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Si può parlare di Kant[1] come di un autore di Croce, alla stessa stregua in cui lo furono Vico e Labriola, Hegel e De Sanctis? Proverò a fare non certo la caratura delle influenze più o meno esplicite, né una graduatoria dei riferimenti e delle citazioni kantiane, ma più semplicemente vorrei seguire una traccia che si annuncia nei primi scritti filosofici e che permarrà, più o meno evidente, sino alla fine[2]. Ciò presuppone che si debba dare, a mio avviso, una maggiore importanza, filosofica e concettuale, alla cosiddetta fase dei “primi saggi”, aperta com’è noto dalla famosa memoria del 1893 che, pur non menzionando mai Kant, elabora una concezione del rapporto tra universale e particolare più vicina all’aperta dialettica dualistica kantiana che non alla riduzione hegeliana delle differenze all’unicità dell’assoluto. Ciò è avvalorato, come si vedrà in seguito, dalla permanente esigenza concettuale e storica, a un tempo, di ritrovare le forme e i contenuti del reale nelle distinzioni e non nelle opposizioni ricondotte all’unità di metafisiche deduzioni. Insomma, si trattava più di una filosofia dell’esperienza reale di derivazione desanctisiana che di una filosofia della sostanza idealistica di ispirazione hegeliana.
Ma doveva essere il crescente interesse per i problemi teorici e storici dell’estetica a spingere Croce a un primo ravvicinato confronto con Kant. Lo si può vedere già nelle pagine dedicate alle questioni teoriche della critica letteraria, dove quello kantiano è considerato il primo «serio tentativo di assidere sopra basi ferme il giudizio del gusto»[3]. È ben vero che Croce conviene con le critiche di Eduard von Hartmann, secondo il quale la qualificazione di a priori non è del solo giudizio del bello, ma anche di quello del piacere e che entrambi hanno carattere di universalità. Tuttavia, il superamento della riflessione kantiana su questi punti non mette in discussione per Croce la sua «importanza storica» e la sua grandezza «per l’efficacia esercitata sullo svolgimento dei problemi estetici»[4].
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Quanto, negli anni successivi, dovesse risultare centrale la riflessione sulla filosofia kantiana (e l’incidenza di alcuni passaggi paradigmatici di essa) è ben testimoniato dal lungo processo di elaborazione delle teorie estetiche: dalle Tesi del 1900 alla prima edizione dell’Estetica del 1902 fino a quella del 1908. Sono, però, questi anche gli anni non solo della costruzione del sistema della filosofia dello spirito, ma anche del Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel e della traduzione dell’Enciclopedia che è del 1907. E ciò a testimonianza di come fosse non lineare e senza scosse e ripensamenti la considerazione crociana dei nessi e dei contrasti tra criticismo e idealismo. Si pensi alla centrale distinzione tra intuizione e concetto (il che voleva dire tra estetica e logica) che è al centro dell’Estetica. Si conferiva, in tal modo, al fatto estetico un significato che non era legato soltanto alle espressioni artistiche, ma anche ed essenzialmente alla fase fondativa del reale. La lezione di Vico e di Kant, almeno in questa fase, si manifesta pienamente nella pari dignità riconosciuta all’intuizione e al concetto. È il ben noto incipit dell’Estetica: «La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti»[5]. La rivendicazione di autonomia per l’intuizione – rispetto al dominio della logica – doveva indurre Croce ad approfondirne la trattazione teorica fatta da Kant innanzitutto nella Critica della ragion pura. E, tuttavia, pur riconoscendo al filosofo tedesco il merito di aver costruito una base teorica dell’intuizione, Croce ne correggeva le premesse e giungeva a esiti parzialmente diversi. Il punto maggiore di differenziazione era nell’aver negato all’intuizione il carattere di forma a priori della sensibilità.
Noi abbiamo intuizioni senza spazio e senza tempo […] E in alcune intuizioni si può ritrovare la spazialità e non la temporalità, in altre questa e non quella; ma, anche dove si ritrovano tutte e due, l’appercepirle è una riflessione posteriore […] Ciò che s’intuisce, in un’opera d’arte, non è spazio o tempo, ma carattere o fisionomia individuale[6].
Sono le premesse che inducono Croce a riprendere la sua serrata critica della filosofia della storia[7], sia di una «storia ideale» sia di una «sociologia» sia di una «psicologia storica»[8]. La storia significa concretezza e individualità, la sfera del concetto invece si manifesta col carattere dell’astrattezza e dell’universalità. Per questo il compito che ora Croce assegna alla sua riflessione è quello di costruire una teoria della storiografia (nel senso della comprensione della «natura e dei limiti della storia») che si affidi a una «scienza generale dell’intuizione», a un’Estetica, della quale l’Istorica diventa un capitolo speciale[9]. L’idea di separare gli ambiti della logica e dell’estetica si profila già col primato che le scienze naturali moderne – come indicavano Galilei e Bacone – avevano dato all’induzione e con Vico, prima, che aveva criticato con forza la logica formalistica e apprezzato il metodo dell’invenire e Kant, poi, che aveva richiamato «l’attenzione sulla sintesi a priori».
L’analisi crociana, dopo aver esaurito, per così dire, la dimensione teoretica dello spirito, continua, com’è noto, nel tentativo di chiarificazione dei nessi tra spirito teoretico e spirito pratico, ispirata a un disegno, non sempre convincente, di rivendicazione dell’autonomia dell’arte così dalla scienza come dall’ambito dell’utile. Quel che mi pare significativo – rispetto al nostro tema sulle ascendenze kantiane di Croce – è che già nelle pagine dell’Estetica viene alla luce non solo l’accettazione della necessaria relazione fra fenomeno e noumeno, ma anche l’idea dell’autonomia dell’etica, come si vedrà più innanzi affrontando le pagine della Filosofia della pratica.
Le dottrine estetiche di Kant sono analizzate da Croce nel capitolo a lui dedicato nella parte storica dell’Estetica. Che Kant abbia per Croce una «tempra altamente speculativa», come l’aveva Vico, è fuor di discussione, e ciò è attestato proprio dalla capacità mostrata nel portare a soluzione il problema dell’estetica, alla quale, tuttavia, egli non riuscì a dare un carattere di unità e sistematicità, anche perché sostanzialmente si muoveva ancora nell’orbita delle teorie estetiche di Baumgarten. Ciò che di Kant Croce criticava era la separazione di verità logica e verità estetica, anzi la subordinazione dell’estetica alla «perfezione logica»[10]. Anche l’analisi della Critica del giudizio è imperniata su un motivo di fondo, per lui negativo, cioè l’aver concepito Kant l’arte come «rivestimento sensibile e immaginoso di un concetto intellettuale»[11].
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Ciò diventa ancora più evidente, per Croce, quando si nega, nella costruzione kantiana, la plausibilità di una bellezza pura, e la si intende sempre come «aderente» a un concetto, a una facoltà che rappresenta le idee estetiche. Nella costruzione kantiana «vi è un modus logicus e un modus aestheticus di esprimere i propri pensieri: il primo consiste nel seguire determinati principi; l’altro, nel solo sentimento dell’unità della rappresentazione»[12]. Insomma, all’immaginazione e all’intelletto – e allo stesso spirito – si accompagna il gusto, ma sempre come qualcosa che serve a conciliare l’immaginazione con l’intelletto. Ciò che, in buona sostanza, manca nella costruzione estetica di Kant è quello che, sia pur dentro la temperie intellettuale tardo-rinascimentale e barocca, Vico aveva con forza intuito e reso filosoficamente fondato: il ruolo della fantasia e dell’immaginazione, non considerate alla stessa stregua di tutte le altre «potenze dello spirito». Kant, osserva Croce, «conosce un’immaginazione riproduttiva e un’altra combinatoria, ma ignora l’immaginazione propriamente produttiva, ossia la fantasia». Eppure, argomenta Croce, c’è stato un momento, nella complessa articolazione del sistema kantiano, in cui poteva profilarsi l’esistenza di un’altra forma teoretica non riducibile a quella intellettiva. Si tratta della definizione e delineazione dell’estetica trascendentale, di qualcosa cioè che potesse costituire la premessa di una «scienza della forma delle sensazioni, ossia dell’intuizione pura, della conoscenza puramente intuitiva».
Se Kant si fosse spinto fino alle logiche conseguenze di questa sua intuizione, non avrebbe commesso ciò che Croce definisce come «errore intellettualistico», cioè la riduzione dell’estetica trascendentale alla pura materia delle sensazioni, alle sole categorie dello spazio e del tempo, alla materia bruta che è estranea allo spirito conoscitivo. «La fantasia caratterizzatrice o qualificatrice, ch’è l’attività estetica, doveva ottenere perciò nella Critica della ragion pura il posto usurpato dalla trattazione dello spazio e del tempo, e costituire la vera Estetica trascendentale, prologo alla Logica. Così il Kant avrebbe inverato il Leibniz e il Baumgarten e si sarebbe incontrato col Vico»[13].
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Il passo successivo del confronto di Croce con i capisaldi della filosofia kantiana, in special modo nella parte gnoseologica e logica, veniva affidato al secondo dei grandi studi dedicati alla filosofia dello spirito: la Logica, annunciata già nella memoria pontaniana del 1905 e definitivamente sistemata nell’edizione del 1909. Nel 1906, però, era stato pubblicato il Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel e nello stesso anno la memoria, anch’essa pontaniana, sulla Riduzione della filosofia del diritto alla Filosofia dell’economia, rifluita poi nella prima edizione del 1909 della Filosofia della pratica.
Il confronto serrato con Hegel non poteva non toccare, ancora una volta, il problema delle affinità e diversità tra criticismo e idealismo. Nel capitolo dedicato alla storia della dialettica, Croce riprende il tema della dialettica degli opposti con l’esplicito intento di dimostrare l’originalità della soluzione hegeliana che non può, tuttavia, non prendere le mosse da Kant. «Per giungere alla posizione veramente logica del problema degli opposti, e per isfuggire alla soluzione (che non era poi soluzione) mistica[14] e agnostica, bisognava si compiesse la rivoluzione kantiana; e quel Kant […] fu invece, appunto per quella Critica [il riferimento è alla prima Critica] il vero progenitore della nuova coincidenza degli opposti, della nuova dialettica, cioè della dottrina logica della dialettica»[15]. È in queste pagine, forse più che altrove, che viene chiarendosi un modo di intendere la filosofia kantiana che, anche nelle opere successive, oscillerà sempre tra dissenso e consenso. Ritorna così la critica all’intellettualismo, ma anche all’aver troppo aderito – lungo la tradizione che da Cartesio giunge sino a Leibniz e Hume – all’ideale della scienza matematica della natura, tanto da costringerlo poi ad opporre all’esito agnostico il «fantasma della cosa in sé, l’astrattezza dell’imperativo categorico, l’ossequio verso la logica tradizionale». Ma, come già era emerso dalle pagine dell’Estetica, Croce sa cogliere le novità che Kant affida alla Critica del giudizio, dove emergono un’idea del reale non meccanica e un concetto di finalità che non è più solo quella esteriore, bensì quella interna, così da scorgere, al di là del concetto astratto, l’idea. Insomma, lungo il percorso che conduce a Hegel si delinea, grazie alle antinomie, un primo avvio al problema degli opposti.
Ma ciò che è da considerare la «vera gloria» di Kant è la definizione della sintesi a priori che Croce interpreta, forzandone la portata nel momento in cui esclude da essa l’originaria impostazione critico-trascendentale, come anticipazione della sintesi originaria degli opposti. «Questa sintesi non riceve in Kant tutto il suo valore, non si svolge nella triade dialettica; ma, messa al mondo, non poteva tardare a manifestare la ricchezza che racchiudeva in sé»[16]. Era il compito che spettava alla filosofia idealistica, lungo la via di una nuova logica capace di risolvere il problema degli opposti.
Anche Kant, il grande Kant, non si sottrae a ciò che, con felice espressione, Croce definisce la «metamorfosi degli errori», e cioè il continuo tramutarsi degli errori in verità in un’incessante teoria di passaggi dagli uni alle altre senza avere la pretesa di chiudere la catena. «Kant errò nel presentare le antinomie come insolubili; ma venne con ciò a riconoscere la necessità delle antinomie, base della dialettica»[17]. Proprio nelle pagine del Ciò che è vivo e ciò che è morto si può cogliere il paradosso di una riabilitazione di Kant nata proprio da ciò che Croce continua a considerare un limite, e cioè la differenza tra scienza e filosofia, anzi l’errore di voler ricondurre la filosofia al non teoretico, al sentimento e al pratico. Una via, questa, secondo Croce, ormai chiusa dopo la scoperta della logica filosofica e della capacità del pensiero di risolvere i problemi della realtà. Si profila, così, proprio a partire dal presunto errore kantiano, la dialettica filosofica dei distinti. «Non restava, dunque, altra via aperta che quella di rimandare al non-teoretico, e cioè al pratico, le discipline naturalistiche e matematiche, la scienza esatta. Questa via è stata tentata ai giorni nostri, e a me sembra che si mostrerà sempre meglio come la sola che conduca al fine»[18].
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Di Kant e della sua scoperta della sintesi a priori logica, Croce aveva parlato nella terza sezione della prima parte della Logica, là dove l’argomentazione era incentrata sull’identità del giudizio definitorio – senz’altro identificato con il concetto – e del giudizio individuale. Seguendo la lezione di Hegel e al tempo stesso superandola, Croce va oltre l’unità di individuale e universale, e avanza l’ipotesi della reciproca implicanza delle due forme di giudizio. Il difetto del dualismo delle forme logiche può essere corretto dal considerare le verità di ragione e le verità di fatto, a priori e a posteriori, come un «unico atto e un’unica verità», ma insieme esse restano atti distinti, «perché nell’esprimere quell’unica verità e quell’unico giudizio si può mettere verbalmente o letterariamente in risalto ora la definizione e ora l’asserzione di fatto, ora il soggetto e ora il predicato»[19].
Ma la vera e più convincente risposta all’intrico di problemi e antinomie sollevati dalla ricerca, a un tempo, di unità e distinzioni tra individuale e universale, è individuata da Croce nella sintesi a priori logica. «Se l’analisi fuori della sintesi, l’apriori fuori dell’aposteriori, è inconcepibile, e se inconcepibile è del pari la sintesi fuori dell’analisi e l’aposteriori fuori dell’apriori, l’atto vero del pensiero sarà un’analisi sintetica, una sintesi analitica, un aposteriori-apriori, o, se piace meglio, una sintesi a priori»[20]. È ciò che ha fatto la grandezza di Kant, malgrado le critiche che a quella scoperta hanno rivolto sia i dogmatici che gli empiristi; qualcosa da cui non si può prescindere, giacché chi voglia negarla si colloca fuori dall’itinerario della filosofia moderna, se non vuole continuare a «bamboleggiare con l’empirismo, sdilinquire col misticismo o annaspare nel vuoto dello scolasticismo»[21]. Ora, ciò che distingue la sintesi a priori in generale dalla sintesi a priori logica, l’attività spirituale in genere dall’identità di giudizio definitorio e giudizio individuale che è propria della sintesi a apriori logica, è la possibilità stessa di fondare una sintesi non già di opposti, ma di distinti. Per tal via, si definisce un rapporto tra pensiero e realtà nel quale nessun elemento materiale o concettuale è inferiore o superiore all’altro.
Il «gran valore» della sintesi a priori, sostiene Croce, risiede nella definitiva chiarificazione di ciò che è l’oggettività del pensiero e la conoscibilità della realtà. Si tratta di un risultato – come già Croce aveva sostenuto nei saggi precedenti – che restò «oscuro» proprio a colui che scoprì il valore della sintesi a priori, dal momento che si riteneva la categoria non già come un dato immanente al reale, ma come qualcosa che astrattamente si potesse applicare di volta in volta al processo conoscitivo, relegando la realtà all’inconoscibilità della cosa in sé. Il vero obiettivo della conoscenza non poteva essere, come credeva Kant, l’intuizione intellettuale – un irrealizzabile ideale di perfetta coerenza di pensiero e realtà – ma proprio quella sintesi a priori che non è solo un momento del processo conoscitivo, al pari dell’analisi, ma il «vero concetto e il vero giudizio»[22].
Il ragionamento di Croce ripropone qui, sistemandoli in una trattazione meno frammentaria, quell’intrecciarsi di giudizi positivi e negativi su Kant che già era stato annunciato nell’Estetica. La nuova logica solo intravista si può cogliere innanzitutto nel fatto che Kant ammette l’esistenza, accanto alla ragione teoretica, di una ragione pratica che, tra l’altro, produce conoscenze sia pur sotto forma di postulati; ammette poi l’esistenza di un giudizio estetico che è distinto dalla sfera teoretica come da quella pratica; di un giudizio teleologico che, pur essendo regolativo e non costitutivo, non è certo arbitrario e, infine, le stesse contraddizioni in cui viene a trovarsi l’intelletto quando vuole oltrepassare i limiti dell’esperienza non sono certo da considerare meri errori. È la nascita di ciò che Croce aveva già definito come una nuova logica basata sul concetto di sintesi a priori, «che è unità di necessario e contingente, di concetto e intuizione, di pensiero e rappresentazione, ed è, dunque, nient’altro che il concetto puro, l’universale concreto […] Scoprendo la sintesi a priori, il Kant aveva messo la mano sopra un concetto profondamente romantico; ma l’esecuzione ne fu poi classicistica e intellettualistica»[23].
Più avanti Croce definisce Kant come un «inconsapevole promotore della nuova Logica della storia», benché avesse ben visto il ruolo centrale che in essa assumono il giudizio e la virtuosa relazione che, così, si delinea tra il pensare e il giudicare. «La teoria del giudizio prende così il posto di quella del concetto, ed è la teoria stessa del concetto in quanto si fa concreto nel giudizio». Dunque, poco importa che Kant di ciò non si fosse reso conto e non avesse ampliato la sfera della sintesi a priori anche alla storia e, di conseguenza, al conoscere concreto. E poco importa che la filosofia di Kant sia «priva di svolgimenti storici» e poco attenta alla storia della filosofia, e che le sue idee sul diritto siano «astrazioni e determinazioni antistoriche». Insomma, «la sintesi a priori portava nel suo grembo la storicità, che il suo scopritore ignorava o disconosceva»[24].
Qui, forse più che altrove, il giudizio di Croce assume toni molto negativi e obiettivamente ingiusti e sbagliati. Passi pure l’osservazione che il mancato approfondimento della sintesi a priori finisce con il limitare la sua funzione al dominio delle scienze empiriche, ma è indubbiamente discutibile la conseguenza che Croce fa scaturire da questo convincimento e, cioè, che nella filosofia kantiana manca «il senso della vita, della fantasia, dell’individualità, della storia»[25]. Il che contrasta con ciò che ha fatto di Kant il filosofo che più d’ogni altro ha saputo fornire alla filosofia, non solo moderna, un formidabile strumento critico ed etico: il concetto del limite nella scienza e nella filosofia e l’idea di autonomia delle libere individualità nell’etica e nella politica[26].
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C’è una bella e intensa pagina di Croce, tratta da una lettera a Pareto dell’ottobre del 1900, che anticipa le linee di una diversa valutazione della filosofia kantiana, rispetto specialmente a ciò che si legge nella Logica, relativa alla sua dimensione etica e politica. Egli sta rispondendo alle osservazioni critiche che Pareto aveva espresso sull’oscurità del termine “valore” e sulla difficoltà derivante dal fatto che esso sta a designare fatti complessi e molteplici. Al contrario, Croce sostiene che il valore si riduce a un «fatto semplicissimo, un summum genus, ch’è il fatto dell’attività stessa dell’uomo. Attività è valore». Sono qui in germe le future riflessioni crociane sull’attività pratica, sul concorso in essa di fantasia, pensiero e volontà, con un consapevole ampliamento della prospettiva formalistica dell’etica kantiana.
Come il Kant diceva che non v’ha altra cosa nell’universo che possa dirsi buona se non la buona volontà, così, estendendo, si può dire che non v’ha altra cosa nell’universo, che valga, se non il valore dell’attività umana. Del valore, come dell’attività, non potete chiedere una definizione, come si dice, genetica, ossia composita: il semplice e l’originario è, geneticamente, indefinibile. Il valore si osserva e si pensa in noi, nella nostra coscienza[27].
Sono queste, io credo, le premesse di una lettura di Kant diversamente disposta e più interessata a ritrovare elementi di affinità più che di diversità, basati su una visione non assoluta e non metafisica della morale, più aperta a una relazione non concludente tra universalità della norma e del valore e storicità concreta dell’azione storica e del ruolo dell’individualità.
Nelle Annotazioni storiche della seconda sezione della prima parte della Filosofia della pratica (dove si parla dell’attività pratica nella sua dialettica), Croce tocca due temi per i quali diventa imprescindibile il riferimento a Kant: il problema della libertà e la dottrina del male. È fuor di dubbio che la dottrina kantiana della libertà compie un gran passo in avanti rispetto non solo alle concezioni deterministiche e meccanicistiche, ma anche a quelle teologiche. In essa la libertà «era sottratta alla causalità naturale e affermata a priori come causalità per mezzo della libertà»[28]. Kant – secondo una considerazione critica già espressa sia nell’Estetica che nella Logica – non riesce a dare un solido fondamento filosofico alla libertà per la mancata soluzione del problema delle antinomie, prima fra tutte quella tra libertà e causalità, e la conseguente impossibilità di dar vita a un sistema. E, tuttavia, pur dinanzi a tali limiti e contraddizioni, «l’energica affermazione del principio della libertà […] giovò a stabilire il convincimento: che non si poteva né distruggere quel concetto né aggirarlo, e che sopr’esso si combatteva la battaglia onde si decidevano le sorti della filosofia»[29]. Bisogna, però, approdare alle successive riflessioni filosofiche di Jacobi e Schleiermacher, ma soprattutto di Hegel (la libertà è la «sostanza stessa del suo pensiero») perché la libertà venga considerata come qualcosa «che si intende da sé» e come determinazione fondamentale del volere umano. E anche a proposito dei concetti di male e arbitrio, la struttura del discorso crociano appare identica: muovere dalle intuizioni che su questi temi hanno avuto i grandi filosofi, dall’antico al moderno e dunque anche e soprattutto Kant, per sottolineare l’inveramento e il perfezionamento di essi compiuto nella filosofia idealistica e in Hegel in modo particolare. Così, a proposito del male, Croce ritiene che per Kant la sua natura resti impenetrabile – il che, a ben intendere il ragionamento kantiano, è relativamente vero, dal momento che bene e male, persino il male radicale, sono considerati momenti del possibile allontanamento dalla legge morale – e che essa venga chiarita prima da Fichte (il male radicale come vis inertiae operante nella stessa natura dell’uomo) e poi da Hegel (l’irrealtà e contraddittorietà del male sta nelle cose stesse).
Anche nelle Annotazioni storiche della sezione dedicata alle due forme pratiche dell’economica e dell’etica, Kant occupa un posto di rilievo. Lo schema è ormai sperimentato: di Kant si apprezzano i meriti e le innovazioni e se ne criticano, però, gli esiti e le contraddizioni. Ciò vale anche per il rigorismo etico. Certo, Kant rappresenta un momento importante nel processo di superamento degli eccessi sia dell’etica materialistica sia degli impropri tentativi di relazione tra utilità e moralità messi in campo dalle etiche utilitaristiche. Della morale kantiana, poi, Croce apprezza la consonanza con l’etica cristiana e la riaffermata distinzione del dovere dal piacere. Ma in modo particolare egli definisce l’imperativo categorico kantiano come «il vero cartello di sfida contro ogni forma di morale eteronoma. E, dopo la polemica condotta dal Kant, nessun filosofo serio può non essere in Etica “kantiano”, come dopo il Cristianesimo non è possibile non essere in qualche modo cristiano. L’azione morale non ha altro motivo che la morale stessa: promuovere la propria felicità (diceva il Kant) non può essere mai immediatamente dovere, e ancor meno fornire il principio di tutti i doveri»[30].
Per Croce, tuttavia, non è soddisfacente l’analisi kantiana, affidata quasi esclusivamente all’imperativo ipotetico contrapposto a quello categorico, dei fenomeni legati al piacere, alla felicità e all’utile. L’imperatività dei comandi connessi a questi ultimi aspetti dell’attività umana non è, per Croce, già impegnato nella ricerca della fondazione filosofica dell’utile come autonomo momento della filosofia dello spirito, meno categorica, tant’è che lo stesso Kant dovette operare una distinzione tra imperativi ipotetici problematici e assertori, «i primi dei quali sarebbero tecnici e darebbero luogo alle regole dell’abilità […], ma i secondi sono invece prammatici e si esprimono nelle regole della prudenza»[31]. Naturalmente queste conclusioni contraddittorie derivano quasi tutte, secondo la lettura crociana, dall’eccesso di formalismo e rigorismo etico. Infatti, l’esclusione di motivi pratici dell’agire come il benessere, la felicità, il piacere deriva dalla scelta kantiana di fondare la sua etica sulla sola legge morale, relegando quei motivi al mero rango di massime della prudenza e dell’amor proprio e, ancor più, com’è nel caso del piacere, al patologico, a qualcosa che è propria del senso e non della ragione.
La severità di Croce si rivela del tutto affine alla critica hegeliana al «freddo dovere» kantiano e al suo sostanziale sfondo religioso, specialmente quando si legava l’obbligazione morale alla concezione di un Dio, giudice supremo del bene e del male compiuto dagli uomini. «Al pari dell’utilitarismo – è il giudizio tranchant di Croce – il rigorismo morale astratto si perdeva, dunque, nel mistero»[32].
C’è un luogo dell’opera kantiana in cui la morale non appare più isolata e al di sopra del mondo reale delle passioni e delle utilità. Croce lo individua nello scritto Per la pace perpetua, nel quale appare come filo conduttore proprio il legame necessario tra morale e politica, sempre, però, che la politica non si risolva in una ricerca dei mezzi utili a conseguire un vantaggio personale[33].
Sull’etica di Kant Croce torna ancora nelle Annotazioni storiche alla seconda sezione (dedicata a Il principio etico) della seconda parte della Filosofia della pratica. Viene subito in primo piano il merito che Croce riconosce a Kant, un merito che non è scalfito dalle oscillazioni e dalle antinomie che pure si incontrano nella sua riflessione: «averla fatta finita con ogni sorta di Etica materiale, dimostrandone l’intimo carattere utilitario». Al di là di quelle contraddizioni lo storico deve essere in grado di capire dove sia la «forza vera di un pensiero». Prima di Kant «vigeva un’Etica o apertamente utilitaria o tale che, pur presentandosi sotto le spoglie ingannevoli di Etica della simpatia o di Etica religiosa, all’utilitarismo metteva capo in ultima analisi. Il Kant condusse una polemica implacabile non solo contro le forme utilitarie confessate, ma anche contro quelle spurie e larvate, che denominò “Etica materiale”»[34]. Ma, come in altre analisi della filosofia kantiana, anche a proposito dell’etica, alla pars construens fa seguito quella destruens: la ricaduta in una forma di agnosticismo – lo stesso in cui si era impigliato a causa del mancato superamento del dualismo fenomeno-cosa in sé – che lo spinge ora verso la sponda dell’empirismo ora verso quella della metafisica trascendente. Tutto ciò dipendeva dallo sforzo non riuscito di determinare ciò che in etica non deve esaurirsi in nessun fatto particolare: l’universale.
Di qui il suo involontario ritorno all’utilitarismo, che fu mostrato in modo perentorio dallo Hegel, il quale già nel suo scritto giovanile sul diritto naturale, notava che il principio pratico del Kant non è un vero e proprio assoluto, ma un assoluto negativo; onde il principio della moralità si converte presso di lui in quello dell’immoralità, perché potendo ogni fatto essere pensato nella forma dell’universalità, non si sa mai quale fatto debba essere accolto nella legge[35].
Ciò che, al di là dei limiti e delle aporie, fa di Kant un gigante della filosofia moderna è qualcosa che rende la sua etica non più un concetto «tautologico e formalistico, ma concreto e formale». Croce si riferisce al concetto della libertà, grazie al quale Kant finalmente «entra nel cuore del reale» e lo fa in una maniera che era stata soltanto accennata dalla religione. Si presentano arricchite nell’etica kantiana e nella sua idea morale le origini platoniche e cristiane, le idee di Agostino e di Paolo, ma ancor più quelle di Pascal[36].
Nelle ultime pagine della Filosofia della pratica, Croce si sofferma anche sulla concezione kantiana del diritto, che si collocherebbe sulla scia delle teorie del Thomasius, in special modo quando mette in tensione il principio della legalità con quello della moralità. L’imperativo giuridico è qualcosa che si manifesta esteriormente, e dunque nella forma della costrizione, ma pur sempre dentro i limiti di una visione universalistica e giusnaturalistica del diritto, collocandosi esso al di là delle utilità individuali. Il diritto, in tal senso, è «il complesso delle condizioni onde l’arbitrio dell’uno può essere riunito con l’arbitrio dell’altro, secondo una legge universale di libertà»[37]. Questo, però, non toglie che Kant possa essere considerato come l’iniziatore di una consapevolezza critica dei limiti di un’astratta visione del diritto naturale, la cui validità si scontra con la presa d’atto della storicità e mutabilità delle leggi. Paradossalmente, osserva Croce, la dottrina dei diritti naturali innati entra nella fase di crisi e di ripensamento proprio quando veniva alla luce la sua più famosa esplicitazione nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Croce si riferisce, infatti, a una famosa pagina della Metafisica dei costumi nella quale Kant afferma che solo l’idea etica della libertà e non un astratto catalogo di diritti innati e naturali «è l’unico diritto originario e innato, spettante all’uomo in forza della sua medesima umanità»[38].
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È certo significativo che proprio in pagine dedicate a Hegel – cioè a colui che aveva risolto in unità le antinomie kantiane derivanti dalla non raggiunta risoluzione dialettica del nesso tra il reale e il razionale – dovesse poi venire un significativo riconoscimento che mostra quanto grandi fossero stati il debito e, insieme, la considerazione di Croce verso Kant. Se la filosofia di Hegel costituisce «l’ultima e più grandiosa espressione della metafisica aristotelica e scolastica e teologizzante» e rappresenta il punto di maggiore e compiuto svolgimento di ciò che il pensiero moderno ha criticato per definitivamente liberarsene, Kant, a tale riguardo,
è di gran lunga più moderno di lui, avendo dato precedenza e risalto non al sistema così inteso, cioè all’imago mundi o all’enciclopedia, ma alla critica, prologo bensì e attesa di un sistema di quella sorta che anch’esso intendeva di costruire ma che in effetto non costruì o solo frammentariamente e per tentativi, avendo speso le sue forze nelle tre Critiche, che erano l’effettiva sistemazione dei risultati del suo pensiero. Ma, d’altra parte, considerata nel suo principio logico, e in quel che logicamente contiene in sé […] è la prima delle filosofie moderne e storicistiche, sebbene di uno storicismo alquanto elementare ed arcaico, rigido e non snodato, come del resto si lascia vedere anche nell’altro poderoso autore dello storicismo, nel Vico[39].
«Emanuele Kant», scrive Croce,
ha pel primo iniziato la comprensione vera delle scienze fisiche e naturali e matematiche; ha dato il concetto dell’attività sintetica dello spirito; ha distrutto per sempre l’etica eteronoma; ha dimostrato definitivamente la realtà di un dominio dello spirito, diverso da quello della scienza positiva e della praxis; ha intravvisto la necessità della considerazione teleologica del reale. Sono forse cotesti i meriti del Kant, che i suoi seguaci odierni riconoscono, o sui quali insistono? Nossignori; perché in tal caso dovrebbero proseguire oltre Kant. Ma alla pari e anzi al di sopra di questi meriti, tengono all’agnosticismo, alle ragioni del sentimento, ai postulati della ragion pratica, all’arte miscuglio di fantasia ed intelletto: a tutto ciò, insomma, che nel Kant, come in qualsiasi filosofo e in qualsiasi uomo, si trova di vecchio, di volgare e di falso[40].
A più di trent’anni di distanza da queste parole, Croce chiude la sua riflessione sulla “storiografia vivente” insistendo sulla centralità che assume l’individuazione di quei temi dei filosofi del passato che «si annodano a questi nostri problemi», che erano poi quelli individuati, analizzati e fondati nella sua filosofia dello spirito. E, se di Giordano Bruno bisogna dar risalto più che al panteismo e teismo all’ipotesi della coincidenza degli opposti e alla critica del matematismo, in Kant «non alla tabella delle categorie o alla escogitazione della cosa in sé o ai postulati della ragion pratica, ma alla sintesi a priori, alla nuova idea della scienza della natura come costruzione della nostra mente, alla confutazione di ogni eteronomismo morale, al giudizio del bello che non è giudizio del concetto, e simili»[41]. Anche la storiografia filosofica può, dunque, cadere nel rischio di produrre solo un’«inerte erudizione», ma, così facendo, non s’avvede che «fuori e contro di quella frigida e indifferente storiografia accademica si svolge la storiografia vivente»[42].
- Pubblico qui il testo della Lectio brevis tenuta all’Accademia dei Lincei l’8 febbraio 2019. Adeguandomi al carattere proprio di una Lectio brevis, non ho fatto riferimenti né ho discusso la vasta letteratura secondaria. Per questo pubblicherò spero a breve una versione più ampia. ↑
- Un’evidente testimonianza di ciò è offerta dai Taccuini di lavoro. Già nelle primissime annotazioni e registrazioni dei lavori in corso appare il nome di Kant. Il filosofo aveva affidato al giovane Alfredo Gargiulo la traduzione della Critica del giudizio che sarebbe apparsa per i tipi di Laterza nel 1906 (e poi rivista nel 1960 da Valerio Verra e con un’introduzione di P. D’Angelo nel 1997) e per tutto il corso dell’anno egli dà conto della quasi diuturna correzione e revisione delle bozze. Ma ha anche il tempo di scrivere sotto la data del 3 giugno: «La sera, passeggiata con A. Gargiulo, al quale ho esposto la mia critica all’etica della buona intenzione» (Cfr. B. Croce, Taccuini di Lavoro, I, 1906-1916, Napoli, Arte Tipografica, 1987, p. 3). Quando nel febbraio del 1907 scrive di aver iniziato i «miei studii per la filosofia della pratica», annota di avere in corso la lettura di Aristotele, del De Uno di Vico e infine di Kant (ivi, pp. 40-41). Nell’estate del 1907 molte giornate sono registrate coll’unica espressione: «Studio di Kant», a partire dalla Critica della ragion pratica (ivi, pp. 60 e sgg.). Nel 1908 Croce impegna molte delle sue giornate a rivedere le bozze della Critica della ragion pura, nella traduzione di Gentile e Lombardo-Radice (ivi, pp. 124 e sgg.) e l’anno successivo il copione si ripete con la Critica della ragion pratica nella traduzione di F. Capra (ivi, pp. 148 e sgg.). L’ultima citazione di Kant dai Taccuini porta la data del 15 agosto del 1940, nella quale Croce annota, in sintonia con il processo ormai avviato, di revisione della filosofia dello spirito, di stare studiando la Tugendlehre kantiana e le «opere minori» del filosofo di Koenigsberg. ↑
- B. Croce, La critica letteraria. Questioni teoriche [1894], in Id., Primi saggi, Bari, Laterza, 1918, p. 99. ↑
- – Ivi, p. 100. ↑
- B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1928, IV ed., p. 3 (nell’edizione critica, a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2014, p. 33). ↑
- B. Croce, Estetica, op. cit., pp. 6-7 (ed. critica, pp. 36-37). ↑
- Cfr. il saggio del 1895, Intorno alla filosofia della storia, in B. Croce, Primi Saggi, op. cit., pp. 67-71. ↑
- B. Croce, Estetica, op. cit., p. 45 (ed. cr., p. 75). ↑
- Cfr. B. Croce, Estetica, op. cit., pp. 46-47 (ed. cr., p. 76). ↑
- Ivi, p. 305 (ed. cr., p. 336). ↑
- Ivi, p. 306 (ed. cr., p. 336). ↑
- Ivi, p. 307 (ed. cr., p. 338). Qui Croce ha sott’occhi i §§ 48-50 della Critica del giudizio. ↑
- Ivi, p. 310 (ed. cr., p. 341). ↑
- È interessante notare come Croce faccia riferimento a Kant per criticare l’irrisolta opposizione tra logica empirica e intuizione mistica che egli individua nell’attualismo di Gentile. In una breve nota dedicata a un saggio di Gustavo Bontadini del 1924 su Le polemiche dell’idealismo, Croce sostiene come «nell’idealismo attuale restano di fronte logica empirica e intuizione mistica, e viene sacrificata la logica speculativa, quella dei concetti puri o idee, quella della Vernunft, intravista dal Kant nella Critica del giudizio e cominciata a teorizzare dallo Hegel. Concetti empirici e concetti speculativi (o, com’altri direbbe, concetti logici e concetti ideali, Naturbegriffe e Wertbegriffe) sono in esso adeguati e considerati come tutt’uno, tutti empirici e tutti astratti; e tutti trovano alla pari la loro verità nella teoria dell’atto, che è tutto. Si tenta, in questo modo, di fiaccare il nerbo di ogni serio pensiero filosofico e critico» (cfr. B. Croce, Idealismo attuale, in Id., Pagine sparse, Napoli, Ricciardi Editore, 1943, vol. II, pp. 154-55. ↑
- Cfr. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Id., Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di Storia della filosofia, Bari, Laterza, 1927, III ed., p. 31. ↑
- B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, op. cit. p. 32. ↑
- Ivi, p. 69. ↑
- Ivi, p. 102. ↑
- B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 158. ↑
- Ivi, p. 166. ↑
- Ivi, p. 167. ↑
- Ivi, p. 173. ↑
- Ivi, pp. 365-66. ↑
- Ivi, pp. 387-88. ↑
- Ivi, p. 366. Quando Croce giudica antistorico per eccellenza il secolo XVIII, non risparmia Kant da una critica severa e, in verità, non meritata, se si guarda ai saggi che il filosofo di Königsberg dedicò al problema della storia specialmente nel decennio che corre tra la prima e la seconda Critica. Nella cultura di Kant, scrive Croce, «la storia ebbe poca parte, così nelle sue indagini gnoseologiche rimase quasi affatto trascurata» (ivi, p. 387). In Teoria e storia della storiografia (cfr. l’edizione critica a cura di E. Massimilla e T. Tagliaferri, con una nota al testo di F. Tessitore, Napoli, Bibliopolis, 2007, p. 61) il giudizio è ancora più duro: «Kant non intese né sentì la storia». L’ormai evidente ambivalenza dei giudizi crociani sulla filosofia di Kant si riflette anche sul terreno della teoria della storia. Infatti, quando Croce affronta il problema del necessario ampliamento della storia «astratta, analogica o naturalizzante» al dominio spirituale, individua l’efficacia delle conseguenze che «la filosofia trae dalla risoluzione del concetto realistico di “natura” in quello idealistico di “costruzione” che lo spirito umano fa della realtà, atteggiandola come “natura”; alla quale risoluzione si è indefessamente e sottilmente lavorato dal Kant, che diede l’avviata, fino ai giorni nostri» (cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, op. cit., p. 111). ↑
- Quanto sia ambivalente il giudizio crociano su Kant è testimoniato da un passaggio dei saggi che egli scrisse dopo i due libri che segnarono la “svolta” del suo filosofare, quello sulla poesia del 1936 e quello sulla storia del 1938. Tra i grandi filosofi che per Croce hanno contribuito a tener ben distinte dalla filosofia la mitologia, la metafisica e la rivelazione non poteva certo mancare Kant, tanto per aver avviato quella rivoluzione logica e gnoseologica della sintesi a priori «che sorpassò di colpo le opposte unilateralità del sensismo e dell’intellettualismo», quanto per aver sostenuto la «critica di ogni morale eteronoma» e l’«originalità del giudizio estetico» (B. Croce, Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, in Id., Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1945, II ed., p. 7 (Ed. Naz., a cura di M. Mastrogregori, Napoli, Bibliopolis, 1991, p. 14). È più avanti, ancora a proposito della sintesi a priori di concetto e intuizione, Croce scrive che, se si tentasse di separarli, «diventerebbero vuoto il primo e cieca l’altra» (ivi, p. 20; Ed. Naz., p. 25). Si ricordi che Croce era intervenuto a chiarire – nelle pagine dedicate al libro di Meinecke Die Entstehung des Historismus – che il giudizio del grande storico tedesco sulle origini precipuamente tedesche della «rivoluzione storicistica» non era tanto da ricondurre a Möser a Herder e a Goethe, quanto piuttosto a quella filosofia «che allora si levò altissima in Germania sorpassando quella degli altri popoli, pose alcuni dei principali fondamenti dell’edificio, ancora in costruzione, della filosofia storica. Gli autori della rivoluzione furono Kant e Fichte e Schelling e, in modo più diretto e con consapevolezza maggiore degli altri, Hegel» (cfr. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 68). ↑
- B. Croce, Sul principio economico. Due lettere al prof. V. Pareto, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 1921, IV ed., p. 241. ↑
- B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., p. 176. ↑
- Ivi, p. 177. ↑
- Ivi, p. 262. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 265. Per le critiche di Hegel e Fichte alla morale kantiana cfr. le pp. 268 e sgg di B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit. Ma anche le pp. 299 e sgg. ↑
- Ivi, p. 267. ↑
- Ivi, p. 297. ↑
- Ivi, p. 299. ↑
- Ivi, pp. 300-301. ↑
- Ivi, p. 362. ↑
- Ivi, p. 379. Qui Croce fa riferimento al capitolo sulla Suddivisione della dottrina del diritto. Cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi, tr. e note a cura di G. Vidari, rivista da N. Merker nel 1970, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 44. ↑
- B. Croce, Hegel nella storia della filosofia, in Id., Il carattere della filosofia moderna, op. cit., pp. 50-51. ↑
- B. Croce, La polemica filosofica in Giordano Bruno [1907], in Id., Cultura e vita morale, op. cit., pp. 82-83. ↑
- B. Croce, Il carattere della filosofia moderna (è la conclusione dell’ultimo dei Paralipomeni del libro sulla storia), op. cit., pp. 259-60. ↑
- Ibidem. ↑
(fasc. 37, 25 febbraio 2021)