Secondo Northrop Frye i miti, nel loro mutare, divengono essenzialmente delle convenzioni letterarie. Accade così, per esempio, che il mito dell’età dell’oro si riduca a una «convenzione pastorale»[1], e che il sentimento del divario fra la potenza divina e l’orgoglio umano si trasformi in una «convenzione tragica»[2]: si tratta, dunque, di un percorso di degradazione, per cui lo spessore drammatico del mito si attenua e assottiglia, mentre sale in primo piano il suo valore di immagine o di semplice analogia. Di parere diverso, sotto questo riguardo, è d’Arco Silvio Avalle, secondo cui «gli elementi del mito e della tradizione folclorica passati nella letteratura, se, in alcuni casi, si trasformano, come vuole Frye, una volta entrati a far parte della letteratura, molto spesso continuano anche nella letteratura senza modificazioni sostanziali quanto alla loro identità»[3]. Posizione del tutto condivisibile, questa, e peraltro in linea con gli assunti di un Autore come Calvino, da sempre attento a cogliere le continuità che sottendono la tradizione letteraria, le “potenzialità” insite, per così dire, nel materiale narrativo di partenza, che, al pari delle carte dei tarocchi, può essere diversamente disposto e configurato secondo i noti modelli riconducibili alle teorie semiologiche di ascendenza strutturalista. Continua a leggere Calvino e il mito, tra presa di distanza e attualizzazione
(fasc. 53, 25 agosto 2024)