Alla ricerca della parola compiuta: barocchismo, memoria e Spagna nell’opera di Carlo Emilio Gadda e Vincenzo Consolo

Author di Salvatore Cristian Troisi

Introduzione

La significativa forza espressiva e comunicativa della parola nella sua forma essenziale di unità minima del discorso nella quale si racchiude il segno ancestrale, l’identità letteraria e culturale diventa l’oggetto predominante dell’opera di Carlo Emilio Gadda. Il potere, la fluidità e la versatilità delle parole sono caratteristiche essenziali in tutte le forme di comunicazione: «Parola appartiene, con ogni evidenzia alle parole fondamentali. In questo caso anzi, è doppiamente tale: non solo per la frequenza d’uso, ma anche il significato che esprime, riferendosi a ciò che contrassegna tipicamente l’essere umano rispetto agli altri animali, il dono della parola, come si dice in prospettiva religiosa»[1].

La rilevanza del dinamismo espressivo delle parole è un tratto distintivo della loro forma originaria: il costante movimento evolutivo del linguaggio popolare, manifestato nella caleidoscopica energia comunicativa dei dialetti, prende forma nell’opera dello scrittore lombardo e in quella del siciliano Consolo, che interpretano e reinterpretano il linguaggio popolare nel suo autentico segno linguistico tendente al suono puro, alla musicalità. La lingua colta, quella popolare e quella dialettale si mescolano nella produzione letteraria dei due: tutto ciò si fonde in una scrittura magmatica e corrosiva che è capace di incidere un segno indelebile nella coscienza letteraria.

La ricerca dell’autentico segno letterario si palesa, così, nell’opera gaddiana e consoliana, in un dialogo continuo con il passato, in una scrittura che sperimenta, che si lascia contaminare sociolinguisticamente nei suoi diversi strati, nell’apparente riscrittura, nelle tracce evidenti di trasformazioni di significati ancestrali lasciati dal segno. Una letteratura che affronta gli aspetti sacri, culturali e religiosi dell’origine, tendendo a imitare il pensiero concettuale archetipico che si perde nel mito. Una lingua che, attraverso le sue componenti tematiche e culturali, diventa parte integrante dell’identità, partecipando alla sua costruzione. Come accennato, diverse varianti linguistiche nelle loro accezioni diatopiche e diastratiche principalmente, ma anche diacroniche, alle quali si mescolano un insieme di sottocodici, di lingue e stili diversi, costituiscono la costellazione creativa degli scrittori, divenendo pastiche.

Nel caso specifico di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, la trascrizione del parlato in letterario e scritto costituisce un altro livello strutturale del linguaggio, che influisce sulla verosimiglianza stessa dei personaggi. Le stratificazioni e le complessità che sottendono al suo sviluppo storico-linguistico hanno nella parola colloquiale un veicolo di emozioni, motivi e temi. In generale, la letteratura che indagheremo nello specifico vede l’elemento popolare e orale predominante o almeno presente, in un senso ampio di rivitalizzazione e rigenerazione tematico-espressiva che caratterizza una parte importante, se non esclusiva, dello stile narrativo degli autori in questione. Una delle caratteristiche che gli scrittori riprendono dall’oralità è l’archetipo tematico che deriva dal folklore.

Si può affermare, senza dubbio, che Gadda è stato l’iniziatore di un cambiamento nel modo di percepire la realtà che lo circondava, così come in seguito lo è stato Consolo, catalizzando quella che, alla fine degli anni Cinquanta e al principio degli anni Sessanta, si stava manifestando come un’urgente esigenza espressiva che implicava uno iato con “la nuova lingua italiana, tecnologico-aziendale-democristiana”, come ebbe a definirla Vincenzo Consolo.

Barocchismo, memoria e Spagna in Carlo Emilio Gadda

Gadda, in forma embrionale o quantomeno non del tutto finita, offre un manifesto della sua maniera di concepire la letteratura in generale e la scrittura in particolare nella sua Meditazione milanese, iniziata nel 1928 e che, nonostante diverse revisioni, non riuscì a vedere la luce nella sua forma compiuta.

Nel testo, lo scrittore lombardo percepisce la realtà come un agglomerato magmatico nel quale i vari “sistemi” che la compongono sono legati da un vincolo di interdipendenza in costante mutamento. Questi cosiddetti sistemi rappresentano la rete di relazioni perennemente mutanti che caratterizzano la nostra società, questa articolata e multiforme massa che si espande, si dilata e si propaga in forma labirintica, divenendo custode di un codice indecifrabile. Così, il suo modo di vedere la realtà si allontana sostanzialmente da una visione monofocale, unica, sola e forzatamente oggettiva per generare un’opera letteraria che ha la capacità di vedere il mondo attraverso un caleidoscopio, di ritrarne la complessa gamma di colori in tutte le sfumature e gradazioni sociali, affettive ecc.

Questa sua maniera di vedere il mondo come un conglomerato multiforme, la cui struttura non segue un’oggettiva linearità ma cerca di aderire alla vera consistenza dell’anima, alla più autentica essenza dell’essere umano, lo spinge a investigare la società in una sua maniera peculiare, speculativa. Digressioni filosofiche, biografia, osservazione empirica del mondo formano indubbiamente i diversi tasselli che compongono la sua esperienza creativa. Oltre a un mosaico di personaggi, ognuno con la sua caratteristica linguistica, che nascono dall’osservazione e dall’ascolto delle tante voci che compongono la collettività: un coro, una polifonia che è anche intima e personale.

Chiari sono i riferimenti biografici in diverse opere dello scrittore lombardo: ad esempio nella Cognizione del dolore, redatta dopo la morte della madre nel 1936, comparsa su rivista tra il 1938 e il 1941, e pubblicata integralmente nel 1963. Il ricorso alla narrazione biografica e alla memoria cerca di scardinare, in un certo modo, la rigida sequenza temporale. Nell’autore si palesa la necessità di connettersi con il passato interloquendo con esso, cercando, quasi come se fosse una terapia, di riportare alla mente i ricordi. La scrittura lo aiuta a rivivere i momenti tragici della propria vita e a rielaborarli, o perlomeno a cercare di superarli. Così, il difficile rapporto con la madre, la morte del fratello, la sua esperienza argentina, quella della guerra impregnano le pagine della sua opera «di quel particolare modo di avvicinare la realtà che di fatto incombe su tutto l’insieme dei testi gaddiani, caratterizzati come sono dalla necessità di riattivare la comunicazione con il passato dello scrittore-combattente»[2].

Gadda prende le distanze dal Neorealismo dal punto di vista sia estetico sia teorico, non crede vi sia un’unica realtà oggettiva che possa raccontare il “groviglio” del vivere. La sua lingua nasce, quindi, come frutto di una speculazione teorica e tende impetuosamente verso l’azzardo linguistico, alla sperimentazione neoavanguardista, all’espressionismo come lo ebbe a definire Contini, giacché solo in questo modo si riesce a rappresentare la complessità e la polifonia del mondo. Esso viene, così, descritto attraverso una lingua che mette insieme una complessità espressiva e stilistica variegata, che si compone di dialettismi, espressioni di uso comune, argot, cultismi, neologismi, latinismi, parole appartenenti ad altre lingue come lo spagnolo, che si fondono in una mistura originale. Quindi, una combinazione di vari stili e linguaggi che insieme creano un grottesco schernimento del reale, una sua parodia, una visione dissonante che «allude a una promiscuità e a un disordine più generali, quasi istituzionalmente legati al meccanismo del mondo»[3]. Data la natura multiforme della realtà, ne consegue che anche il linguaggio non può essere univoco e, di conseguenza, per riflettere il suo caos, è necessario che anche la lingua sia multiforme e che possa insinuarsi nelle fenditure, in squarci del canone linguistico-letterario che consentano di accedere a spazi più ampi, alla ricerca di una nuova e primigenia espressività. Pertanto, questo collage linguistico non è un mero divertissement intellettualistico, ma riflette fedelmente la realtà che rappresenta e allo stesso modo la ridisegna, dandole una nuova forma, rendendola accessibile, fornendo ai lettori autentiche chiavi di lettura.

Quello che andiamo affermando viene avvalorato da Marazzini che, analizzando le opere di Gadda, scrive:

Nella sua pagina si affollano i più vari elementi. Non c’è solo dialetto, ma una varietà: lombardo nell’Adalgisa e nella Cognizione del dolore, fiorentino nelle Favole e in Eros e Priapo, romanesco e molisano, con qualche battuta in veneto, in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. È il ‘multilinguismo’ o pastiche gaddiano: attraverso un processo di straniamento, materiali eterogenei convergono nella pagina dello scrittore, con esiti espressionistici[4].

Un grande ascendente ha nella sua formazione letteraria la lettura dei classici della letteratura spagnola e iberoamericana, una tradizione letteraria che Gadda inizia a conoscere nella sua giovinezza durante la sua permanenza in Argentina fra gli anni 1922 e 1924, passione che continuerà a coltivare e che lo porterà a tradurre alcuni autori spagnoli. Nel 1941, infatti, si occupa di due traduzioni, dal Sueño di Quevedo e da El mundo por dentro e Peregrinación sabia di Salas Barbadillo, per il volume Narratori spagnoli. Raccolta di romanzi e racconti, uscito a cura di Carlo Bo ed edito da Bompiani. Traduzioni in cui la spiccata originalità dello scrittore capta l’attenzione di Contini che scrive, in Emilio Gadda traduttore espressionista, che a convincerlo a occuparsi del suddetto volume sono state proprio le traduzioni di Gadda che, a suo dire, escono fuori dal grigiore linguistico in un’edizione assai ricca, i cui colori rappresentano quasi un nuovo canone, una sorta di caso-limite di grande interesse teorico, tale da non avere precedenti nella storia della traduzione[5].

Circa un decennio più tardi, ritroviamo Gadda nuovamente ricoprire le vesti di traduttore di Juan Ruiz de Alarcón (i testi saranno utilizzati per un programma radio della Rai). Per quanto riguarda l’apprendimento dello spagnolo, nei suoi anni argentini in una lettera alla sorella afferma di essere molto contento del suo livello di conoscenza della lingua, nonostante nel luogo di lavoro, la Compañía General de Fósforos, si parli sempre italiano[6]. La conoscenza dello spagnolo lo aiuterà a leggere i classici spagnoli nella loro forma originale, ad apprezzarne la musicalità e a indagare la lingua del Siglo de Oro, del barocco, una lingua altra, che sarà imprescindibile per la sua formazione letteraria e per la costruzione della sua architettura linguistica così ricca e articolata: lingua che ritroveremo, per esempio, scorrendo le pagine del suo romanzo La cognizione del dolore.

La scrittura gaddiana, infatti, si impregna di un elegante barocchismo, verosimilmente assimilato nel corso dello studio della lingua spagnola e rafforzatosi durante la sua opera di traduttore, che lo ha portato a stretto contatto con il barocco spagnolo del Siglo de oro: Quevedo, Salas Barbadillo, Alarcón gli forniscono quegli strumenti stilistici che gli consentono di giungere a una concreta approssimazione a quello che per l’autore è la realtà. La satira, la fiaba, l’ironia, i personaggi presenti nel barocco spagnolo[7], che costituiscono un gioco di ombre, un chiaroscuro, si riverberano prepotentemente nell’opera dello scrittore lombardo. Il disincanto novecentesco di Gadda si interseca con il desengaño barocco, plasmando la sua opera[8].

Dombroski[9] legge il disinganno gaddiano come risultato della tragica avventura che ha visto lo scrittore volontario protagonista del primo conflitto mondiale. Nel Giornale di guerra e di prigionia, in cui la sua esperienza bellica viene raccontata, si percepisce quell’amara presa di coscienza che contrappone il suo universo morale al mondo. Si può sostenere che i termini “barocco” e “disincanto” siano spesso essenzialmente sinonimi: nel vasto regno della letteratura barocca, la disillusione è, infatti, parte integrante della prospettiva barocca, che è in gran parte caratterizzata da uno stato di crisi e pessimismo. C’è un senso prevalente di pericolo e instabilità, un sentimento pervasivo di smarrimento che spinge a rifiutare o a criticare aspramente il mondo: la futilità della vita, l’impermanenza di tutte le cose del mondo, lo scetticismo, temi che in sé racchiudono il conflitto tra realtà e apparenza.

Del barocco Gadda condivide il senso intimo, il cammino doloroso alla ricerca di una verità che si nasconde e si svela ai nostri occhi, l’eterno conflitto fra ciò che è e ciò che pensiamo sia. De Robertis fu il primo a intuire che la ricchezza del lessico “riccioluto” a cui si aggiunge la delicata esuberanza linguistica rivelavano la propensione barocca di Gadda. Nel recensire il Castello di Udine scrisse, infatti:

Carlo Emilio Gadda, tra le sue prose ricche, troppo ricche (il suo «barocco riccioluto, ricchissimo e fragile»), tra le complicate trascrizioni di motivi tolti quasi a pretesto per il suo lavoro di artista («tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti»), ha pur raccolto in questo stesso volume un libretto di guerra asciutto quant’era possibile alle sue esuberanti e irregolari qualità di scrittore, e sottilmente venato di canto, tra grigio e violetto, se vogliamo esprimerci con i mezzi della pittura, che ai libri di guerra finora apparsi aggiunge certo qualcosa, qualcosa di nuovo e, direi, d’inaspettato[10].

Lo stesso autore, in una certa maniera, teorizza che la chiave non sta solo nel decifrare gli strati intricati o l’essenza grottesca dell’impasto narrativo e linguistico, ma anche nel riconoscere la deliberata coscienza con cui lo scrittore espone l’assurdità del mondo o la natura priva di senso della cosiddetta narrativa, che potrebbe essere descritta più appropriatamente come una farsa interpretata da attori intellettualmente disarmati, una contrapposizione concettuale fra la narrazione (vale a dire il racconto del mondo) e la scrittura, considerata in quella che dovrebbe essere la sua funzione basilare o esclusiva: sondare il mondo e cercare una lettura autentica dell’esistenza. In questa concezione, la storiografia, intesa come riflesso, ritratto o ricostruzione mentale di questa “storia”, si avvale spesso di due strumenti privilegiati quali il silenzio incerto e la candida struttura della falsità e di fatto “tace e sottace”, riferendo solo quello che le fa comodo riferire.

Gadda rompe questo sistema, lo decostruisce, lo atomizza attraverso il linguaggio per poi ricostruirlo in un insieme “disordinato”, dandogli una struttura vera. Così, per Gadda, il barocco è il mondo stesso come meccanismo complesso, pieno di stravaganze, nebulosamente intricato e, come scrittore, egli non può far altro che dipingerlo, soprattutto attraverso uno stile che in qualche modo ne condivida gli ingarbugliati dispositivi, in modo, poi, da cercare di scardinarlo, di strapparne i più intimi segreti, incontrandone nel grottesco e nella complessità sistemica l’essenza fenomenologica. Il barocco si tramuta in una primaria esigenza comunicativa, in un’affannosa ricerca della parola precisa che sappia individuare il vero significato, che sappia restituire la vera forza vitale al linguaggio. Non è, quindi, decorazione artificiosa o ricerca esasperata del gioco intellettuale, del virtuosismo lessicale, bensì esigenza primaria dell’io di cercare sé stesso, un ordine, una chiave che possa aprire le porte dell’intendimento della complessità del cosmo. Gadda non accetterà mai di essere definito uno scrittore barocco ma, nella Cognizione del dolore, nella prosa concepita come introduttiva dal titolo L’editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’autore, ci offre questa illuminante definizione del proprio barocco:

Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata ‹comunemente› dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che siano: grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia: la grinta dello smargiasso, ancorché trombato, o il verso «che più superba altezza» non ponno addebitarsi a volontà prava e ‹baroccheggiante› dell’autore, sì a reale e storica bambolaggine di secondi o di terzi, del loro contegno, o dei loro settenarî: talché il grido-parola d’ordine «barocco è il G.!» potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine»[11].

Il barocco è cruciale per comprendere le opere letterarie di Gadda e, indiscutibilmente, concordiamo con Dombroski. Nello scrittore lombardo, infatti, l’ossessione per la laboriosità lessico-sintattica, la tendenza alla stravagante divagazione, unita alla volontà di alterare e traviare, creano una struttura testuale palinsestica in cui risulta evidente l’intenzione di stabilire una rete di connessioni diacroniche e sincroniche. Gadda ottiene questo risultato attraverso la frammentazione della narrazione, l’uso di increspature descrittive che, come afferma Magris (1984), offrono la capacita di percepire la vita nella sua interezza, l’universalità che traspare nel dettaglio e lo collega al tutto, all’unità universale[12]. La disarticolazione della totalità, assieme all’eclissi del grande stile, parallelamente implica, come condizione di possibilità, la rottura dell’identità e dell’unità del soggetto[13], assicurando l’opportunità di avere una visione altra. Pertanto, la rottura del nucleo centrale della narrazione in una varietà di mini narrazioni permette di immettersi in questo prisma narrativo attraverso il quale possiamo sperimentare le diverse prospettive, acquisendo una visione personale[14].

Barocchismo, memoria e Spagna in Vincenzo Consolo

Quando parliamo di sperimentalismo espressivo, abbiamo ben chiaro che i pionieri di questa tendenza letteraria sono stati senza dubbio Carlo Emilio Gadda e Pierpaolo Pasolini con i loro capolavori Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) e Ragazzi di Vita (1955). In tal senso, la scrittura di Gadda è esemplare in quanto apre una strada che inaugura un percorso letterario verso il quale convergeranno le opere di diversi scrittori. Tra tutti, Vincenzo Consolo con La ferita dell’aprile (1963) e Luigi Meneghello con il suo Libera nos a malo (1963). È senza dubbio possibile sostenere che, nel corso della sua opera[15], Consolo abbia mostrato un peculiare uso del linguaggio, sperimentale e funzionale, che identifica il suo stile e la sua letteratura, al tempo stesso frutto vigoroso di una speculazione teorica in perenne evoluzione, poiché percorre le tappe di tutta la sua carriera, come è evidente nel suo celebre articolo La métrica della memoria[16]. Il linguaggio utilizzato dal romanziere si struttura su un doppio asse, solo apparentemente dicotomico, tra lingua e dialetto, dove entrambi gli elementi, apparentemente contrapposti, si sostengono e allo stesso tempo si fondono armoniosamente, integrandosi per completarsi. Attraverso i suoi romanzi, in cui la storia è una metafora condensata, non ci parla solo della Sicilia, attraverso le forme e le memorie dialettali, ma anche ‒ in forma di sineddoche e mitica ‒ dell’Italia.

I suoi romanzi non sono solo un recupero storico e mnemonico, ma anche un recupero del linguaggio. Il recupero di parole perdute, dimenticate nel tempo. Il suo lavoro di ricerca linguistica lo spinge, infatti, a cercare vestigia che sono al di là della lingua italiana conosciuta, o al di là dello spazio temporale legato al presente; strati di lingue che lo stesso scrittore definisce “sepolte”: lingue antiche, ancestrali, materne, parlate nella sua terra nel corso dei secoli. Consolo, come il poeta ed etnologo Antonino Uccello, personaggio simbolo delle Pietre di Pantalica, che raccoglie gli oggetti perduti del mondo contadino per conservarli in un suo museo, raccoglie e riunisce le parole perdute per conservarle nelle sue narrazioni e preservarle così dall’oblio. Questa è una caratteristica che contribuisce alla ricchezza connotativa di quella che è stata definita la “plurivocità” consoliana.

L’agognato recupero della memoria comprende e diventa inevitabilmente un recupero della lingua. Ciò risponde a uno scopo primario della letteratura: «Credo che questa sia lo scopo della letteratura, perché la letteratura non può essere che memoria»[17]; Consolo ritiene che la lingua scritta, che rappresenta il suo modo di comunicare, di esprimersi e di rapportarsi al mondo, debba corrispondere a un recupero mnemonico e quindi alla purezza del linguaggio. Nello specifico, la parola “barocca” è l’oggetto privilegiato della sua ricerca, una parola antica di un tempo secolare precedente che lo scrittore cerca di riportare al suo referente originario, all’oggetto, restituendogli la sua funzione, la sua realtà autentica[18].

Di conseguenza, il suo linguaggio si contrappone a quello dei media, che soggiogano: un lessico che si impone in modo prepotente e dominante, impoverendo la lingua, appiattendola sempre più verso il basso e schiacciandola a un livello infimo di omologazione. Consolo ha più volte condannato questa standardizzazione del lessico, che innegabilmente porta all’incomunicabilità, all’incapacità di dire e di capire, a una sorta di “afasia”, diventando al tempo stesso una difficoltà individuale, un disagio ineffabile e una paralisi indescrivibile. Lo scrittore è, quindi, lucidamente consapevole della rottura della dialogicità prodotta dal sistema stesso, a cui contrappone il suo codice alternativo di comunicazione. E lo fa in modo tale da guardare alle origini per opporsi alla superficialità della lingua dominante, “paterna”, e per poter riscrivere il presente raccontandolo attraverso una scrittura sofisticata e tecnicamente complessa. Le sue parole e il suo stile denunciano e si oppongono all’omologazione linguistica dell’italiano contemporaneo che, a suo avviso, è diventato una lingua spaventosa, rozza e saccheggiata[19]. È importante sottolineare come Vincenzo Consolo sia arrivato a fissare il proprio stile: ci sono stati due mentori, due amici che lo hanno ispirato. Questi due scrittori e intellettuali di fama erano due figure stilisticamente antitetiche alle quali Consolo ha dedicato due capitoli, i racconti centrali, delle Pietre di Pantalica: Le Chesterfield, dove si cristallizza la figura di Leonardo Sciascia, e Il barone magico, una sorprendente immagine di Lucio Piccolo.

La scrittura di Sciascia è caratterizzata da una forma razionalista, chiara e trasparente che segue, in un certo senso, la via “francese” dell’Illuminismo, in antitesi alla cupa visione del mondo dell’epoca fascista; mentre Lucio Piccolo gli apre la strada alla metafora, all’onirismo, alla poesia e, soprattutto, alla letteratura spagnola, facendogli scoprire il cultismo di Góngora, il misticismo di San Juan de la Cruz, il romanzo di Cervantes e, in generale, tutta la letteratura del Secolo d’Oro[20].

La generazione di Consolo è testimone degli ultimi momenti del regime fascista, la cui fine ‒ secondo lo scrittore ‒ non portò a un soffio della sperata democrazia, ma condusse l’Italia a subire il regime democristiano. Amaramente quella generazione, nel suo pensiero, dovette rendersi conto che non era nata una nuova società e che tutto era rimasto cristallizzato, come se quell’epoca dolorosa non avesse mai lasciato spazio a una società veramente civile, alla quale lo scrittore avrebbe potuto ricorrere. Tutto ciò, così come lo ha vissuto, non si è mai realizzato, per cui Consolo rifiuta il razionalismo “francese” in ogni sua forma; la sua scelta è soprattutto espressiva e, di conseguenza, il suo percorso letterario lo porta in Spagna[21]. È, infatti, la letteratura spagnola a dare le maggiori coordinate stilistiche alla sua scrittura: la dolce e simbolica follia chisciottesca e la metaforizzazione dell’intero libro, così come il viaggio attraverso la poesia del Secolo d’Oro, oltre alla letteratura del suo tempo con il boom degli scrittori ispano-americani assieme ai romanzieri del dopoguerra spagnolo:

La Spagna, appunto, partendo dalla dolce follia, dalla follia simbolica, dalla follia metaforica del cavaliere errante del Don Quijote, e quindi attraversando tutti i poeti del Siglo de Oro, e quindi anche la letteratura spagnola che Vittorini ci indicava in quegli anni, scrittori non solo sudamericani come Rulfo, o scrittori spagnoli come Cela, o come Ferlosio, tanti altri scrittori del secondo dopoguerra che avevano vissuto il periodo del franchismo. Pertanto, la mia formazione, sia in termini di contenuti che di stile, è spagnola[22].

In questo modo, la Spagna e l’ispanismo hanno dato il tono in termini di contenuto e stile. Ma, allo stesso tempo, il suo lavoro è influenzato dalla razionalità espressiva di Sciascia[23]. Risulta così evidente che questi significativi “precettori” hanno contribuito all’elaborazione della sua raffinata espressione letteraria che, al tempo stesso, racchiude barocco e sperimentalismo, che lo stesso scrittore ha ben definito riassumendola come «un movimento continuo dalla natura alla cultura, dal mito alla storia, dalla fantasia alla ragione e dalla poesia alla prosa»[24]. Un volto creativo, quindi, caratterizzato da un movimento perpetuo, da un passaggio tra natura e cultura, da uno slittamento dal mito alla storia e, quindi, da un incessante equilibrio tra fantasia e ragione che culmina nella sua lirica narrativa che è, di fatto, il frutto dello straordinario connubio tra poesia e prosa, dove il poetico tende a predominare. Il primo movimento della sua traiettoria e della sua creatività è stato, quindi, verso la zona “occidentale”, che lo scrittore definisce come una letteratura razionale, comunicativa e storica. Poi, con il passare degli anni, si articola uno spostamento in direzione opposta e, pur rimanendo profondamente costante il legame con i problemi della storia, l’asse della sua scrittura si sposta verso la zona “orientale”, regno che Consolo identifica con l’immaginario mito-poetico[25].

La metamorfosi letteraria mitico-poetica che si verifica nella scrittura di Consolo diventa più visibile e integrale come un’adesione che replica il mondo di oggi, poiché, in una certa misura, la scrittura è diventata una referenzialità sterile che corrisponde alla diffusione inespressiva dei media. Per questo Consolo mette presto in atto una forma ibrida di romanzo, che diventa ancora più sintetica in quanto tende alla poesia per recuperare il proprio ruolo, quello comunicativo originario. Una forma di ritorno alle origini che recupera l’energia della parola tornando al ritmo e riconquistando così la sonorità, e allo stesso tempo ristruttura il poema narrativo moderno incorporandolo nell’epica, cioè nelle origini della letteratura[26]. Consolo concepisce la scrittura come un lavoro di approfondimento responsabile che lo porta a riflettere sulla propria funzione: «Io ho concepito la letteratura come un impegno serio sin dai miei primi passi, cercando di capire che cosa volevo fare e dove volevo andare»[27].

Nel suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, inizia a delineare il suo originale modo di scrivere: una scrittura che va al recupero degli stili e di un glossario autentico e puro, e per questo si avvale delle forme più primordiali che derivano dalla cultura popolare e dalla sua lingua nativa. Una lingua, dunque, modulata su un metro poetico libero, senza essere compressa in alcun groviglio narrativo; una lingua che è parte attiva nella costituzione strutturale del romanzo con i suoi cambi di registro, i dialettismi, i cultismi e gli elementi della tradizione orale come la canzone o i proverbi che si inseriscono nell’opera dandogli ritmo, coesione ed espressività.

Come giustamente sottolinea La Penna, nella Ferita dell’aprile la lingua di Consolo si riempie di oralità con espressioni come: Duuuhhh, Ahi oh, uh, zaf, hop hop, Mah ecc. e con interazioni al limite del dialettale; e recupera uno spazio primordiale e intimo di comunicazione[28]. Allo stesso modo, nel romanzo troviamo una parte fondamentale del repertorio legato all’oralità, e nello specifico alle canzoni: «nel suo tessuto vocale ospita ad esempio un alto numero di “registrazioni” della parola cantata (sicuramente il più alto di tutta la produzione romanzesca dell’autore): dal latino e dal greco dei canti liturgici dei preti e dei ragazzini, ai canti patriottici e di protesta, popolari e religiosi, alle conte infantili»[29]. Questi testi, quindi, completano la morfologia orale del romanzo, dandogli ancora più ritmo e uno sfondo evocativo rilevante; fra gli altri riferimenti canori, troviamo la diffusa canzone popolare Si maritau Rosa: «s’è maritata Rosa Sarina e Peppinella, col canto e controcanto, ed io che sono bella mi voglio maritar»[30].

Un altro fattore importante da notare è il suo profondo interesse per il dialetto gallo-italico di San Fratello, un piccolo paese in provincia di Messina, nell’antica Val Demone. Lo scrittore messinese riesuma una lingua praticamente morta e la trasforma in una metafora della Sicilia e dell’indole siciliana. L’uso ingegnoso di questa lingua ne fa un motto distintivo dell’alterità, della differenza e anche della metafora dello straniero. Inoltre, adoperando questa lingua sepolta, che vive solo in piccole comunità, Consolo trasmette un segno di protesta e di rabbia sociale contro il sistema-nazione che isola, esclude e dimentica questi autentici tesori del patrimonio linguistico e culturale, risultando chimerico e, di fronte a ciò, metafora viva di un mondo che segrega. Il dialetto diventa via via sempre più rilevante in tutto il suo itinerario letterario, come se Consolo volesse sottolineare la crescente difficoltà di comunicazione, il senso di estraneità e di impotenza dello scrittore, e l’inadeguatezza della scrittura a trasformare in meglio la realtà.

D’altra parte, il Sanfratellano continuò a usarlo nei “cunti” e soprattutto nel racconto teatrale Lunaria, in cui viene presentata come una lingua primordiale, naturale, pura e incontaminata; ma trova il suo apice nelle Pietre di Pantalica e, in particolare, nei Linguaggi del bosco. In questo racconto, Consolo inizia un’intensa sperimentazione sul linguaggio ricercando negli elementi della natura espressioni spontanee, cioè forme simboliche che rimandano all’origine del linguaggio stesso, fatto di suoni e voci ancestrali, idee che riprende da Leopardi e che descrive narrativamente, gradualmente, in una sorta di storia della costituzione del codice linguistico umano attraverso la protagonista Amalia: «Nei Linguaggi del bosco vado ancora più indietro, parto dai linguaggi della natura, dai segni della natura, per arrivare poi, mano mano, al linguaggio umano attraverso la ragazzina Amalia […]. E, poi, ho cercato di spiegare da dove sorgono i linguaggi. Sorgono dalla natura»[31].

La sperimentazione linguistica consoliana è un elemento fondamentale della sua poetica e determina il suo stile, plasmandone la scrittura. Gli elementi costitutivi della sua opera appartengono alla tradizione letteraria e fanno sì che essa venga identificata, seppur semplicisticamente, con il “barocco”. La sua scrittura converge verso forme sperimentali, ma è anche una ricerca incessante della parola primordiale, pura, incontaminata, in cui si mescolano i codici più diversi: italiano, dialetti, greco, latino, francese e spagnolo. «Un romanzo “plurivocale” e una nuova sacralizzazione della parola che porta con sé risonanze di luce e di verità: una verginità non corrotta né oltraggiata»[32].

Conclusioni

Analizzando l’opera di Gadda e Consolo, ci rendiamo conto di quanto sia forte in loro la volontà di restituire alle parole il loro vero significato grazie al paradosso, alla parodia, al grottesco, alla deformazione, alla perversione ecc., attitudini, queste, della letteratura barocca che negli autori in questione si fondono con una visione letteraria esteticamente moderna e culminano nel cosiddetto neobarocco.

Come abbiamo visto, il “barocco” fu acquisito da entrambi attraverso la mediazione della letteratura spagnola, la «meravigliosa lingua di Cervantes» (come ebbe a definirla Gadda) e, in particolare, del periodo letterario del Siglo de oro: tramite autori barocchi di lingua spagnola conosciuti in forma ravvicinata attraverso il soggiorno in Argentina e l’opera di traduzione, per ciò che riguarda Gadda, e grazie al mentore Lucio Piccolo, per quanto concerne Consolo. Comprensibilmente, tutto questo patrimonio letterario passò attraverso il filtro della lingua manzoniana, originando la loro singolare creatività.

Come in un puzzle, ogni parola deve essere collocata nel giusto posto affinché possa adempiere autenticamente alla sua funzione primaria; per questo diventa sostanziale la ricerca ingegnosa di un lessico che può apparire artificioso, aggrovigliato, dissonante, ma che, al contrario, è una necessità espressiva che nulla ha a che fare con la decorazione artificiosa, l’ornamento inutile o l’orpello. Questa ricerca porta i due autori a intraprendere un viaggio sia nella propria memoria sia nella memoria italiana, attraversando la storia nel tentativo di correggerla e di limitarne le storture. «Barocco è il mondo»: solo in questo modo si può cercare di rappresentare il caos, il mondo e la storia, cogliendone tutte le sfumature e fornendone allo stesso tempo una chiave di lettura.

  1. L. Serianni, Parola, Bologna, il Mulino, 2016, pp. 20-21.
  2. M. Bertone, Il romanzo come sistema. Molteplicità e differenza in C. E. Gadda, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 70.
  3. C. Roscioni, La disarmonia prestabilita [1969], Torino, Einaudi, 1995, p. 83.
  4. C. Marazzini, Breve storia della lingua italiana, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 205-206.
  5. G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, p. 303.
  6. C. E. Gadda, Lettere alla sorella (1920-1924), a cura di G. Colombo, Milano, Rosellina Archinto, 1987, p. 62.
  7. J. A. Marvall, La cultura del Barocco, Bacelona, Ariel, 1975, pp. 27-51.
  8. G. Soriga, Lo stupendo idioma: Carlo Emilio Gadda: le traduzioni, gli anni in Argentina e lo spagnolo della Cognizione del dolore, Roma, Università di Roma Tre (Tesi Dottorale), 2009; cfr. l’URL: http://hdl.handle.net/2307/2124 (ultima consultazione: 1/06/2023), p. 157.
  9. Cfr. R. S. Dombroski, Gadda e il barocco, trad. di A. R. Dicuonzo, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
  10. G. De Robertis, Il Castello di Udine, in «Pan 2», n. 9, 1934, pp. 142-44; poi in Id., Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1940, p. 142.
  11. C. E. Gadda, Opere, vol. I, Romanzi e racconti I, a cura di R. Rodondi, G. Lucchini, E. Manzotti, Milano, Garzanti, 1988, p. 760.
  12. C. Magris, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi, 1983.
  13. Cfr. J. Peña Vial, Poética del tiempo: ética y estética de la narración, Santiago de chile, Editorial Universitaria, 2002, p. 43.
  14. Cfr. L. Matt, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Glossario romanesco, Roma, Aracne, 2012, p. 23.
  15. Cfr. V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Milano, Mondadori, 2015.
  16. Esistono diverse versioni di questo articolo, ma, secondo il parere di diversi specialisti qualificati, la più completa è quella contenuta in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adamo, vol. 18, San Cesario di Lecce (LE), Manni Editori, 2006.
  17. Ibidem.
  18. D. O’ Connell, «Il dovere del racconto», intervista a Vincenzo Consolo, in «The Italianist», 24, 2, 2004, p. 241.
  19. D. Stazzone, I «racconti» di Vincenzo Consolo tra scrittura e narrazione, in «Sinestesie online», 2013, p. 79; cfr. l’URL: http://sinestesieonline.it/wp-content/uploads/2018/03/dicembre2013-12.pdf (ultima consultazione: 31/07/2023).
  20. S. Perrella, Cervantino contro i padri illuministi, in «Il Manifesto Alias Domenica», 30/08/2015; cfr. l’URL: https://ilmanifesto.it/cervantino-contro-i-padri-illuministi-consolo-e-la spagna (ultima consultazione: 31/07/2023).
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Entrevista a Vincenzo Consolo por Jean Fracchiolla, in La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (homenaje por sus 75 años), Valencia, Universidad de Valencia, 2008, pp. 167-68: 167.
  24. V. Consolo, Fuga dall’Etna: la Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 26.
  25. D. O’ Connell, Il dovere del racconto cit., p. 241.
  26. Ibidem.
  27. Entrevista a Vincenzo Consolo por Jean Fracchiolla, op. cit., p. 167.
  28. D. La Penna, Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, op. cit., p. 29.
  29. Ibidem.
  30. V. Consolo, La ferita dell’Aprile, Milano, Mondadori, 1963; Torino, Einaudi, 1977, e dal 1989 Milano, Mondadori, I ristampa 2013, p. 88.
  31. D. O’ Connell, Il dovere del racconto cit., p. 241.
  32. D. Calcaterra, Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza, Catania, Prova d’autore, 2007, p. 169.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

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