La memoria inganna. O, meglio, è nutrita di passioni postume. Se questo si può dire della memoria privata, non è diverso ciò che accade alla grande storia che su quella minuta spesso poggia la propria ricostruzione. Ma di un’altra, ancor più effimera, vorrei dire con le parole che Ripellino riserva alla memoria del teatro e delle sue messinscene: «Ogni spettacolo è un castello di sabbia, un’effimera cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni, tremola, si assottiglia nell’acqua della memoria»[1]. E vorrei fargli eco, chiamata a far rivivere uno spettacolo lontano, meglio, come si usa dire con benevolenza, uno “spettacolino”, una cosuccia quasi in famiglia, una briciola di quella fanciullesca allegria, favilla che brucia nel nulla, nell’emozione che animava l’attesa del Maestro fra gli allievi.
Della serata a casa Graziadei, in via Barnaba Oriani 22, manca la data precisa. Per la stagione, Serena Vitale è certa fosse dicembre, verso Natale. Si ipotizza fosse il 1966, per esclusione. Nel 1967, infatti, il gruppo di allieve del Corso di Lingua e letteratura russa, formato da Serena Vitale, Anna Valeria Visalberghi, Gabriella Armanni e me, partì in autunno per Mosca, con una borsa di studio di nove mesi. L’anno successivo, il Sessantotto, immersa appieno nel clima di rivolta, per alcuni mesi mi allontanai da Ripellino. Pertanto il Natale del 1968 non partecipai, se ricordo, all’allestimento del piccolo spettacolo con canti di kolęde (pastorali natalizie polacche) organizzato nell’Istituto dalle allieve Maria Antonietta Allegrini e Alberta Rossi, cui Ripellino dedica la poesia n. 38 delle Notizie dal diluvio.
Certezza del luogo. Un villino progettato dall’architetto razionalista Mario Derenzi per il padre di mia madre, Augusto Giacinti, destinato a ospitare tutta la famiglia. Collocato su un dislivello, la scalinata di via Brocchi che congiunge via Barnaba Oriani a viale Parioli, si articolava, nella parte riservata a mia madre e a noi tre fratelli, in un piano terra e un seminterrato con ampio terrazzo. La scala quasi elicoidale che congiungeva i due piani, con gradini in legno, aveva un sinuoso corrimano sostenuto da sottili e robuste bacchette cilindriche in ottone che permettevano, scendendo, di aver immediato il colpo d’occhio sull’ampia sala del seminterrato, dove aveva posto, oltre a un comodo divano con due poltrone e a un tavolo da pranzo, un pianoforte che ben si prestava all’allestimento teatrale. Qui ci riunivamo con i compagni di corso, gli «Anziani» del primo gruppo di russisti ripelliniani, destinatari della celebre Lettera. Da quella scala dovevamo certo scendere noi protagoniste, Serena Vitale e io, del duo Voskovec & Werich[2], i clown surrealisti a cui Ripellino aveva dedicato un corso. Dal repertorio delle loro riviste, sempre musicate da Jaroslav Ježek, fu prescelta la canzonetta La marcia degli uomini al cento per cento (Pochod stoprocentních mužů), satira dell’uomo forte, muscoloso dominatore nei cartelloni della propaganda sovietica.
Certo era il mio abbigliamento con una larga maglia a righe, come quella indossata dai due clown, mentre Serena Vitale ricorda il suo imitasse uno smoking, corredato di cilindro e fiore rosso all’occhiello. Null’altro. Maria Antonietta Allegrini e Alberta Rossi giurano di uno spettacolo così allestito invece nell’Istituto, dove credo di aver trasportato come arredo scenico una scaletta in legno a libretto, anni Quaranta, eredità di mia nonna. In via Barnaba Oriani venne, inoltre, mimata la canzonetta Babička Mary (Nonna Mary), sempre tratta dalla rivista Vest-Pocket-revue, parodia dei film americani sul Far West, anch’essa oggetto di lezione nei corsi di letteratura ceca.
Ripellino era presente. Ho ricordo dell’attesa del suo arrivo; ci si affollava dopo la rappresentazione attorno a lui, di certo tutti ci servimmo di quanto mia madre doveva aver preparato per l’occasione e so che Ripellino la ringraziò ancora l’indomani per l’ospitalità. Si aggiunge a questa confusa permanenza, impigliata nel tramaglio assottigliato della memoria, un altro ricordo, attivato da Rita Giuliani, sulla messinscena del monodramma di Velemir Chlebnikov Gospoža Lenin (La Signora Lenin), in cui lei stessa impersonava uno dei sette ‘sensi’: l’Udito, a quanto ricorda. Non altro attorno alla laconica rimembranza anche per questo allestimento, di cui si ignorano data, protagonisti, regista, scenografo, costumi. Solo il luogo è certo, stando alle sue parole: sempre via Barnaba Oriani, 22.
All’origine del nostro ardire di improvvisati teatranti è di nuovo e ancora un avvio di Ripellino, quando, forse tra il 1964 e il 1966, affidò agli allievi dei quattro anni di corso il compito di ricreare una sceneggiatura per la pièce di Gogol’ Ženit’ba (Il matrimonio), dopo averne fatto rivivere, attraverso la sua cronaca, l’esilarante, travolgente messinscena di Kozincev e Trauberg nel 1922[3] che ciascuno di noi tentò a modo proprio di doppiare. In coppia con la compagna di corso Mariella Mainini, tentammo di ideare una nostra variante, ma non ne venne fuori che una scopiazzatura di quelle ingegnosissime invenzioni. Tuttavia fu per tutti noi un introibo, ingresso all’audacia di esporre il corpo scenico, nonostante la riservatezza dell’educazione borghese, la timidezza dell’adolescenza ancora prossima.
Nella sua rabdomantica introduzione alle Cronache di teatro, circo e altre arti dal titolo ripelliniano Siate buffi[4], Alessandro Fo rinviene la radice «metafisica» del circo, onnipresente in Ripellino come «allegoria e compendio di tutte le meraviglie a cui la vita, variabilissima, ci espone»[5]. Delle Avanguardie Ripellino condivideva la passione per questa arte popolare, indissolubilmente tragicomica, dove «non c’è confine fra santità e allegria»[6]. Ne scopriva le sottili tramature ben lumeggiate dal celebre saggio di Starobinski Portrait de l’artist en saltimbanque che, appena pubblicato nelle edizioni Skira, divenne lettura imprescindibile per i suoi studenti, assieme alle Operette morali di Leopardi. Già dal 1949, intuisce Antonio Pane, il gemello dei Dioscuri che vegliano dall’inizio sulle porte del continente Ripellino, egli «‘vede’ le costellazioni di un cosmo originale. La più luminosa è l’Orsa Theatri»[7].
C’era in Ripellino lo sconforto dei clown di Rouault e la levità dei funamboli da strada; il suo Credo era l’allegrezza dei Chassidim, la giocoleria di parola che sgorga per ammansire l’abisso, cita Rabbi Nachman di Breslav e la cultura chassidica di cui parlava con l’amica di lunghi anni, Giacometta Limentani, studiosa di Torah e Midrash. «Ferire di gioia, straziare il grigiore»: il vessillo che Corrado Bologna fa sventolare su quelle terre incognite dalle mille meraviglie[8]. E potrebbe dirsi che il fool shakespeariano, prossimo al russo jurodivyj, lo stolto di Dio, vada in ultimo ad accostarsi alla paradossale idiozia del Buon soldato Švejk.
L’interesse per Voskovec & Werich, nato durante il Corso di letteratura ceca, si consolidò nella lettura della Storia della poesia ceca contemporanea, testo di programma per l’esame di Lingua e letteratura ceca. Eravamo un esiguo gruppetto contagiato dallo sperimentalismo del Teatro Liberato (Osvobozené divadlo), diretto da Emil František Burian, dove nell’aprile del 1927 avevano debuttato V & W, passando dal teatro amatoriale al teatro vero e proprio con quella stessa Vest- pocket-revue, nella parte di due clown che «divennero poi maschere costanti, figure cicliche»[9]. Ripellino riconosceva nell’arte e nel loro repertorio «tutta la poetica del Devĕtsil: l’amore della vita, l’esotismo e il gusto delle buffalobilky, dei romanzi e dei film d’avventura»[10]. Inclini alla burla, al bisticcio verbale, al pastiche e al grottesco metafisico, ostili al teatro tradizionale, essi traevano piuttosto ispirazione da Cocteau, Apollinaire, dal guignolesque di Jarry, «soprattutto dal circo». «Trionfa spesso in loro una comicità senza oggetto, ‘bezpředmĕtná’ una ricerca della švanda (facezia) pura che sbocca nell’assurdo»[11]. Vorrei credere che, forse proprio in virtù di quella mia duplice interpretazione, Ripellino decise di assegnarmi qualche tempo dopo la traduzione della lettera che Roman Jakobson scrisse ai due clown nel 1937 per il decennale del Teatro liberato[12]. Si concludeva, dunque, il ciclo circense di quegli anni, che vanno ricordati anche per le intraprese che segnarono il laico miracolo dell’Istituto di Filologia slava alla Sapienza di Roma[13], quando a Natale l’impareggiabile, rimpianta Signora Marcella[14] allestiva un albero festivo con ninnoli e lucine, c’erano dolciumi e scambi di auguri, mentre a turno, in quegli anni di incantamenti sonori, di vagheggiamenti dell’edenica “Ripellinoland”, noi allievi Anziani improvvisavamo piccoli spettacoli, tratti dal ricco fondaco dei corsi del maestro. L’Istituto si trasformava, lo studio di Ripellino diveniva camerino per cambi di costumi, mentre il corridoio d’ingresso si faceva platea attorno a uno spazio quadrato, lasciato libero davanti alla porta della sala di lettura con finestra e in seguito occupato dalla cattedra per le lezioni di letteratura. Così, per il Natale del 1964 (o 1965?), si tenne una lettura di poeti russi nelle traduzioni di Ripellino dalla Poesia russa del Novecento, sotto l’accorta regia della talentuosa Eliana Robertiello, forse del corso 1961-1962, con musiche selezionate dal boemista melomane del gruppo, Sergio Corduas[15], che scelse il Largo e maestoso che apre la Sherazade per accompagnare la lettura della poesia di Nikolaj Gumilĕv dedicata al Canale di Suez. Poi fu l’anno in cui Gianni Pampiglione, polonista[16], riadattò e interpretò la pièce di Mrožek I tre naufraghi, in trio con Stefano Trocini[17] e lo stesso Sergio Corduas, utilizzando la cattedra a mo’ di zattera. Tanto veritiera fu la sua recitazione che ricordo quando si sfilò scarpa e calza, movimentando il piede nudo, tenuto fra le mani: un gesto per allora quasi scandaloso. E piace pensare che siano stati forse quegli ingenui “improvvisi”, invenzioni sceniche da collegiali, a muovere poi lo sperimentalismo della compagnia degli skomorochi che Ripellino, nelle vesti di novello Mejerchol’d, diresse per alcuni anni negli spettacoli che andarono in scena all’Abaco e in altri teatrini off, fioriti a Roma nei primi anni Settanta. La grande prova generale, forse nella primavera del 1970, ebbe luogo nella sala rettangolare di lettura, con la finestra che affacciava al di sopra dell’ingresso della Facoltà di Lettere e filosofia, le pareti occupate dalle belle librerie in legno chiaro con i libri a vista chiusi nelle vetrine, un lungo tavolo dove si tenevano le primissime lezioni di letteratura e di lingua, finché l’aumento degli iscritti non mutò la funzione dei locali. Seduto al centro di quel tavolo, attorniato da un nugolo di studenti e curiosi, Ripellino proponeva agli aspiranti attori e attrici di pronunciare, tenendo fra le mani una matita o una bacchetta, una stessa parola “neutra” (non ricordo) con diversi accenti, sgomento, gioia, rabbia, ironia etc. Fu quello il battesimo.
- A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, Torino, Einaudi, 1965, p. 11. ↑
- Per avere notizie dei due artisti e della loro attività, cfr. A. M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea, Roma, Le edizioni d’Argo (L’arcipelago, vol. I), 1950. ↑
- Cfr. A. M. Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Torino, Einaudi, 1959, p. 145. ↑
- «Siate buffi, siate buffi!», echeggiava a fine spettacolo dal piccolo loggione del teatro dei Servi a Roma, dove Rosa di Lucia, attrice prediletta, mise in scena il recital Sinfonietta dalle poesie di Ripellino, a dieci anni dalla sua morte, nel 1988. ↑
- A. Fo, Non esistono cose lontane, in A. M. Ripellino, Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti (L’Espresso 1969-1971), a cura di A. Fo, A. Pane, C. Vela, Roma, Bulzoni editore, 1989, p. 45. Parla Claudio Vela di un’«astratta fenomenologia» che ricuce per i lettori «un testo slabbrato dalla ferita subita», ovvero «il materiale ebdomadario» delle note teatrali, inizialmente vergate al buio da Angelo Maria Ripellino critico teatrale, in C. Vela, Note al testo, ivi, pp. 71, 73. ↑
- A. M. Ripellino, Chagall e la gioia saltimbanca della vita, in «Il dramma», 3, 1970, pp. 73-79 (rist. in A. M. Ripellino, I sogni dell’orologiaio. Scritti sulle arti visive (1945-1977) a cura di A. Nicastri, Firenze, Edizioni Polistampa, 2003. ↑
- A. Pane, Invio (come nei voti, lieve), in A. M. Ripellino, Fantocci di legno e di suono, Torino, Nino Aragno editore, 2021, p. VII. ↑
- Cfr. le due interviste, curate da Corrado Bologna in «Il nostro tempo», 23/07/1972, p. 3 e «La fiera letteraria», 15/06/1975, pp. 12-15. ↑
- A. M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea, op. cit., p. 30. ↑
- Ivi, p. 31. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. R. Jakobson, Lettera di Roman Jakobson a Jiří Voskovec e Jan Werich sulla noetica e la semantica della facezia, in Id., Poetica e poesia, intr. di R. Picchio, traduzioni di G. L. Bravo, R. Buzzo Margari, M. Contini, L. Fontana, C. Graziadei, M. Lenzi, Torino, Einaudi, 1985. ↑
- Ricordo che a partire da quegli anni anche a casa Lo Gatto, ancora presente il professor Ettore, la figlia Anna (Anjuta) Maver Lo Gatto, docente di Lingua russa alla Sapienza e poi di Lingua e Letteratura russa al Magistero di Roma, organizzava un albero di Natale, con dolci e piccoli doni, alla cui apertura l’anziano professore era impaziente di partecipare. ↑
- A lei, che non conosceva il cirillico, si dovevano tuttavia le dispense delle lezioni, con i testi dei poeti russi, prima da lei battute a macchina, poi ciclostilate e destinate agli allievi. ↑
- Sergio Corduas divenne in seguito docente di Lingua e letteratura ceca all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È mancato nel 2022. ↑
- Gianni Pampiglione, regista, attore, collaboratore di Witkiewicz in teatro, insegnante all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico per alcuni anni, si è spento due anni fa. ↑
- Stefano Trocini, dopo la laurea, aveva lavorato alla redazione romana dell’Agenzia Novosti. È mancato nel 2015. ↑
(fasc. 50, 31 dicembre 2023)