Tentativo di difendere “Poesia e non poesia”

Author di Paolo D'Angelo

Quando ho iniziato a interessarmi alla critica letteraria e all’estetica, alla fine degli anni Settanta del Novecento, parlar male di Poesia e non poesia di Croce era quasi un dovere. Di più: era una sorta di riflesso condizionato. Anche quando non c’era un aggancio diretto, per esempio anche quando non si parlava di nessuno dei ventisei autori analizzati nel volume del 1923 con quel titolo, la menzione negativa scattava comunque. Poesia e non poesia, e direi proprio il titolo prima ancora che il libro, era diventato un idolo polemico, un esempio di quanto non si doveva fare in ambito critico, una specie di marchio negativo in cui si riassumeva un modo inaccettabile di leggere i poeti e i romanzieri.

Certo, erano probabilmente gli anni in cui la “fortuna” di Croce toccava in Italia il punto più basso. Di Croce si parlava ancora (probabilmente, anzi, più di quanto se ne parli adesso), ma se ne parlava per attaccarlo, e in critica letteraria il suo modo di procedere, di cui quel titolo Poesia non poesia diventava in qualche modo la divisa, era considerato l’esempio di ciò da cui bisognava tenersi lontani. Alleati in questa demonizzazione erano, da un lato, la critica letteraria di ispirazione marxista, che aveva avuto il suo apice negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ancora era influente, dall’altro la nuova critica strutturalistica e semiologica. Era, certamente, un’alleanza paradossale ma, quando si tratta di individuare un riferimento polemico, non si va troppo per il sottile.

Tra i marxisti, Rocco Montano aveva parlato senza mezzi termini di «assurdità della ricerca di Poesia e non poesia». A partire già dall’Estetica, scriveva,

La critica ebbe per compito di distinguere la poesia dalla non poesia, di eliminare, meglio, come inutile loglio, ciò che non si presentava alla sensibilità più o meno raffinata dell’interprete come intuizione pura, le parti in cui fosse qualche sospetto di intellettualismo o di esigenze morali. Un’illuminazione immediata permetteva di mettere da parte, senza studiarla, la non poesia e di cogliere la luce di quelle parti che erano poesia. E non si sa bene con che cosa potesse essere formata una storia dell’arte: se con la notizia del materiale scartato o con una più o meno dettagliata tabella delle cose positive da una parte e delle negative dall’altra, o, ancora, delle espressioni di estasi degli interpreti davanti alle opere che ad essi apparivano artistiche[1].

Un altro critico marxista, Arcangelo Leone De Castris, definiva quella di Croce una «critica che si riduce alla certificazione del valore poetico»[2].

Sull’altro versante, quando faceva l’elenco delle cose che si dovevano rimproverare a Croce, Umberto Eco indicava «l’aver ristretto la metodologia critica a una distinzione di poesia e non poesia, definendo il resto come “struttura” non essenziale»[3], mentre René Wellek aveva visto «il difetto principale della critica di Croce» nell’«incapacità di superare il dualismo per lui inammissibile tra la semplice valutazione di ciò che è poesia e ciò che non lo è, e la psicologia descrittiva con cui egli caratterizza autori e opere»[4]. E aggiungeva: «La distinzione tra poesia e non poesia porta in ultima analisi a una definizione del suo gusto, che è necessariamente legato al suo tempo e limitato»[5].

Beninteso, i dissensi e gli attacchi, anche aspri, non avevano atteso il tramonto della fortuna di Croce nel secondo dopoguerra. La visione alquanto mitizzata di un Croce “dominatore assoluto” della cultura nella prima metà del secolo, cui sarebbero seguite la reazione e la damnatio memoriae, in pochi casi si rivela altrettanto fallace come in quello delle reazioni a Poesia e non poesia. Il libro, come è noto, si compone di saggi che avevano cominciato a essere anticipati sulla «Critica» a partire dal 1917. Sul tono delle reazioni suscitate, sia dalle anticipazioni sia dall’uscita in volume nel 1923, basti quanto scrisse Emilio Cecchi nella recensione pubblicata al volume sul «Secolo» del 1924:

Non pochi fra gli scritti sulla letteratura europea del secolo decimonono, che Benedetto Croce ha raccolti nel volume Poesia e non Poesia trovarono, al loro primo apparire, accoglienze tutt’altro che leggiadre. E forse mai, dopo il famoso studio su Pascoli, s’erano udite mormorazioni, accuse, persino scurrilità, come quelle che toccarono questi scritti. Gli oppositori meno malvagi si contentavano d’insinuare che, venerabile come filosofo, compitissimo anche come erudito, il Croce avrebbe fatto bene a persuadersi che la critica della grande poesia non era pane per i suoi denti[6].

Fin da subito, infatti, a suscitare irritazione e dissensi, poi destinati a essere più distesamente argomentati e quasi sistematizzati, sono stati due aspetti della critica crociana che possono essere chiariti tenendo presenti i due significati che si nascondono nel titolo. Un titolo che, può essere interessante notarlo, appare solo in parallelo alla stesura degli ultimi saggi destinati a entrare nella raccolta, quelli su Carducci e Leopardi, stesi nel febbraio del 1922, mentre fino ad allora il titolo di lavoro del volume che avrebbe dovuto raccogliere i saggi era stato, genericamente, Poeti del secolo XIX o Saggi sui poeti del secolo XIX. Per un verso, dunque, Poesia e non poesia significa valore e disvalore poetico, la riuscita e il fallimento, il bello e il brutto, come accadeva nel primo scritto crociano che recava quel titolo, un saggio del 1887 pubblicato sul giornale letterario «Pantagruel» da un Croce appena ventunenne, nel quale Croce poneva a riscontro una poesia di Mario Rapisardi in memoria dei soldati italiani caduti a Saati in Africa Orientale e quella dedicata allo stesso episodio da un poeta dialettale napoletano, Achille Torelli, demolendo ironicamente l’eccesso di letterarietà e di figure retoriche del primo ed esaltando invece il tono familiare e vero del secondo[7].

Per un altro verso, però, in Poesia e non poesia la non-poesia indica l’altro dalla poesia, ciò che si distingue da essa come riflessione teorica, azione pratica, oratoria, struttura dottrinale. I due aspetti, a voler essere esatti, se cioè si prende la questione nel suo rigore, pensandola all’interno del sistema, non sono due ma uno, perché ciò che appare sotto un certo aspetto come impoetico si rivela, nella sua positività, un’altra cosa: per esempio, appunto, scienza, storia, esortazione, critica. Nella più tarda opera La poesia, del 1936, Croce però tornerà sul nesso Poesia-non Poesia distinguendo la non-poesia delle espressioni prosastiche, oratorie, sentimentali dall’anti-poesia delle espressioni brutte, con ciò però complicando piuttosto che semplificando la questione, perché appare difficile, nella compagine teorica crociana, pensare il negativo (l’anti-poesia) senza pensarlo al tempo stesso come il positivo di un’altra attività spirituale. Il nesso che stringe non poesia e struttura, quindi, è un nesso essenziale, e da questo punto di vista le innumerevoli discussioni suscitate dalla seconda dovrebbero essere prese in considerazione. Non avevano torto, insomma, i critici marxisti quando saldavano in una le due questioni, della struttura e della non-poesia, anche se poi erano troppo precipitosi nel vedere in entrambe la dimostrazione che quello di Croce non era un vero storicismo, e lasciava fuori dalla poesia la cultura, la società, la storia, come scriveva Carlo Salinari in uno scritto apparso subito dopo la morte di Croce:

Il rapporto tra struttura e poesia, fra poesia e non poesia, non è altro che il rapporto tra storia e poesia, rapporto dialettico e inscindibile, che il Croce ha troncato con la sua concezione della poesia come intuizione pura e con il suo metodo critico. Tale distacco della poesia dalla storia si accentua con la caratterizzazione […] il Croce non si accorge che l’unico modo per caratterizzare un’opera d’arte, per distinguere un poeta dall’altro è proprio quello di vederli nel nesso concreto che li lega alla storia da cui nasce la loro poesia[8].

Tuttavia, qui non riprenderemo il problema del rapporto tra poesia e struttura, che richiederebbe un’analisi assai lunga e ci porterebbe inevitabilmente lontano da Poesia e non poesia inteso come il libro che porta tale titolo, coinvolgendo molti altri testi e dibattiti e, naturalmente, in primo luogo quello nel quale la questione venne posta da Croce, e cioè La poesia di Dante[9]. Non lo faremo anche per un altro motivo. Anche se indubbiamente il nesso poesia, non poesia, struttura, storia ha innervato molte delle prese di posizione critiche verso il libro del 1923 soprattutto, come si è visto, nella più tarda critica di ispirazione marxista, pure è vero che quel problema non esaurisce i motivi dei dissensi e degli attacchi che a Poesia e non poesia sono stati rivolti, e che ve ne sono anche altri, per esempio, e non meno importanti, come l’avversione che in esso traspare verso gli sviluppi della letteratura contemporanea, e del decadentismo in particolare o, ad essa congiunta, l’ispirazione morale prima che estetica di molta critica crociana, e in particolare di quella rivolta contro l’arte della modernità.

Perché alla fine, dando per scontata l’opposizione della critica formalistica o quella della critica marxista, resta vero anche che Poesia e non poesia non ha incontrato particolare favore neppure negli studiosi e nei critici meno pregiudizialmente ostili a Croce, se si esclude forse il giudizio che ne diede Luigi Russo: «il libro più affascinante di Croce […] il suo capolavoro critico»[10].

Non sarà un caso, ad esempio, che nell’importante saggio di Gianfranco Contini L’influenza culturale di Benedetto Croce, che è un tributo convinto alla grandezza del filosofo e dell’uomo di cultura, e nel quale ci sono parole di considerazione per quasi tutte le opere crociane, di Poesia e non poesia non si parli affatto, o meglio si parli solo in un rapidissimo accenno, in cui, tra l’altro, si mette a contrasto la grande critica letteraria crociana sui grandi (Goethe, Ariosto, Shakespeare, Dante) con i saggi «più compendiosi» di Poesia e non poesia e delle raccolte similari seguenti, derubricate a «manifestazioni desultorie» simili al «diario di un grande critico»[11]. O che in una rassegna di storia della critica su Croce, uno studioso devotissimo al pensiero crociano, Vittorio Stella, proprio su Poesia e non poesia faccia qualche riserva: «Sulle pagine critiche questa insularità dell’arte preme, di fatto, in misura maggiore che in quelle rivolte per loro istituto a prospettare la concezione speculativa, più ampiamente salvaguardate dal principio dialettico»[12].

Ecco: questo può contribuire a giustificare il titolo che abbiamo voluto dare a questo saggio, titolo che altrimenti potrebbe sembrare stravagante, e anche supponente: come se Croce avesse bisogno di essere difeso, e da noi! Quello che si vuol dire, è che molte delle critiche che sono state rivolte al volume del 1923 possono assumere un peso diverso se si considera la natura e lo scopo dei saggi che componevano quel volume, e se si analizzano meglio gli aspetti che hanno maggiormente eccitato i dissensi.

Preliminarmente, non sarebbe male non perdere di vista il taglio che, in generale, Croce volle assegnare a questi contributi, e che è segnalato nel sottotitolo che diede al volume: Note sulla letteratura europea del secolo decimonono. Note, appunto: e non è solo questione di understatement o galateo autoriale. È una denominazione che va letta in parallelo con la dichiarazione di intenti che si trova nell’Avvertenza:

Sarà anche superfluo ripetere che come le mie note non pretendono sostituire i molti e pregevoli lavori esistenti sui singoli autori, ma anzi rannodarvisi per svolgerli e, dove occorra, rettificarli, così non pretendono esaurire gli argomenti di cui trattano, ma soltanto risolvere, come ho detto, alcuni problemi, fermare alcuni punti che rimanevano dubbî, e dare l’avviamento a indagini ulteriori.

Si scorge qui bene il tono, direi pedagogico, della critica affidata a queste note, e una certa diversità rispetto alla critica “maggiore”, ovvero sui maggiori: qui veramente Croce vuole essere, come critico letterario, «maestro di disegno e non di pittura», come ebbe a scrivere a Vossler a proposito dei saggi della letteratura della Nuova Italia[13]. Un atteggiamento che si potrebbe mettere in qualche modo a riscontro di quello assunto da Croce in campo di storia politica e civile, ed esemplificato nella pagina di apertura della Storia del Regno di Napoli: «I lavori di storia, quando procedono in modo pensato e critico, debbono invece, com’è giusto, presupporre quel che già si ha nei libri sul soggetto trattato e dare solo quel che di nuovo si crede di poter fornire in proposito per la migliore e più compiuta intelligenza dei fatti»[14].

Venendo ai motivi che suscitarono gli attacchi e le critiche, un peso non piccolo nel determinarle furono il radicale ridimensionamento argomentato da Croce nei confronti di due artisti che non solo godevano e godono di larghissimo consenso, ma intorno ai quali si era sedimentato nel tempo una sorta di culto nazionale. Ci riferiamo, ovviamente, a Manzoni e Leopardi. Riguardo al primo, Croce riconosceva il grande valore della seconda tragedia, l’Adelchi (specialmente nella figura del protagonista, alla quale Croce dedicherà un saggio riconoscendo in lui Un personaggio poetico a torto disconosciuto[15]), ma formulava, riguardo ai Promessi sposi, un giudizio sul quale si sarebbe dibattuto a lungo: che l’unico romanzo manzoniano non era propriamente opera poetica, ma opera di parenesi religiosa, di moralista più che di artista, addentrandosi nella quale, come aveva scritto Giovita Scalvini, non ci si sente spaziare liberi ma si avverte un qualche senso di angustia. Croce, si dice di solito, ascriveva al capolavoro manzoniano carattere oratorio e non poetico, e non si può dire che così non si colga nel vero; ma a rigore Croce, nel saggio di Poesia e non poesia non pronunciava la parola oratoria, anche se parlava di un «poema della morale religiosa», di un «mondo appercepito da un fermo e intransigente moralista». Di oratoria avrebbe parlato poi un critico, Giuseppe Citanna, e Croce avrebbe in sostanza fatto proprio il termine, scrivendo che «quando si dice dal critico che il carattere di un’opera è oratorio e non poetico, non si vuol già dire che quell’opera non possa essere eccellente, e nemmeno che non possa essere piena di poesia, ma solo che l’intonazione generale di essa risponde a un proposito etico o politico o altro che sia, onde la poesia vi è come asservita e frenata»[16]. Dal giudizio crociano su Manzoni, e sul romanzo in particolare, si può ovviamente dissentire, ma non si può certo dire che Croce non lo argomentasse approfonditamente né che non cogliesse un aspetto decisivo del romanzo. Meno convincente, piuttosto, appare la nota palinodia con la quale Croce, in limine mortis, rivide il suo giudizio di un tempo sostanzialmente negandolo[17].

Ben diverso è il caso del giudizio su Leopardi, quasi unanimemente considerato uno dei meno riusciti tra gli innumerevoli scritti da Croce. Walter Binni ebbe a osservare che «in verità forse rispetto a nessun altro classico il Croce lasciò così chiaramente scorgere i limiti del suo gusto», e non è neanche necessario ricordare la valanga di critiche che sono piovute addosso a Croce dalla nutrita schiera dei leopardisti. Anzi, non è escluso che in Croce un qualche ruolo abbia giocato, in questo e in altri casi, la soddisfazione di cogliersi in contrasto aperto con la communis opinio. In Poesia e non poesia accade lo stesso, in negativo, per Schiller, esaltatissimo in Germania ma da Croce derubricato a «poeta secondario» o, in positivo, a Vincenzo Monti, riabilitato proprio nella sua caratteristica di poeta letterato, poeta della poesia. C’è in Croce certamente, anche il tratto che di nuovo Cecchi coglieva proprio in Poesia e non poesia:

Non si vorrebbe negare, in via assoluta, che Benedetto Croce ci si metta di buona voglia a riuscire, quando lo giudichi necessario, mortificante, e magari irritante. Come somministratore di docce fredde, nessuno oggi in Italia gli leva la mano. Una verità dalla quale tutti si tengono alla larga, egli è sempre disposto a toglierla su, tra il pollice e l’indice, per rigirarla sotto il naso agli schifiltosi[18].

Su Leopardi, in effetti, Croce ha la mano pesante: escluso che egli possa aver qualche merito come filosofo, le Operette morali gli appaiono «viziate» e «frigidissime», lo Zibaldone sopravvalutato; didascalici i Paralipomeni, la Palinodia, e anche La ginestra; la poesia di Leopardi si restringe al massimo ai piccoli e ai grandi idillî. Ma, in assenza di ogni analisi di essi, a colpire è la caratterizzazione della condizione spirituale di Leopardi, che, con parola che Croce medesimo ammette essere «rozza», e che è in effetti venata di Naturalismo se non addirittura di Positivismo, viene definita «una vita strozzata», Leopardi essendo

Premuto, avvinto e sopraffatto da una forza brutale, da quella che egli chiamò la “nemica natura”, che gli spezzò gli studî, gli proibì i palpiti del cuore, lo rigettò su sé stesso, cioè sulla sua offesa base fisiologica, costringendolo a combattere giorno dopo giorno per sopportare o lenire il malessere e le sofferenze fisiche che lo tormentavano invincibili[19].

Un autorevolissimo interprete di Croce, Gennaro Sasso, ha voluto vedere in questa caratterizzazione un riflesso autobiografico, nel senso che nel Leopardi sofferente e impedito nel suo svolgimento Croce avrebbe rivisto sé stesso diciottenne, ferito nel corpo e provato nello spirito dal terremoto di Casamicciola e dalla perdita dei genitori e della sorella[20]. Può darsi che sia così, e può essere che questo abbia condizionato la lettura crociana. Ma certo, comunque stiano le cose, la proiezione autobiografica non sì è tramutata in simpatia e in comprensione, ma ha comportato viceversa un irrigidimento e una chiusura, insomma un atteggiamento di difesa comprensibile sul piano psicologico, ma certo non funzionale su quello critico.

Occorre anche notare che i saggi su Manzoni e Leopardi furono tra gli ultimi a essere composti. Quello su Leopardi, in particolare, è addirittura posteriore a quello su Carducci scritto nel febbraio del 1922 in sostanza per concludere la raccolta, e venne composto soltanto nel marzo di quello stesso anno. Per quel poco che possono valere questi dati esterni, si mettano tuttavia a riscontro di quel che Croce scrisse a Cecchi in risposta alla recensione che abbiamo già due volte citato, e che segnala un ben diverso interessamento a Manzoni e a Leopardi:

Mi è caro che abbiate segnalato il saggio sul Manzoni: quel saggio fu l’anelito di liberazione, che misi appena ebbi lasciato il Ministero e fui giunto a Frascati presso i miei! [Croce fu Ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti, dal giugno 1920 al luglio 1921] Convengo che su Foscolo e Leopardi non avevo granché di nuovo da dire; ma considerai che la mia raccolta sarebbe stata subito tradotta in più lingue (e così è accaduto) e non volli sfuggire l’occasione, di collocare agli occhi degli stranieri, accanto ai poeti di fama europea, i nostri italiani[21].

In effetti, se si guarda alle provenienze geografiche, gli italiani sono appena due di meno rispetto ai francesi (otto contro dieci), e Croce fa spazio anche a poeti non di prima grandezza, come Monti, e soprattutto Berchet e Giusti; i francesi sono presenti con i molto apprezzati Stendhal, Flaubert, Maupassant e i meno apprezzati George Sand e Zola tra i prosatori, e con De Vigny, De Musset e Baudelaire tra i poeti. Fra i tedeschi, se si eccettua il Peter Schlemil di Chamisso, molto amato da Croce, e oggetto di una critica che, caso unico nella raccolta, si rivolge a una sola opera e non trapassa in una caratteristica dell’autore, quasi solo giudizi severi, non solo per il debole e oggi quasi dimenticato Zacharias Werner, ma anche per Heine (ma qui fa velo a Croce una certa distanza ideologica), per Kleist e, come si è visto, per Schiller. Gli autori di altre letterature si legano tutti a letture giovanili di Croce: i romanzi di Walter Scott, quelli della scrittrice castigliana Fernán Caballero, soprattutto i drammi di Ibsen. Seppur lette in traduzione, probabilmente tedesca, le opere teatrali del grande drammaturgo norvegese danno luogo a quello che è forse il saggio più completo della raccolta, se non anche il più bello. La capacità di Croce di cogliere rapidamente gli aspetti essenziali di molte pièces ibseniane rifulge qui perfettamente, riuscendo in un ritratto partecipato e di grande equilibrio.

Abbiamo lasciato fuori il più tardo saggio su Mallarmé (composto nel 1933 e inserito soltanto nella seconda edizione di Poesia e non poesia, quella pubblicata nel 1935), perché è il contributo in cui più chiaramente si dà a vedere quello che forse è, più ancora di quanto lo sia stato per i lettori del passato, l’aspetto di Poesia e non poesia che solleva i maggiori dubbi nel lettore di oggi. Alludiamo, è chiaro, alla “chiusura” di Croce verso l’arte contemporanea, verso le tendenze artistiche che si inaugurano con il Decadentismo e il Simbolismo e trionfano poi nella letteratura del Novecento, trovando in d’Annunzio e Pascoli due casi esemplari, ma trovandone ancor più all’estero, da Rimbaud a Valéry a Proust. Quell’aspetto, però, ossia la critica alla letteratura che viene, in Italia, dopo Carducci e, in Francia, dopo Baudelaire è un tratto inseparabile dalla critica crociana, e può suscitare incomprensione e anche irritazione. In Poesia e non poesia si manifesta in parecchi saggi: nel giudizio durissimo su Kleist, che certo non appartiene a quella letteratura ma ne anticipa in qualche modo le perversioni e i limiti; nel giudizio ancipite su Flaubert, molto apprezzato in Madame Bovary e anche, sia pure in misura minore, nell’Éducation, ma sentito lontanissimo là dove concede alla nuova visione sensuale, torbida e barbarica di Salammbô e della Tentation. Il saggio su Baudelaire, da questo punto di vista, è quasi uno spartiacque, Baudelaire essendo vissuto da Croce come il poeta che, pur condividendo e vivendo quel mondo di esaltazione, di esasperazione, di crisi, pure riesce a fissarlo poeticamente senza soccombervi, e anzi portandovi un anelito di salute.

Il punto è che la critica di Croce, come già si era cominciato a vedere, ma con minor chiarezza, nei saggi che aveva composto per la Letteratura della Nuova Italia (e infatti l’atteggiamento di Croce nei confronti della nuova letteratura si esprime per la prima volta in termini teorici chiari nello scritto del 1907 Di un carattere della più recente letteratura italiana) si rivolge alla concezione del mondo e della vita di cui la letteratura del Decadentismo, e poi gran parte di quella del Novecento, si sono fatte portatrici. È una critica assai lontana da quella che si poteva immaginare discendere dall’Estetica del 1902, con la sua teorizzazione dell’indipendenza dell’estetica dalla morale, ma perfino dall’integrazione sul carattere lirico dell’arte, del 1908. Infatti, Croce sempre di più sembra assumere l’atteggiamento dell’artista e il suo modo di vedere la vita appare come una premessa dell’opera, relativamente valutabile per sé. Il critico letterario è sempre più un moralista, che giudica le opere non tanto nella loro riuscita estetica, ma per l’impulso che possono dare a una visione sana e costruttiva della vita, una visione che contrasti quella malattia dello spirito europeo che Croce vede, e non senza ragione, prendere sempre più piede negli atteggiamenti aggressivi, estetizzanti, sensuali e decadenti che si fanno strada nella società prima ancora che nell’arte. Non si giudica più, come ha osservato Gennaro Sasso, la poesia, ma la serietà dei sentimenti che vi entrano, e il saggio critico tende a trasformarsi in un “frammento di etica”. L’affermazione di principio dell’autonomia dell’arte dalla morale e dal pensiero, nota ancora Sasso, «si combinò con una disposizione della sua critica ad assumere la forma del saggio morale»[22].

Ecco, forse questo è il punto di osservazione da cui occorre porsi se si vuole comprendere meglio la natura di Poesia e non poesia. Come la Letteratura della Nuova Italia non fu, per Croce, materia di un’indagine solo estetica, non fu solo questione di giudizi sul valore letterario, ma fu anche, e in alcuni casi prevalentemente, un modo di prendere posizione circa la situazione culturale, sociale e politica dell’Italia, così Poesia e non poesia non è solo una ricerca sulle letterature europee, ma anche, e per certi versi soprattutto, un intervento che aveva di mira la situazione spirituale di un’Europa uscita devastata dalla Prima guerra mondiale, e presto preda di forze dissolvitrici e corrompitrici.

Questa chiave di lettura, oltre a scaturire quasi spontaneamente dalla lettura dei saggi o almeno di parecchi di essi, può trovare conforto e appoggio anche nella storia esterna dei saggi stessi. Infatti, quando Croce comincia a pensare a un’opera sui poeti del secolo diciannovesimo, non ha in mente solo un’opera sulla poesia, ma un’opera complessiva sullo spirito europeo nel secolo precedente. Pensa a un lavoro molto più ampio (inizialmente vorrebbe includervi anche i saggi su Goethe, e arrivare addirittura a sessanta o sessantacinque saggi) e non limitato alla poesia: afferma, anzi, di doversi limitare «per ora» alla storia della poesia, nell’impossibilità di rivolgersi, con la guerra in corso, alla storiografia politica. «Per ora sono costretto alla storia della poesia», scrive a Gentile l’11 febbraio 1918, aggiungendo: «se filosofia e storia sono tutt’uno, oh, dunque scriviamo una buona volta quelle storie che sono necessarie. Per mia parte avrei già intrapresa quella dell’Italia nella vita europea, se la guerra non mi togliesse e strumenti di studio e determinatezza di problemi»[23]. Nel Contributo alla critica di me stesso, redatto come è noto nel 1915 ma pubblicato solo a guerra finita, aveva parlato di «un lavoro sullo svolgimento storico nel secolo decimonono in quanto vive nelle condizioni presenti della nostra civiltà, una storia che desse quasi mano alla praxis»[24]. Questa genesi della raccolta Poesia e non poesia, segnalata a più riprese da Gennaro Sasso[25], ci porta insomma a concludere che i saggi che poi confluirono in Poesia e non poesia furono pensati inizialmente come facenti parte di un’opera assai più vasta, di storia della cultura prima ancora che di storia letteraria, qualcosa di più simile a quello che sarà, per il Seicento, la Storia dell’età barocca in Italia che a un’analisi della poesia soltanto. E qualcosa che avrebbe in futuro preso nettamente la forma di storiografia etico-politica, con le grandi opere sulla Storia d’Italia e sulla Storia d’Europa. Forse anche questo ci può indurre oggi, a un giudizio più sfumato e complesso su Poesia e non poesia.

  1. R. Montano, Arte, realtà e storia. L’estetica di Croce e il mondo dell’arte, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 83-84.
  2. A. Leone de Castris, Croce, Lukács Della Volpe. Estetica ed egemonia nel Novecento, Bari, De Donato, 1978, pp. 17-85.
  3. U. Eco, Un consuntivo metodologico, in Id., La definizione dell’arte, Milano, Mursia, 1968, pp. 288-95.
  4. R. Wellek, Storia della Critica moderna, vol. VIII, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 308.
  5. Ibidem.
  6. La recensione si può leggere in E. Cecchi, Ricordi crociani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p. 63.
  7. Il breve saggio si può leggere ora in B. Croce, Nuove pagine sparse, Napoli, Riccardo Ricciardi, 1948, vol. II, pp. 275-81. Ma l’espressione “poesia e non poesia” si incontra anche nell’opera del 1936, La poesia.
  8. C. Salinari, Benedetto Croce critico, in «Rinascita», novembre 1952, pp. 621-25. Il saggio è stato utilmente ristampato in appendice al volume di P. Falzone, Il discepolo indocile. Sapegno, Croce e la critica della poesia, Torino, Aragno, 2020.
  9. Si veda in proposito il saggio di G. Sasso Croce e Dante. Considerazioni filosofiche su “struttura e poesia”, in Id., Filosofia e Idealismo I, Napoli, Bibliopolis, 1994, pp. 273-368, che è quasi una monografia sul tema.
  10. L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. I, Bari, Laterza, 1942, p. 189. «Si tratta invero di un libro – proseguiva Russo – dove la sapienza classica dello scrittore si mescola alla giustezza e sicurezza critica dei giudizi, in ogni punto, e dove non ci sono inciampi di digressioni metodologiche o ingombro di prolegomeni di critica della critica». Quest’ultima annotazione, tuttavia, non appare certamente esatta, visto quanto Croce stesso ebbe a scrivere nell’Avvertenza all’opera: «Né mi importa che, per intanto, gl’inintelligenti dicano che io, in luogo di critica della poesia, offro critica della critica; perché gli intelligenti ben sanno che la critica della poesia non può non formare tutt’uno con la critica della critica».
  11. G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, in Id., Altri esercizi, Torino, Einaudi, 1972, p. 56.
  12. V. Stella, Benedetto Croce, in I classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, vol. III, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 348.
  13. Lettera di Croce a Vossler del 10 ottobre 1911, in Carteggio Croce-Vossler, a cura di E. Cutinelli Rendina, Napoli, Bibliopolis, 1991, p. 153.
  14. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1931, p. IX.
  15. B. Croce, Un personaggio poetico a torto disconosciuto: Adelchi (1946), poi in Id., Letture di poeti, Bari, Laterza, 1950.
  16. B. Croce, Critica manzoniana, in «La Critica», 1926; poi in Id., Alessandro Manzoni, Bari, Laterza, 1958, pp. 91 e sgg.
  17. B. Croce, Tornando sul Manzoni: ivi, pp. 125-28.
  18. E. Cecchi, Recensione di B. Croce, Poesia e non poesia cit., p. 63.
  19. B. Croce, Poesia e non poesia, Napoli, Bibliopolis, 2023, p. 101.
  20. G. Sasso, Croce e le letterature, in Id., Croce e le letterature e altri saggi, Napoli, Bibliopolis, 2019, alle pp. 48-59.
  21. Lettera di Croce a Cecchi del 18 novembre 1924, in E. Cecchi, Ricordi crociani cit., p. 100.
  22. G. Sasso, Croce e le letterature cit., p. 22. Ma moltissimi sono i luoghi che si potrebbero citare, e in parte abbiamo citato: si vedano ad esempio le pp. 24, 41, 43, 48, 62.
  23. Lettera di Croce a Gentile dell’11 febbraio 1918, in B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, Milano, Mondadori, 1981, pp. 552-53.
  24. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, In Id., Etica e politica, Napoli, Bibliopolis, 2015, p. 388.
  25. G. Sasso, Storia d’Italia e storia d’Europa, Napoli, Bibliopolis, 2017, pp. 68-69, 139-41, 173-75; Croce e le letterature cit., pp. 69-70.

(fasc. 51, 25 febbraio 2024)