Tanto tempo fa, in gioventù, avevo scoperto un piccolo, prezioso volume di ballate inglesi, e trovavo che le più belle fossero le prime, firmate tutte Anon. Dopo aver cercato inutilmente in varie enciclopedie notizie su quel bardo a me ignoto, mi ero reso conto di esser stato molto ingenuo, perché non si trattava di un nome proprio, bensì dell’abbreviazione di Anonimo. E ho la presunzione di immaginare – ingenuo lo sono rimasto – che anche Virginia Woolf abbia commesso il mio identico errore. In tal caso, potrebbe essersi senz’altro divertita constatando che quel poeta non esisteva o, meglio, era esistito eccome, ma non aveva lasciato traccia della sua personalità artistica, confondendosi con le sterminate schiere di ideatori non identificabili che hanno preceduto le ere delle figure autoriali definite con precisione, e orgogliose della propria individualità letteraria; autoironica com’era, Virginia Woolf avrà deciso forse proprio per questo di dedicare a lui, Anon, il cantore anonimo, il primo capitolo di un’opera concepita per raccontare la storia delle lettere inglesi ai suoi amici artisti, primo fra tutti il cognato Clive Bell.
L’opera è purtroppo rimasta incompiuta. Non ne rimane che quel primo capitolo, semifinito, l’inizio di un secondo e vari appunti sparsi. Ma anche solo l’esordio è notevole, per intensità e luce, nonché per la sua peculiare forma di saggio romanzesco, un po’ narrazione pura e un po’ trattato fantasioso, un po’ divagazione colta e un po’ “selva” letteraria, come si diceva un tempo, quando le definizioni erano immaginose e non, come oggi, severamente tecnicistiche.
«For many centuries after Britain became an island» the historian says «the untamed forest was king» […]. On those matted boughs innumerable birds sang; but their song was only heard by a few skin clad hunters in the clearings. Did the desire to sing come to one of those huntsmen because he heard the birds sing, and so rested his axe against the tree for a moment? […] The voice that broke the silence of the forest was the voice of Anon. Some one heard the song and remembered it for was later written down, beautifully, on parchment. Thus the singer had his audience, but the audience was so little interested in his name that he never thought to give it. The audience was itself the singer […]. Every body shared in the emotion of Anon song, and supplied the story. Anon sang because spring has come; or winter is gone; because he loves; because he is hungry, or lustful; or merry: or because he adores some God. Anon is sometimes man; sometimes woman. He is the common voice singing out of doors, he has no house. He lives a roaming life crossing the fields, mounting the hills, lying under the hawthorn to listen to the nightingale. […] But shutting out a chimney or a factory we can still see what Anon saw – the bird haunted reed whispering fen, the down and the green scar not yet healed along which he came when he made his journeys. He was a simple singer, lifting a song or a story from other people lips, and letting the audience join the chorus. Sometimes ha made a few lines that exactly matched emotion – .
Prima ancora della propria interiorità, quello che Anon sceglie di descrivere è lo spettacolo del mondo: la natura, il trascorrere delle stagioni, il profilo segreto di una coscienza collettiva che scruta l’esistenza degli uomini e delle donne, degli animali e delle piante, cogliendone le leggi di mutamento e ricorrenza, di unità e conflitto. La cultura orale di Anon (the common voice) possiede un’oggettività di sguardo che l’individualità autoriale sembra aver rinnegato in seguito, per privilegiare l’espressione del genio singolo, con la sua sensibilità unica e inimitabile, cara al Romanticismo e dal Romanticismo idolatrata fino al paradosso.
Eppure, per le contraddizioni tipiche di ogni epoca, furono proprio i romantici a osannare quella coscienza collettiva dei popoli nazionali, il canto antico degli avi senza nome, dei narratori assenti dalla Storia, incollocabili se non in un territorio dai confini linguistici definiti, ma comunque non rintracciabili biograficamente, quindi inafferrabili.
Oralità e anonimato formano un binomio pressoché inscindibile. Questo è il fascino della tradizione che Virginia Woolf ha colto nel suo ultimo scritto, non concluso e destinato forse non per caso a essere pubblicato solo postumo. La “postumità” – se così si può dire – è il terzo elemento che forma la qualità dell’opera di Anon, registrata e resa pubblica in forma scritta solo dopo la scomparsa del suo autore, con la cui morte infatti, che coincide con l’avvento della stampa, si conclude il primo capitolo dell’opera woolfiana. Si tratta di una libertà mitopoietica che l’autrice si è concessa, perché sapeva bene che la fine della civiltà orale era stata decretata, molto prima, dall’invenzione della scrittura: il passaggio dalla chirografia alla tipografia avviene quando l’oralità si è già da tempo spenta.
Quella espressa da Virginia Woolf è senza dubbio una visione romantica dell’oralità – romantica, e anche idealizzata, sì, ma non superficiale. Forse anche più vicina alla realtà di quanto non lo siano, né possano esserlo, le teorizzazioni tecniche degli esperti successivi (Havelock, Ong e molti altri). Una visione condivisa da tanti artisti, perché è la visione che tutti ne abbiamo – e Virginia Woolf, identificandosi nel common reader, non poteva fare a meno di condividerla, a un livello alto ed “ecumenicamente emotivo”.
Nelle culture orali, scriveva Walter Ong, «l’originalità narrativa, per esempio, non sta nell’inventare nuove storie, ma nel creare una particolare interazione con il lettore». In questa frase sono contenuti due elementi essenziali dell’oralità, come possiamo dedurla, o solo ipotizzarla, dalle sue tracce rimaste nella cultura scritta: il “pensare per storie”, quindi la costruzione narrativa del reale e la perpetuazione attraverso miti e archetipi delle verità raccolte durante il processo dell’esperienza umana; il ricorso all’attenzione di chi quelle storie le ascolta, le vede narrare, cioè al solo mezzo in grado di ritrovarvi o scoprirvi un significato, una sapienza originaria, il momento epifanico in cui il senso delle cose viene percepito (per un istante, e per sempre).
Ora, propongo un passaggio cruciale che equivale a un vertiginoso salto logico, benché gli ardimenti delle analisi inter artes siano già considerati leciti da tempo: che rapporto può esistere fra la cultura dell’oralità, l’assenza di un autore individuabile, e la tecnica della fotografia? Sarebbe facile stabilire tale rapporto di continuità tenendo conto del fatto che – gli storici della fotografia lo sottolineano spesso, e anche alcuni autori in veste di storiografi e teorici – l’autorialità in quest’arte è circondata da una vasta nebulosa di anonimato. Accanto a ciascuno dei maestri riconosciuti esistono almeno mille, o diecimila, artefici del tutto ignoti. E non meno abili o notevoli: è la situazione affascinante dei pittori sconosciuti a cui si dà una definizione quale “Maestro degli angeli cantori” o “Maestro delle mezze figure femminili”, “Maestro dei crocifissi blu” o “Maestro delle arciduchesse”, “Maestro delle Palazze” o “Maestro delle Vele”, basata su certi elementi dei loro dipinti, sulla presunta provenienza territoriale, sull’anno della composizione delle opere o su qualche vago dettaglio biografico (il “Parente di Giotto”, il “Pensionante dei Saraceni”).
No, il discorso è differente: vorrei cercare di spiegare – anche temerariamente – come all’interno di un’opera dalle caratteristiche riconoscibili, per esempio quella di autore singolare qual è Luigi Ghirri, si possano rintracciare almeno le sfumature di un linguaggio che vuol rendersi coscientemente anonimo per somigliare il più possibile a quello della tradizione orale. E sarà necessario farlo osservando le sue opere, seguendo i suoi testi teorici e ascoltando le parole da lui scritte o registrate durante alcune lezioni di cui parleremo in seguito.
Quello di Ghirri è uno sguardo che si impone di rendersi in tutto simile alla voce dell’Anon woolfiano. E che cerca di addentrarsi, di identificarsi nell’antica “oralità primaria” della fotografia, momento aurorale esplorato con passione in alcune delle sue lezioni, soprattutto quelle riunite nella sezione intitolata «Storia».
Oggi siamo entrati in un tempo di “oralità secondaria” della fotografia, arte in cui i primi creatori furono anonimi, quanto lo sono ora gli innumerevoli dilettanti, a vario grado di abilità, che scattano miliardi di fotografie ogni secondo sul pianeta (opere che si consumeranno nell’oblio senza lasciare traccia, e fra le quali pochissime resteranno). È come se Luigi Ghirri aspirasse, con il suo lavoro, a dissimulare la propria individualità autoriale riproducendo immagini che tutti potrebbero cogliere, tutti hanno forse colto prima o poi, senza far ricorso ad artifici o limitandoli il più possibile: «Dimenticare sé stessi» è il titolo della prima sezione delle su Lezioni di fotografia:
Non mi ha mai interessato quello che comunemente si definisce come ‘stile’; stile è una lettura in codice, e la fotografia ritengo sia un linguaggio senza codice, pertanto anziché diminuzione, allargamento di ‘comunicazione’… Ho sempre affrontato la ‘scena da rappresentare’ in modo diretto, mi sono posto di fronte agli eventi in maniera frontale, evitando tagli o fughe di qualsiasi tipo. Ho sempre affidato sviluppo e stampa a laboratori standard, non mi ha mai interessato la produzione di oggetti da collezionismo, né tantomeno fare operazioni di ‘maquillage’. Il gesto estetico e formale è già compreso in quello da fotografare… Il problema della forma fotografica, con gli inevitabili rimandi alle cure esasperate in sede di stampa, viraggi, mascherature per ottenere un risultato ulteriormente ‘oltre’, non mi ha mai affascinato. Fotografo a colori, perché il mondo reale non è in bianco e nero e perché sono state inventate le pellicole e le carte per la fotografia a colori… Uso prevalentemente l’obiettivo normale, e poi in egual misura grandangolo e medio tele, non uso filtri, e lenti particolari. Non mi piace far vedere l’obiettivo usato. L’obiettivo vero è sempre stato un altro e non quello ottico. Ho cercato di non chiudermi in filoni o generi, per questo contemporaneamente ho lavorato in diverse direzioni, in un processo di attivazione del pensiero, non ho cercato di fare delle fotografie, ma delle carte, delle mappe che fossero contemporaneamente fotografie.
Come afferma e sottolinea più e più volte, Luigi Ghirri rifugge dall’uso dei ritocchi tecnici alle stampe o alle lastre, come dallo spostamento di oggetti nella stanza che sta ritraendo, o dal taglio di elementi casuali rientrati nel campo del suo obiettivo, perché sa bene, e lo ripete spesso, che la fotografia non è altro se non un ritaglio all’interno della realtà visibile, o invisibile. «La fotografia è sempre un escludere il resto del mondo per farne vedere un pezzettino». Lo spiega con un esempio significativo, parlando di come ha ritratto lo studio di Giorgio Morandi a Grizzana, nel 1989:
Avevo iniziato facendo immagini più dilatate, ma procedendo, andando più in fondo, entrando all’interno di questo spazio dello studio, percepii che tutto era stato lasciato com’era alla morte del pittore: sembrava che lui fosse ancora lì, che fosse appena uscito di casa. Quindi le foglie secche, i barattoli, gli oggetti ridipinti, il nastro, lo scotch, la sedia sulla quale si sedeva. Avrei potuto ripulire l’immagine togliendo, per esempio, questo pezzo di seggiola, che può apparire fastidioso. Ho scelto invece di suggerire, conservando questo elemento che può essere definito un piccolo incidente all’interno della rappresentazione, un rapporto con un contesto più vasto.
Questa assenza di artificio è paragonabile al rifiuto di ogni addobbo, ornamento, ritocco letterario che sembra consustanziale ai testi della letteratura orale (in questo senso, le formule ricorrenti per esempio nella poesia omerica non si devono considerare “artifici” ma tecniche mnemoniche, strumenti d’ausilio per l’improvvisazione del canto).
Ma non si tratta solo di questo: Luigi Ghirri si pone di fronte al mondo nello stesso spirito di Anon, con l’ansia di catturare un frammento dell’esistenza in un’immagine, quel che fa il bardo woolfiano senza nome con le proprie emozioni di fronte ai misteri del creato, cercando di definire i contorni di uno specifico momento che ha una sua ben poco definibile particolarità.
Anzitutto, l’attenzione di Anon è rivolta – Virginia Woolf lo dice chiaramente – al trascorrere del tempo, all’atmosfera tipica di una stagione, che si traduce, in fotografia, in un particolare tono della luce. La poesia proveniente dalla cultura orale – almeno quella che è stata tramandata, di cui quindi abbiamo testimonianza – appare profondamente legata ai cicli stagionali, di cui ama riprodurre le immagini ma a cui appartiene anche nelle forme: significativo, in questo senso, è il legame dei generi letterari con i periodi dell’anno, individuato da Northrop Frye nella sua Anatomia della critica, mediante la connessione con il rito, l’andamento del tempo e la progressione dell’esistenza umana (cioè dell’eroe) dall’infanzia alla vecchiaia. L’essenziale archetipo che coglie la similitudine fra l’arco del giorno e la vita individuale è del resto alla base della struttura di un vertice dell’opera woolfiana, il romanzo The waves (Le onde, 1931).
Il paragone fra oralità e fotografia è comunque doppiamente curioso, lo ammetto, anche perché essenzialmente improprio. La fotografia è di per sé scrittura (il termine deriva dal sostantivo greco phōs, photós, ‘luce’, e dal verbo grápho, ‘scrivere’, appunto, o ‘disegnare’). Quest’arte fissa immagini che la memoria dovrebbe conservare, idealmente, senza essere impresse su una lastra o una stampa, ma la mente non può trattenere tutto e quindi ferma le immagini su un supporto, dando spazio così a una composizione artistica “concreta”, riproducibile, visibile, comunicabile.
Il pensiero e la musica, la parola e il canto erano liberi, momentanei, volatili, prima dell’avvento della scrittura, così come le parvenze della vita prima della pittura e poi della fotografia, o della registrazione per il suono; si può istituire una similitudine in tal senso: «La scrittura, Platone fa dire a Socrate nel Fedro, è disumana, poiché finge di ricreare al di fuori della mente ciò che in realtà può esistere solo al suo interno».
Dalle brevi analisi che seguiranno si potrà stabilire se il paragone è pretestuoso oppure no.
Un esempio invernale: la fotografia intitolata semplicemente Cittanova di Modena, con il sottotitolo, Chiesa sulla Via Emilia, forse spurio. Le fotografie di Ghirri hanno notoriamente titoli reticenti, formati solo dall’indicazione di luogo e nient’altro. Questa caratteristica non fa che aumentare il potere evocativo dell’immagine, senza minimamente indirizzare la fantasia dell’osservatore: un’altra analogia, direi, con le caratteristiche della cultura orale e del suo aspetto anonimo. L’analisi, l’astrazione, la teoria, i modelli speculativi, l’elucubrazione intellettuale nascono con la civiltà della scrittura (e ne fanno parte).
Sul far della sera, una pallida luna piena si fa strada nel cielo avvolto da una foschia compatta e morbida, sopra una chiesetta solitaria. Fa pensare a una di quelle piccole cappelle sperdute sulle soglie dei boschi, nominate da Ladislao Mittner nella sua Storia della letteratura tedesca e care al Romanticismo devoto, ma qui non c’è alcun bosco, solo qualche albero spoglio sulla destra dell’inquadratura: una pianura brulla e vuota. Il cielo è pallidissimo, di una tonalità appena distinguibile dalla sfumatura della lieve coltre di neve che lo riflette: un celeste incanutito, similissimo alla giada del suolo, sorta di turchese Tiffany estremamente slavato. La facciata della chiesa, sporca e rosa, fa pensare alle indimenticabili lune verlainiane:
Et leurs molles ombres bleues
tourbillonnent dans l’extase
d’une lune rose et grise,
et la mandoline jase
parmi les frissons de brise.
Le luci si accendono nelle case, e sono di un arancio leggero, come i fari stellanti di un’automobile che spunta sotto una volta; c’è un annuncio funebre che si intravede appeso al muro accanto alla chiesa. La neve del campo di fronte è già torbida, confusa con la terra e la ghiaia. Natale deve essere già passato (non ci sono luminarie e il primo plenilunio, nel 1985, fu il 16 gennaio). C’è un’atmosfera insieme d’attesa e di compimento, una pace gentile e malinconica. La malinconia è uno dei tratti generali della fotografia di Ghirri. Potrebbe essere un qualunque passante a vedere questo spettacolo, che probabilmente è lì per noi ogni anno, verso quell’ora, nei pleniluni d’inverno: basta che ci sia solo un po’ di neve, fatto ahimè sempre più raro.
Il fotografo ha colto un momento del tempo, ripetibile per quanto unico: non aggiunge e non toglie niente a ciò che vede, come farebbe un poeta della civiltà orale; descrive e non interpreta, ricorda senza commenti. Eppure questa apparente esilità di intervento ha il potere di sprigionare nello spettatore un’emozione dinamica, profondamente forte e coinvolgente: tutta la solitudine invernale è compresa in questa immagine, abbacinante nella sua desolazione.
Un altro esempio, questa volta di interni: Boretto. Albergo “Il Bersagliere”, camera n. 8. Un letto matrimoniale, o meglio due letti singoli appaiati, con comodini annessi, visti dal fondo. Sopra, un’immagine della Madonna attorniata da vignette che forse ne raccontano la storia; i toni sono quelli del legno, probabilmente di ciliegio; l’atmosfera sembrerebbe quella di un pomeriggio estivo, la luce è calda, appena smorzata. La fotografia non dice nient’altro, eppure racconta con discrezione vicende andate: il punctum, nucleo focale dell’immagine secondo Roland Barthes, sarebbe forse il filo elettrico che regge l’interruttore “a peretta”, avvolto intorno a due pomelli dei letti, per stringerli in un nodo che è una sorta di abbraccio: quante coppie avranno dormito in quei letti? Quante teste hanno riposato su quei guanciali candidi che si vedono appena sotto le spalliere bombate? Lo stile è rustico ma anche, a suo modo, pretenzioso; racconta di un tempo in cui l’albergo ebbe un suo prestigio, vicino com’è alla stazione ferroviaria; dunque vite di passaggio, momenti fugaci. Eppure quel letto dà la sensazione della stabilità della vita contadina, quando i viaggi erano rari e gli spostamenti obbligati solo da circostanze fortuite, magari poco liete, talvolta uniche nelle vite di individui anonimi e stanziali. «Queste immagini riprendono una tradizione iconografica, un aspetto della memoria collettiva», scrive Ghirri. «È evidente un richiamo non tanto al passato quanto piuttosto a un certo modo di vivere, culturalmente molto connotato».
Senza l’indicazione offerta dal sottotitolo, si potrebbe pensare semplicemente a una camera da letto contadina fra le tante, in una regione agricola come l’Emilia Romagna, o in una qualunque zona rurale d’Italia. Il dettaglio dell’albergo impone qui una deviazione suggestiva, che conduce verso le aree attigue alle stazioni, i cui esterni sono stati così minuziosamente descritti nei dipinti di Paul Delvaux. Ma qui è la vita intima di una stanza che si dischiude agli occhi della mente, con la sua solennità e il suo enigma – e la stanza è vuota. Il letto è preparato per accogliere altri ospiti, ma apprendiamo che l’albergo è ora dismesso. Una pagina di Facebook ci invita a celebrare un minuscolo “Come eravamo”. Il sito del FAI ne racconta in breve la storia.
Questa volta, dunque, e almeno per il momento, l’esperienza di visione non è riproducibile: anche se la vecchia locanda fosse restaurata, e perfino se la camera n. 8 venisse riallestita com’era nella fotografia di Ghirri, l’esperienza visiva non potrebbe mai più essere la stessa, perché saremmo consapevoli della sua artificialità. «A questo Ghirri risponde che è anche possibile pensare che il tempo rinnovi, che ogni scarto accidentale rinnovi la percezione, invece d’essere soltanto la pietra tombale dei momenti della vita».
Come accade nella cultura orale, quindi, il documento assume perfino suo malgrado un valore storiografico; sappiamo che l’immagine appartiene inesorabilmente al passato; l’oralità sfugge alla cronologia, la fotografia no. Sappiamo quando è stata scattata: l’anno, almeno, e sappiamo che questo avveniva forse quando già l’albergo era un relitto storico; possiamo supporre che Ghirri stesso abbia osservato gli oggetti di quella stanza con il sentore di una fine – appena avvenuta oppure incombente.
Ma ogni viaggiatore avrà osservato quelle cose e quegli ambienti con lo stesso atteggiamento: niente di durevole, nessun accenno di permanenza; eppure quei letti un po’ tronfi, panciuti, massicci, sembrano raccontarci e volersi dare un’aria di stabilità tetragona e caparbia, rispettabile e immutabile, borghese e ottusa. L’immagine sacra sembra dirci che non si trattava certo di un albergo a ore; se amplessi s’intrecciarono in quei letti gemelli, erano di sicuro benedetti dalla Vergine, quindi non dovevano essere frettolosi e loschi. L’insieme fa pensare piuttosto ai versi di un magnifico poema di Attilio Bertolucci. E l’intera opera fotografica di Luigi Ghirri potrebbe costituire il corredo iconografico del testo del poeta italiano, come la biografia di un uomo in viaggio, colta attraverso i suoi woolfiani “momenti di visione”.
The curtain rises upon play after play. Each time it rises upon a more detached, a more matured drama. The individual on the stage becomes more and more differentiated; and the whole group is more closely related and less at the mercy of the plot. The curtain rises upon Henry the Sixth; and King John; upon Hamlet and Antony and Cleopatra and upon Macbeth. Finally it rises upon the Tempest. But the paly has outgrown the uncovered theatre where the sun beats and the rain pours. That theatre must be replaced by the theatre of the brain. The playwright is replaced by the man who writes a book. The audience is replaced by the reader. Anon is dead.
La fine di Anon sarebbe adeguatamente illustrata da un’altra fotografia di Ghirri, intitolata Ravenna. Scenografia di Aldo Rossi, alla Rocca Brancaleone. L’impostazione qui è illusionistica: la scena teatrale, con torri quadrate e contrafforti, è osservata in modo da far apparire le costruzioni fittizie grandi come i palazzi della città sullo sfondo; la realtà è svelata dalle impalcature che sostengono le file di fari che illuminano il palco e, sotto, la buca dell’orchestra, ma l’impressione permane e il cielo del crepuscolo forma un controcanto celeste-violaceo al rosso pallido degli edifici medievaleggianti (benché molto stilizzati). «La tonalità teatrale è bene indicata dall’allestimento scenico di Aldo Rossi, straordinario architetto italiano», scrive Gianni Celati, «dove non si vede bene la differenza tra la messa in scena per l’opera lirica che si recita e le forme architettoniche che l’avvolgono. E una tonalità teatrale è richiamata anche da quella villa nei pressi di Bologna, presentata come un lontano fondale da melodramma, come il segno d’un illusionismo diffuso che domina questo paesaggio».
Il riferimento di Celati è alla fotografia intitolata Bologna. Villa nei pressi di Gaiana. Una visione di sogno, o più semplicemente una ripresa da lontano, in movimento, magari da un’auto in corsa? Da un basso strato di foschia che sembra un velo di fata emerge in una luce d’oro la facciata di una villa signorile, isolata alle spalle di un parco: il palazzo dei Guermantes o la reggia del ballo di Cenerentola? Gli alberi scuri sotto il cielo viola della notte fanno pensare all’Isola dei morti di Arnold Böcklin.
Soprattutto visioni come questa fanno intuire quanto l’immaginario di Ghirri sia prossimo alla cultura popolare e al dominio del fiabesco (mediati da un raffinato patrimonio di letture e di riferimenti visivi), ma soprattutto a una caratteristica tipica dell’oralità: il “pensare per storie”.
Lo si sente anche in fotografie apparentemente semplicissime come Spezzano. Castello, Sala delle Vedute: è quasi solo un’inquadratura di un pannello dipinto, la veduta di “Manzina”, come indica il cartiglio; a destra c’è una struttura di metallo, a sinistra si intravede appena una finestra aperta, da cui entrano i riflessi biancoazzurri di una luce estiva; tutto il resto dell’immagine è costituito dalla collina su cui sorgono vecchi edifici, in una tonalità ocra, sotto il cielo terso: è la storia di un passato, di un borgo oggi radicalmente trasformato; la vita di quel luogo appare cancellata perché i suoi abitanti sono assenti. La fotografia parla di una doppia musealizzazione: l’immagine riproduce le moderne strutture in uno spazio concepito come archivio di tenute nobiliari appartenute ad aristocratici di campagna (i Pio di Savoia) e dipinte da Cesare Baglione, pittore di corte dei Farnese, probabilmente fra il 1595 e il 1596. La scelta visiva di Ghirri allude a noi che osserviamo l’immagine, osservata a sua volta (o fantasticata) dall’artista: è in qualche modo la situazione in cui lo studioso cerca di delineare la fisionomia della cultura orale, immerso però nell’odierna condizione della civiltà della scrittura – metapoiesi, quindi, e riflessione sulle modalità della visione e sulla sua storicità.
Questo, però, a un livello per così dire “intellettualistico”.
Il fotografo, anche qui, come fa sempre, “pensa per storie”. Cerca nell’oggetto raffigurato l’archetipo del tempo, la presenza di vicende andate, il lascito delle generazioni, l’ombra dei secoli che si sono accumulati come polvere sulle cose delle sue stanze disabitate. Ghirri ha – si impone di avere o lo ottiene spontaneamente – un approccio “diretto” alla visione, si impone di perseguirlo senza deviazioni, ricercando la gratiam novitatis dell’antico poeta orale, la purezza di sguardo che sa essere inevitabilmente perduto. La sua è poesia “sentimentale”, nel senso dato al termine da Schiller, in contrapposizione alla qualità “ingenua” di un cantore come Anon: capisce perfettamente che quell’ingenuità gli è preclusa, eppure cerca di riprodurla sottraendo il più possibile alla sua composizione visiva ogni addobbo superfluo, ogni inutile sofisticazione.
Le storie, poi, affiorano più agevolmente in fotografie dove la situazione è esplicita, o dove gli oggetti “parlano” a voce più alta, o in una composizione più complessa e rivelatrice: sono le immagini in cui appaiono figure umane, sicuramente, ma non solo.
Qualche esempio in tal senso, iniziando da Bologna, 1973 (qui il riferimento è a Lezioni di fotografia, p. 71). Qui l’ambientazione è ingannevole. Si direbbe un posto di mare, dal momento che un ampio affresco di onde, con vele bianche in lontananza, campeggia dietro le due figure solitarie in primo piano. Invece si tratta probabilmente di una pizzeria urbana, o di un ristorante popolare (nell’angolo in alto a destra si vede parte di una lista di cibi: “Risotto, spaghetti, insalata”). Il locale è semivuoto. L’uomo e la donna non si guardano, sono assorti nei loro pensieri, forse hanno litigato. Lo si intuisce dall’indifferenza forzata con cui fissano direzioni opposte. Forse è il compleanno di lei, che ha accanto una borsa di plastica da cui esce una confezione regalo; o non ha gradito l’omaggio, oppure è infastidita dall’attesa che si protrae: hanno due bicchieri di birra a metà e un piatto colmo di michette intonse. La signora è fresca di parrucchiere, si è fatta gonfiare le chiome come andava di moda all’epoca; il marito molto baffuto, molto rassegnato, appoggia il gomito sul bordo dello schienale della sedia che ha accanto, forse infastidito dal silenzio ostile della signora. C’è una storia che aleggia su quel silenzio, un racconto alla Maupassant o alla Benni, alla Celati o alla Carver. Le immagini, in questo caso, hanno un potere narrativo molto intenso, che si sprigiona da un momento preciso e irripetibile nel tempo per irradiarsi attraverso le vite dei personaggi rappresentati, che sono reali in quel momento e poi svaniscono in una sorta di racconto astratto, pieno di interrogativi e di sospensioni. Dalla sconfinata “cultura orale” che è l’esistenza, la fotografia coglie un istante, lo fissa in un’immagine e lo tramanda per sempre: è uno dei temi più profondi e persistenti di tutta l’opera woolfiana: cogliere l’intensità del singolo momento in rapporto al flusso inarrestabile del tempo.
La stessa cosa avviene in un’altra fotografia di Ghirri, famosissima, emblematica: Alpe di Siusi, Ortisei, 1979. Sullo sfondo di una magnifica veduta montana, una coppia di mezza età avanza su un prato, in direzione delle vette: sono due persone viste di spalle, che si tengono per mano, chissà se speranzosi o affaticati. Viaggiano insieme verso quello che sembra un futuro, o la morte. Fanno pensare a quelle coppie di figure sulle tombe etrusche, fissate in eterno nella loro intimità condivisa, segreta e per qualche motivo struggente; l’immagine possiede quella spontaneità miracolosa da cui nascono i simboli nella cultura orale (come la possiamo dedurre dalle sue tracce nella tradizione letteraria, quindi scritta) e, insieme, quella precisione e quella nettezza individuate e definite nella teoria del “correlativo oggettivo” eliotiano.
Si può cogliere solo parzialmente l’origine della suggestione che emana da questa fotografia; c’è un insieme di linee orizzontali e di piani successivi: sembrano evocare le quinte di sabbia che si susseguono nei deserti del tempo di cui parla Thomas Mann all’inizio delle sue Storie di Giacobbe; e ci sono le due figure erette che trovano un corrispettivo nella verticalità delle vette distanti; le ombre sul prato e le nuvole appaiono come tracce e proiezioni evanescenti delle forme solide del mondo; con la semplicità diretta e comunicativa della poesia popolare, l’insieme interpreta l’esperienza ansiosa della percezione umana: il senso del tempo che passa, il tragitto terreno di ogni individuo, l’inizio e la fine della vita, il cammino verso un orizzonte sconosciuto.
Diversa eppure riconducibile a un’ispirazione analoga è Ostiglia, Centrale elettrica (1987). Così la descrive Andrea Cortellessa:
Pieno giorno, campo medio. La luce è variabile: il cielo si sta rannuvolando e in fondo alla strada le ombre sono meno definite, fra poco questa luce verrà meno. Al centro dell’immagine, di profilo, cammina una bambina in gonna rosa e calzettoni bianchi. Per strada, oltre a lei, solo un ciclista vaga in lontananza. Davanti alla bambina fa angolo una chiesuola senza pretese, schiacciata a una casa dalla verandina probabilmente abusiva. In basso si allunga l’ombra di un lampione, ma il punctum sono le tre gigantesche ciminiere, a strisce orizzontali bianche e rosse, che scandiscono la fuga prospettica sullo sfondo, come colonne che sorreggano il cielo incombente sulla scena. Il titolo, Ostiglia, centrale elettrica; la data, «1987». È un esempio perfetto del paradosso di Ghirri: il quale ha distolto da sé ogni tentazione di tecnicismo e ogni marchio di ‘autorialità’ individuale (quella che definisce «fotografia creativa» ossia, traduco, d’avanguardia) ma che oggi, con ogni probabilità, è il fotografo più riconoscibile in assoluto.
In un panorama provinciale e industriale, la bambina procede sola e sicura per la sua strada, di profilo, da destra verso sinistra, incurante dello spazio vuoto e desolato che la circonda: forse è domenica, la vita per lei è piena di promesse, a quel paese apparterrà per sempre oppure lo abbandonerà. Il suo mondo è destinato a trasformarsi, oppure no. Il luogo in cui vive rimarrà sonnacchioso ed eternamente uguale, oppure di colpo, per qualche motivo, si risveglierà; non è dato saperlo e a lei poco importa; la lieta indifferenza a tutto sembra l’insegna, la bandiera della sua passeggiata solitaria.
La traduzione in concetti razionali di tutto ciò che queste fotografie comunicano risulta inevitabilmente enfatica. O, peggio, come una “versione in prosa” della poesia, banale. Può farci immaginare cosa sia stato, per chi ha vissuto la civiltà della cultura orale, il trasferimento nella scrittura di una tradizione ricca e perduta. Perché quel tipo di mutamento fatale riduce inevitabilmente una complessità che rimane per noi inattingibile.
La fotografia di Luigi Ghirri possiede, in qualche modo, o riproduce, la cruda essenzialità del mito che è anche quella della fiaba, come, su un altro piano, quella del fatto di cronaca diffuso e narrato oralmente, o della “leggenda metropolitana”. Si avvicina a questa sobrietà legata unicamente alla linearità narrativa un certo tipo di “giallo classico” che non indulge a descrizioni d’ambiente o psicologismi (penso ad Agatha Christie, ma non solo). Mito, fiaba, racconto orale si limitano alla trama e cancellano ogni altro elemento; quando si trasferiscono nella forma scritta, si arricchiscono – solo allora – di forme e stilemi propri del “letterario”. Ghirri si sforza in ogni modo di rifuggire da quella “letterarietà”, pur risultando, ai nostri occhi di oggi, l’artefice di una fotografia estremamente colta, raffinata e pervasa da allusioni che però, ben lungi dal mostrarsi “erudite”, risultano “archetipiche”.
Da subito, la fotografia sviluppa contemporaneamente due filoni ben precisi. Uno rivela lo sguardo nuovo, di meraviglia nei confronti del mondo, del paesaggio, dell’architettura, della vita nella sua complessità e bellezza; l’altro tende alla creazione di uno sterminato catalogo e di un nuovo modo di vedere l’umanità. Cioè, da una parte c’è una grande attenzione per la bellezza del mondo e dall’altra un desiderio fortissimo dell’uomo di ritrarre sé stesso in maniera analogica, perfetta, di ottenere quasi una copia di sé. Esplodono, anche grazie alla fotografia, alcuni pensieri mitici che erano nell’aria già da tempo: il mito dell’esplorazione, della scoperta, l’indagine della natura, e anche la rappresentazione romantica della natura stessa, e il grande mito di rivedersi e riscrivere la propria storia personale, anche attraverso le immagini, attraverso gli album di famiglia che si diffondono subito dopo la scoperta della fotografia.
Queste parole di Ghirri concludono, almeno provvisoriamente, un discorso qui inaugurato e appena accennato, come la sua esperienza artistica si è conclusa prematuramente. Suggestivo e incantevole come pochi altri, uno dei maggiori tra i fotografi italiani del Novecento, nato nel ’43, moriva il 14 febbraio, trentuno anni fa.
(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)