Calvino e il mito, tra presa di distanza e attualizzazione

Author di Bruno Mellarini

Secondo Northrop Frye i miti, nel loro mutare, divengono essenzialmente delle convenzioni letterarie. Accade così, per esempio, che il mito dell’età dell’oro si riduca a una «convenzione pastorale»[1], e che il sentimento del divario fra la potenza divina e l’orgoglio umano si trasformi in una «convenzione tragica»[2]: si tratta, dunque, di un percorso di degradazione, per cui lo spessore drammatico del mito si attenua e assottiglia, mentre sale in primo piano il suo valore di immagine o di semplice analogia. Di parere diverso, sotto questo riguardo, è d’Arco Silvio Avalle, secondo cui «gli elementi del mito e della tradizione folclorica passati nella letteratura, se, in alcuni casi, si trasformano, come vuole Frye, una volta entrati a far parte della letteratura, molto spesso continuano anche nella letteratura senza modificazioni sostanziali quanto alla loro identità»[3]. Posizione del tutto condivisibile, questa, e peraltro in linea con gli assunti di un Autore come Calvino, da sempre attento a cogliere le continuità che sottendono la tradizione letteraria, le “potenzialità” insite, per così dire, nel materiale narrativo di partenza, che, al pari delle carte dei tarocchi, può essere diversamente disposto e configurato secondo i noti modelli riconducibili alle teorie semiologiche di ascendenza strutturalista.

Ma qui sarà necessario intendersi, preliminarmente, sul concetto di mythos: in effetti, il mito di Frye e di Avalle non è lo stesso mito di cui parlano, solo per citare due esempi molto noti, Jesi o Steiner. E, se per Jesi il mythos è per definizione una dimensione sfuggente e inconoscibile, inattingibile e refrattaria a farsi afferrare in virtù del discorso governato dal logos[4], e per Steiner null’altro che un racconto fondativo dell’umano stesso, cui l’uomo attinge da sempre per conferire senso e valore a un’esistenza altrimenti condannata alla stretta di antinomie e contraddizioni insuperabili[5], è chiaro che esso si pone come qualche cosa di mutevole e inafferrabile nella misura in cui risponde a concezioni ed epistemologie profondamente diverse, su cui non è possibile soffermarsi in questa sede se non in modo cursorio.

Ora, venendo al modo in cui Calvino considerava il mito, non si può non notare, innanzi tutto, una pregiudiziale forma di resistenza, come se il mito venisse di per sé percepito non solo nella sua distanza e inaccessibilità, ma anche nel suo essere fondamentalmente estraneo a un orizzonte di tipo razionalistico-illuministico (e sia pure in riferimento a un illuminismo critico, che fin dalla Giornata d’uno scrutatore è chiamato a confrontarsi con le dimensioni scandalosamente “altre” della natura e del biologico, del mostruoso e dell’inassimilabile). Quel Calvino che, se avesse dovuto scegliere tra la Linea d’ombra e il Cuore di tenebra dell’amato Conrad, avrebbe scelto senza esitare la Linea d’ombra, ovvero il romanzo di formazione che segue il tracciato di una crescita e di un’evoluzione progressiva, di una parabola individuale di maturazione e ritrovamento di sé, di contro al racconto che insiste invece sulla perdita di sé, sullo sprofondamento nel magma torbido e incontrollabile degli istinti.

Si consideri dunque, a questo proposito, la visione ascrivibile a un autore caro a Calvino com’era il mentore Pavese, dalla cui concezione mitica, fondata sul retaggio ancestrale di terra sesso e sangue, l’autore delle Città invisibili prese ben presto le distanze, conscio, forse, del radicarsi in essa d’un oscuro pericolo di smarrimento, di perdita d’orientamento e direzione. Di qui, non a caso, una certa resistenza, un giudizio non del tutto positivo su un’esperienza pavesiana comunque centrale qual è quella della Luna e i falò, testo-chiave che già isola un nucleo mitico nel suo stesso titolo, esibendo un intreccio inestricabile tra ancestrali ritualità contadine e inquietanti influssi naturali, e che a Calvino poteva apparire non privo di tonalità – diciamo così – “decadentistiche”.

E non c’è nulla, in effetti, che sia più lontano dalla visione di Calvino. Che si fa portatore di una concezione mitica fortemente razionalizzata – se non, addirittura, “tecnicizzata”, per tornare alle formulazioni di Furio Jesi –, ossia depurata degli elementi potenzialmente più perturbanti, come accade, e in modo esemplare, nell’apologo La decapitazione dei capi (1969), in cui la periodica, ritualizzata ribellione contro chiunque detenga il potere si riveste di forme asettiche e depurate, quasi si trattasse di compiere un’operazione chirurgica destinata a non lasciare alcun segno[6]. Non sarà un caso, allora, che la “decapitazione” di cui si legge nel titolo lasci il posto a una più accettabile «potatura» o comunque mutilazione dei capi, come avviene nella terza e quarta parte dell’apologo, quelle ambientate nella Russia zarista:

– È solo una cosina leggera, di grande significato ma in sé non grave, ohi ohi ohi, un po’ dolorosa, certamente, ma è perché si possa riconoscervi come i capi davvero, i nostri capi benvoluti, una mutilazione, è solo quello, quando è fatta è fatta, una piccola mutilazione una volta ogni tanto […]. Già i membri del direttivo erano immobilizzati da decine di braccia robuste. Sul tavolo disponevano le garze, le bacinelle col cotone, i coltelli seghettati. L’odore d’etere impregnava l’ambiente. Le ragazze apparecchiavano svelte, diligenti, come se da tempo ognuna si fosse preparata al suo compito[7].

Affiora in tal modo l’idea di un mito razionalizzato, in certo modo funzionalizzato a un discorso che, mentre per un verso sviluppa una riflessione critica in ordine alle degenerazioni del potere in qualsivoglia forma venga promosso ed esercitato, per l’altro prende le distanze da ogni residuo ancestrale, rimuovendo di conseguenza ogni ipoteca psicoanalitica o simbolica riconducibile, anche sulla scorta delle teorie di Frazer, ai temi del sacrificio tribale, dell’uccisione del capo tribù o della “rimozione” del padre.

Nel contempo, sarà bene non farsi condizionare troppo nemmeno dal Calvino cosiddetto “combinatorio” e, contestualmente, dalle letture che sottolineano eccessivamente il peso della fase struttural-semiologica: che indubbiamente c’è stata, ma che non va sopravvalutata nei suoi esiti e nei suoi conseguimenti finali. In proposito, va detto subito che il mito per Calvino è a ogni modo ben più di un semplice dispositivo narratologico, ben più di un “modo” per raccontare la realtà, e sia pure in un’ottica fortemente problematizzata[8], come egli stesso aveva peraltro lasciato intendere, in particolare nel saggio del 1978 I livelli della realtà in letteratura («Io scrivo che Omero racconta che Ulisse dice: io ho ascoltato il canto delle Sirene»)[9], in cui si evidenziava, tra l’altro, l’unicità del personaggio di Ulisse e l’irripetibilità della sua esperienza mitica.

Ma dove ricercare, allora, le più significative emergenze mitiche nell’opera di Calvino? Diremmo di scartare, innanzi tutto, le soluzioni più facili e quindi gli espliciti rimandi alle dramatis personæ che si ritrovano, ad esempio, nella Taverna dei destini incrociati, dove compaiono riferimenti a Tiresia, alle sfingi, alle sibille delfiche, al «marinaio fenicio annegato»[10] di eliotiana memoria etc.; tutte tessere e immagini di un mito ripreso dalla tradizione per la sua immediata riconoscibilità e disponibilità, nelle sue versioni già impostate e definite dalla tradizione, e che vale soprattutto come gioco per cui, borgesianamente, sentieri e destini non possono che incrociarsi. Faremo un’eccezione solo per il personaggio di Edipo, colto nell’incrocio tra la strada che viene da Corinto e quella che va a Tebe, e subito rifunzionalizzato come simbolo della «forza che non sa fermarsi in tempo, bisonte o uomo o condor», la quale forza «fa il deserto intorno e ci lascia le cuoia, e servirà da pascolo alle formiche e alle mosche…»[11].

Più interessante, al di là di queste figurazioni d’immediata disponibilità, è il recupero da parte di Calvino di emblemi più sottilmente inquietanti, a partire da quella figura dell’“intrico” che è stata riconosciuta come antecedente, in quanto di per sé generativa, rispetto a un’altra figura chiave qual è quella del labirinto[12]. Un intrico, per esempio, è la città di Perinzia – che, benché progettata in modo da rispecchiare l’«armonia del firmamento», è popolata solo di esseri imperfetti o deformi, che rimandano all’“antimondo” del Cottolengo, a ciò che non è possibile guardare direttamente: «Nelle vie e piazze di Perinzia oggi incontri storpi, nani, gobbi, obesi, donne con la barba. Ma il peggio non si vede; urli gutturali si levano dalle cantine e dai granai, dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe»[13].

Perinzia si presenta dunque come un labirinto, che cela i propri figli deformi così come nel Labirinto cretese si nascondeva il mostruoso Minotauro: è la «città dei mostri» che, anziché rispecchiare le armonie celesti degli dèi, ne esemplifica la volontà perversa, quella volontà che sembra imporre il male, l’incongruente e il deforme come ineluttabile legge di natura. Ma l’intrico-labirinto, si direbbe, è sempre in agguato, è la figura simbolica con cui Calvino non ha mai smesso di fare i conti. Esemplare, recuperando dagli Amori difficili L’avventura di un poeta, la vicenda del protagonista Usnelli, che passa dall’idillio vacanziero con la bellissima Delia H., tra paesaggi incantevoli e tuffi in meravigliosi specchi d’acqua, all’ingresso, appunto, nel labirinto inestricabile delle contraddizioni storico-sociali, ben esemplificato dall’immagine finale del «groviglio» di parole dove «restava solo il nero, il nero più totale, impenetrabile, disperato come un urlo»[14], a significare l’impenetrabilità del reale, l’opaca e respingente inconoscibilità del mondo, il suo sottrarsi a qualsiasi griglia o modello interpretativo che si possano immaginare.

Di qui la difficoltà, di cui Calvino è sempre stato ben consapevole, di ritrovare, grazie alla parola, una direzione certa e un orientamento sicuro nella riconosciuta, ineludibile complessità e contraddittorietà di un mondo che sfugge a tutti i possibili modelli e che non si lascia racchiudere in nessuna definizione esaustiva e, per così dire, ultimativa: come ha scritto Luigi Malerba, «[s]i insegue una definizione delle cose dentro un ordine stabile e si finisce per trovare ogni volta sui propri passi il vuoto e il caos»[15]. D’altra parte l’ordine non esiste, o, per meglio dire, non esiste ordine che non sia apparente o illusorio, passibile di rovesciarsi nel suo opposto: come ci ricorda Daniele Del Giudice, per Calvino «tout ordre est provisoire, constamment grignoté par le Chaos, tels des châteaux de sable sur le rivage de la mer»[16].

Non sorprende, allora, che la nostra condizione sia del tutto assimilabile a quella di Parsifal, l’aspirante cavaliere che «corre il mondo leggero», mentre «splendente di chiara ignoranza attraversa contrade gravate da un’oscura consapevolezza»[17]. «Un’oscura consapevolezza»: è dunque questa, forse, la condizione che contraddistingue lo stesso Calvino a partire dagli anni Settanta, in opere in cui lo scrittore non esita ad affrontare, come ha scritto Paolo Zublena, il «lato oscuro della realtà»[18], e nelle quali sembrano predominare «la negatività, l’impressione di caducità, di stoica disperazione»[19]. E se è vero che le invisibili città calviniane appaiono, non diversamente dai sogni, «costruite di desideri e di paure»[20], ci sembra che siano in particolare le paure ad alimentare l’immaginario di Calvino nello scorcio tra anni Sessanta e Settanta e oltre, quando l’esplodere della crisi sociale ed economica mette in discussione utopie palingenetiche e visioni “progressive” di ogni tipo. È questo il Calvino, come è stato osservato, che si accosta alla blanchotiana “scrittura del disastro”, nella precisa consapevolezza che «il tentativo di catalogare il reale cozza contro la sua impenetrabilità, ne coglie magari la superficie ma non l’essenza. Le parole si giustappongono fino a confondersi tra loro, in quanto sganciate dagli oggetti»[21]. Ci soffermeremo, a tale riguardo, su due testi esemplari, due “cosmicomiche” composte in tempi diversi e diversamente connotate: Lo zio acquatico e L’altra Euridice (testo, quest’ultimo, pubblicato per la prima volta nell’autunno 1980 sulla rivista «Gran Bazaar»).

Nella prima, una fantasia cosmogonica sulla nascita e l’evoluzione di creature ibride formatesi nel passaggio dall’ambiente equoreo a quello terrestre (ma con “lo zio acquatico” che si ostina a preferire la precedente forma di vita, rifiutandosi di uscire dall’acqua…), il tema è l’ininterrotta metamorfosi delle cose e del mondo, quella continua, inesausta trasformazione per cui «sarebbe potuto sopravvivere solo chi era disposto a cambiare talmente le basi della propria esistenza, che le ragioni per cui era bello vivere sarebbero state completamente sconvolte e dimenticate»[22]. Al centro, dunque, le ragioni «per cui era bello vivere», ragioni che mutano nell’adeguamento alle nuove, diverse situazioni ma che di fatto non vengono mai meno. Se questa è una linea tematica d’immediata evidenza, il vero confronto è però quello che avviene tra il protagonista e il personaggio femminile di Lll, una sorta di novella Euridice che, attratta dalla vita sott’acqua, si perde infine nelle profondità marine, scegliendo l’interno della vita sommersa[23] anziché l’esterno della nuova vita che si sta diffondendo sempre più sulla terraferma:

L’avevo perduta? Nel dubbio, mi precipitai a riconquistarla. Presi a compiere prodezze: nella caccia agli insetti volanti, nel salto, nello scavare tane sotterranee, nella lotta coi più forti dei nostri. Ero fiero di me stesso, ma purtroppo ogni volta che facevo qualcosa di valoroso, lei non era lì a vedermi: spariva continuamente, non si sapeva dove andasse a nascondersi[24].

In parte diverso è il discorso per L’altra Euridice, testo straordinario e cosmicomica sui generis, la cui struttura narrativa riprende un pattern che rimanda al mito classico – quello raccontato da Virgilio e da Ovidio –, modificandolo però secondo uno schema incentrato sul ribaltamento dei ruoli: Euridice diviene infatti la sposa di Plutone, mentre Orfeo è il suo rapitore, colui che, attirandola con l’inganno del canto, l’ha allontanata dalle sue origini e condotta nel suo mondo extra-terrestre di superficie. La vicenda si dipana dunque secondo un asse topologico molto chiaro, che istituisce anche in questo caso una tensione dialettica tra dentro e fuori, interno ed esterno. Gli “autentici” terrestri saranno allora i due sposi Plutone ed Euridice, mentre gli altri – i “nemici”, per così dire, gli antagonisti naturali – sono coloro che abitano la superficie della Terra, luogo per antonomasia dell’invivibilità, dell’assenza e della perdita di senso, sul quale si estende

la fascia che delimita la vostra vita di superficie, con le antenne inalberate sui tetti a trasformare in suono le onde che percorrono invisibili e inudibili lo spazio, coi transistor appiccicati agli orecchi per riempirli in ogni istante della colla acustica senza la quale non sapete se siete vivi o morti, coi jukebox che immagazzinano e rovesciano suoni, e l’ininterrotta sirena dell’ambulanza che raccoglie ora per ora i feriti della vostra carneficina ininterrotta[25].

Altrettanto esplicita la conclusione, con la definitiva presa d’atto da parte di Plutone dell’impossibilità di fare della Terra «una sfera vivente»[26], di agire fattivamente in modo tale da riscattarla dal male una volta per tutte. E senza dimenticare che la «carneficina ininterrotta», traslata su uno sfondo storico-mitologico di tutt’altro genere, post classico e centroamericano, è anche quella che lo sconfitto Montezuma, nell’omonimo “dialogo storico” del 1974, rinfacciava al proprio interlocutore, il personaggio che dice “io”, allorché rievocava le stragi compiute dagli spagnoli giunti nel Messico al seguito di Hernán Cortés:

MONTEZUMA – Un senso [quello della storia] che gli vuoi imporre tu, uomo bianco! Altrimenti il mondo si sfascia sotto i tuoi piedi. Anch’io avevo un mondo che mi reggeva, un mondo che non era il tuo. Anch’io volevo che il senso di tutto non si perdesse.

IO – So perché ci tenevi. Perché se il senso del tuo mondo si perdeva, allora anche le montagne di teschi accatastate negli ossari dei templi non avrebbero avuto più senso, e la pietra degli altari sarebbe diventata un banco di macellaio imbrattato di sangue umano innocente!

MONTEZUMA – Così oggi guardi le tue carneficine, uomo bianco[27].

Si può cogliere così, sia nel dialogo di argomento storico del 1974 che nell’Altra Euridice, una tensione dialettica che induce Calvino a interrogarsi, nell’un caso e nell’altro, sulla negatività del presente e sull’insuperabile tragicità della Storia, in cui non si dà linea di progresso che non si possa rovesciare nel suo contrario, con la conseguente demolizione di ogni idea circa la presunta superiorità di una civiltà rispetto all’altra, per cui si scopre che non vi è sostanziale differenza, come si è visto, tra Cortés e Montezuma. Non solo: il mito, nella sua intangibile purezza e gelida fissità, può sussistere solo nell’opera d’arte o, più specificamente, nello sguardo dell’artista metafisico, che lo ritrova intatto nella sua sostanza primigenia, collocato com’è in una dimensione al di fuori del tempo e della Storia[28]; ma diverso, come si è visto, è il discorso per quanto riguarda l’Altra Euridice, le cui figure mitiche rimandano direttamente, in un vero e proprio corto circuito, alla contraddittorietà e drammaticità del presente, alla realtà di un mondo contemporaneo devastato dalle guerre e sconvolto dalle stragi, insanguinato da quella «carneficina ininterrotta» che s’identifica, fin dai tempi di Montezuma e ancora prima, con il procedere della Storia stessa.

Di qui, infine, il senso che il mythos assume per Calvino, il quale non si limita certo a offrire delle riscritture, delle semplici riprese e continuazioni a partire dal materiale trasmessogli dalla tradizione. Il suo, infatti, è sempre un andare oltre, un proporre qualche cosa che travalica, arricchendolo, il senso delle fabulæ antiche: come ha osservato in modo sintetico ma del tutto persuasivo Wladimir Krysinski, «[p]er Calvino, scrivere narrazione come metanarrazione significa riutilizzare modelli letterari o discorsivi preesistenti allo scopo di raggiungere un nuovo senso e trasmettere un nuovo messaggio»[29]. A emergere, insomma, sono le risorse intrinseche al mito che, ripetendosi e realizzandosi ogni volta in forme diverse, lascia affiorare nuove interpretazioni e, quindi, nuove possibilità di senso.

Detto in altri termini, e con particolare riferimento al testo in esame: de nobis fabula narratur, ovvero di un mondo che già allora, quando Calvino scrisse L’altra Euridice, appariva drammaticamente assediato dall’insensatezza universale, mentre si addensavano attorno le nubi minacciose degli anni di piombo, delle stragi e dei disastri ecologici.

Ecco allora che Calvino ci si rivela, forse in modo inatteso, nelle vesti di mitografo, non solo di narratore ma anche di creatore di fiabe e di miti; ed è una mitografia, la sua, in cui il recupero del passato, lungi dall’esaurirsi in un brillante e ludico montaggio dei materiali messi a diposizione dalla tradizione, si ricollega a una particolare idea di immaginazione, corrispondente a una concezione che lo scrittore avrebbe poi esplicitato nella voce “Visibilità” delle Lezioni americane, dove si legge quanto segue:

Ma c’è un’altra definizione in cui mi riconosco pienamente ed è l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere. Nella trattazione di Starobinski questo aspetto è presente là dove viene ricordata la concezione di Giordano Bruno. Lo spiritus phantasticus secondo Giordano Bruno è “mundus quidem et sinus inexplebilis formarum et specierum” […]. Ecco, io credo che attingere a questo golfo della molteplicità potenziale sia indispensabile per ogni forma di conoscenza[30].

Ed è proprio l’immaginazione – intesa in questo senso, ovvero come repertorio del possibile ed esplorazione di ciò che non è stato ancora tentato – che permette a Calvino, sul filo di una «fantasia figurale»[31] che è consustanziale al definirsi del mito stesso, di non fermarsi sulla soglia di una concezione negativa, di non arrendersi a una considerazione puramente nichilistica e disperante del mondo, su cui L’altra Euridice sembra peraltro lasciare ben pochi dubbi. Se è vero che il mondo – come suggerisce Kafka nelle sue riflessioni maggiormente influenzate dal pensiero gnostico e cabalistico – «è il nostro stesso smarrimento», uno smarrimento che fa del mondo stesso un’entità «indistruttibile»[32], è altrettanto vero, in virtù della tensione antinomica soggiacente al pensiero di Calvino – autore che non offre mai delle soluzioni chiuse e ultimative –, che permangono intatte le possibilità inerenti al sogno e, con esse, la tensione verso una realtà “altra”, compiuta e pienamente realizzata, in grado di assorbire entro il proprio ordine armonico ogni elemento incongruo e dissonante.

Ciò avviene in particolare, a nostro modo di vedere, all’altezza delle Città invisibili: al riguardo, il caso più emblematico è forse quello di Armilla, città che a sua volta è leggibile come un labirinto, tracciato in questo caso dalle tubature d’acqua attraverso le quali sono penetrate ninfe e naiadi. Ed è, questo, un labirinto che non rimanda allo smarrimento e al caos ma a un’idea di vita possibile, improntata all’armonia e alla bellezza, dal momento che le città sono anche – come ha scritto Guido Almansi – «suggerimenti amorosi»[33]. Ed è appunto in questo senso che si dovranno leggere, nell’ennesima proiezione mitografica di Calvino, le mirabili immagini acquatiche su cui si chiude la descrizione della città, immagini che si possono facilmente ricondurre a quell’àmbito della leggerezza, della realtà svuotata e alleggerita del proprio peso, di cui ha parlato di recente Daniela Privitera[34]:

Abbandonata prima o dopo esser stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s’asciugano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne[35].

E così anche Armilla, città per definizione incompiuta, visibile in virtù delle sole strutture idrauliche assurge – come il Cottolengo di Torino nella sua «ora perfetta» e l’«inferno dei viventi» su cui si chiudono le Città invisibili – a emblema d’una diversa, possibile configurazione dell’umano, in forza della quale il negativo e l’incongruente, il caotico e il frammentario si possono alfine riscattare, rovesciando così la desolata percezione di Kublai, costretto a riconoscere lo «sfacelo senza fine né forma»[36] del proprio impero, ma senza dimenticare, come ci ricorda Privitera, che la “sfida al labirinto” «non presuppone alcuna vittoria ma la convivenza con il dolore, il limite, la sconfitta e la fiducia nell’uomo»[37].

Bibliografia

Opere di Calvino:

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Id., Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, voll. 2, Milano, Mondadori, 1995.

Opere su Calvino:

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D’A. S. Avalle, Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il Saggiatore, 1990;

D. Del Giudice, Un écrivain diurne, in «Magazine littéraire», 274, 1990, pp. 26-29;

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L. Malerba, Queste perfide cosmitragiche, in Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, «Riga», 9, 1995, pp. 184-87;

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P. Zublena, L’ultimo Calvino tra precisione e disastro, in Italo Calvino: a writer for the next millennium, op. cit., pp. 333-56;

C. Benussi, Il mito classico nel riuso novecentesco: Marinetti, Savinio, Bontempelli, Gadda, Calvino, in «Humanitas», LIV, 4, 1999, pp. 554-77;

G. Steiner, La nostalgia dell’assoluto, a cura di D. Bidussa, Milano, Bruno Mondadori, 2000;

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W. Krysinski, Il romanzo e la modernità, tr. it. di M. Manganelli, Roma, Armando, 2003;

M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007;

F. Jesi, Mito, a cura di A. Cavalletti, Macerata, Quodlibet, 2023;

D. Privitera, Etica e Leggerezza: la profezia di Calvino sulla letteratura del terzo millennio, in Intrecci, sentieri e labirinti. Calvino a scuola a cento anni dalla nascita. Atti del Convegno IPRASE (2022), a cura di M. Chicco e B. Mellarini, Trento, IPRASE, 2023, pp. 55-65.

  1. N. Frye, Littérature et mythe, in «Poétique», 8, 1971, pp. 489-514, cit. a p. 497.
  2. Ibidem.
  3. D’A. S. Avalle, Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 14.
  4. «L’oggetto in sé delle presunte “scienza” e “storia” del “mito”, dunque il mito, sfugge a qualsiasi conoscenza scientifica poiché è una sorta di oggetto fantasma che, non appena accenna a concretarsi in una data ipostasi, rinvia implicitamente la conoscibilità della sua essenza ad un’ipostasi precedente e inaccessibile oggi, perduta»: F. Jesi, Mito, a cura di A. Cavalletti, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 46.
  5. Cfr. G. Steiner, La nostalgia dell’assoluto, a cura di D. Bidussa, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 33-34.
  6. In proposito cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 242-43.
  7. I. Calvino, La decapitazione dei capi, in Id., Romanzi e Racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, vol. III, pp. 252-53.
  8. «[…] una frase come “Ulisse ascolta il canto delle sirene” […] non è più possibile, perché ormai il mito non svela più il proprio rapporto con la realtà, ma solo il modo di raccontarla»: C. Benussi, Il mito classico nel riuso novecentesco: Marinetti, Savinio, Bontempelli, Gadda, Calvino, in «Humanitas», LIV, 4, 1999, pp. 554-77, cit. a p. 576.
  9. I. Calvino, Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, pp. 381-98, cit. a p. 387.
  10. I. Calvino, La taverna dei destini incrociati, in Id., Romanzi e Racconti, Milano, Mondadori, 1992, vol. II, p. 558.
  11. Ivi, p. 561.
  12. Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, op. cit., p. 43.
  13. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 480.
  14. I. Calvino, Gli amori difficili, Torino, Einaudi, 1970, p. 95.
  15. L. Malerba, Queste perfide cosmitragiche, in Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, «Riga», 9, 1995, pp. 184-87, cit. a p. 185.
  16. D. Del Giudice, Un écrivain diurne, in «Magazine littéraire», 274, 1990, pp. 26-29, cit. a p. 27.
  17. I. Calvino, La taverna dei destini incrociati, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 588.
  18. P. Zublena, L’ultimo Calvino tra precisione e disastro, in Italo Calvino: a writer for the next millennium. Atti del Convegno internazionale di studi di Sanremo (1996), a cura di G. Bertone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 333-56, cit. a p. 351, nota 29.
  19. G. Bonsaver, Città senza tempo: cronologia “debole” e tracce benjaminiane nelle «Città invisibili» di Italo Calvino, in «Italianistica», 2-3, maggio-dicembre 2002, pp. 51-62, cit. a p. 56.
  20. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, pp. 391-92.
  21. P. Zublena, L’ultimo Calvino tra precisione e disastro, art. cit., p. 335.
  22. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 150.
  23. Che si tratti di una scelta nostalgica e regressiva, e da leggersi in opposizione al movimento inarrestabile della Storia che avanza, è stato opportunamente rilevato da Cristina Benussi: cfr. C. Benussi, Mythos e storia, in Italo Calvino: a writer for the next millennium, op. cit., pp. 323-31, cit. a p. 326.
  24. I. Calvino, Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 152.
  25. I. Calvino, L’altra Euridice [1980], in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, p. 1185.
  26. Ivi, p. 1177.
  27. I. Calvino, Montezuma, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, p. 197. Gli effetti di un’altra carneficina, in questo caso ai danni dell’«armata imperiale», sono descritti anche nella Storia del guerriero sopravvissuto inclusa nella Taverna dei destini incrociati: «Alcuni che La Morte non ha ancora irrigidito annaspano come imparando a nuotare nella fanghiglia nera del loro sangue. Qua e là fiorisce una mano, s’apre e chiude cercando il polso da cui è stata troncata, un piede si prova a muovere passi leggeri senza più un corpo da reggere sopra le caviglie, teste di paggi e di sovrani scrollano le lunghe chiome ricadenti sugli occhi o cercano di raddrizzare la corona sghemba sulla calvizie e non fanno che scavare la polvere col mento e masticare ghiaia»: I. Calvino, La taverna dei destini incrociati, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 568.
  28. «Certo che in queste piazze puoi incontrare i due Dioscuri, nudi, con una lancia, o Edipo, cieco, col bastone. Ma tu sai che i Dioscuri sono e saranno sempre i Dioscuri, che Edipo sarà sempre Edipo; il loro modo d’essere ha l’inevitabilità delle cose sicure sotto il cielo, sulle quali l’attenzione scorre senza incagliarsi»: I. Calvino, Viaggio nelle città di de Chirico [1983], in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, pp. 397-406, cit. a p. 401.
  29. W. Krysinski, Il romanzo e la modernità, trad. it. di M. Manganelli, Roma, Armando, 2003, p. 246.
  30. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 91.
  31. Ivi, p. 89.
  32. F. Kafka, Quaderni in ottavo, a cura di I. A. Chiusano, Milano, SE, 1991, p. 67.
  33. G. Almansi, Le città illeggibili, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su “Le città invisibili” di Italo Calvino, a cura di M. Barenghi, G. Canova e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2002, pp. 123-29, cit. a p. 125.
  34. Cfr. D. Privitera, Etica e Leggerezza: la profezia di Calvino sulla letteratura del terzo millennio, in Intrecci, sentieri e labirinti. Calvino a scuola a cento anni dalla nascita. Atti del Convegno IPRASE (2022), a cura di M. Chicco e B. Mellarini, Trento, IPRASE, 2023, pp. 55-65.
  35. I. Calvino, Le città invisibili, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. II, p. 396.
  36. Ivi, p. 361.
  37. D. Privitera, Etica e Leggerezza: la profezia di Calvino sulla letteratura del terzo millennio, art. cit., p. 64.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)