I piani paralleli di vita e letteratura implicano la presenza di un filtro che consenta al dramma della nostra esistenza di condensarsi in una forma. Una forma che si faccia − dice Roberto Deidier1 già nel 1994, all’interno di una dichiarazione di poetica poi annessa a una sua raccolta di traduzioni e riscritture − «senso del nostro essere storici»2 e, dunque, espressione del sentimento della storia. In questo modo, realtà e stile, se si vuole esperienza e intonazione, cercano la possibilità di una combinazione, un segno fortemente voluto perché radicato nelle silenziose profondità di tutto ciò che ci circonda. Non è, perciò, sbagliato sostenere, come pure in parte è stato fatto3, che la scrittura di Deidier, nel rapportarsi al reale, passa − per così dire − dalla finestra. è attraverso essa, forma obbligata dello sguardo che vuole uscire, che il poeta, sin dalle sue prime prove, inquadra i suoi versi, il loro universo immaginario di riferimenti e l’ideologia stessa dalla quale si dipartono: «Se all’improvviso il corpo lascia / ogni riflesso, ogni traccia / delle figure oltre la finestra, / non resta che il loro contorno, / la linea di un disegno insicuro»4. Perciò, attraverso la finestra, al di là della penombra delle persiane, Deidier misura l’ampiezza delle cose, considera l’ordine delle stanze, scorre e tasta la granulosità dei muri, le rientranze e le facciate, registrandole e conservandole, sino a riportare sulla sua lavagna scura l’idea che ha maturato, l’apotema del mondo5 o, chissà, il suo perimetro6: magari, si può anche dire, l’Heim, ovvero ciò che è “di casa”. La sintesi che deriva da questa idea è un’intima “geometria”.
Ma una geometria di cosa? Oltre la palude dei segni che coglie e dei loro riverberi, Deidier non trova che il nulla, «questo vuoto intorno (che) non concede tregua», «vuoto che inibisce ogni difesa / e trasmuta e non fa neppure accorgere / fra tante somiglianze quale sia / la più vicina al dolore»7, «questo luogo qualsiasi / Riporta ovunque a un centro / Che non so più sognare»8, assicura a più riprese; oppure, come aveva scritto qualche anno prima in uno dei suoi primi componimenti, «vuoto che ci sembra chiamare»9. Eppure, è proprio su tale «inchiostro del nulla», su questa «parete che divora l’eco»10, che lo sguardo di Deidier indugia costantemente, ostinandosi a spostare il suo oggetto, a riconsiderarne più volte la sua insufficienza organica. Non è improprio definire il nulla che trova Deidier, nel quale Michel Foucault avrebbe individuato quel “volume”, quell’“essere di negazione” che si pone all’origine dell’opera stessa11, come inconscio della sensazione o, in altre parole, scoperta che il fenomeno della coscienza non è unitario; ciò, tra l’altro, consente la proiezione del proprio campo nel campo dell’altro, restituendo così allo spazio umano la sua struttura geometrica. Che cos’è, poi, l’inconscio se non il discorso dell’altro?
Dunque, attraverso la finestra («Sulla finestra un riverbero cade / Del pomeriggio lento, / Fuori soltanto il latrato di un cane, / Sabbia che si solleva a poco a poco»)12, il poeta riceve una rivelazione sull’interiorità, su un residuo inesplorato, e talvolta inesplorabile, della vita sensibile, della forma insomma. Ovviamente, è possibile che tale forma resti irriconoscibile. Cionondimeno, proprio a partire da questo margine di inconoscibilità, si istituisce un certo tipo di oggetto della visione di Deidier, inteso come “resto” di quel corpo, vale a dire corpo perduto alla propria immagine proiettata, invenzione che ciascuno si dà per accerchiare il proprio pensiero, dichiara il poeta sempre nel Passo del giorno (p. 97). La struttura di questo oggetto, quella sulla quale il più delle volte si concentra Deidier, coincide con la struttura della forma attraverso cui l’oggetto si proietta.
Lo si può vedere esemplarmente nella parte finale di una poesia collocata tra le primissime di Solstizio, la sua raccolta più recente: «Ho perso la sapienza del corpo, con gli occhi / Posso solo guardare nella crosta / Che mi separa dal mondo, questo vortice duro, / Questo schermo senza luce né suono: // Ma conosco a fondo tutto ciò che mi resta, / Sono sostanza e scudo di questa mia evidenza»13. Ma la coincidenza dei due piani è perfettamente riconoscibile anche nella prima lassa di una poesia inclusa nel Libro naturale, silloge del ’99, nella quale Deidier aveva espresso con chiarezza, senza ambiguità e sperimentalismi, la natura composita del diaframma che lo separa dal mondo: «Oltre il vetro ancora una finestra, / Doppia soglia tra me e le gru a mezz’aria / E gridi di operai nel pomeriggio» (p. 122). è così che, ancora nel 1999, scrivendo a Procida, in un componimento che riporto integralmente, il poeta agguanta nella macchina della forma quella parte di sé perduta irrimediabilmente, simultaneamente interna ed esterna, familiare ed estranea14: «C’è una stanza di là da questa stanza, / Ancora luce dietro questa porta. / E la mia voce, “qual è la mia voce”, / Soltanto questo lì dentro risuona. // Gli infissi gonfi non chiudono più. / Di notte entrano uccelli, poi ritornano / Ombre di barche nel mattino allegro»15.
La finestra di Deidier, insomma, finisce per assicurare una certa consistenza al soggetto che, per il tramite di essa, cioè della macchina che lo guarda e che desidera, diventa a sua volta essere guardato. Come polarizzazione del nulla che guarda, il poeta trova dialetticamente la propria dimensione umana intraorganica, che poi è il vero e proprio oggetto della sua ricerca. Questo nulla (“resto” che è all’origine della dialettica tra l’identificazione del soggetto con l’altro e il suo stesso desiderio e che Jacques Lacan aveva chiamato oggetto a) non inganna perché in esso c’è tutta l’ansia della poesia che se lo mangia; c’è il suo peso, il desiderio dell’altro, si è detto, ma disarticolato dal suo possesso (quindi, ancora in termini lacaniani, l’altro barrato o il soggetto barrato). La poesia, di conseguenza, ha origine da questo nulla, da questo buco nel simbolico (simbolico che, allora, non simbolizza), da questo difetto nell’immagine o, ancora meglio, sempre con Lacan, nella struttura o nella legge16: essa è funzione di una mancanza che, in questo frammento che traggo da Solstizio, mostra i suoi due bordi, i suoi due vuoti, di qua e di là dallo spessore del vetro: «quando le tracce perdute / Riaffiorano e una voce conosciuta / Da qualche luogo interno ti richiama, / Comprenderai le due malinconie, / Ognuna come l’altra, saprai bene / Quanto l’arrivo sia nella partenza / E l’ombra nella luce del tuo viaggio»17.
A uno degli estremi così individuati da Deidier (in questi versi che, mi sembra, richiamino distintamente l’intonazione tanto cara a Philip Larkin) è situato il fantasma, la cui natura è spiegata nell’ultima parte di un componimento che segue di poco il precedente; è intitolato Se mio padre fosse un fantasma ed è tra i più belli dell’autore romano: «Che silenzio in una parola − padre. / Perché in quel nome vive un vero fantasma / E io stesso, fantasma, torno vero, / Come il sangue che affiora alla bocca / E non parla non parla non parla»18. Ecco, infine, il buco nella legge e, nondimeno, l’accanimento, espresso in maniera esemplare mediante una negazione ripetuta, del poeta su di esso. Un contenuto di immagini e di pensieri, nella misura in cui si lascia negare, penetra nella coscienza e nei versi di Deidier, dando forma − direbbe forse Freud − a un’accettazione intellettuale e, infine, poetica del rimosso. NON / PARLA: di queste due parti, lo ha spiegato benissimo Francesco Orlando, NON… è il mascheramento offerto dalla poesia alla censura, mentre …PARLA è il rimosso che si dichiara, «ben protetto e neutralizzato da quella particella negativa»19; è l’espressione dell’elemento negato. è così che, all’interno del medesimo componimento, l’esplicita (perché dichiarata) incapacità di vedere, di ascoltare e di ricordare, pure rivela implicitamente, chiama il puro contenuto di ciò che è venuto in mente al poeta, l’immagine eloquente di questo vuoto.
L’immaginario, così, dopo un infinito scambio delle parti («Se abitavamo tutti insieme quel vuoto / E il vuoto ci abitava, era in noi / E solo in noi fino al fondo cadevamo…»20), è un luogo svuotato ed è per questo che Deidier fa del proprio corpo una realtà virtuale, uno spazio non separato dal suo doppio, ma delimitato, delimitato ma vuoto: «Ora non c’è nessun confine, / Perché ogni confine è stabilito», così comincia il componimento posto al termine di Libro naturale (p. 146), quasi a mo’ di chiosa finale; è in questo posto che sorgono gli oggetti. Sebbene siano finti, cioè immaginari, pure riferiscono, nella poesia, del funzionamento del corpo reale. Ma ciò assume, in fondo, una posizione del tutto marginale nella scrittura di Deidier. Perché? Perché, corpo e poesia, come realtà e fantasma, non si oppongono l’uno all’altro, articolandosi piuttosto in una topologia più complessa che fa del fantasma del poeta una finestra sul mondo.
Lo si vede bene ancora in una delle poesie di Solstizio: «Che colore parlano le tue parole / Oggi che il sole è un vuoto tra le nuvole / Ed è un secolo lo spazio tra i tuoi occhi: / Ci cade ogni mia nascita, ogni morte, / La mia mano che accompagna l’erba / Quando la piega il vento»21.
In base a quanto si è qui sostenuto, è facile arguire che per Deidier la poesia comincia come incontro “esterno” (dello sguardo), come immagine posta di fronte a lui che, inoltre, dà coerenza visiva al corpo e ai pensieri di chi la guarda, di chi la quadra, di chi le fornisce, cioè, una geometria, un cerchio, una retta, un quadrato che si faccia orizzonte, non necessariamente regolare ed esatto, per lo sguardo quotidiano. Forse allora, più ancora che geometria, la poesia si fa fisica, nella quale, come ha sostenuto recentemente lo stesso Deidier, il verso diventa «un segmento di qualcosa che è infinito»22. Dunque, non si risolve nel mero riferimento all’oggetto, nel contenuto. La verità della poesia risiede nel modo in cui essa si pone nei confronti dell’altro, nel modo in cui fonda l’intersoggettività. Oppure, se lo si vuole dire diversamente, essa vive nel momento in cui la ricerca del reale diventa il reale stesso, quando, cioè, si tramuta nel suo oggetto. Lo spostamento di significante in significante determina, come è ormai semplice comprendere, il soggetto: il primo, sosteneva Lacan, abita l’inconscio del secondo23 e lo definisce nel suo destino, nei suoi rifiuti, nei suoi accecamenti.
In Gabbie per nuvole, singolare taccuino di traduzioni suddivise per temi e pubblicato nel 2011, tale movimento verso l’esterno (e cos’è poi tradurre se non, come precisa il poeta stesso, spostarsi di lato?)24 è particolarmente pronunciato: qui si vede meglio che altrove come gli oggetti che partecipano della poesia di Deidier non evochino la nozione di semplice significante, singolare materialità individuata e a sé stante, e non debbano essere considerati come oggetti inanimati e irrelati ma, più propriamente, valgano come relazioni oggettuali che, pur agendo a livello fantasmatico, possono modificare l’apprensione della cosa e del reale e, quindi, le relazioni reali del soggetto (Innenwelt) con l’ambiente che lo circonda (Umwelt). Si è visto come, proprio aprendosi all’altro, Deidier riesca a trovare l’inconscio della sensazione e dell’emozione, di fatto ciò che anticipa e regola l’idea stessa che regge quello che poi si andrà a scrivere. E Ignacio Matte Blanco, il padre della bi-logica, non ha forse detto che l’inconscio, privo di successioni e di negazioni e le cui parti sono identiche al tutto, è simmetrico25?
Allora, avviandomi alla conclusione e riassumendo, è possibile che, nella poesia di Deidier, si arrivi a riconoscere una somiglianza − un omeomorfismo, se si vuole − tra Innenwelt e Umwelt; ciò avviene per il tramite della finestra e, perciò, della forma che essa permette di ritagliare nel campo percettivo del poeta. In altre parole, Deidier designa una struttura esemplare del sistema simbolico, un filtro, si diceva all’inizio, che regge i suoi versi e, al contempo, permette di definire la complessa relazione del soggetto con se stesso e con il suo mondo. L’essere riuscito a completare tale corrispondenza, che è di fatto il compimento di un’inconscia identità, e l’aver saputo chiamare quegli spazi vuoti fuori dal foglio, è, già di per sé, indizio inequivocabile di grazia e naturalezza.
- Nato a Roma nel 1965, Roberto Deidier ha affiancato la sua attività di poeta a quella di studioso della letteratura moderna (nel 1999, dopo la laurea in Lettere alla “Sapienza” di Roma, è approdato all’Università di Palermo e, dal 2014, è professore ordinario di Letterature comparate all’Università “Kore” di Enna). Il suo esordio è avvenuto nel 1989 sulla rivista «Tempo presente», con alcune poesie presentate da Elio Pecora. Nell’autunno di quell’anno, con Marina Guglielmi e Fabrizio Bolaffio, Deidier inizia a pubblicare un piccolo quaderno di poesia, Trame, il cui titolo gli è stato suggerito da Amelia Rosselli, prima lettrice dei suoi testi e collaboratrice della nuova rivista, che prosegue fino al 1996. Dopo aver pubblicato Tra il corpo e il giorno nel 1992, per il secondo dei Quaderni di poesia contemporanea diretti da Franco Buffoni, Deidier ha raccolto i suoi versi nei seguenti volumi: Il passo del giorno (Bergamo, Sestante, 1995) e Il libro naturale (Salerno, Edizioni dell’Ombra, 1999), in seguito riuniti in Una stagione continua (Ancona, peQuod, 2002), raccolta dalla quale ho attinto tutte le citazioni; poi Il primo orizzonte (Genova, San Marco dei Giustiniani, 2002), Gabbie per nuvole (Roma, Empirìa, 2011) − che è un quaderno di traduzioni di poesie di Thomas Hardy, Wystan Hugh Auden, Dennis Haskell, Robert Louis Stevenson, Robert Penn Warren, Michael Hartnett e Philip Larkin, tra gli altri − e, infine, Solstizio (Milano, Mondadori, 2014), nella collana dello «Specchio». Alcuni interventi critici dello stesso Deidier e molte delle recensioni dedicate ai suoi lavori più recenti sono reperibili su http://robertodeidier.blogspot.it/. ↵
- R. Deidier, Gabbie per nuvole, op. cit., p. 96. ↵
- Cfr. L. Surdich, Gli angeli e «la solitudine di una penna», in R. Deidier, Il primo orizzonte, op. cit., pp. 12-14. ↵
- R. Deidier, Tra il corpo e il giorno, op. cit., p. 13; il corsivo è mio. ↵
- R. Deidier, Solstizio, op. cit., p. 141. ↵
- Cfr. R. Deidier, Tra il corpo e il giorno, op. cit., p. 28. ↵
- R. Deidier, Il passo del giorno, op. cit., pp. 75 e 87. ↵
- R. Deidier, Il primo orizzonte, op. cit., p. 25. ↵
- R. Deidier, Tra il corpo e il giorno, op. cit., p. 32. ↵
- R. Deidier, Libro naturale, op. cit., p. 134. ↵
- Cfr. M. Foucault, Letteratura e linguaggio (Prima sessione) (1964), trad. di M. Iacomini, in Id., La grande straniera. A proposito di letteratura (2013), Napoli, Cronopio, 2015, pp. 57-75. ↵
- R. Deidier, Il passo del giorno, op. cit., p. 71. ↵
- R. Deidier, Solstizio, op. cit., p. 10. ↵
- Su tale simmetria si è concentrato Elio Pecora in una recensione a Solstizio apparsa su «l’Immaginazione» (n. 284, novembre-dicembre 2014, p. 57); le medesime posizioni ritornano in parte in uno scritto di Saverio Bafaro dedicato alla medesima raccolta («Capoverso», n. 28, giugno-dicembre 2014, pp. 115-16). Sui due versanti della poesia di Deidier si veda anche G. L. Zappalà, «Nulla dura fuori dal foglio». Il viaggio come dissoluzione dell’Io nell’opera poetica di Roberto Deidier, in «Rivista di Studi Italiani», a. XXXIV, n. 2, agosto 2016, pp. 523-39, passim. ↵
- R. Deidier, Il primo orizzonte, op. cit., p. 57. ↵
- Sulle tre dimensioni fondamentali di reale, immaginario e simbolico nel pensiero lacaniano, si veda almeno J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Id., Scritti, vol. I, a cura di G. B. Contri, Torino, Einaudi, 2006, II ed., pp. 87-94. ↵
- R. Deidier, Solstizio, op. cit., p. 36. ↵
- Ivi, p. 38. ↵
- F. Orlando, Definizione di negazione freudiana, in Id., Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo (1971), Torino, Einaudi, 1990, p. 16. La «negazione freudiana − aggiunge lo studioso − negherà tanto più energicamente, quanto più il rimosso che si tradisce in essa sarebbe pericoloso per la coscienza» (ivi, p. 17). Si vedano anche le precisazioni contenute nel paragrafo successivo del volume di Orlando, in particolare pp. 22 e 27-30. ↵
- R. Deidier, Solstizio, op. cit., p. 84. ↵
- Ivi, p. 131. ↵
- Cfr. G. Calanna, Roberto Deidier: “Un verso è solo un segmento di qualcosa che è infinito”, in «l’Estroverso», 26 settembre 2015, reperibile alla seguente URL: http://www.lestroverso.it/roberto-deidier-un-verso-e-solo-un-segmento-di-qualcosa-che-e-infinito/ (ultima consultazione: 6 ottobre 2016). ↵
- Cfr. J. Lacan, Il seminario su La lettera rubata (1956), in Id., Scritti, vol. I, op. cit., p. 33. ↵
- Cfr. R. Deidier, Premessa, in Id., Gabbie per nuvole, op. cit., p. 6. ↵
- Si veda, ovviamente, I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica (1975), trad. di P. Bria, Torino, Einaudi, 1981. Lo psicanalista cileno, in un breve scritto del 1988, ritiene che l’emozione, sulla quale regna la poesia, sia la madre del pensiero (cfr. I. Matte Blanco, Che cos’è la poesia? (1988), ora in Estetica ed infinito. Quaderni di Filmcritica, a cura di D. Dottorini, n. 2, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 107-13). Essa ha, infatti, una dimensione molto più complessa, estesa e «appariscente», dice Matte Blanco, rispetto al pensiero che, da solo, non può penetrare il fondo intimo dell’essere e, dunque, la sua natura bi-modale (cfr. anche I. Matte Blanco, Riflessioni sulla creazione artistica (1986), ivi, pp. 41-73 e Id., Note sulla creazione artistica (1987), ivi, pp. 75-105); è appena il caso di ricordare che Deidier si è occupato a sua volta di bi-logica in un saggio intitolato Costruire per simmetrie e incluso in Bi-logica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, a cura di P. Bria e F. Oneroso, Milano, F. Angeli, 2002, pp. 90-99. ↵
(fasc. 11, 25 ottobre 2016)