Recensione di Lorenzo Marone, “La donna degli alberi”

Author di Eleonora Carchia

Lascio dietro di me le cose che non comprendo, quelle che non posso cambiare, lo sguardo ostile di chi non ti conosce, le bottiglie di plastica, la città piena di assenza, i cellulari che rubano il tempo. […] Lascio la mia vita, per costruire un nuovo pezzetto di terra da abitare, da seminare e far fiorire. Imparo a stare, senza rimpianti, senza voler essere continuamente altrove. Questo è il mio onesto patto da onorare. Il mio piccolo contributo. (Pp. 13-15)

È ottobre. Una donna sconosciuta arriva nella baita in montagna dei suoi genitori, la stessa in cui andava quando era ancora bambina. Non si è portata molto dalla città: un bagaglio di ricordi e un cellulare, che decide di chiudere in un cassetto; pochi vestiti, perché molti sono ancora conservati nei vecchi mobili all’interno della casa. Ogni tanto, annota su un foglio delle riflessioni: racconta se stessa e il proprio passato, gli insegnamenti di suo padre, che, quando si arrabbiava, andava a far legna, ed è la prima cosa che decide di fare anche lei, ripercorrendone i passi e i pensieri, che scorrono in solitudine.

Vicino alla sua baita ce ne sono altre, quasi tutte vuote, e il paese dista mezz’ora di cammino, ma le va bene così: durante tutta la sua vita, le persone l’hanno sempre delusa, e infatti, come fosse uno scherzo del destino, la prima creatura che le viene a dare il benvenuto è una Volpe, dal manto irsuto e gonfio per il freddo.

La donna inizia, così, ad ambientarsi lentamente: scopre che non molto lontano da lei vive un uomo, lo Straniero, venuto sul Monte per ripopolarne il versante nord, piantando abeti. Assieme a lui, la donna inizia a conoscere il Monte, padre severo ma gentile che domina incontrastato sulla natura di quel luogo e, andando al paese, fa visita a diverse persone che segneranno le sue giornate: la Rossa e sua figlia, ad esempio, che gestiscono la locanda del posto; la Benefattrice, che con il fazzoletto in testa lavora i campi e la ricopre di attenzioni e affetto; la Guaritrice, che vaga nel bosco in silenzio, raccogliendo i frutti della terra per donare sollievo alle persone. Tutti hanno un soprannome, nel paese: ogni nomignolo definisce i loro ruoli e il loro aspetto, ciò che sono agli occhi del Monte.

Attraversando l’autunno con incertezza, la donna cammina a tentoni, vivendo negli sguardi e nelle storie che le persone e gli abitanti le trasmettono. Non ci sono cellulari né lettere: lo Straniero va e torna, esattamente come fa la Volpe, la coinvolge all’interno della propria vita, attraversa con lei la natura fin quando non giunge l’inverno, che le fa capire che il Monte è sia alleato che nemico, soprattutto quando la bufera la coglie impreparata.

Sul Monte niente è dato per scontato: la sopravvivenza genera solitudine, anche se questa è relativa, poiché nel bosco ogni creatura vive sola assieme a tanti altri solitari. La donna continua a raccontare le proprie giornate senza lasciare mai andare completamente il proprio passato: fa vivere al lettore un senso di malinconia, un disperato bisogno di rinascita, che si incrementa con l’arrivo della primavera.

L’orso si desta dal suo letargo, lasciando le proprie impronte sugli spruzzi di neve tra i ciuffi d’erba, e la natura si avvolge in un tepore che, per un istante soltanto, fa dimenticare che il Monte sa essere anche terribile: la sua Legge si manifesta alla donna per la prima volta, la costringe ad accettare la verità che ogni vita percorre un filo intrecciato a tanti altri, ognuno destinato a consumarsi nell’esistenza.

Come la donna, ci sentiamo anche noi “spezzati”: ci riflettiamo nella sua sofferenza, nella sua incessante ricerca della felicità, nel ritorno alla spensieratezza; il suo racconto diventa anche nostro, ad esempio quando la Guaritrice conduce la donna da un cervo e lo indica per poi spostare il dito verso il petto di lei e, di conseguenza, verso di noi. Coinvolge il lettore e lo fa rispecchiare in tutto ciò che accade.

Come nel romanzo di Jon Krakauer Nelle terre estreme (Villard 1996), la protagonista cerca nel viaggio e nella natura incontaminata il senso della vita, cerca di strapparsi dal collo la cinghia della società e delle sue regole, che mettono in vendita l’essenza umana per l’avidità materiale; ma la natura sa essere devastante, e il Monte le strappa un altro pezzo di sicurezza. Rimette la donna al suo posto, insegnandole che, anche se si rifugge dal dolore, esso continua a inseguirci come un’ombra, poiché è la sofferenza a rendere magnifico il miracolo dell’esistenza. La natura dona e toglie, poiché essa è prepotente ma generosa: diventa nemica e sorella, portando in sé tutta la sacralità dell’essere umano, suo guardiano, sebbene l’abbia ormai dimenticata.

Durante tutto il romanzo, veniamo guidati con delicatezza nell’interiorità della donna, sospesi in un universo a sé stante: è come voler aprire uno scrigno dimenticato che cela in sé il legame antico che unisce l’uomo alla natura, rendendoli sacri e di ugual valore, come sono infatti agli occhi del Monte.

L’uomo teme l’incendio come la Volpe, scruta la notte come fa il Gufo, si lascia toccare dal miracolo della vita come ogni altra creatura vivente, ma, a differenza delle altre creature, possiede una capacità unica, qualcosa che non è guidato dall’istinto ma solo dal cuore: un insegnamento che fa sbocciare nel lettore un sentimento di speranza, ovvero che, solo quando si è finalmente disposti a dare, si può imparare a ricevere.

(fasc. 37, 25 febbraio 2021)

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