Borgese, Croce e Vico

Author di Paolo D'Angelo

Il filosofo di Croce

Non vi è dubbio che Giambattista Vico sia stato il filosofo di Benedetto Croce, più di quanto lo siano stati – e questo è abbastanza ovvio – Herbart o Kant o Marx, pur importanti negli anni di formazione, ma anche – e questo può essere meno ovvio – di quanto lo sia stato Hegel. Anche di Hegel si può dire che Croce si sia occupato quasi tutta la vita. La monografia Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel è del 1906, le Indagini su Hegel apparvero in volume nell’anno stesso della morte di Croce, il 1952. Ma, lasciando da parte, visto che si tratterebbe di una circostanza ancora relativamente estrinseca, che i lavori di Croce su Vico, la raccolta di materiali su di lui, la pubblicazione di edizioni critiche e di testi inediti si estendono su di un arco di tempo ancora più lungo (i primi scritti crociani di argomento vichiano risalgono al 1887, e la lettura della Scienza Nuova è di pochi anni successiva) e sono incomparabilmente più continui, numerosi e vari[1], due aspetti fondamentali concorrono nel rendere impossibile il mettere sullo stesso piano il rapporto di Croce con Hegel e quello con Vico. Due aspetti, uno per così dire relativo a Vico, l’altro a Croce. Il primo è rappresentato dal fatto che, mentre Hegel, quando Croce prese a occuparsene approfonditamente, era un filosofo che, pur non attraversando allora uno dei periodi di sua massima fortuna, pure era molto noto, molto studiato e spesso celebrato quale l’ultimo grande filosofo della modernità, Vico invece, agli inizi del Novecento era, sì, già stato scoperto e letto all’estero, ma rimaneva un autore poco noto e poco tradotto, e soprattutto un autore il cui significato per la filosofia era ancora largamente indeterminato. Sicché, mentre il lavoro di Croce su Hegel può esser considerato come un’interpretazione tra molte, quello su Vico apparve per molti decenni come il lavoro che aveva definitivamente immesso Vico nel circolo della storia della filosofia, e la monografia di Croce su Vico esercitò un effetto profondo sulla diffusione delle letture filosofiche di Vico nel mondo[2].

L’aspetto relativo a Croce è rappresentato dal fatto che, mentre il confronto con Hegel rimane un confronto tra due sistemi di pensiero che possono avere, anzi certamente hanno, profondi punti di contatto e vertono largamente sui medesimi problemi, ma pure rimangono due sistemi di pensiero diversi e talora opposti nella loro radice, sì che il confronto diventa spesso un corpo a corpo, una lotta, il confronto con Vico è sempre presentato da Croce come il confronto con un pensiero intimamente affine, che andrà certo corretto, emendato, e soprattutto chiarito, ma a partire da una fondamentale convergenza. Croce in persona, nel Contributo alla critica di me stesso, afferma che Vico è il filosofo al quale si sente legato da «maggiore affinità», laddove impiega varie pagine per negare di sentire appropriata la qualifica di hegeliano. Molti anni dopo, inaugurando in Napoli l’Istituto italiano per gli studi storici da lui fondato, Croce non respingeva, invece, la qualifica di «patito di Vico» (se non, aggiungeva, perché sapeva di essere immune da ogni sorta di fanatismo), e affermava:

il fatto vero è che io sono profondamente convinto che il Vico, rimasto quasi sconosciuto al suo secolo, venuto in reputazione e in ammirazione grande nella prima metà dell’Ottocento […] solamente in questa prima metà del nostro secolo sia cominciato ad essere inteso e sentito nel suo spirito animatore, e che egli, attraverso l’involuto e il confuso o incidentalmente contraddittorio della sua opera […] abbia ancora molto da insegnarci, e molto da sorreggerci nei problemi nostri odierni di vita mentale, i quali in lui trovano presentimenti e riconoscimenti che convalidano in noi la coscienza della bontà della via in cui siamo entrati[3].

Quasi mezzo secolo prima, nella Parte Storica dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Croce aveva dedicato un intero capitolo a Vico, salutandolo quale «primo scopritore della scienza estetica», laddove Hegel era trattato insieme a diversi altri pensatori, e alle sue Lezioni di estetica erano lasciate poche pagine, nelle quali venivano liquidate come «baumgartianesimo deteriore». Del resto, basterebbe confrontare il tono dell’esposizione del pensiero di Hegel in Ciò che è vivo e ciò che è morto (titolo non a caso che è sempre suonato respektlos agli hegeliani di più pura fede), tutta piena di errori che si trasformano in dottrine particolari e di concetti particolari che si trasformano in errori filosofici, con l’adesione profonda al dettato vichiano della Filosofia di Giambattista Vico, nella quale certamente la disposizione delle materie e l’organizzazione complessiva della Scienza Nuova sono profondamente rimescolate ma al tempo stesso si assiste da parte di Croce a un calarsi nel linguaggio di Vico che a tratti rasenta la piena osmosi e che andrebbe, credo, fatto oggetto di uno studio particolare, essendo fenomeno unico in Croce e raro nella letteratura filosofica.

La recensione di Borgese al Vico di Croce e la risposta di quest’ultimo

Non è questo, tuttavia, lo scopo di queste pagine, che non si propongono una riflessione sull’interpretazione crociana di Vico. La premessa era funzionale a un altro scopo, e serviva a giustificare il fatto, altrimenti poco spiegabile, che alcune recensioni alla monografia crociana sembrarono animate da una singolare ostilità verso l’autore; tanto più singolare, in quanto proveniente da intellettuali che fino ad allora con Croce avevano dialogato in spirito di amicizia, quando non si erano riconosciuti esplicitamente suoi discepoli. Altrettanto appassionate furono le repliche di Croce. In particolare in due casi, quello di Giovanni Papini e quello di Giuseppe Antonio Borgese, proprio le recensioni al Vico segnarono sostanzialmente la fine delle relazioni col filosofo napoletano[4].

Giovanni Papini recensì La filosofia di Giambattista Vico nella rivista «L’anima» del settembre 1911. La recensione, che poi Papini avrebbe raccolto nel volume 24 cervelli[5], dopo alcuni generici riconoscimenti, puntava tutta sulla questione dell’originalità e della novità delle idee di Vico, che costituiva agli occhi di Papini l’aspetto maggiormente rivendicato da Croce a merito dell’autore della Scienza Nuova, e si trasformava ben presto in una confutazione della novità di Vico, sostanzialmente ristretta alla tesi della coincidenza di verum e factum, del principio vichiano per cui si conosce veramente qualcosa solo se la si fa, con qualche aggiunta, peraltro abbastanza ovvia, sui precursori dell’idea dell’erramento ferino dell’umanità primitiva e sulla vera natura di Omero. La conclusione di una disamina insistita, cavillosa e molto supponente, era prevedibilmente che Croce aveva misconosciuto i precursori di Vico, che quest’ultimo «apparisce d’un tratto assi meno originale di quello che Croce voglia far credere», e che ciò era causato dal fatto che l’autore «non s’è curato di ricercare nel pensiero galileiano le origini del pensiero vichiano, e l’ha creduto più nuovo di quel che effettivamente non sia». Papini si cimentava in un ruolo che non gli si addiceva di certo, quello dello storico erudito della filosofia, e a Croce non fu difficile rispondere, prima con una replica su «La Critica» del 1912, poi con il saggio sulle Fonti della gnoseologia vichiana raccolto nel volume Saggio sullo Hegel.

Al di là della questione specifica, che poteva avere anche una sua plausibilità (come emergerà dalla letteratura su Vico, soprattutto italiana, nella seconda metà del Novecento, è indubbio che a Croce interessi più il Vico anticipatore del secolo decimonono che il tributario dei due secoli precedenti), colpivano nella recensione l’intenzione malevola e il tono disinvolto e pedante insieme, incurante dell’evidente disparità di competenze specifiche tra il recensente e il recensito. Scrivendo a Papini il 30 dicembre del 1911, Croce protestava

Lessi il vostro articolo sulla novità di Vico, e sicuro che mi dispiacque! Mi dispiacque perché mi parve uno scherzo di cattivo genere […] mi dispiacque anche personalmente, perché mi avete trattato come una persona di mala fede, che voglia darla da bere alla gente. […] Caro Papini, io vi conosco oramai da molti anni e vi ho sempre voluto bene. Ma mi duole che non vi risolviate a smettere certe abitudini di letteratura à surprise, che non giovano alla serietà della cultura e del pensiero italiano. Abbastanza si è scherzato e giovineggiato: ora bisogna che ognuno faccia quel tanto di bene che le proprie reali attitudini gli consentono[6].

Nella replica del 3 gennaio Papini si dichiarava sorpreso, e annunciava «Se nella recensione che mi annunciate direte quello che avete scritto a me sarò costretto a rispondervi apertamente e pubblicamente»[7]. Di fatto, lo scambio di lettere tra i due andò avanti ancora un poco, stancamente e su altri temi (tra l’altro, sulla questione della replica crociana agli attacchi di Boine all’estetica di Croce e relativa contro-replica sulla «Voce»). Del resto, Papini rese insanabile il dissidio con il duro attacco pronunciato al teatro Costanzi il 21 febbraio del 1913 e programmaticamente intitolato Contro Roma e contro Benedetto Croce.

La recensione di Giuseppe Antonio Borgese, la risposta di Croce e i successivi interventi di Borgese presentano indubbiamente più di un punto di contatto con la querelle vichiana Croce-Papini[8]. Su alcuni, che per ora abbiamo sfiorato, come l’accenno crociano al “giovineggiare”, torneremo nell’ultima parte di questo breve scritto. Ma forse è anche lecito ritenere che in questo caso l’attacco, la risposta e la rottura che ne seguì toccassero corde più profonde e avessero una portata maggiore che nell’altro caso. È lecito, sia perché le critiche di Borgese riguardavano aspetti diversi, e più sostanziali della questione dell’“originalità” di Vico, sia soprattutto perché i rapporti tra Croce e Borgese erano stati più stretti, e più coinvolgenti, di quelli che strinsero, occasionalmente, Croce e Papini.

Se, infatti, come è stato detto, Papini e Croce «svolsero in direzioni diverse pensieri che mai si erano sul serio incontrati»[9], il filosofo aveva seguito benevolmente i precocissimi esordi di Borgese. Ne aveva lodato gli articoli apparsi sul «Leonardo», l’«eccellente critica» sulla poesia di Pascoli, le affermazioni teoriche su Metodo storico e metodo estetico, sentite particolarmente vicine alle proprie, le idee sulla critica drammatica e sul linguaggio[10], e ne aveva apprezzato, pur nella diversità di prospettiva, le pagine su d’Annunzio nella «Nuova Antologia». Soprattutto, poi, ne aveva accolto la tesi di laurea sui Precursori di Francesco De Sanctis pubblicandola nelle Edizioni della «Critica» col fortunato titolo Storia della critica romantica in Italia, nel 1905. Borgese aveva allora 23 anni, e il patronato crociano era, dunque, tanto più significativo ma anche, come si sarebbe poi visto nello sviluppo intellettuale di Borgese, psicologicamente impegnativo. Qualche anno dopo, infatti, si manifestarono le prime frizioni, per esempio nel diverso giudizio dato su Carducci. Registrandolo, Croce poteva ancora definire Borgese – siamo alla fine del 1910 – amico e discepolo[11], ma doveva aggiungere che con i suoi amici soleva sempre polemizzare. E, infatti, nello stesso anno Croce pubblicava una noterella polemica, intitolata Il «superamento»[12], nella quale, pensando forse non solo a Borgese, ma certo soprattutto a lui, attaccava quei giovani che si agitano nella pretesa di superare il pensiero altrui, anteponendo l’astratta necessità di andare oltre quello che è stato pensato e realizzato dagli altri alla concreta, faticosa ricerca di risultati effettuali.

Borgese, certamente, per quanto non nominato, si sentì chiamato in causa, e si capisce, quindi, che si disponesse a recensire La filosofia di Giambattista Vico con animo non del tutto sereno. Un animus che traspare assai presto sotto il velo, abbastanza sottile, della cortesia formale per il «libro lucido e ben composto» e dei riconoscimenti inevitabili all’«impareggiabile padronanza dell’argomento». Dopo aver tratteggiato un ritratto dei due temperamenti radicalmente dissimili, quello del tenebroso e disordinato Vico e quello del chiaro ed euritmico Croce, ritratto che indubbiamente coglieva molto di vero, Borgese lo utilizzava subito per negare all’interprete quella congenialità che riteneva necessaria per intendere veramente il pensiero di Vico. Anche perché, e qui il giudizio si faceva pesante, Croce aveva, sì, qualità di filosofo, ma era, «meno che tutto», uno storico, come dimostravano i saggi di critica letteraria che era andato pubblicando sulla «Critica» nel primo decennio del secolo. «Il compito di un vero storiografo di Vico consisteva nel vedere, nell’interpretare, nel sentire tutta la massa di quella imperiosa personalità e non nel purificarla, nel distillarla, nell’impoverirla insomma». Perfino il conflitto tra la visione filosofica di Vico e la sua ortodossia religiosa era da Croce solo affermato e non rappresentato al vivo, cosa che sola avrebbe dato alle pagine crociane «la vertigine del volo». No, Croce preferiva volare basso, o non volare affatto, evitando ogni drammatizzazione e dando a tutta la sua esposizione «un che di meccanico e di congegnato», appiattendo il pensiero di Vico sul proprio e offrendo così una ricostruzione poco comprensibile e poco interessante per chi non conoscesse il sistema crociano. Venenum in cauda: sdegnoso di profondità vorticose e di tumulti lirici, Croce, tanto fortunato quanto Vico fu sfortunato, era chiaro ma non grande, mentre Vico era grande, ancorché oscuro.

A Borgese non faceva difetto l’intuito ed egli certamente intravedeva qualcuno degli aspetti problematici della monografia crociana. Ma, per insufficiente conoscenza di Vico, non riusciva ad additare veramente dove si annidasse il «meccanico» e il «congegnato» del libro di Croce. La separazione che Croce tracciava tra la forma fantastica del conoscere (la poesia e il linguaggio) e quella semifantastica (il mito e la religione) corrispondeva a quella tra estetica e logica nel suo sistema, ma certo era ardua da ritrovare nella Metafisica poetica vichiana, che individua il carattere estetico di uno spettro amplissimo di esperienze nell’epoca della formazione della civiltà (oggi diremmo nei popoli nello stadio etnologico). Così, l’interpretazione del «ricorso» vichiano come circolo dei distinti significava prescindere dal suo significato storico, mentre separare nettamente storia ideale eterna, ricerche storiche e scienza sociale empirica in Vico giovava alla chiarezza dell’esposizione, ma occultava pur sempre il problema della loro mescolanza, che non è solo dell’esposizione vichiana ma anche del modo che egli aveva di pensarle.

Queste sarebbero state obiezioni sode; non riuscendo a configurarle, Borgese si muoveva su un piano psicologico e stilistico che Croce prese facilmente a bersaglio nella sua replica, che reca il titolo già eloquente Pretese di bella letteratura nella storia della filosofia[13]. La tesi che tra interprete e interpretato debba esserci affinità di temperamento poteva essere facilmente rovesciata sostenendo che proprio due temperamenti complementari sono fatti per intendersi meglio. La critica rivolta al carattere astorico dei saggi letterari di Croce veniva rintuzzata sia ribadendo che si trattava di saggi critici e non di una Storia della letteratura, sia additando la differenza che comunque intercorre tra storia della filosofia e storia letteraria. E, soprattutto, all’accusa di non aver saputo rappresentare adeguatamente il conflitto di Vico con la cultura del suo tempo, le sue contraddizioni e il suo dramma di incompreso, Croce poteva rispondere di aver voluto dare una monografia sulla filosofia di Vico, non un affresco di storia della cultura, che peraltro aveva dato, ma nelle due appendici su La vita e il carattere e sulla Fortuna di Vico, dalle quali, notava malignamente Croce, il recensore aveva preso la gran parte delle notizie alle quali asseriva si sarebbe dovuta dare maggiore importanza. Quanto alla povertà dello stile, non di povertà si trattava, ma di rifiuto consapevole di quel «gergo vuoto e pomposo messo in moda dal D’Annunzio e del quale il Borgese stesso offre saggi».

La reprimenda era severa, e da essa traspariva che la materia del contendere, come del resto Croce segnalava fin dalle prime righe, andava al di là dell’occasione specifica, e prendeva la forma di un conflitto personale, che coinvolgeva l’orientamento che stava prendendo non solo Borgese ma anche, come vedremo, un’intera generazione di studiosi. Più avanti nel testo Croce lo diceva apertamente:

Abbiamo tanto lavorato, con questa rivista [scil. «La Critica»] e con i nostri libri, a risollevare la dignità della storia della filosofia, sceverandola dalla biografia, dalla psicologia e dalla storia della cultura; e il Borgese, con quattro parole frettolose e quasi senza accorgersene, vorrebbe riconfondere tutto e rigettare il nostro faticato cosmo nel caos donde l’abbiamo tratto!

La controreplica di Borgese

Se ce ne fosse bisogno, la conferma che l’opposizione e il conflitto oramai travalicavano l’occasione specifica che li aveva portati alla luce viene dall’ulteriore replica di Borgese nella «Cultura contemporanea» del marzo-aprile 1912, una tirata lunghissima, fuori misura (Croce, che non rispose più, la liquidò come un’«articolessa» e una «filastrocca»)[14], del tutto inusuale come controreplica e molto più simile a uno sfogo personale. Borgese stesso sembrava giustificarsi per la forma ipertrofica che aveva preso la sua risposta, quando osservava che «L’animosità con cui il Croce mi ha risposto è sproporzionala non solo all’importanza di un “articolo di giornale”, ma anche al tono del mio giudizio» e, in nota, aggiungeva:

Poiché la risposta del Croce non mi aveva persuaso non potevo – senza dichiararmi, contro coscienza, vinto – escludere l’articolo precedente [cioè la recensione alla Filosofia di Giambattista Vico] dalla raccolta. Né potevo, per l’alta stima che al mio contraddittore su deve, ristampare l’articolo tenendo in non cale le sue ragioni. Ciò valga a spiegare i motivi che m’indussero a scrivere questa apologia[15].

Borgese si soffermava in primo luogo su di un tema che per la verità nella prima recensione era apparso solo di scorcio, il dissidio tra l’ortodossia cattolica di Vico e la sua filosofia, che non solo supponeva uno stadio ferino nello sviluppo dell’umanità, ma teorizzava la funzione provvidenziale delle religioni pagane nel processo di incivilimento, al tempo stesso minimizzando il ruolo del Cristianesimo della storia. Il tema, fino ad allora riassunto come «dramma dialettico» di Vico, era emerso soprattutto in alcune recensioni di parte cattolica, oltre che in quella di Giovanni Amendola su Vico idealista e cattolico[16], e aveva dato luogo a una disputa tra il padre Francescano Emilio Ciocchetti (futuro autore di una monografia su Vico) e il modernista Ernesto Buonaiuti. Borgese elencava puntigliosamente tutti i passaggi in cui la tesi crociana di un Vico sinceramente cattolico ma al tempo stesso creatore di una filosofia che lo portava lontano dalla visione cristiana si traduceva nella constatazione di oscillazioni e perplessità di Vico, per ribadire che «una trattazione di storia della filosofia assolutamente immune da contaminazioni psicologiche e biografiche è impossibile»[17] e per segnalare le contraddizioni in cui sarebbe occorso Croce parlando da un lato di «fede adamantina» e dall’altro di «strazio della mente». Ne concludeva che la contraddizione tra il pensiero e la fede di Vico era stata da Croce solo enunciata e non svolta, e che perciò all’interprete era sfuggito «il momento fondamentale della mente di Vico»[18].

L’altra accusa, più presente invece nella recensione iniziale, quella secondo la quale Croce avrebbe sovrapposto il proprio pensiero a quello vichiano, era ripresa con molta verve ma sempre mantenuta sul generico, senza entrare in dettagliate analisi filosofiche. Borgese si appoggiava ad autorità esterne, per esempio proprio ad Amendola, che aveva parlato di un capitolo di storia che si muta in un capitolo di teoria, o a Zottoli, che aveva scritto che la filosofia di Vico si era dovuta adattare agli schemi della filosofia crociana, per suffragare la propria conclusione che «I punti fondamentali della speculazione filosofica di Vico sono i problemi essenziali della filosofia crociana». Il che ci appare oggi tutt’altro che falso, ma non veniva provato rispetto a Vico, ma solo ritorto contro Croce in dichiarazioni di principio che rincaravano la dose. Borgese si dichiarava a favore di un libro «In cui vi fosse più Vico e meno Croce», contestava un metodo che consiste «nel farci sapere cosa avrebbe pensato Vico se fosse stato Benedetto Croce», e concludeva ritenendo più augurabile che Croce avesse fornito «un Vico veduto attraverso Croce» piuttosto che «un Croce intravveduto attraverso Vico»[19].

Tornando a osservazioni sulla critica e sulla storia letteraria, campo nel quale indubbiamente si muoveva con più competenza, Borgese poteva fare considerazioni più sostanziose. Certamente parlare, come aveva fatto, di una scarsa disposizione alla storia da parte di Croce era, se detto simpliciter, una vera assurdità; ma, se detto secundum quid, cioè in riferimento alla storia letteraria, era tutt’altro che una stravaganza. Borgese percepiva la predilezione di Croce per il saggio sull’autore o, al limite, l’opera singola, e la diffidenza di lui per le storie letterarie che fondevano avvenimenti storici, sociali, politici secondo il modello del pure amato De Sanctis, e insomma individuava nella questione della storicità dell’arte, come già era stato per quella del rapporto tra arte e storia, una delle questioni più spinose nel pensiero di Croce. Non vi insisteva troppo, però, desideroso com’era di correre subito all’ultima parte del suo discorso, quella dove ormai l’invettiva la faceva da padrona. Perché si trattava dell’accusa crociana di aver abbracciato uno stile gonfio e pomposo, e, si sa, le style c’est l’homme même. Nulla, dunque, sembra bruciare a Borgese quanto l’accusa di scrivere in uno stile roboante e retorico, un’accusa nella quale egli vede un Croce che pensa sotto l’effetto dell’ira, deciso a mettere l’avversario in cattiva luce e pronto a «cancellare con un tratto di penna tutto ciò che aveva prima pensato»[20] su di lui. E dire che l’evoluzione successiva della prosa letteraria di Borgese si incaricherà di conferire al giudizio crociano, forse eccessivamente severo in riferimento allo stile di quei primi anni, una molto maggiore verità: dato che tutto si può dire di certi scritti della maturità di Borgese, come quello sul Senso della letteratura italiana, tranne che manchino di enfasi.

Borgese, Croce e i “giovani”

Una parola ricorre spesso nella discussione tra Croce e Borgese, sia da parte del primo sia da parte del secondo. Gli errori di Borgese – scrive Croce nella risposta alla recensione – «sono rappresentativi delle condizioni spirituali di parecchi giovani», e il destinatario registra di essere stato «innalzato a simbolo della odierna gioventù»[21], aggiungendo però che «è troppo evidente che questa gioventù letterario-filosofica è un fantasma polemico»[22]. In effetti, la contrapposizione con i “giovani” diventa un tema ricorrente negli scritti di Croce all’inizio del secondo decennio del Novecento. Abbiamo visto come nella lettera a Papini Croce impiegasse il termine “giovineggiare” per indicare l’agire presuntuoso e inconcludente del destinatario, ma anche di molti suoi coetanei; abbiamo visto come nello scritto sul Superamento Croce attaccasse nelle «generazioni presenti» (di cui Borgese era esponente di spicco) «la sostituzione dei gesti alle azioni, degli ampi atteggiamenti all’opera ristretta e modesta; e, nel caso presente, dell’astratta volontà di superare al superare effettivo»[23]. La polemica con Borgese non si era ancora raffreddata e già Croce si scontrava con un altro “giovane”, Giovanni Boine, che sulla «Voce» aveva attaccato le teorie estetiche di Croce, proponendo un’estetica dei creatori, e aveva dichiarato di preferire un’oscurità vitale alla chiarezza di formule assodate[24]. Nella sua replica, Amori con le nuvole, Croce, pur rivolgendosi direttamente «al suo giovane scrittore» ancora una volta ampliava il bersaglio della polemica estendendolo a «molti spasimanti artisti odierni e molti mistici-filosofanti» e ai «giovani» che «si trastullano con quei balocchi e insieme stimano non siano balocchi, ma cose gravi e quasi tragiche; carezzano la loro immaturità mentale e credono di abbracciare il Cosmo, di celebrare i misteri dell’Assoluto»[25].

Al di là della questione anagrafica, a emergere in tutta la sua criticità non era solo il rapporto di Croce con una generazione di studiosi, ma, si può dire, con la cultura italiana di quel torno di tempo. Al termine di un decennio che aveva visto, insieme, una straordinaria produttività intellettuale e organizzativa da parte di Croce, e la sua conquista di un ruolo di primo piano nella cultura nazionale, giungeva, in un certo senso, il redde rationem, nel quale si intrecciavano molti aspetti[26]. Di essi, almeno due meritano di essere sottolineati. Il primo è che Croce, nella sua lotta per l’egemonia culturale, partiva da una condizione di svantaggio. Aveva contro la cultura universitaria, gli studiosi positivisti, i letterati eruditi, la cultura cattolica; poteva contare solo sull’attività editoriale, attraverso i libri, la propria rivista, i giornali. Da questa condizione, obiettivamente minoritaria, Croce si era affrancato appoggiandosi, forzatamente, a certi fermenti della cultura italiana del primo decennio ai quali era unito dal fatto di avere i comuni nemici nelle tendenze appena elencate. Studiosi extra-accademici, come Papini e Prezzolini; riviste come «Leonardo» e la prima «Voce»: era in qualche modo inevitabile che Croce li avvertisse come compagni di battaglia, alleati e sodali. Ma quegli intellettuali, e quelle riviste (e molto più chiaramente quelle che sarebbero venute dopo, come «Lacerba» o gli sviluppi della «Voce») erano in realtà orientate in senso profondamente anticrociano. Dominava in loro e in esse l’irrazionalismo, mentre l’edificio crociano era profondamente razionale. Volevano superare il concetto con lo slancio vitale, l’azione costruttiva con il superomismo, spingendosi talvolta fino al misticismo e allo spiritismo. I numi tutelari erano il pragmatismo, Nietzsche, d’Annunzio: tutti radicalmente lontani dal mondo intellettuale di Croce. «Croce – è stato osservato con ragione – si trovò di fronte a una generazione di intelletti ardenti, nervosi, animosi, ambiziosi, non di rado velleitari, solisti poco inclini a riverire la bacchetta di un direttore d’orchestra»[27].

Che i contrasti con questo genere di compagni di strada precipitassero proprio al volgere del primo decennio non è in nessun senso casuale. Il Croce dei primissimi anni del secolo, il Croce dell’Estetica e della fondazione della «Critica» è il Croce «partito solo soletto in guerra contro l’incultura italiana», come parve a Emilio Cecchi[28], il grande liberatore delle menti giovanili di cui ebbe a parlare Roberto Longhi, il «trionfatore, e dunque tributario delle Madri, dell’irrazionale»[29] che vide Gianfranco Contini. Il Croce all’inizio del secondo decennio è il Croce che ha ormai chiuso il sistema della Filosofia dello Spirito con il volume sulla Logica, che sempre più sta prendendo le distanze dalle tendenze della letteratura e della poesia contemporanea, che è riuscito a mettere in ombra gli avversari di un tempo, ed è lui, ora, il dominatore della scena. I “giovani” lo sentono distante, avversario anziché alleato. Sono insofferenti delle pastoie del sistema. E non possono intuire che anche Croce, in qualche misura, condivide questa insofferenza, come poi diventerà sempre più chiaro. C’è un passo nella replica di Borgese che è, da questo punto di vista, eloquente:

I filosofi sistematici cominciano col combattere baldanzosamente le teorie avversarie, accanendosi contro un punto e considerando come implicitamente distrutti tutti gli altri; ma quand’hanno costruito il sistema, lo collocano in testa al ponte, e vietano il passaggio filosofico a chi non abbia sciolto gli enigmi del sistema, sotto pena di essere ingoiato se sbaglia. I primi s’acconciano al malinconico diporto; ma finalmente vien qualcuno, il quale scopre che il fiume si può anche passare a guado, evitando il ponte[30].

Il secondo aspetto che merita di essere sottolineato nella polemica di Croce con i giovani è di indole psicologica e caratteriale. Di fronte alla formidabile organizzazione crociana, al suo ordine mentale, e alla sua disciplina, essi appaiono, e si sentono, indubbiamente impari. Il carteggio con Papini, ad esempio, pullula di scuse del letterato fiorentino per lavori non consegnati e impegni non mantenuti. Di fronte alla minacciosa chiarezza di Croce, Boine deve fare l’elogio dell’oscurità, e di fronte alla sua capacità di lavoro un po’ tutti si sentono in difetto. Così, spesso Croce assume un tono pedagogico un po’ paternalistico, conferendo lui per primo alla relativa disparità generazionale un peso che forse non le spetterebbe e assumendo in pieno il ruolo che si è ritagliato in quella che è stata chiamata una «metafisica della senilità»[31].

Di qui il discorrere, da una parte e dall’altra, di lezioni, ammonimenti, maestri e discepoli. Introducendo la sua risposta alla recensione di Borgese, Croce parla del proprio «ardore pedagogico» e di una «difesa non necessaria dalla quale può scaturire una lezione non inutile». Riportando il testo nelle Pagine Sparse, scrive di «ammonimenti» e di «correzione metodologica» somministrata a quello stesso Borgese al quale, pochi anni prima, aveva «elargito lodi ed esortazioni»[32]. Borgese osserva che «sarebbe insolente trascurare una lezione impartitagli da Benedetto Croce», ma di quella lezione e del tono usato da Croce è insofferente e scrive che «c’è qualcosa di triste in questo pessimismo verso ciò che viene dopo di noi»[33]. Così Croce, che sappiamo alienissimo dalla pedagogia, lontano dalla scuola e dall’Università, autodidatta ed eslege della cultura, è portato in questi anni ad assumere un ruolo professorale a lui fino ad allora estraneo, quella funzione non gratissima di «pedagogo universale» di cui ebbe a parlare Renato Serra. Documento eloquente di questo atteggiamento crociano è lo scritto del 1912 intitolato L’aristocrazia e i giovani, in cui si legge:

C’è stato negli ultimi decenni un susseguirsi di mode mentali che, per un verso, hanno fatto smarrire il senso delle proporzioni ossia di ciò che è veramente importante e fondamentale per l’uomo, e per l’altro hanno stretto in orrido connubio l’energia e la cupidigia, la religione e la sensualità, la nobiltà e la vanità, la magnificenza e la vacuità, onde si è introdotto tale perturbamento negli animi giovanili, che un uomo sollecito delle sorti della patria non può non esserne impensierito e contristato[34].

Contro questi velleitarismi, Croce consigliava provocatoriamente ai giovani di leggere i libri per le scuole elementari, dove avrebbero trovato gli imperativi da contrapporre ai loro vaniloqui: il rendersi utili alla società, il prestare la propria opera in un lavoro quale che sia, il cercare la pace dello spirito nell’esercizio dei doveri prossimi, «i quali non sono quelli che adempiranno quando l’Italia sarà schierata contro i Galli o contro i Germani, ma quelli che si esplicano con l’attendere al proprio ufficio, e, quando si è in iscuola, alla scuola». Il tono era questo; ed era, indubbiamente, un tono che non poteva non riuscire fastidioso. Borgese lo definiva, reagendo a quella che chiamava senza mezzi termini una predica, «amaro, ironico, offensivo», e avvertiva che da queste «nere parole» non c’era da aspettarsi che svolgessero un’azione positiva.

Può darsi; anzi, era senz’altro così. Ma né Croce né Borgese potevano sospettare che di lì a poco il corso delle cose avrebbe dato a tutta la polemica tra Croce e i “giovani”, e alle parole che in essa erano state pronunciate, un senso che nessuno dei due contendenti poteva allora intravedere. Quando scoppiò la guerra mondiale in Europa, e in Italia cominciarono ad agitarsi le contese tra neutralisti e interventisti, tutti quei giovani, nessuno escluso, si trovarono a schierarsi per l’entrata in guerra, immediata, dell’Italia. Tutti: Papini, Prezzolini, Borgese stesso in questo furono dannunziani, e non crociani. E forse mai, nemmeno negli anni del Fascismo, Croce fu così lontano dagli umori e dalle passioni della società italiana e delle nuove generazioni. E quando, come conseguenza della guerra, il Fascismo si affacciò e si affermò sempre più chiaramente nella sua veste di dittatura, moltissimi di quei giovani (anche se, bisogna dirlo, non Borgese) furono dalla sua parte. Ma questa è un’altra storia, anzi è la Storia, molto più seria e molto più triste.

  1. Nell’edizione accresciuta e rielaborata da Fausto Nicolini della Bibliografia Vichiana di Croce (Napoli, Ricciardi, 1948) la sezione dedicata ai lavori di Croce su Vico (che è, si badi, in larga parte un semplice elenco) va da p. 741 a p. 778.
  2. Ciò è stato riconosciuto anche da chi meno si è dichiarato d’accordo con l’interpretazione crociana, come attestato da Hayden White, What is Living and what is Dead in Croce’s Criticism of Vico, in Giambattista Vico: An International Symposium, a cura di G. Tagliacozzo, Baltimore, The John Hopkins University Press, 1969.
  3. B. Croce, Il concetto moderno della storia, in Id., Dieci conversazioni con gli alunni dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, Bologna, il Mulino, 1993, p. 152.
  4. Numerose furono le recensioni al volume crociano sia su quotidiani che su riviste. L’elenco di esse si può leggere in «La Critica», 1920, pp. 357-59.
  5. G. Papini, 24 cervelli, 1913. Citiamo da 24 cervelli, Roma, Edizioni dell’Altana, 2007, pp. 165-81.
  6. B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, p. 244.
  7. Ivi, p. 245.
  8. Cfr. quanto scrive G. Sasso nell’Introduzione al Carteggio Croce-Papini sopra citato, alla p. XXIV: «[Croce] sapeva benissimo che criticare la filosofia [di Vico] significava criticare lui che vi si era identificato e che questo valeva per Papini più ancora, o non meno, che per Borgese».
  9. G. Sasso, Introduzione cit., p. LXV.
  10. Si veda in B. Croce, Conversazioni critiche, Serie seconda, Bari, Laterza, 1924, pp. 137-38.
  11. B. Croce, Pagine Sparse, Volume Primo, Napoli, Ricciardi, 1948, p. 237.
  12. Si legge ora in B. Croce, Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1955, pp. 116-19.
  13. Apparsa su «La Critica», n° 9, 1911, la recensione si legge anche in B. Croce, Pagine sparse, Volume Primo, op. cit., pp. 329-38.
  14. Poi ripubblicata con la recensione vichiana da Borgese in La vita e il libro, Terza Serie, Bologna, Zanichelli, 1928, pp. 257-303.
  15. Ivi, p. 257.
  16. G. Amendola, Vico idealista e cattolico, in «La Voce», 18 maggio 1912. Croce non rispose a questa recensione; lo fece, invece, F. Nicolini, ma la sua replica non venne pubblicata. La si può leggere ora in appendice al Carteggio Croce-Amendola, a cura di R. Pertici, Napoli, Istituto per gli Studi Storici, 1983, pp. 104-108.
  17. G. A. Borgese La vita e il libro, op. cit., p. 264.
  18. Ivi, p. 270.
  19. Ivi, pp. 278-80.
  20. Ivi, p. 290.
  21. B. Croce, Pagine sparse, op. cit., p. 329; G. A. Borgese, La vita e il libro, Terza Serie, op. cit., p. 297.
  22. Ivi, p. 301.
  23. B. Croce, Il superamento, in Id., Cultura e vita morale, op. cit., p. 119.
  24. G. Boine, L’ignoto, in «La Voce», IV, 1912, n. 6, e Id., L’estetica dell’ignoto, in «La Voce», IV, 1912, n. 9.
  25. B. Croce, Amori con le nuvole, In Id., Cultura e vita morale, op. cit., p. 132.
  26. Si veda per un bilancio complessivo L. Lattarulo, Egemonia e dialogo. Croce e la cultura primonovecentesca, Manziana, Vecchiarelli, 2000.
  27. M. Biondi, Croce e i giovani, in M. Ciliberto (direttore scientifico) Croce e Gentile, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2016, p. 177.
  28. E. Cecchi, Ricordi crociani, Milano, Riccardo Ricciardi, 1965. Si veda G. Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce – II, Fano, Aras, 2020, pp. 22-26.
  29. G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, in Id., Altri esercizi, Torino, Einaudi, 1972, p. 42.
  30. G. A. Borgese, La vita e il libro, op. cit., p. 296.
  31. E. Giammattei, Una metafisica della senilità: immagini di Croce dal primo Novecento, in Ead. Retorica e idealismo, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 141-63.
  32. B. Croce, Pagine sparse, op. cit., p. 329.
  33. G. A. Borgese, La vita e il libro, op. cit., p. 297.
  34. B. Croce, L’aristocrazia e i giovani. (Frammento di una conferenza pedagogica), in «La Critica», X, 1912, pp. 60-66; poi in Id., Cultura e vita morale, op. cit., p. 175.

(fasc. 37, 25 febbraio 2021)