Con il saggio del 1903 pubblicato su «La Critica», Benedetto Croce collocava Salvatore Di Giacomo fra i maggiori poeti italiani ed europei. Il filosofo, nella veste del critico letterario, ripercorre l’opera digiacomiana citando singoli versi, riassumendo trame di opere teatrali, mettendo in rilievo, di volta in volta, la forza espressiva, l’autenticità dell’ispirazione: il “verismo” sempre trasfigurato in arte, un’ispirazione che si nutre di piccoli gesti, di drammi come di situazioni comiche. «Attraggono il Di Giacomo – scrive – soprattutto gli spettacoli tragici, umoristici, macabri, i miscugli di ferocia e di bontà, di comicità e di passione, di abbrutimento e di sentimentalità»[1]. E subito dopo: «Alcune di queste pagine sono note di cronaca giornalistica (il Di Giacomo è stato giornalista e cronista); e si può ripetere di lui quel che fu detto del grande Lope de Vega, che come i fanciulli di ogni oggetto che càpita loro tra mano si fanno un giocattolo, così egli di qualsiasi incidente foggia subito una poesia. Bastano al fine senso artistico del Di Giacomo pochi tocchi per trasformare la notizia di un suicidio e di un delitto, di un’operazione compiuta da una società edilizia o di un’associazione di beneficenza, una raccomandazione al sindaco o al questore, una breve necrologia, in cosa d’arte»[2].
Salvatore Di Giacomo saliva, così, alla ribalta della grande letteratura italiana ed europea. Ma si trattava, ancora, di superare un inveterato pregiudizio, quello legato alla cosiddetta poesia dialettale, ritenuta da molti, per il solo fatto di essere dialettale, inferiore, non degna della letteratura e della poesia nazionale. Ecco il lungo, puntiglioso chiarimento di Croce che merita di essere letto per intero:
Ma, se io dessi termine in questo punto al mio scritto, sento che lascerei nell’animo di molti una delusione. – Come? (si direbbe): avete parlato del Di Giacomo, e non lo avete considerato in relazione e in gruppo con gli altri poeti dialettali di Napoli e delle altre regioni d’Italia? E non avete manifestato il vostro pensiero nel dibattito, che si agita da molte parti, intorno al diritto o al non diritto della poesia dialettale? E non avete cercato se il Di Giacomo ritragga davvero fedelmente il popolo napoletano, e se egli ne adoperi il dialetto in tutta la sua purezza; o non affini e adulteri l’uno e l’altro, come taluni critici giudicano?
Due questioni che sembrano assai gravi: 1) la poesia dialettale ha ragion d’essere, e, nell’affermativa, a quali soggetti deve restringersi, e quale è il suo grado artistico? – 2) il poeta dialettale deve essere esatto e storico riproduttore della vita e del carattere di quel popolo di cui adopera il dialetto? – Ma io non le ho trattate perché le stimo oziose, poste male, provocanti false risposte, e dirò in breve il perché di questo mio pensiero.
Che cosa significa contestare i diritti della poesia dialettale? Come si può impedire di comporre e poetare in dialetto? Molta parte dell’anima nostra è d i a l e t t o come un’altra è fatta di greco, latino, tedesco, francese, o di antico linguaggio italiano. Il dialetto non è una veste, perché la lingua non è veste: suono e immagine si compenetrano continuamente. Sopravviene il grammatico, e pei suoi fini, e in modo del tutto arbitrario e convenzionale, stacca le categorie di queste e quelle lingue e di lingue e dialetti. Ma siffatte teorie grammaticali non sono giudizi d’arte, e non possono servire di fondamento a esclusioni o a delimitazioni estetiche. Quando un artista sente in dialetto (ossia concepisce quelle immagini foniche che i grammatici poi classificano con tal nome), egli deve esprimersi con quei suoni. E, secondo la necessità della sua visione, si esprimerà in dialetto, in dialetto misto di lingua, in una lingua di sua particolare formazione […]
Per la stessa ragione non si può segnare una cerchia di soggetti, che sia propria della poesia dialettale. Non si possono determinare a priori le combinazioni e fusioni e perdite e risurrezioni e germinazioni di immagini, onde il cosiddetto dialetto ora si impoverisce ora s’arricchisce nelle anime degli artisti. Non vi ha legge: solo il fatto, qui, forma legge. E allorché sembra che il dialetto suoni male, si osservi meglio e si riconoscerà che la colpa non è della p o e s i a d i a l e t t a l e, ma della p o e s i a senz’altro, che manca. Intendo la ripugnanza e la ribellione di molti spiriti aristocratici contro le volgarità, le stupidità, le sciatterie e le incoerenze, che pretendono legittimarsi sotto nome di poesia dialettale; e partecipo anche io a quel disgusto. Ma non fa d’uopo per questo partire in guerra contro un fantasma, qual è il dialetto[3].
L’estetica di Croce, come tutto il suo pensiero, è una filosofia della liberazione: in questo caso specifico, dai vincoli astratti e moralistici della retorica e dei pregiudizi. Estetica che, pur rimanendo filosofica, senza invadere il campo della critica o confondersi con le poetiche e i programmi dei movimenti artistici, fornisce un metodo, strumenti per interpretare liberamente il senso e il valore della concreta esperienza artistica. Così per la questione del dialetto. Il dialetto è un linguaggio e, come tutti i linguaggi, compresi quelli non letterari, appartiene al mondo dell’arte. Il dialetto, celiava un linguista, è una lingua che non ha l’esercito.
Al saggio di Croce, a quello che oggi chiameremmo il lancio, seguirono molti altri saggi e monografie di critici e filosofi autorevoli. Alla fama mondiale del Di Giacomo autore di celebri canzoni si affiancava il suo riconoscimento come poeta di respiro europeo, superiore, per taluni aspetti, ai Pascoli e ai d’Annunzio, superiore per autenticità, per limpidezza, per originalità ma anche per alcune assonanze con i lirici greci o con i simbolisti francesi. Basti ricordare la monografia del 1908 di Karl Vossler, gli scritti di Luigi Russo, Federico De Roberto fino a quelli di Francesco Flora, che nella sua monumentale Storia della letteratura italiana dedicò un posto di grande rilievo al poeta napoletano.
Una lunga amicizia, quella tra il filosofo e il poeta, che inizia alla fine dell’Ottocento, quando, giovanissimi, accomunati dal gusto degli studi eruditi e aneddotici, fondarono la rivista «Napoli nobilissima» (1892) con l’intento di preservare e promuovere la ricchezza monumentale e ambientale della città, allora come oggi, sempre esposta agli attacchi della speculazione e della sciatteria amministrativa. Un’amicizia che si conservò intatta anche quando Croce, come è noto, abbandonò quegli studi eruditi per esplorare nuovi e più complessi orizzonti filosofici, storiografici e politici. Amicizia che si sarebbe interrotta anche bruscamente con l’avvento del fascismo, con l’immediata adesione al regime del poeta. In un breve saggio del 1944, Croce torna sull’antica amicizia bruscamente interrotta, vorrei dire, con una certa – avrebbe forse detto Contini – rattenuta mestizia e con misurata serenità: «Tutto ciò che io non perdono ai non-poeti, perdono ai poeti che siano veri poeti […]»[4].
L’incipit del saggio conferisce il tono all’intero scritto. L’allusione polemica nei confronti dei non poeti, dei filosofi “amici” che aderirono al fascismo è evidente, come è chiara la volontà di mostrarsi indulgente nei confronti dei cedimenti attribuiti alla natura fragile, “puerile” del poeta. Il filosofo ci racconta, dunque, gustosi episodi di vita privata, mutamenti di umore nei confronti di amici assolutamente incolpevoli, il disprezzo per la filosofia che Di Giacomo non comprendeva e non voleva comprendere, le fantasie nelle quali si perdeva come fossero realmente accadute, le incomprensioni e le gelosie quasi sempre del tutto ingiustificate. Ma l’amicizia non veniva scalfita e, anzi, si rinsaldava.
«Ebbene – scrive Croce – il fascismo mi guastò anche col Di Giacomo, o, piuttosto, me lo guastò. […] Intanto, la raccolta delle sue poesie che era stata curata da me e dal Gaeta e che, ristampata più volte, aveva fondato veramente la sua fama in Italia e fuori d’Italia si doveva ristampare, e il Di Giacomo nel cosiddetto nuovo clima fascistico, avvertì l’editore, che era il mio amico Ricciardi, che in questa edizione andava soppressa la dedica a me, che era in tutte le precedenti, e sostituita con una alla memoria del Gaeta»[5].
La reazione del filosofo non fu brusca, come sarebbe stato ragionevole immaginare. Di Giacomo si sarebbe scusato, probabilmente – scrive Croce –, giustificando il suo comportamento in ragione della possibile rivalsa dei fascisti. «E io – continua nel suo racconto Croce – non avrei niente da replicare a questa sua riduzione semplicistica. Dunque, non gliene voglio. Ma, d’altra parte, come potrei incontrarmi e conversare con lui, quasi come se non fosse accaduto niente?»[6].
La rottura fu definitiva. Dopo alcuni anni, fu riferito a Croce che Di Giacomo versava in gravi condizioni di salute e che aveva più volte chiesto notizie del vecchio amico. Croce avvertì la necessità di fargli visita, di riprendere il filo di un’amicizia difficoltosa ma autentica:
Parlammo di lui e dei tempi andati – ci racconta Croce –, non feci allusioni a cose politiche. La conversazione si svolse come se continuasse quelle solite tra noi. Gli detti buon animo, cercai di persuaderlo che si sarebbe ristabilito. Quando lo lasciai, e noi ci trattenemmo ancora un po’ con sua moglie, mentre stavamo per andare via, ricomparve sulla porta della sua stanza, in piedi, sorridente, come per la sorpresa che ci faceva e per la prova che aveva dato a se stesso del suo non del tutto esausto vigore, e ci salutò ancora sull’uscio. […] Alle sue esequie non andai – continua Croce –, pensando che la cerimonia sarebbe stata tutta fascistica e che la mia presenza avrebbe portato imbarazzo e di ciò mi scusai per lettera con la signora Elisa. Ma mi fu di conforto che egli avesse chiuso la vita conciliato con me[7].
- B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Volume III, Bari, Laterza,1973, p. 69. ↑
- Ivi, p. 71. ↑
- Ivi, pp. 92-93. ↑
- B. Croce, Salvatore Di Giacomo in Id., Nuove Pagine sparse Bari, Laterza,1966, p. 21. ↑
- Ivi, p. 26. ↑
- Ivi, pp. 26-27. ↑
- Ivi, p. 28. ↑
(fasc. 37, 25 febbraio 2021)