Trasformare le scorie: “Exfanzia” di Valerio Magrelli

Author di Patricia Peterle

«Tramutarmi in potenza per chi amo,

e diventare la sua stessa forza,

e andarmene così, felicemente,

lasciando dietro me

una scia di sorrisi,

trasformato in un angelo custode».

Il flusso intenso fra realtà, pensiero e scrittura è forse uno dei tratti che più caratterizzano le pagine poetiche e saggistiche di Valerio Magrelli. La pagina in bianco – ma sappiamo che questa è sempre grigia, mai bianca – viene lavorata e sperimentata perlomeno in due modi diversi da Magrelli: nella sua produzione in proprio, e nella scrittura altrui (che diventa, a sua volta, anche un po’ sua) cioè nell’attività di traduttore dal francese. Mallarmé, Valéry, Debussy, Barthes e Verlaine sono soltanto alcuni nomi di autori da lui tradotti assieme a delle poesie metariflessive sul lavoro di traduzione che si possono leggere già in Esercizi di tipologia (1992). La traduzione sia nel percorso sia nel laboratorio magrelliano si sdoppia come quando un raggio di luce si riflette su un vetro. Un gesto che può scompigliare, aprire dei varchi inerenti alla stessa scrittura poetica, come ha affermato lo stesso Magrelli in un’intervista:

Si tratta anzitutto di capire la natura fondamentalmente antagonista del linguaggio poetico. Antagonista, ma non direttamente, nel rapporto meccanico con il potere, ma in rapporto all’uso quotidiano, strumentale, “prosaico” della lingua. Anche quando ogni cosa già sembra decretare la sua fine, la poesia non si spegne, al contrario, trae forza esattamente da questa minaccia imminente. Un anticorpo verbale[1].

Come l’angelo custode dei versi dell’epigrafe, essa è anche “potenza” dinanzi a quel che si ama e non può che lasciare dietro una scia di orme e vestigia più o meno visibili: una relazione che è soprattutto intima. Come egli stesso ha affermato, c’è un piacere della lingua come sperimentazione del ludico, come gioco rituale ed estetico con gli strumenti della poesia e del poetico, tesi in varie dimensioni e direzioni. Nel giocare con i versi e in versi, Magrelli tocca toni civili, morali, politici, delineando paesaggi naturali, topografie e paesaggi tecnologici. I movimenti degli occhi di chi occupa uno spazio qualsiasi nel mondo – portatore di una data esperienza – e quelli degli occhi attenti del traduttore si aggrovigliano nell’azione di «indagare le affinità tra l’atto traduttivo e alcune forme di attività mnestica, a cavallo tra competenze linguistiche e procedure attivate nell’atto del ricordo»[2]. Ecco una riflessione-campione tratta appunto dai suoi versi:

Le poesie vanno sempre rilette,

lette, rilette, lette, messe in carica;

ogni lettura compie la ricarica,

sono apparecchi per caricare senso;

e il senso vi si accumula, ronzio

di particelle in attesa,

sospiri trattenuti, ticchettii,

da dentro il cavallo di Troia[3].

Il “mettere in carica”, o semplicemente ricaricare, ha a che fare con il moto continuo del leggere-rileggere, una complessa operazione che a sua volta implica oltre all’attenzione la pazienza nel processo di scavazione che ogni attiva lettura di questo tipo propone. I ronzii dei suoni, dei sensi si sovrappongono e incidono su un semplice vocabolo: quella polvere che si accumula e costruisce a suo modo perfino una possibilità di senso[4].

Negli ultimi anni Valerio Magrelli ci ha offerto un ventaglio di scritture tra poesia, narrativa e saggistica, cioè una serie di incursioni esploratorie del linguaggio. Nel 2018, la sua opera poetica viene pubblicata in un unico volume, Le cavie, con l’aggiunta di alcune poesie inedite, ma per la verità si era in attesa di una nuova grande uscita dopo Il sangue amaro (2014). Ed ecco l’ultimo libro di Valerio Magrelli, Exfanzia, uscito l’anno scorso, nel 2022, che lo riconferma come uno dei poeti più interessanti del nostro panorama contemporaneo. La scelta di questo titolo, vocabolo a dirla tutta non proprio nuovo ma già presente in Condomini di carne (2003), concentra un’intensità di forze, del dire e del vedere, della scrittura.

A prima vista, il prefisso potrebbe indicare, come in espressioni più comuni quali ex-moglie, ex-marito, un divario tra ciò che è stato e ciò che non c’è più, forse un libro sull’infanzia, intuizione che potrebbe essere confermata nella lettura del titolo della lunghissima prima sezione che si apre sotto l’egida di Pollicino. Però, questa è la strada da non seguire: non si tratta per niente di un libro sull’infanzia, anche se, comunque, l’elemento puerile c’è e non viene considerato come una sfera a parte, perché tutti siamo in qualche modo “infantili”. La figura di Pollicino è proprio, forse, un’allegoria della precarietà insita nella nostra contemporaneità[5].

Sia per la ricchezza di prospettive sia nella variazione del linguaggio, con dosi di ironia, sarcasmo e molta invettiva, Exfanzia è soprattutto un libro sulla vecchiaia: una mossa in cui si riconosce la nitida e chirurgica voce di Magrelli, che riesce a controllare a suo favore quell’elemento miope che appanna le cose e le ribalta. In tal senso, se Exfanzia non punta a un ritorno, può solo indicare un’espulsione; forse frammenti, brandelli che il poeta cerca di sistemare sotto la protezione di Pollicino, che è già di per sé una figura della precarietà. Infatti, Pollicino è quello che segna il sentiero con le briciole del pane che vengono poi mangiate dagli uccellini: segni che non segnano, che non garantiscono appunto un ritorno sicuro. La strada a questo punto la si può solo perdere: «Mi perdo, mi perdo, mi perdo: / è tutta la vita che prendo la strada sbagliata»[6].

Due osservazioni di carattere strutturale che sono anche delle piste di lettura: 1) la contrazione del titolo, in considerazione del fatto che di solito i libri di Magrelli avevano dei titoli più lunghi; 2) la riduzione delle sezioni, visto che qui ce ne sono solo due. La prima, “Sotto la protezione di Pollicino”, molto dilatata e in cui sono concentrate la maggior parte delle poesie, come una specie di lungo percorso; e la seconda, “Quattro poemetti”, che tocca temi quali le serie tv, la musica, il navigare e il canto funebre (“Antropocedio”), che in qualche modo sono legati anche al momento della pandemia.

Già in Sangue amaro si leggeva un’epigrafe tratta da Kafka che risuona in queste pagine di Exfanzia: «La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso»[7], ribadita poi da un’altra citazione di Hrabal che la segue, sempre sulla paura. Questo sentimento della paura, e se si vuole pure del male, si dispiega in questa scrittura facendo le veci di un’antenna, la quale lancia uno sguardo spostato (sfocato, miope) che riesce a cogliere dei frammenti di sensibilità e di percezioni più che preziosi. Il male, e tutto il rapporto che Magrelli ha costruito nella sua traiettoria con la letteratura francese, diviene senza dubbio un potente mezzo conoscitivo. Non ci si deve, allora, dimenticare del Kafka cui Bataille dedica un capitolo nel suo Letteratura e il male, tradotto da Andrea Zanzotto[8]. Guardare al male, trovare i mezzi per indagare certo perbenismo è una condizione primaria assunta da Magrelli, che scomodamente sposta con ironia i convenzionalismi perfino sul momento della morte, come si legge in Io, quando morirò, penserò a te: «Diceva un vecchio amico: “Vorrei essere morto, ma non si può avere tutto dalla vita”».

Io, quando morirò, penserò a te:

operaio che mi montasti la cucina lasciando in

mezzo alla strada le scatole d’imballaggio

col mio nome, ragion per cui ricevetti una

multa di duecentomila lire;

ottico al quale chiesi di pulirmi le lenti, e che

quelle stesse lenti mi fondesti, procuran-

domi un danno di cinquecento euro;

meccanico n. 1, che eseguisti malamente la ripa-

razione della cinghia di trasmissione,

lasciandomi in auto-strada con l’auto in

fiamme e mille euro di spese;

meccanico n. 2, che mi montasti un carburatore

sbagliato, facendomi percorrere seicento

chilometri in oltre ventidue ore;

ortopedico che in una banale operazione riusci-

sti a paralizzarmi un dito per sempre.

Penserò a voi, a voi tutti e ai vostri simili,

da cui la mia vita è stata avvelenata

per errore.

Penserò a voi, quando dovrò morire,

non ai miei cari:

solamente a voi.

Vorrò essere allegro il più possibile,

perché la mia dipartita sia più lieve.

Vi penserò col cuore

traboccante di gioia:

almeno, non dovrò incontrarvi più[9].

In questi versi che racchiudono l’esperienza del quotidiano, la fine – la morte – non è vista con malinconica disperazione, ma viene letta attraverso una lente tragico-ironica liberatoria. Non sono in effetti i famigliari e gli amici che si ricordano – la separazione dai cari –, ma sono addirittura gli sconosciuti che in punto di morte vengono ricordati, quelle persone che hanno attraversato casualmente la nostra vita più banale e che in essa hanno provocato danni indimenticabili. Personaggi come l’operaio che ha montato la cucina, i due meccanici, l’ottico e l’ortopedico, dai quali la «vita è stata avvelenata / per errore» (fondamentale il rovesciamento). Personaggi-calamita che richiamano a loro volta altre situazioni simili che scombussolano il corso delle cose («è un fatto, su, prendiamone atto: / io attiro deficienti, gente cui manca qualcosa», in un altro testo dal significativo titolo Magneti Magrelli).

La gioia, quindi, sul punto di morte è dovuta al fatto di non dover più avere a che fare con questi tipi: una visione che non ammette perdono. In altre parole, si potrebbe dire che è una «metamorfosi del male». Bataille afferma che Kafka trasforma in «trappola ogni parola»[10], gesto che in vari momenti di Exfanzia è senza ombra di dubbio riconoscibile. È certo che a questi livelli le idee di unità e di purezza sono, ormai, perdute. Non più il coraggio, le forti e gravi parole che puntano in alto, ma la complessità dell’immanenza, di ciò che avviene attorno a noi. Nel settimo movimento del divertente poemetto Guardando le serie tv, viene ribadita senza nessun filtro o vergogna l’assunzione stessa della paura: «Questa serie mi vuole spaventare: / ma io ho già paura. / Non servono terre terribili / o mostri illimitati. / La mia paura è onnivora, / è un sacrificio umano lei medesima»[11]. Cosa rimane, allora? Una possibile risposta è che ciò che resta sono i conti con i brusii, con i brandelli, con quella dimensione che non può che presentarsi come scomoda. Ed è da questo imbattersi nella debolezza che deriva una visione per niente consolatoria e persino profana della stessa poesia, come si legge in Etimologica:

«Poesia» viene da «pus»:

non te l’aspettavi?

E quanto ci hai messo, ad accorgertene!

Poetare-suppurare-suppoetare,

tipica infiammazione del linguaggio.

«Ascesi, flemmoni, osteomieliti, ecc.:

per eliminare la suppurazione,

la piaga è stata disinfettata con cura»[12].

È al liquido giallastro e verdastro, frutto di un’infezione, contenente anche dei tessuti necrotizzati, che la poesia viene paragonata. Dal corpo viene espulsa questa materia, così come dal poeta viene espulsa la poesia, la quale viene definita «tipica infiammazione del linguaggio». Una reazione all’uso strano, meccanico, “scarnificato” che si fa di tutto l’ingranaggio intrinseco al linguaggio? La poesia non salva, già lo sappiamo, ma diventa appunto non solo un modo di conoscenza, ma anche un modo per «sorridere» alla crudeltà della vita, ci dice Magrelli. Nell’ultima strofa di una poesia, dinnanzi alle «brutte» e «appassite partite» che «suscitano emozioni parassite», a richiamare l’attenzione non è la partita di calcio in sé ma la danza dei nomi di calciatori e arbitri (Ranocchia, Lasagna, Vuoto, Abisso) – brandelli dell’uso della lingua – che permette una riflessione centrale fatta a partire dall’ironia e dal gioco: «Che sta succedendo al linguaggio? / Che morbo corrode il paesaggio?», rime che si allacciano ancora ad «arbitraggio»[13]. Un ingranaggio di significati: «basta una lettera per aprire una breccia».

Scrivere in questo modo significa giocare con le forme tradizionali, destabilizzare significati comunemente accettati, cioè liberare le parole dal loro uso sedentario. Linguaggio-polvere che si moltiplica, si dispiega e attrae altri significati. La percezione, in modo paradossale, avviene nel non-vedere, come tra l’altro lo stesso Magrelli ribadisce nello studio su Valéry. Tutta la rete del vissuto, perfino gli oggetti e il quotidiano più abitudinario, si trasformano a partire dallo sguardo miope, deviante, che incide nella costruzione del poetico («vita sfocata, lingua indecifrabile»). Una posizione, dunque, che si presenta in perenne perplessità, che scarta la strada delle certezze e segue, «sotto la protezione di Pollicino», quella del dubbio. Un’esposizione, per dirla con Duchamp, una capacità di trasformare e mettere in motto le energie sprecate.

Il cane sono io
Alberto Giacometti

Mezzo me è un cane.
Risponde muovendo le gambe,
come se fossero coda.
Lascia che il corpo parli,
da sé, tutto da solo.
Perché mezzo me è un cane[14].

La solitudine intesa da Giacometti nelle sue esili sculture non è soltanto la condizione miserabile o l’incomunicabilità profonda, ma la conoscenza più o meno oscura di una singolarità inattaccabile. Come la mano di Giacometti che percorre da sola le sue scoperte, gli occhi di Magrelli scorrono un paesaggio variegato e vivo nei suoi minimi dettagli[15]. In altre parole, questi testi hanno a che fare con quel motto fugace dei lampeggi, che mettono in evidenza il rapporto complementare e necessario tra la luce e il buio, il vedere non vedendo; o se si vuole si tratta ancora di una sfumatura presente nella lingua poetica di Magrelli, che gli deriva anche dal suo guardare sfocato, obliquo. Una poetica che si riafferma anche nelle cose minime come possono essere tre scarponcini da montagna, nello scarto, nel frammento; quel fascio luminoso che ci permette di vedere una parte dello spazio in cui ci si muove: «un filo di luce che filtra / tra le macerie della grotta crollata».

Dal Sangue amaro sono ormai passati otto anni, e Magrelli sembra affidarsi ancor di più al sereniano passo deformante (memoria, attenzione e pazienza) che è appunto il nocciolo del poetico, quella fiducia anche nell’ignoto. Vittorio Sereni, il poeta che a più riprese appare in Exfanzia («Quando la finirai di intralciarmi il cammino?»). E si potrebbe pensare, allora, anche a quella battaglia di immagini evocata dallo stesso Sereni in Esperienza della poesia (1947). Infatti, leggendo queste pagine si entra in un flusso in cui confluiscono varie esperienze: dallo shopping ai graffiti; dall’indicazione dell’importanza della metrica e dell’accento al movimento del surfer; dalla tradizione poetica e culturale a quella più intima e famigliare; dai libri letti alle serie tv; dallo scrivere in proprio all’importanza della traduzione come scrittura dell’altro; per non parlare del quotidiano (come vari animaletti che abitano i testi) visto con le lenti dello straniamento.

A questi aspetti, già più o meno consueti nella poesia di Magrelli, se ne aggiunge un altro che sembra dominante, cioè quello della vecchiaia, considerata in queste pagine da diversi punti di vista: dal rapporto coi genitori che non ci sono più, dalle fatiche del corpo, dai rapporti con i figli alla presenza della morte. Ma come affrontare il tema della vecchiaia? Al modo di Pollicino, Magrelli lascia briciole (brandelli) di una possibile iconografia, perforata da scarti che paradossalmente disfano il nitore e spuntano su una specie di vetro traslucido impolverato: procedure che lo accompagnano fin dal primo libro Ora serrata retinae (1980). «Il buon Dio sta nel dettaglio»[16], diceva Warburg, che ha illustrato questo principio nell’interminabile Atlas Mnemosyne: secondo Kracauer, proprio in questo motto è racchiuso il pulsare della microstoria. E allora quello che Valerio Magrelli ci offre in Exfanzia potrebbe essere visto come una collezione, una specie di atlas, la cui natura liquida e polverosa si fa imprescindibile. Infatti, la particolarità degli elementi che compongono la collezione, per ricordare Elio Grazioli, risiede appunto in quel singolare rapporto che hanno con la realtà: «il collezionista sembra custodire in essi anche un segreto e vedervi qualcos’altro ancora»[17]. La collezione può essere, dunque, pensata come un «discorso»[18], allontanandosi dalla semplice descrizione o decifrazione di codici.

Una collezione che potrebbe avere a che fare con gli strumenti umani – per ricordare il titolo di Vittorio Sereni – e che mette in evidenza come la stessa poesia sia fatta di quella polvere invisibile, di quella materia che è anche vita. Già si leggeva in Natura e venatura (1987): «Quando l’aria si illumina compare / sospesa / la natura della polvere, / la sua essenza volatile, la discesa / sul mondo. Il pulviscolo è l’ombra / della luce, non quella / data dalla sua mancanza, ma la sostanza / agente, il buio vivo, / l’alimento notturno del fulgore»[19]. La polvere è anche quello sporco che la società moderna vuole eliminare, però essa è per il dadaista materia di lavoro e soprattutto linguaggio; e non dimentichiamo che uno dei primi libri di Magrelli è proprio sul dada[20].

Quante foto – che noi vediamo senza vedere – «sbucano» da Exfanzia?

Poi sbuca fuori una foto
di me che sto con Alfio.
Proprio così, c’è scritto.
Ma Alfio chi?
Neanche troppo vecchia,
circa vent’anni fa,
e io che abbraccio questo sconosciuto.
Forse lo sconosciuto sono io,
altro che Alfio[21].

Non sappiamo chi sia Alfio, non lo sa neppure l’io della poesia: «Proprio così c’è scritto / Ma Alfio chi?». La certezza è proprio quella della foto (che ovviamente il lettore non vede), la cui immagine riverbera fino al suo ribaltamento, che in termini stilistici si concretizza nella scelta della ripetizione (strategia, questa, identificabile anche in altre poesie). Se nei primi versi lo sconosciuto era Alfio, alla fine lo sconosciuto diviene l’io che guarda la foto, il quale nel “vedersi” non si vede; sono passati infatti degli anni, era molto più giovane ed era accanto ad Alfio: «Forse lo sconosciuto sono io, / altro che Alfio».

Riprendiamo ora queste altre parole di Magrelli:

poi ho aspettato. Aspettato che cosa? Che alcune di quelle immagini mi saltassero all’occhio. Occupandomi di scrittura, oltre che di traduzione (attività talvolta assai sottovalutata), certe espressioni mi incuriosiscono estremamente […] Insomma, mi sono esposto a tali radiazioni formali e cromatiche, affidandomi alla loro efficacia e insieme alla mia sensibilità. Ho aspettato il loro arrivo, il loro impatto sul mio sguardo. Altrimenti detto, mi sono fatto io stesso carta sensibile, per essere impresso, ossia per ricevere dalle immagini le mie impressioni – in breve, per restarne “impressionato”. Soltanto allora sono potuto passare all’atto critico vero e proprio, consistente nello spiegare come mai, tra tante fotografie, proprio quelle dieci, molto più delle altre, mi avessero punto sul vivo. Così, di fatto, ogni didascalia racconta come una precisa immagine mi abbia aggredito, ovvero mi sia “saltata all’occhio”[22].

Ciò che interessa è come lo sguardo si delinea in questa descrizione. Come procede lo sguardo? Ovviamente questo brano non ha niente a che vedere con le poesie di Exfanzia, è un commento ad alcuni lavori di Franco Fontana (di cui un estratto è uscito proprio su «Antinomie»). Ma c’entra eccome, nel momento in cui queste parole si presentano come una riflessione appunto sullo sguardo, su come guardare e approcciare le immagini che “parlano”.

Queste parole dedicate alle foto di Franco Fontana parlano anche del corpo del poeta che pazientemente aspetta, si espone, si fa oggetto sensibile per registrare ciò che gli salta all’occhio. In una tale prospettiva, non si può aspirare a una visione totale, a un io monolitico – come si legge nella poesia Sul centauro («Mi sento mezzo, / certe volte, doppio, / mai uno, invece, / mai lo stesso: Sul centauro»[23]) –, ma è possibile riconoscere barlumi, lampeggiamenti che non possono essere che parziali, singolari. È in questa corporeità che agiscono le azioni deformanti, reversibili, disgiuntive dalle quali vengono fuori immagini piene di porosità, che “allevano” quella polvere vitale. Siamo nella sfera dell’infra-ordinario, per ricordare Perec[24], dell’infra-sottile, seguendo Elio Grazioli[25]. Cioè in quella dimensione che si espone «al limite della percezione nei fenomeni al limite della materialità». È, pertanto, questa apertura a permettere gli scarti così presenti in questa poesia, che rischia e si interroga a fondo sull’abituale; scarti che in essa vengono dagli accostamenti e da una trasversalità inusitata, come avviene appunto al riguardo della vecchiaia: «La vecchiaia è questione d’idraulica, / la valvola mitralica che perde / l’urina che non viene trattenuta, / lacrime»[26].

Un esempio dello sfrecciare obliquo di Magrelli «sulla tela del tempo» ci arriva proprio da una poesia che parte da una foto del figlio:

Mio figlio sfreccia sugli sci, nella foto,
e sfreccerà per sempre.
Io lo guardo e ne soffro,
sulla tela del tempo lacerata
dai suoi sci.
Perché non ne gioisco?
La pista sta finendo,
ma non è per questo.
È che lui mi lascia indietro,
è che lo vedo allontanarsi da me,
è che mi vedo sempre più lontano[27].

La parola «foto» è presente in coda al primo verso ed è anche tra due virgole, scheggia del verso, scheggia di un tempo. Anzi, un incrociarsi dei tempi: a quello dello sguardo si sovrappone quello del ricordo di quanto la foto è stata scattata, ma non in modo lineare, perché si agisce appunto sul presente. Il poeta guarda e soffre, la pista di sci si sovrappone e diventa la pista della vita, quella che «sta finendo», sulla quale egli vede il figlio allontanarsi, vedendosi al contempo «sempre più lontano». Dalla foto, dunque, scatta una scia di percezioni e di ricordi che vengono densamente concentrati in undici versi che racchiudono in sé un intero rapportarsi.

In un’altra pagina, non sono più gli sci che sfrecciano, non c’è una foto. Ci sono, però, due treni che s’incrociano sulla stessa linea, a metà strada e in direzioni contrarie, uno con lui e l’altra con lei (la figlia, alla quale la poesia è dedicata); però non è detto che i passeggeri si accorgeranno di questo incontro. Questa è un’altra immagine precisa, chirurgica, la cui concretezza aiuta a sostenere la malinconia liquida di questi incontri letti attraverso la chiave di un allontanamento.

A mia figlia

Ci incroceremo in treno,
a metà tratta,
tu verso Sud, io al Nord,
nella stessa linea,
ma senza neanche accorgercene.
Sarà un momento,
i due vagoni passeranno vicini,
senza neanche accorgersene.
Mentre lo scrivo, mi riempio di tristezza,
e invece bisogna sorridere
all’infinita crudeltà della vita[28].

Le foto e altre immagini dell’archivio memoriale hanno un ruolo fondamentale, perché sono appunto dei calchi, delle orme che divengono un vero e proprio varco tra reale e immaginario: «è l’immagine della polvere lasciata dalla polvere stessa, da quella polvere. Qui sta il senso principale del loro rapporto, che illumina la peculiarità del mezzo fotografico in modo nuovo attraverso il soggetto della polvere»[29]. C’è uno statuto della traccia che qui unisce tempo, polvere, foto e poesia: «Questo è il tempo della polvere e, finalmente e insieme, il tempo della fotografia, cui la polvere risulta e finisce legata indissolubilmente»[30]. Ne è, dunque, un esempio la poesia scelta per la copertina:

Che sorrisone faccio nella foto!
Sta per iniziare la gita
e scherzo con gli amici.
Tra mezz’ora, cadendo,
mi romperò una spalla
e poi sarò operato per due volte.
Ma che sorriso faccio, nella foto!
Arreso, felice, imbecille.
Perché, se stiamo bene,
abbiamo sempre l’aria da imbecilli.
Una foto qualsiasi, una storia qualsiasi.
Tendini come versi, lunghi e fragili.
Siamo fatti di vetro soffiato:
l’unica cosa buona sta nel soffio[31].

Qui c’è un verso che sintetizza i lampeggi menzionati e introduce la mossa dello scarto: «Una foto qualsiasi, una storia qualsiasi». Nella prima parte c’è una foto (l’immagine è essenziale), un’apertura vera e propria, a partire dalla quale il poeta si ricorda di una sua caduta, di un’operazione e si chiede: perché quando si è felici la faccia è sempre quella da imbecille? La satira si esercita anche su sé stesso (il proprio essere cavia). Nella seconda parte di questa poesia, non a caso viene la “qualsiasità” – arriva la maestria della trasfigurazione dell’evento quotidiano: «Tendini come versi, lunghi e fragili. / Siamo fatti di vetro soffiato: / l’unica cosa buona sta nel soffio».

La penna di Magrelli che scrive della vecchiaia e di questo processo di deteriorazione al quale lo stesso poeta si sottopone (e noi con lui) è come mani che si disegnano, per riprendere il titolo di una delle immagini di Escher, già indicata da Andrea Cortellessa nel parlare della prima produzione poetica magrelliana. Pare che ora quelle mani tornino ma in una costellazione diversa: le mani che si disegnano a vicenda vengono, ora, ribaltate da due poesie che parlano dell’atto del disegno, atto poetico. Il primo testo è nuovo, il secondo è ripreso da Disturbi del sistema binario (2006), e sono messi forse non a caso in coda al volume, seguiti dalle seguenti parole: «Questi erano i versi del passato [schegge], ma sono sempre io sedici anni dopo» (in questa prospettiva è possibile anche leggere Calchi e gessi). C’è una partita sottile e raffinata che si gioca anche all’interno delle stesse poesie, intessendo rimandi, connessioni e agganci.

Mani che disegnano e scrivono, che oggi fanno «soltanto scarabocchi»: iscrizioni sulla carta, che diventa poi la casa di quei segni. Gioco di sfocature che appare tra l’altro anche nelle poesie dedicate alla traduzione, gesto di per sé di lutto, di ospitalità, del vedere e dell’accogliere l’altro. Altro che significa perfino altro tempo. In effetti, in apertura a una delle poesie di questo gruppo si leggono le parole di Mahler («La tradizione non è l’adorazione delle ceneri, ma la custodia del fuoco»), riprese a loro volta nei versi di Magrelli in chiave di resurrezione, cioè la declinazione al futuro «del passato del testo venturo». Traduzione e vecchiaia sono dimensioni diversissime, ma hanno a che fare con la precarietà, la perdita, la fragilità. E si sentono qui già gli echi di un’epigrafe di Magrelli tratta da Clarice Lispector: «Dove si nasconde la musica, quando non suona?»[32].

La cenere viene, così, assunta come eccesso di morte, vale a dire di sopravvivenza. L’inebriarsi di cenere (si può pensare anche alle briciole di Pollicino), il disseminarla e disperderla non sarebbe, allora, un gesto per declinare in sede poetica e critica le situazioni, le esperienze trasfigurate, gli oggetti, i ricordi, le persone care, i libri letti, gli autori amati; per declinare dunque tutta la sfera “parlante” di quella poesia del bricolage, del “dettaglio”? Una scrittura che si nutre dei granelli, dei pulviscoli di polvere perfino infinitesimali, ovvero dei tasselli che l’aiutano a custodire il fuoco: «Perché cancellare le tracce / di quella luce versata sul mondo?»[33].

  1. P. Peterle, E. Santi, Vozes: cinco décadas de poesia italiana, Rio de Janeiro, Editora Comunità, 2017, p. 334.
  2. V. Magrelli, La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico, Bologna, il Mulino, 2018, p. 16.
  3. V. Magrelli, Le cavie-poesie 1980-2018, Torino, Einaudi, 2018, p. 368.
  4. Cfr. P. Peterle, À escuta da poesia, Relicário, Belo Horizonte, 2023, pp. 101-50.
  5. «Secondo me, il punto debole del nostro modo di pensare sta nel considerare la puerilità come una sfera a parte, la quale in un certo senso non ci è estranea, ma che resta al di fuori di noi e non potrebbe essa stessa costituire né esprimere la propria verità, ciò che essa veramente è»: G. Bataille, La letteratura e il male, trad. di Andrea Zanzotto, Milano, Rizzoli, 1973, p. 140.
  6. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 21.
  7. F. Kafka, Lettere a Milena, a cura di F. Masini, trad. di E. Pocar ed E. Ganni, Milano, Mondadori, 2021.
  8. Nella cui premessa già si legge: «La letteratura è comunicazione. La comunicazione esige lealtà. La morale rigorosa è data, in questa prospettiva, partendo da certe complicità nella conoscenza del Male, sulle quali si fonda la comunicazione intensa. La letteratura non è innocente e, colpevole, doveva infine ammettersi tale. Soltanto l’azione ha dei diritti. La letteratura, come ho voluto gradualmente dimostrare, è il sospirato ritrovamento dell’infanzia. Ma un’infanzia che comandasse, avrebbe verità? Di fronte alla necessità dell’azione si impone l’onestà di Kafka, il quale non concedeva a sé alcun diritto»: G. Bataille, La letteratura e il male, op. cit., pp. 11-12.
  9. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 90.
  10. G. Bataille, La letteratura e il male, op. cit., p. 139.
  11. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 98.
  12. Ivi, p. 85.
  13. Ivi, p. 49.
  14. Ibidem.
  15. J. Genet. L’atelier di Alberto Giacometti, Paris, Editions Gallimard, 2007.
  16. Cfr. G. Mastroianni, Il buon Dio di Aby Warburg, in «Belfagor», vol. 55, n. 4, 2000, pp. 413-42. Cfr. JSTOR all’URL: http://www.jstor.org/stable/26149572 (ultima consultazione: 14 ottobre 2023).
  17. E. Grazioli, La collezione come forma d’arte, Milano, Johan & Levi editore, 2012, p. 45.
  18. V. I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Milano, il Saggiatore, 1998, pp. 121-32.
  19. V. Magrelli, Le cavie ‒ poesie 1980-2018, Torino, Einaudi, 2018, p. 153.
  20. V. Magrelli, Profilo del Dada, Bari-Roma, Laterza, 2019.
  21. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 73.
  22. V. Magrelli, «Fraco Fontana, fotografie saltate all’occhio», in «Antinomie», 3 settembre 2021; disponibile su https://antinomie.it/index.php/2021/09/03/franco-fontana-fotografie-saltate-allocchio/ (ultima consultazione: 14 ottobre 2023).
  23. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 75.
  24. G. Perec, L’infra-ordinario, trad. di Roberto Delbono, Macerata, Quodlibet, 2023.
  25. Faccio riferimento ai saggi: E. Grazioli, La polvere nell’arte. Da Leonardo a Bacon, Milano, Bruno Mondadori, 2004; E. Grazioli, Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti, Milano, Postmedia Books, 2018.
  26. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 45.
  27. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 87.
  28. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 92.
  29. E. Grazioli, La polvere nell’arte. Da Leonardo a Bacon, op. cit., p. 67.
  30. Ivi, p. 67.
  31. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 80.
  32. V. Magrelli, Exfanzia, op. cit., p. 90.
  33. Ivi, pp. 103-104. Una prima versione di questo saggio è stata pubblicata su «Antinomie», il 24 marzo 2022, col titolo Valerio Magrelli, fuoco alle scorie; disponibile su https://antinomie.it/index.php/2022/03/24/valerio-magrelli-fuoco-alle-scorie/ (ultima consultazione: 14 ottobre 2023).

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)