Croce, le scienze, la complessità

Author di Giuseppe Giordano

La questione del rapporto della filosofia di Benedetto Croce con le conoscenze scientifiche resta sempre di grande attualità, visto il continuo riferimento al pensatore napoletano ogni volta che si vuole recriminare per le difficoltà – vere o presunte – delle scienze in Italia. Anche se bisognerebbe comprendere in che cosa consistano effettivamente queste difficoltà, appare evidente, allora, che ancora – come rilevava qualche anno fa Paolo D’Angelo – il “problema Croce”[1] abbia nel giudizio sulle scienze un punto dolente da scandagliare.

Importanti chiarimenti sulla questione sono stati fatti; esistono ormai studi consolidati – ancorché pochi quantitativamente – che hanno messo puntualmente a fuoco il pensiero di Croce riguardo alle scienze[2], ma mi è sembrato opportuno tornare ancora una volta sulla questione[3], mettendo a confronto la visione crociana con le teorie più attuali nelle scienze. L’idea che vorrei fare emergere è che la questione della valutazione che Croce dà delle scienze va collocata storicamente nel tempo in cui venne formulata; ma è anche vero che, di fronte ai grandi cambiamenti di natura filosofico-epistemologica che le scienze hanno attraversato nel Novecento, il filosofo napoletano appare più vicino – per parafrasare un titolo del sociologo della conoscenza scientifica Bruno Latour – alla “scienza in azione”[4] di quanto non siano certi suoi critici attuali sui temi della valutazione della conoscenza scientifica. Come ha osservato Giuseppe Gembillo, «le riflessioni espresse sulla scienza da Benedetto Croce non solo erano in perfetta consonanza con quelle emergenti dalla temperie culturale all’interno della quale furono espresse, ma restano, oggi, particolarmente attuali e feconde di ulteriori sviluppi»[5].

Nell’affrontare oggi, ancora una volta, la questione, invertirò l’ordine cronologico, partendo dalle visioni scientifiche attuali, per mostrare come il quadro della filosofia crociana (in special modo della Logica come scienza del concetto puro) costituisca un retroterra filosofico (ancorché non esplicitamente riconosciuto) della visione della realtà che scaturisce dall’accettazione della complessità del reale. L’orizzonte di senso odierno, la scienza – ma anche la filosofia – della “complessità” permette di sostanziare un giudizio, non banale e non superficiale, sulla posizione che Croce ha costruito all’interno del suo pensiero sulle scienze, che mostra, così, un’attualità indiscutibile[6].

L’accettazione della complessità del reale, in contrapposizione al modello riduttivo-astraente della scienza tradizionale, è la cifra caratteristica di quella che non può che definirsi la vera “sfida” nel campo della conoscenza degli ultimi cinquant’anni[7]. Ci si muove adesso all’interno di una visione – che sarebbe riduttivo definire “paradigma” in senso tradizionale, termine che indica sempre una qualche rigidità strutturale, totalmente estranea al nuovo modo di guardare al reale – che si contrappone radicalmente alla svolta imposta dalla Rivoluzione Scientifica galileiana nel Seicento. A fronte di un riduzionismo programmatico alla mera quantità; a fronte di una riduzione del reale alla sua “rettificazione” matematica[8]; a fronte della codificazione della separazione radicale tra soggetto conoscente e oggetto da conoscere; a fronte di una descrizione totalmente astorica e in contrapposizione con la vita reale[9]; a fronte di quella che è stata una vera e propria “conquista dell’abbondanza”[10], finalmente si sta costruendo una scienza a misura d’uomo, a misura dell’incertezza che contraddistingue l’avventura del reale nel tempo. Se, infatti, vi è una caratteristica precipua della prospettiva della complessità, questa è il riconoscimento di un unico tempo storico, irreversibile, che accomuna su una medesima “freccia del tempo” gli uomini e la natura. Come scrivono, infatti, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, la freccia del tempo, lungi da essere una proprietà secondaria e derivata, è costitutiva della realtà fisica, dal più piccolo degli atomi in interazione con il suo campo, fino all’universo nel suo insieme»[11].

Sulla base di questa condivisione, in contrapposizione ai sogni iperrazionalizzanti della scienza della modernità, nel nuovo contesto è possibile indagare una natura che si presenta come storia; nella quale il vivente non è un corpo estraneo, ma un attore che, mentre vive, esplora e conosce; una natura che ha bisogno di essere vista (e costruita) come una totalità, un sistema che possiede, sì, parti, ma anche proprietà emergenti del tutto non riducibili a quelle delle componenti[12]. Siamo di fronte a una vera e propria nuova filosofia, che viene fuori, questa volta, dal contesto, quello scientifico, che aveva posto la filosofia in secondo piano[13], articolandosi come una vera e propria proposta generale (in un certo senso, metodologica e ontologica a un tempo) di approccio e di comprensione della realtà nella sua pienezza[14].

Nel contesto di questo lavoro è importante mettere in evidenza alcune delle caratteristiche della nuova visione del mondo: la critica al modello scientifico classico, la riconquistata centralità del soggetto, la prospettiva organicistico-sistemica con la sua prospezione reticolare (a tutti i livelli: di realtà, ma anche di saperi), l’approdo a una visione di un uomo che non può più essere ricondotto soltanto al suo essere sapiens, razionale.

La critica alla scienza “classica” è un punto centrale su cui fondare la prospettiva della complessità. Se c’è, infatti, un tratto evidente del nuovo punto di vista è sicuramente il mettere in luce l’estraneazione dell’uomo rispetto al mondo conosciuto secondo i canoni fisico-matematici classici. Secondo Prigogine e Stengers, «la ricerca di una verità eterna nascosta dietro la mutevolezza dei fenomeni suscitò entusiasmo. Ma nello stesso tempo divenne ineludibile il fatto che un mondo decifrato con successo in questo modo fosse in effetti un mondo svilito: si rivelava essere un semplice automa, un robot»[15]. Un’“operazione” di grande successo, come l’affermarsi della fisica-matematica come paradigma guida (o uno dei paradigmi guida) della modernità, finiva in un esito assolutamente non previsto:

La scienza ha iniziato – scrivono ancora Prigogine e Stengers – un dialogo fruttuoso con la natura, ma lo sbocco di questo dialogo è stato dei più sorprendenti. Esso ha rivelato all’uomo una natura passiva e morta, una natura che si comporta come un automa, che, una volta programmato, segue eternamente le regole scritte sul suo programma. In questo senso il dialogo con la natura ha isolato l’uomo dalla natura, piuttosto di metterlo a più stretto contatto con essa. Uno dei più grandi successi della ragione umana è diventato una triste verità. La scienza è stata vista come una cosa che disincanta tutto ciò che tocca[16].

La nuova scienza, ai tempi nostri, non deve più basarsi «sulla convinzione di fondo che il mondo microscopico sia semplice e governato da semplici leggi matematiche»[17]. Grazie alla riscoperta in ambito scientifico del tempo storico, della “freccia del tempo”[18] – riscoperta proveniente dagli sviluppi della termodinamica, quando si guardano i processi che avvengono lontano dall’equilibrio termico –, si può abbandonare il tradizionale meccanicismo. Riammessa la realtà del tempo orientato irreversibilmente dal passato verso il futuro, «la maggiore difficoltà per raggiungere una più grande unità tra cose scientifiche ed umanistiche è stata eliminata»[19]. In questa prospettiva la natura perde la sua mera “cosalità”, non è più semplicemente un oggetto meccanico, ma può essere addirittura vista come un’opera d’arte[20]. Di fronte a una natura così intesa, viene smascherato il significato del dialogo con essa prodotto all’interno della scienza galileiano-newtoniana:

Il dialogo sperimentale con la natura, che la scienza moderna ha scoperto, non suppone un’osservazione passiva, ma una pratica. Si tratta di manipolare, di “fare una sceneggiatura” della realtà fisica, per conferirle un’approssimazione ottimale nei confronti di una descrizione teorica. Si tratta di preparare il fenomeno studiato, di purificarlo, di isolarlo fino a che esso assomigli a una situazione ideale, fisicamente irrealizzabile, ma intellegibile per eccellenza, dal momento che incarna l’ipotesi teorica che guida la manipolazione[21].

La critica alla scienza “classica” si risolve, così, nello smascheramento delle sue pretese di oggettività, mostrando come essa costituisca un’astrazione, una costruzione artificiale di un reale ritagliato e fatto coincidere con una struttura prefissata, di tipo esclusivamente quantitativo. Di fronte a questo tipo di scienza, dai connotati “disumani”, la rinuncia al riduzionismo e l’accettazione della complessità ci consegnano, invece, la possibilità di una scienza che sia umana, che cioè non si ponga come conoscenza al di fuori di ciò che vuole conoscere, ma acquisti la consapevolezza che «il fatto che noi interroghiamo la natura è parte dell’intrinseca attività della natura»[22].

Come si vede, siamo di fronte anche a un vero e proprio recupero di quel soggetto che il paradigma “classico” aveva messo fuori dalla realtà conosciuta, separando la res cogitans dalla res extensa. In un percorso avviatosi già con le grandi rivoluzioni in fisica della prima parte del Novecento[23], oggi siamo consapevoli che guardare la natura significa guardarla dall’interno. Ora, le teorie sul vivente più avanzate – come la cosiddetta “Teoria di Santiago”, formulata da Humberto Maturana e Francisco Varela – ci immettono in una realtà nella quale il vivente vive conoscendo e conosce vivendo. Per usare le parole dei due biologi cileni, «ogni azione è conoscenza e ogni conoscenza è azione»[24]. L’organizzazione vivente è immersa nella realtà – nella quale forma un tutt’uno con l’ambiente in quello che viene definito “accoppiamento strutturale”[25] –, ma si procede, potremmo dire, dal proprio punto di vista[26]. Il vivente è una sorta di costruttore di realtà; il conoscere è una «permanente produzione di un mondo attraverso il processo stesso del vivere»[27]. Il processo cognitivo non si presenta, quindi, come l’apprendimento di un universo oggettivo[28].

Siamo agli antipodi della visione tradizionale della scienza che, per raggiungere il sogno di una conoscenza oggettiva, “postulava” la cancellazione del soggetto[29]. Nella prospettiva antiriduzionista, nell’ottica della complessità, Maturana arriva a sostenere la necessità di “mettere l’oggettività tra parentesi”. Seguiamo Maturana:

Non intendo affermare che ciò che dico è valido perché c’è una realtà oggettiva indipendente che lo rende tale. Parlerò da biologo, e quindi userò il criterio di validità delle asserzioni scientifiche per validare quello che dico, assumendo che tutto quello che avviene è costruito dall’osservatore nella prassi in cui vive, come condizione empirica primaria, e che ogni spiegazione viene solo in seconda istanza[30].

Dalla teoria dell’autopoieticità del vivente giunge, quindi, il richiamo al recupero della soggettività nella conoscenza e nel vivere, così da comprendere, nel reciproco riconoscimento, il diritto a esistere dell’altro[31]. Questa tematica ci introduce (da una via non diretta) – sempre nella prospettiva della complessità – alla richiesta di una visione sistemica e reticolare. Un approccio alla realtà che non voglia rinunciare alla concretezza della realtà stessa, che non voglia ridurla a qualche suo elemento (pseudo)primario per spiegarla, necessita di una prospettiva sistemica e reticolare, all’interno della quale le parti e il tutto giochino un ruolo sinergico, senza che né le prime né il secondo acquisiscano preminenza le une sull’altro. È ovvio che il primo passaggio è stato abbandonare la visione classica centrata sulla fondamentalità e priorità delle parti sul tutto[32], per abbracciare un visione di relazionalità, una visione sistemica, che ci ponga nella dimensione di guardare il reale come organizzazione[33]. La detronizzazione della fisica dal ruolo di scienza paradigmatica, l’attenzione al vivente (campo rimasto ai margini del paradigma galileiano-newtoniano) hanno aperto la strada a vedere in chiave reticolare la realtà. Come osserva Fritjof Capra, «la trama della vita è fatta di reti all’interno di reti. A ogni scala d’ingrandimento, in osservazioni più ravvicinate, i nodi della rete si rivelano come reti più piccole. […] In natura non c’è alcun “sopra” o “sotto”, e non esistono gerarchie. Ci sono solo reti dentro altre reti»[34].

La realtà (vita e natura) è un tutto, un organismo[35]. Non è un caso che proprio Capra citi in esergo a La rete della vita queste parole attribuite a Seattle, capo indiano: «Questo sappiamo. Che tutte le cose sono legate come il sangue che unisce una famiglia… Tutto ciò che accade alla Terra, accade ai figli e alle figlie della Terra. L’uomo non tesse la trama della vita; in essa egli è soltanto un filo. Qualsiasi cosa fa alla trama, l’uomo la fa a se stesso»[36].

Le parole finali di questo brano ci conducono all’ultimo passo all’interno della visione della complessità. Parlare di uomo significa, infatti, ridisegnarne i connotati nella nuova prospettiva complessa. Anche l’uomo deve uscire dal riduzionismo descrittivo che lo ha circoscritto per millenni alla sua dimensione puramente razionale, definendolo homo sapiens. In una prospettiva concreta, si deve accettare la complessità dell’umano. Come ricorda il massimo filosofo della complessità, Edgar Morin,

bisogna legare l’uomo ragionevole (sapiens) all’uomo folle (demens), l’uomo produttore, l’uomo tecnico, l’uomo costruttore, l’uomo ansioso, l’uomo gaudente, l’uomo estatico, l’uomo che canta e che balla, l’uomo soggettivo, l’uomo immaginario, l’uomo mitologico, l’uomo critico, l’uomo nevrotico, l’uomo erotico, l’uomo intemperante, l’uomo distruttore, l’uomo cosciente, l’uomo incosciente, l’uomo magico, l’uomo razionale in una fisionomia sfaccettata dove l’ominide si trasfigura definitivamente in uomo[37].

Questo uomo pluri-sfaccettato distrugge l’immagine rassicurante di un uomo puramente razionale: si mettono in luce anche l’instabilità, l’affettività, la credulità e non solo la capacità intellettiva[38]. A fronte di una visione unilaterale, che celava come non caratterizzanti tutti gli aspetti dell’umano non riconducibili alla ragione, quella che adesso emerge è la proposta di un’antropologia complessa perché fatta della complementarità di tanti aspetti, in contrasto, ma anche in una dialettica di cooperazione[39]. Morin ci mostra di fatto come «sarebbe irrazionale, folle e delirante nascondere la componente irrazionale, folle e delirante dell’umano»[40]; senza la circolarità dialogica tra sapiens e demens non c’è realtà umana[41]; la realtà complessa dell’uomo è la dialettica di sapiens e demens. Morin ribadisce, infatti, che «l’uomo non si può ridurre al suo aspetto tecnico di homo faber né al suo aspetto razionalistico di homo sapiens. Bisogna considerare come componenti dell’aspetto dell’uomo il mito, la festa, la danza, il canto, l’estasi, l’amore, la morte, la sregolatezza, la guerra… Non bisogna respingere come “rumore”, residuo, scoria l’affettività, la nevrosi, il disordine, il caso. L’uomo reale è nella dialettica di sapiens-demens»[42].

Gli elementi che abbiamo individuato nelle pagine precedenti come caratteristici della visione della complessità – la critica al modello scientifico classico, la ricompresa centralità del soggetto, la prospettiva organicistico-sistemica, l’antropologia complessa dell’uomo intero, sapiens demens – costituiscono lo sfondo sul quale indagare il testo crociano della Logica, per constatare o meno se esso possa costituire un retroterra filosofico della svolta scientifica (e filosofica anch’essa) della complessità. È possibile procedere costruendo un percorso di lettura che individui gli stessi snodi canonici che sono stati messi in evidenza per i teorici della complessità.

La critica alla scienza classica, alla scienza positivista della fine dell’Ottocento-inizio Novecento, scienza che porta all’estremizzazione i connotati epistemologici del paradigma galileiano-newtoniano; questa critica è puntualmente presente in Croce.

Bisogna ricordare sempre che Croce non pensa mai di aver scritto un libro contro le scienze. Nell’Avvertenza all’edizione del 1916 della Logica come scienza del concetto puro aveva, infatti, scritto:

Quando questo libro fu la prima volta pubblicato, parve a molti che esso fosse i guisa precipua una assai vivace requisitoria contro la Scienza; e pochi vi scorsero ciò che soprattutto era: una rivendicazione della serietà del pensiero logico, di fronte non solo all’empirismo e all’astrattismo, ma anche alle dottrine intuizionistiche, mistiche e prammatistiche, e a tutte le altre, allora assai poderose, che travolgevano col positivismo, a giusta ragione avversato, ogni forma di logicità[43].

Il punto nodale di questo brano – che va ribadito prima di proseguire – è lo scopo della Logica, cioè “la rivendicazione della serietà del pensiero logico”. Di fronte alla reazione “scomposta” al Positivismo, di fronte alla razionalità scientista, non si può e non si deve rinunciare alla razionalità tout court, che non coincide affatto con quella della scienza della modernità[44]. Si delinea subito, quindi, il profilo di critica di una sorta di usurpazione da parte della ragione scientifica di un ruolo che appartiene a un ragione e a una logica diverse (in un certo senso più vaste). Quella di Croce è, allora, una vera e propria critica della scienza classica, che comincia sin dall’individuazione di pensatori in sintonia dal versante scientifico, le cui riflessioni non sono certo in linea con l’epistemologia del paradigma galileiano-newtoniano e con quella della scienza positivista: sto parlando di Ernst Mach e Jules Henri Poincaré. Contro la definitività delle conoscenze scientifiche, secondo il paradigma “classico”, Mach, per la prima volta e rinunciando alla ragione scientifica (sterile e non produttiva) in favore delle sensazioni, parla di uno sviluppo “storico-critico” della fisica[45]. Poincaré – portando a compimento un percorso avviatosi con la scoperta delle geometrie non euclidee e sfociato, inizialmente, nella cosiddetta crisi dei fondamenti della matematica – sancisce la convenzionalità delle geometrie, il loro cioè essere strumenti di comprensione del reale, ma non il linguaggio veritiero, divino, in cui – come voleva Galileo – sarebbe scritto il mondo[46].

Croce coglie in Mach un sodale nella comprensione che «la fisica (egli dice), non meno della zoologia e della botanica, ha a suo unico fondamento le descrizioni dei fatti naturali, nei quali non vi sono mai casi eguali, che vengono foggiati soltanto nell’imitazione schematica che si fa della realtà»[47]. Riguardo a Poincaré, il filosofo sottolinea come egli sia tra quelli che hanno evidenziato la convenzionalità della matematica e della fisica, «per effetto anche delle teorie della geometria superiore, le quali hanno a loro guisa concorso a mettere in luce il carattere pratico delle matematiche, che prima erano generalmente ritenute fondamento e modello di verità e di certezza»[48].

Sta emergendo da questi passaggi come sia da contrastare, per Croce, il pregiudizio sulla non storicità della natura; pregiudizio privo di fondamento se non pensando a una separazione fra una realtà umana e una realtà inferiore sottostante, che sola potrebbe giustificare la non storicità di una parte di realtà[49]. Tra la logica della ragione storica e il ragionamento scientifico non c’è differenza di oggetti, ma di metodi[50]. È dal riconoscimento di questa questione metodologica che scaturisce la distinzione tra i concetti puri, quelli della filosofia-storia, e gli pseudo-concetti, quelli delle scienze matematiche e fisiche. La conoscenza è una, è giudizio individuale-storico; e si può conoscere davvero anche la natura attraverso giudizi individuali-storici. Quando, però, quella conoscenza la si vuole cristallizzare e reiterare all’infinito, ecco che si è fuori dal vero conoscere. Purtroppo la terminologia non è mai innocua e definire “pseudo-concettuale” il discorso scientifico ha generato reazioni durissime[51], perlopiù immotivate, causate cioè dall’incapacità di cogliere il senso profondo del discorso crociano.

Croce, infatti, non nega certo valore agli pseudoconcetti, sia empirici sia astratti[52]. Scrive:

Quando ci siamo persuasi che il triangolo e il moto libero non rispondono a nulla di reale, e che la rosa, il gatto e la casa non definiscono nulla di veramente universale, dobbiamo tuttavia seguitare a valerci delle finzioni di triangoli, di moti liberi, di case, gatti e rose. Possiamo criticarle e non possiamo rifiutarle; dunque, non è vero che esse siano, totalmente e in ogni significato, errori[53].

Quello che Croce vuole sostenere è che anche gli pseudoconcetti hanno una loro validità[54]; una validità che non è conoscitiva, ma “pratica”, rammemorativa, economica (per usare la terminologia machiana)[55]. Quello che spesso si tende a dimenticare, da parte scientifica, è che la sfera pratica per Croce ha valore identico alla sfera conoscitiva (e ne riparleremo più avanti)[56] e, quindi, concetti e pseudoconcetti coesistono, i primi sul piano teoretico e i secondi su quello pratico. Si comprende bene come questa teoria logica di Croce critichi a tutti gli effetti la scienza galileiano-newtoniana che si era strutturata proprio attraverso quelli che il filosofo adesso definisce pseudoconcetti e pseudo giudizi. Anche questi ultimi hanno carattere pratico e non conoscitivo e anch’essi, per questa loro pratica utilità, hanno legittimità di esistenza[57].

Gli pseudogiudizi si concretizzano nelle attività del classificare e del numerare. La classificazione è propria della sfera empirica[58] ed è una funzione essenziale anche se non ha nulla a che vedere con il comprendere, il capire: classificare vale schedare, raggruppare, e lo schedare, il raggruppare, non è conoscere. La numerazione muove dalla dimensione degli pseudoconcetti astratti. Si tratta dell’operazione cardine della scienza della modernità, la matematizzazione del reale, che Croce vede, nella sua vuotezza conoscitiva, assumere un senso soltanto in prospettiva pratica. Il numerare, per Croce, si riduce «a una manipolazione delle cose, affatto estrinseca e indifferente alla loro qualità. Che dati oggetti siano numerabili o misurabili con 100, con 1000, con 10000, non insegna nulla intorno all’esser loro»[59].

Nella prospettiva del filosofo napoletano, allora, le scienze della natura (nella veste con cui vengono presentate dal Positivismo e dallo scientismo moderno di conoscenza di punta, la più elevata) sono costruite su concetti pratici, pseudoconcetti; il loro valore è pratico e non teoretico. Per questo non sono in funzione, ad esempio, della filosofia, non hanno una sorta di carattere pre-filosofico, preparatorio[60]. Esse sono autonome, indipendenti dal conoscere filosofico-storico nella loro struttura classificatoria[61].

Questa caratteristica non muta quando si prospetta – come fa il paradigma galileiano-newtoniano – una scienza matematica della natura. La critica di Croce nei riguardi della matematica ha molte consonanze con le critiche di Hegel al procedere matematico[62]; e si fonda sul ribadire l’identificazione delle matematiche con gli pseudoconcetti astratti. Scrive Croce: «Le matematiche forniscono concetti astratti, che rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gl’istrumenti per contare e calcolare, e per compiere quella sorta di finta sintesi a priori, che è la numerazione degli oggetti singoli»[63]. “Finta sintesi a priori”, non conoscitiva: pratica. Le matematiche, dunque, «servono, in conclusione, al facile maneggio delle conoscenze circa la realtà individuale»[64].

Ancora una volta, quella che emerge, attraverso la critica del classificare (proprio delle scienze naturali) e del numerare (proprio delle matematiche, che poi vivono nell’applicarsi alle classificazioni empiriche e “nobilitarle” della quantificazione), è la critica al paradigma scientifico riduzionista della scienza galileaiano-newtoniana. La conclusione del ragionamento di Croce su scienze naturali e matematiche è, infatti, che,

chiarita la qualità delle matematiche, si può ora ripigliare il filo lasciato sospeso, e scorgere quanto sia inammissibile la pretesa di una scienza matematica della natura, la quale dovrebbe formare il vero fine, e l’anima stessa delle scienze empiriche e naturali. Si dice che quella scienza matematica stia come ideale di sopra a tutte le particolari scienze della natura; ma, converrebbe aggiungere, come ideale inattuato e inattuabile, epperò, piuttosto che ideale, illusione e miraggio[65].

Si presentano qui termini che saranno cari ai filosofi-scienziati della complessità. Proprio Prigogine e Stengers parleranno della scienza “classica” come di un “miraggio dell’universale”[66] in perfetta consonanza con la tesi crociana dell’illusorietà di una scienza di sole quantità che possa considerarsi davvero conoscenza. Pensare è qualcosa di profondamente diverso dal classificare e dal calcolare[67]. Il discorso di Croce costituisce, quindi, un fondamento filosofico serio a considerazioni che in seguito si produrranno dall’interno della scienza, una volta rimosso il presupposto astratto e astorico, tipico della ragione scientifica della modernità.

La critica a un certo tipo di scienza è sicuramente il nucleo centrale che fa di Croce un vero e proprio filosofo della complessità. Ma anche quello che abbiamo visto presentarsi come recupero del soggetto ha un riscontro preciso nella Logica. Il discorso qui si sposta sul piano squisitamente logico. Il giudizio che la scienza della modernità aveva codificato come sintesi a priori di categorie ed esperienza, ponendo ancora una volta – in una declinazione solo apparentemente depotenziata da un certo ruolo del soggetto – il modello dell’adaequatio rei et intellectus come struttura del conoscere; il giudizio diventa in Croce “sintesi a priori logica”, tutto incardinato nella sfera della produzione spirituale del soggetto. Non vi è più una contrapposizione – ancorché con tutte le sfumature e mediazioni possibili – tra soggetto e oggetto, uomo e natura. Superando sia Kant sia Hegel[68], la sintesi a priori è esclusivamente fra soggetto e predicato, cioè i due componenti del giudizio individuale-storico. La sintesi a priori logica non è una sintesi tra opposti, ma tra distinti. Scrive Croce: «fuori della sintesi il soggetto non esiste come soggetto e il predicato non esiste in niun modo, e conviene, perciò, bandire qualsiasi interpretazione della sintesi a priori come raccostamento di due fatti separatamente esistenti»[69]. Tutto ruota intorno al giudizio formulato da un soggetto. È in questo senso di centralità assoluta attribuita al soggetto che le diverse forme del sapere non hanno un oggetto, ma lo creano. Scrive Croce per motivare questa conclusione:

Ma, come il metodo è la forma stessa, così forma e metodo sono l’oggetto stesso. Certamente, tutte le forme dello spirito hanno un comune oggetto, che è la Realtà; ma questo accade non perché la realtà sia staccata da esse, ma perché esse sono la realtà: non hanno, dunque, ma sono quest’oggetto. Così le forme del sapere non hanno un oggetto teoretico, ma lo creano, ossia sono esse stesse tale oggetto: la filosofia ha per metodo e per oggetto il concetto puro; l’arte, l’intuizione; la scienza, il concetto empirico; la matematica, l’astrazione[70].

Si sta palesando anche l’organicità dello spirito, che è organicità del tutto, e che pretende un approccio relazionale e sistemico. Per Croce – e lo abbiamo appena visto, nel definire “metodi” i modi diversi di articolare una realtà che è l’unica realtà – uno è il reale e uno è il concetto[71], ma questa unità non è qualcosa di base, dalla quale poi fuoriescono specificazioni; al contrario essa – per usare un’espressione di Edgar Morin, così da cogliere subito la sintonia – è unitas multiplex; perché – come osserva Croce, con grande originalità nel 1909 – «un tutto è tutto solamente perché e in quanto ha parti, anzi è parti; un organismo è tale perché ha, ed è, organi e funzioni; un’unità è pensabile solamente in quanto ha in sé distinzioni ed è l’unità delle distinzioni. Unità senza distinzione è altrettanto repugnante al pensiero, quanto distinzione senza unità»[72].

Il concetto puro – nelle sue articolazioni di bellezza, verità, utilità, moralità – consente di abbracciare una realtà vista da prospettive diverse, distinte, ma che costituiscono nella loro relazione di unità-distinzione[73] appunto un organismo, qualcosa di unitario, che vive delle parti che lo compongono in cooperazione. Il modello relazionale (che poi assumerà anche veste di reticolarità nella scienza e nella filosofia della complessità), il modello dell’organizzazione e dell’auto-organizzazione appare evidente nella circolarità della vita spirituale. Seguiamo Croce:

Ora, perché il concetto sia unità nella distinzione e si possa comparare a un organismo, è necessario che esso non abbia altro cominciamento che sé stesso e che nessuno dei suoi singoli termini distinti sia cominciamento assoluto. Nell’organismo, infatti, nessun membro ha priorità sugli altri, e ciascuno è reciprocamente primo e ultimo. Ma il vero è che il simbolo della serie lineare è inadeguato al concetto, al quale meglio conviene il circolo, in cui a e d fungono, a volta a volta, da primo e da ultimo. I concetti distinti sono, in quanto storia ideale eterna, un eterno corso e ricorso, in cui da d risorge a, b, c, d, senza possibilità di arresto o di tregua, e in cui ciascuno, sia a, o b, o c, o d, pur non potendo cangiare ufficio e posto, è designabile, a volta a volta, come primo o come ultimo.

La circolarità della vita spirituale, la pari dignità dei momenti nell’organismo unitario, il pari valore del teoretico e del pratico, ci presentano, per la prima volta con chiarezza nella storia della filosofia occidentale, un uomo intero, un uomo che può essere emozione, ragione, egoismo e capacità di agire, mettendo da canto i suoi interessi particolari. Nello stesso anno della Logica, Croce scriveva:

Non è vero che vi siano uomini pratici e uomini teoretici, l’uomo teoretico è anch’esso uomo pratico; vive, vuole, opera, come tutti gli altri: l’uomo che si è detto pratico, è anch’esso teoretico; contempla, crede, pensa, legge, scrive, ama la musica e le altre arti. Le opere, che erano designate come prodotto del puro spirito pratico, viste un po’ da vicino si svelano grandemente complesse e ricche di elementi teoretici: meditazioni, ragionamenti, indagini storiche, contemplazioni ideali; – e le opere, che si adducevano come manifestazioni del puro spirito artistico o filosofico, si mostrano prodotto insieme di volontà, perché senza volontà non si fa nulla; né l’artista si prepara per anni e anni al suo capolavoro, né il pensatore mena a termine il suo sistema. La battaglia di Austerlitz non fu opera anche di pensiero? E la Divina commedia non fu opera anche di volontà?[74].

La sfera pratica e quella teoretica dell’attività spirituale ci mostrano un’interazione circolare dei momenti in cui di solito si cataloga l’attività umana, che, non soltanto non si annullano l’uno nell’altro, ma presentano quella circolarità che sola può darci un uomo non ridotto a una sua caratteristica soltanto, come se quella e solo quella potesse darne ragione, comprensione vera.

Dall’apprensione estetica della realtà, – osserva Croce – dalla riflessione filosofica sopra di essa, dalla ricostruzione storica che ne è il risultamento concreto si ottiene quella conoscenza della situazione di fatto, sulla quale soltanto si può formare e si forma la sintesi volitiva e pratica, la nuova azione. E questa nuova azione è, a sua volta, la materia della nuova figurazione estetica, della nuova riflessione filosofica, della nuova costruzione storica. Conoscenza e volontà, teoria e pratica, insomma, non sono due parallele, ma due linee tali che il capo dell’una si congiunge alla coda dell’altra; o, se si desidera ancora un simbolo geometrico, esse formano non parallelismo ma circolo[75].

La circolarità di teoria e prassi, nella sua articolazione in intuizione, concetto, agire economico-utilitario e agire morale, ci offre la possibilità di considerare “umano” anche tutto quello che restava fuori dalla pura razionalità astraente della scienza. In questo modo, Croce dà validità a tutti gli aspetti del reale-spirituale, smontando gerarchie presunte di priorità, e collocando – come faranno poi i Prigogine, i Maturana, i Morin – l’uomo concretamente e nella sua interezza nella realtà di cui è parte.

Alla fine di questo discorso, il Croce nemico della scienza appare, a mio avviso, perfettamente in sintonia con la scienza che oggi ha abbandonato ogni forma di riduzionismo e ogni atteggiamento di superiorità sugli altri saperi. Perfettamente collocato sulla linea antipositivista del suo tempo (che annoverava anche scienziati come Mach e Poincaré), Croce ci consegna una possibilità di sentirci immersi in una realtà di cui siamo parte perché anch’essa storica e in divenire come noi. Oggi la scienza ha compreso questa dimensione di storicità e cambiamento, e la lezione di Croce si arricchisce di questo “conforto”, che permette di chiedere di finirla con la vulgata trita della ostilità del filosofo napoletano nei confronti delle scienze; di confrontarci con lui con spirito critico, nella consapevolezza che «la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero»[76] e anche quella di Croce non sfugge al divenire. Del resto, il filosofo ne era ben consapevole – e con questo concludo – se chiudeva Filosofia della pratica con queste parole:

L’infinito, inesauribile dal pensiero dell’individuo, è la Realtà stessa, che crea sempre nuove forme; è la Vita, che è il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito. E come ogni attimo, per bello che sia, diventerebbe brutto se si arrestasse, brutta diventerebbe la Vita, se mai indugiasse in una delle sue forme contingenti. E perché la Filosofia, non meno dell’Arte, è condizionata dalla Vita, nessun particolare sistema filosofico può mai chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva[77].

  1. Cfr. P. D’Angelo, Il problema Croce, Macerata, Quodlibet, 2015.
  2. In questa prospettiva è importante ricordare gli studi pioneristici sull’argomento – fondati filologicamente e metodologicamente in maniera esaustiva – di Giuseppe Gembillo: Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, Napoli, Giannini, 1984; Croce e il problema del metodo, Napoli, Flavio Pagano, 1991; Croce. Filosofo della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. A questi si possono oggi aggiungere i lavori di A. Nigrelli-F. S. Tortoriello, Benedetto Croce. La scienza, la matematica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, e S. Zappoli, La teoria della scienza nella Logica di Benedetto Croce, Catania, A&G-CUECM, 2019.
  3. Mi permetto di ricordare i miei lavori: Ancora sulla svalutazione crociana delle scienze, in «Diacritica», anno II, fasc. 1 (7), 25 febbraio 2016, pp. 29-40; Una questione aperta: Croce e le scienze, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n. 220, gennaio-aprile 2017, pp. 29-37.
  4. Cfr. B. Latour, La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza [1987], trad. di S. Ferraresi, Torino, Edizioni di Comunità, 1998.
  5. G. Gembillo, Benedetto Croce. Filosofo della complessità, op. cit., p. 7.
  6. Si veda anche G. Gembillo, Benedetto Croce. Filosofo della complessità, op. cit., cap. 3.
  7. Non è un caso se l’espressione “sfida della complessità” abbia dato il titolo a libri importantissimi sull’argomento. Ne cito soltanto due: La sfida della complessità [Feltrinelli 1985], a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Milano, Bruno Mondadori, 2007; E. Morin, La sfida della complessità [2002], a cura di G. Gembillo e A. Anselmo, Firenze, Le Lettere, 2019 (I ed. 2011).
  8. Sulla “matematizzazione galileiana della natura” restano insuperate le considerazioni svolte da Edmund Husserl in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale [1936; 1959], introduzione di W. Biemel, prefazione di E. Paci, trad. di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 2015 (I ed. 1961), in particolare le pp. 59-90.
  9. Su ciò, in prospettiva di un nuovo storicismo scientifico-filosofico, si veda G. Gembillo, Neostoricismo complesso, Napoli, ESI, 1999.
  10. Cfr. P. K. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza. Storia dello scontro fra astrazione e ricchezza dell’Essere [1999], a cura di B. Terpstra, trad. di P. Adamo, Milano, Raffaello Cortina, 2002.
  11. I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza [1979], edizione italiana a cura di P. D. Napolitani, Torino, Einaudi, 1999, III ed. (I ed. 1981), p. XV. Sulla “freccia del tempo”, mi permetto di rinviare a G. Giordano, Freccia del tempo: il battesimo di un nome, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n. 213, settembre-dicembre 2014.
  12. Per un quadro generale del nuovo punto di vista, anche in relazione alle conseguenze e alle ricadute che esso può e deve avere in prospettiva di “formazione”, rinvio a G. Gembillo-A. Anselmo-G. Giordano, Complessità e formazione, Roma, ENEA, 2008.
  13. Il riferimento è alla “ratificazione critica” – per usare l’espressione di Prigogine e Stengers – che Kant aveva dato alla scienza galileiano-newtoniana, identificandola con l’unica conoscenza possibile, la conoscenza sintetica a priori, la conoscenza dei fenomeni. Si veda I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza, op. cit., pp. 88-92.
  14. Su queste questioni si possono vedere: G. Gembillo-A. Anselmo, Filosofia della complessità [2013], Firenze, Le Lettere, 2017, II ed.; M. Ceruti, La fine dell’onniscenza, Roma, Studium, 2015; G. Giordano, Complessità. Interazioni e diramazioni, Messina, Armando Siciliano, 2021.
  15. I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza, op. cit., p. 4.
  16. Ivi, p. 8.
  17. Ivi, p. 9.
  18. In un passaggio molto suggestivo, Prigogine e Stengers scrivono: «Si può affermare che oggi la fisica non nega più il tempo, né la sua direzione. Essa riconosce il tempo irreversibile delle evoluzioni verso l’equilibrio, il tempo ritmico di strutture il cui pulsare si nutre dei flussi che le attraversano, il tempo biforcante delle evoluzioni per instabilità e amplificazioni di fluttuazioni, e perfino il tempo microscopico che abbiamo introdotto nell’ultimo capitolo, che manifesta l’instabilità dinamica a livello microscopico. Ogni essere complesso è costituito da una pluralità di tempi, ognuno dei quali è legato agli altri con articolazioni sottili e multiple. La scoperta della molteplicità del tempo non è avvenuta come un’improvvisa “rivelazione”. Gli scienziati hanno semplicemente smesso di negare ciò che, per così dire, tutti sapevano» (I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza, op. cit., p. 274).
  19. Ivi, p. 17.
  20. Scrivono ancora Prigogine e Stengers: «Ogni grande era della scienza ha avuto un modello della natura. Per la scienza classica fu l’orologio; per la scienza del XIX secolo, l’era della rivoluzione industriale, fu un meccanismo in via d’esaurimento. Che simbolo potrebbe andar bene per noi? Forse, l’immagine che usava Platone: la natura come opera d’arte» (ivi, p. 23).
  21. Ivi, 41.
  22. Ivi, p. 282.
  23. Il soggetto inizia a rientrare nella scienza a partire dalle teorie della relatività di Einstein (che pongono la questione della misurazione sempre dal punto di vista del misuratore), passando per le “relazioni di incertezza” formulate da Heisenberg nel 1927 (che sottolineano come l’atto dell’osservare non sia “innocuo”, ma perturbativo), per arrivare al “principio di complementarità” di Bohr (che mette in evidenza la necessità di una logica dell’et et contro quella tradizionale del principio di non contraddizione, in quanto l’osservatore entra nel fenomeno osservato). Si vedano: A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Torino, Bollati Boringhieri, 1988; W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà [1991], a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Napoli, Guida, 2002, II ed.; N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. di P. Gulmanelli, Torino, Einaudi, 1961. Sull’intera questione mi permetto di rinviare a G. Giordano, Complessità. Interazioni e diramazioni, op. cit., in particolare il cap. 9 dal titolo Il recupero del soggetto conoscente nel Novecento: la via della fisica.
  24. H. Maturana-F. Varela, L’albero della conoscenza [1984], prefazione di M. Ceruti, trad. di G. Melone, Milano, Garzanti, 1987, p. 45.
  25. Il rapporto vivente-ambiente è un rapporto paritario, nel quale l’influenza dell’uno sull’altro non è di cambiare l’uno o l’altro, ma nel caso di innescare il cambiamento stesso. Da qui l’idea che non sia il più adatto a sopravvivere, ma, semplicemente, l’adatto. Cfr. H. Maturana-F. Varela, L’albero della conoscenza [1984], op. cit., pp. 92-11 (sulla questione della sopravvivenza dell’adatto, si veda p. 109).
  26. Sul tema, allargato in chiave più filosofica, rinvio a F. Gembillo-G. Giordano, Josè Ortega y Gasset e Humberto Maturana. Dal loro punto di vista, Messina, Armando Siciliano, 2020.
  27. Ivi, p. 31.
  28. «Per ogni sistema vivente il processo di cognizione consiste nella creazione di un campo di comportamento mediante la sua effettiva condotta nel suo dominio chiuso di interazioni, e non nell’“apprendimento” o nella descrizione di un universo indipendente» (H. Maturana-F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente [1980], prefazione di G. De Michelis, trad. di A. Stragapede, Venezia, Marsilio, 2001, III ed. (I ed. 1985), p. 100).
  29. Erwin Schrödinger ha parlato espressamente di un “postulato di oggettivazione” in riferimento alla strategia conoscitiva della scienza (ma non soltanto) che distingue nettamente il soggetto dall’oggetto. Si veda E. Schrödinger, La natura e i Greci [1948], in Id., L’immagine del mondo [1963], trad. di A. Verson, presentazione di B. Bertotti, Torino, Boringhieri, 1987, p. 237.
  30. H. Maturana, Autocoscienza e realtà [1990], trad. di L. Formenti, Milano, Raffaello Cortina, 1993, p. 22.
  31. Sul tema si veda H. Maturana-F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit., pp. 203-204.
  32. Per un’indagine esaustiva su questo percorso rinvio a F. Capra, La rete della vita [1996], trad. di C. Capararo, Milano, Rizzoli, 2001 (I ed. 1997), pp. 27-47.
  33. Sulla visione sistemica in generale rinvio a L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni [1967], trad. di E. Bellone [1971], introduzione di G. Minati, Milano, Mondadori, 2004.
  34. F. Capra, La rete della vita, op. cit., p. 47.
  35. James Lovelock ha fatto del pianeta Terra un sistema vivente, un organismo. Si veda, fra i tanti testi di Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia [1979], trad. di V. Bassan Landucci, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Su Lovelock si veda «Complessità», 1-2020, numero interamente dedicato allo scienziato inglese.
  36. F. Capra, La rete della vita, op. cit., p. 6.
  37. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana [1973], trad. di E. Bongioanni [1974], Milano, Feltrinelli, 2001, p. 146.
  38. Cfr. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana [1973], trad. di E. Bongioanni [1974], op. cit., p. 111.
  39. Cfr. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana [1973], trad. di E. Bongioanni [1974], op. cit., p. 113.
  40. E. Morin, Il Metodo 5. L’identità umana [2001], trad. di S. Lazzari, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 100.
  41. Scrive il filosofo francese: «Viviamo di fatto in un circuito di relazioni interdipendenti e retroattive che alimenta, a un tempo antagonista e complementare, la razionalità, l’affettività, l’immaginario, la mitologia, la nevrosi, la follia e la creatività umane. Questo circuito è bipolarizzato: a un polo sapiens, all’altro demens» (ivi, p. 111).
  42. E. Morin, Il paradigma perduto, op. cit., p. 198.
  43. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro [1909], a cura di C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 8. E aggiungeva poco dopo che, nella Logica come scienza del concetto puro, «il distacco che vi si compie della filosofia dalla scienza non è distacco da ciò che nella scienza è verace conoscere, ossia degli elementi storici reali della scienza, ma solo dalla forma schematica, nella quale questi elementi vengono compressi, mutilati e alterati; e perciò è, nel tempo stesso, un ricongiungimento con quanto ha di vivo, di concreto e di progressivo nelle cosiddette scienze» (ivi, pp. 8-9).
  44. Ricordo di passaggio che lo stesso atteggiamento di Croce lo si ritroverà negli anni Trenta del Novecento nelle pagine di Edmund Husserl dedicate a La crisi dell’umanità europea e la filosofia (la celeberrima “Conferenza di Vienna”) reperibile in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., pp. 309-38.
  45. Cfr. E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico [1883; 19339], trad., introduzione e note di A. D’Elia, Torino, Boringhieri, 1977.
  46. Cfr. J. H. Poincaré, Opere epistemologiche, 2 voll., a cura di G. Boniolo, Milano, Mimesis, 2017. Sull’idea galileaiana del mondo scritto in caratteri matematici si veda G. Galilei, Il Saggiatore [1623], in Id., Opere, 2 voll., a cura di F. Brunetti, Torino, UTET, 1980, II ed., vol. I.
  47. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., pp. 375-76.
  48. Ivi, p. 378. È interessante, a proposito del recupero di Mach e Poincaré da parte di un filosofo come Croce, la capacità da lui evidenziata di innestare sul tronco dell’hegelismo – come rilevava Carlo Antoni – i due scienziati. Si veda C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 1964, p. 31. Si veda anche in proposito G. Gembillo, Benedetto Croce. Filosofo della complessità, op. cit., pp. 71-74.
  49. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 250. Del resto, in anni successivi Croce parlerà di “La natura come storia senza storia da noi scritta”, sostenendo che «non è ammissibile la divisione che si suol fare tra storia dell’umanità e storia della natura, mancando qui ogni assegnabile criterio distintivo, e appartenendo l’una e l’altra in modo omogeneo all’unica spiritualità e all’unica storia» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione [1938], a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 284).
  50. Sul fatto che filosofia-storia e scienze naturali costituiscono non discipline aventi oggetto diverso, ma diverse metodologie, si veda il capitolo della Logica come scienza del concetto puro dedicato a Le forme della conoscenza e le divisioni del sapere (pp. 185-93). Sul tema delle forme del sapere come metodi rinvio a G. Gembillo, Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, op. cit., pp. 309-36.
  51. Uno scienziato, Felice Ippolito, ha messo bene a fuoco la questione della sfortunata definizione dei concetti scientifici come “pseudoconcetti”: si veda Croce e la scienza, in L’eredità di Croce, a cura di F. Tessitore, Napoli, Guida, 1985, pp. 101-23, in particolare p. 102. Ippolito è uno scienziato particolare, che non esita a definirsi “crociano”. Sulla questione, mi permetto di rinviare a G. Giordano, Felice Ippolito scienziato crociano, in Filosofia e storiografia. Studi in onore di Giovanni Papuli, vol. III.1 L’età contemporanea, a cura di M. Castellana, F. Ciracì, D. M. Fazio, D. Ria, D. Ruggeri, Galatina (LE), Congedo, 2008, pp. 409-29.
  52. Se il carattere del concetto puro è la sua universalità e concretezza (prerequisito: l’espressività) (cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., pp. 39-40, 52-54), gli pseudoconcetti empirici sono quelli che possiedono concretezza, ma non universalità (cfr. le pp. 41-43), gli pseudoconcetti astratti sono quelli universali, ma senza concretezza (cfr. la p. 43)
  53. Ivi, pp. 44-45. Più avanti nel testo, dopo aver parlato delle forme del sapere e avere avviato la discussione sull’errore, esaminerà l’empirismo e il matematismo – che discendono da pseudoconcetti e pseudo giudizi empirici e astratti – come errori (cfr. le pp. 286-90).
  54. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 39.
  55. Scrive Croce: «Poiché si conosce per operare, e tutte le nostre conoscenze debbono via via venire rievocate per via via operare, sorge l’interesse pratico di provvedere alla conservazione del patrimonio delle conoscenze acquistate. E sebbene in senso assoluto tutto si conservi nella realtà e niente che sia stato una volta fatto o pensato sparisca da grembo del cosmo, la conservazione della quale ora si parla ha il suo uso, perché è propriamente una facilitazione al ricordo delle conoscenze possedute e all’opportuno richiamo di esse dal grembo del cosmo o dell’apparentemente inconscio e dimenticato. A tal fine si costruiscono gli strumenti delle finzioni concettuali, che rendono possibile, per mezzo di un nome, di risvegliare e chiamare a raccolta moltitudini di rappresentazioni, o almeno d’indicare con sufficiente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e richiamarle» (ivi, pp. 48-49).
  56. Felice Ippolito sostiene che è purtroppo inutile ricordare agli scienziati che «nel pensiero crociano non vi è gerarchia tra le attività dello spirito, ciascuna dall’altra distinta, ma appunto perciò senza che vi sia tra loro, nella loro unione al di sopra delle distinzioni, alcuna gradazione di valore» (F. Ippolito, Croce e la scienza, op. cit., p. 102).
  57. Scrive Croce: «E come negare la loro importanza, se ciascuno di noi a ogni istante li foggia e adopera? Se ciascuno di noi si sforza di tenere ordinato, il meglio che può, il patrimonio delle proprie cognizioni? È pensabile che uno studioso lavori senza schede e appunti, ma non già che un uomo si astenga da pseudogiudizî individuali» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 141).
  58. «Il giudizio empirico, in quanto applica un predicato a un soggetto determinato dal giudizio individuale puro, fa rientrare quel soggetto in quel predicato, che è un tipo o classe, e perciò classifica i soggetti dei giudizî individuali. Cosicché i giudizi empirici si possono denominare anche giudizi di classificazione» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 145).
  59. E concludeva: «E solo per effetto di una grossa illusione si crede talvolta che il valore sia in funzione del numero, e che, accrescendo o diminuendo il numero, si accresca o diminuisca il valore: illusione cui ben si contrappone il detto comune, che il numero non è qualità» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 149).
  60. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., pp. 252-53.
  61. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., pp. 253-55.
  62. Si possono vedere in proposito le pagine hegeliane del 1807 della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito (2 voll., trad. di E. De Negri [1960], introduzione di G. Cantillo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, vol. I, pp. 1-61. Su questo tema mi permetto di rinviare a G. Giordano, Dimostrazione filosofica e dimostrazione matematica nella “Prefazione” alla “Fenomenologia”, in La “Fenomenologia dello spirito” dopo duecento anni, a cura di G. Cotroneo, G. Furnari Luvarà, F. Rizzo, Napoli, Bibliopolis, 2008, pp. 281-310.
  63. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 261.
  64. Ibidem.
  65. Ivi, pp. 263-64.
  66. Cfr. I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza, op. cit.: Libro primo: Il miraggio dell’Universale: la scienza classica, pp. 25-105.
  67. Sulla differenza tra pensare, da una parte, e classificare e calcolare, dall’altra, si veda G. Gembillo, Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, op. cit., pp. 265-307.
  68. Si veda su questo punto R. Franchini, Croce logico, in L’eredità di Croce, a cura di F. Tessitore, op. cit., pp. 63-79.
  69. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 169.
  70. Ivi, p. 191. Su questi temi rinvio ancora una volta a G. Gembillo, Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, op. cit., pp. 309-36; ma anche, dello stesso autore, Croce e il problema del metodo, op. cit.
  71. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., pp. 74-75.
  72. Ivi, p. 75.
  73. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 75.
  74. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica [1909], a cura di M. Tarantino, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 25.
  75. Ivi, p. 211.
  76. Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio [1821], trad. di G. Marini, con le aggiunte di Eduard Gans, trad. di B. Henry, a cura di G. Marini [1999], Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 15.
  77. B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., pp. 397-98.

(fasc. 37, 25 febbraio 2021)