Id., L’antimeridiano. Opere complete, vol. II, Milano, ISBN Edizioni ExCogita, 2008, p. 217. ↑
- L. Bianciardi, La battaglia soda cit., p. 99. ↑
- Ivi, pp. 106-107. ↑
- Ivi, rispettivamente pp. 51, 77, 93, 96, 132, 127, 131. ↑
- Ivi, p. 21. ↑
- Ivi, p. 128. ↑
- Ivi, p. 20. ↑
- Ivi, pp. 21-22. ↑
- Ivi, p. 129. ↑
- Ivi, p. 66. ↑
- Ivi, p. 161. ↑
- Ivi, p. 100. ↑
- Ivi, p. 66. L’attenzione alle memorie letterarie dei luoghi è palese anche quando l’io narrante ricorda che la fantesca racconta «la storia della Pia, morta violentemente al Castel di Pietra, non lungi dal paese che mi vide nascere» (ivi, p. 24). ↑
- Ivi, p. 148. Il riferimento è ovviamente a Inferno, XX, 70: «Siede Peschiera, bello e forte arnese». ↑
- È noto che Bianciardi ha dato, ad alcuni personaggi, i nomi di suoi amici, proprio per rendere più chiari i riferimenti al presente: il capitano Dossena, difatti, è di Cremona, proprio come Giampaolo Dossena, autore di vari testi su Dante. ↑
- L. Bianciardi, La battaglia soda cit., pp. 155-56. ↑
- Ivi, p. 22. ↑
- Ivi, pp. 19-20. ↑
- Ivi, p. 42. ↑
- Ivi, p. 148. ↑
- Ivi, pp. 18, 165. ↑
- Ivi, pp. 134, 178, 101, 24, 90. ↑
- Ivi, p. 108. ↑
- Ivi, p. 109. ↑
- Ivi, p. 107. ↑
- Ivi, p. 12. ↑
- Ivi, p. 35. ↑
- Ivi, p. 142. ↑
- Ivi, p. 193. ↑
- Ivi, pp. 32, 96, 188. ↑
- Ivi, pp. 41, 97, 128. ↑
- Ivi, pp. 10, 15, 54, 67, 69. ↑
- Rientrano in questa funzione i vari esempi di metalessi narrativa: «Ma qui facciamo una bella pausa, per dar tempo a chi scrive di sgranchirsi la mano, e a chi legge le gambe»; «Ma torniamo al fatto» (ivi, pp. 95, 166). ↑
- Ivi, pp. 94, 99, 114, 157, 160, 49, 53, 57. ↑
- Ivi, pp. 132-33. ↑
- Ivi, pp. 11, 16, 19. ↑
- Ivi, pp. 43, 47, 48, 63. ↑
- Ivi, pp. 50, 48, 91, 97, 102, 135, 180, 189. ↑
- Ivi, pp. 11, 50, 44. ↑
- Ivi, p. 60. ↑
- Ivi, p. 95. ↑
- Ivi, pp. 45, 51, 52, 54, 57. ↑
- M. Mazza, Il lavoro redazionale di Luciano Bianciardi: i risvolti di copertina Feltrinelli, in «La fabbrica del libro», 14 (2008), n. 1, p. 21. ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)