Se la morte è una pestilenza, vogliamo scordarcene, novellando?[1]
La dedica che Bufalino appone a questo romanzo dà la tonalità fondamentale a tutto il suo racconto. Lo scrittore, come se si trattasse di un’omelia funebre o della più sentita delle invocazioni, scolpisce sulla prima pagina bianca: «A G. / alla sua salvezza»[2], dove è chiaro che la G. sta per Gesualdo.
Una dedica molto curiosa. Quasi mai si incontra nella storia della grande letteratura un autore che dedichi a se stesso il libro che il lettore sta per iniziare, e ancor più curioso è il fatto che l’autore invochi la propria salvezza, alludendo a un’attività intima e individuale impiegata solo per se stessi in quanto scrittori, un esercizio tutto personale che pare quasi ignorare per principio la presenza del lettore, il quale diventa a questo punto soltanto un destinatario funzionale alla narrazione. Da cosa vuole essere salvato Gesualdo, da una malattia, da una colpa compiuta in un passato che solo durante la vecchiaia ha il coraggio di affrontare, dal tempo sprecato/perdu, da un’esistenza vissuta senza essersi fermato un attimo per riflettere su di essa? Una confessione, un aprirsi il cuore a Dio affinché la narrazione interceda per la sua salvezza? Un auspicio per la trasfigurazione del sé in una realtà altra fatta di parole? Probabilmente la motivazione di fondo risiede in tutte queste ragioni, oppure in nessuna.
Si discute tanto sulla presenza di Proust in Bufalino, autore molto amato dallo scrittore comisano, citato a più riprese, sotto traccia o in modo esplicito, anche in questo romanzo. Il mondo si divide in due categorie (tra chi ha letto e chi non ha letto Proust), avrebbe detto tra gli altri Bufalino , e come non dargli ragione? Tra chi, dunque, può scrivere inserendo una dedica del suo romanzo alla propria salvezza e chi invece, anche se scrive, vive nella colpevole ignoranza di tutto ciò.
Come nota Cinirello, le prove di questo abbraccio letterario, quasi fraterno, vanno ricercate nei romanzi: «Ce ne sono alcuni, in particolare, in cui il confronto con Proust schiude il nucleo dei temi principali della scrittura bufaliniana: il tempo, la memoria, il passato e la vocazione a diventare scrittore per riscattare la propria esistenza»[3]. È perciò innegabile che questo libro, in particolare, possa essere considerato il frutto di una profonda ispirazione proustiana, un viaggio nella memoria compiuto da un vecchio che, scrivendo, cerca di riscattare il proprio vissuto, nel tentativo di guarire da un male che lo attanaglia, di avere un po’ di requie al dolore della tarda età e di provare a fare della propria vita qualcosa d’altro, trasformandola artisticamente.
Il titolo del romanzo, forse da leggere con un po’ di ironia, e anche con un senso di sfida e di rivalsa sul passato e sulla propria condizione attuale, si riferisce, quindi, a un vecchio la cui vista sul futuro è annebbiata, quasi assente, ma ancora efficace e potente abbastanza per riandare alle luci del passato risorto nella scrittura, ai bagliori del quale i suoi occhi si scoprono più che mai sensibili.
Nella Locandina delle intenzioni Bufalino dichiara il proprio proposito, divertendosi un po’ con il lettore nel mostrare che nemmeno chi racconta è certo del risultato a cui si perverrà. Per timidezza, o per codardia, lo scrittore dice di aver perso l’«occasione di morire»[4]. Una dichiarazione alquanto spiazzante, come a voler dire che si era provato a farla finita, salvo poi accorgersi di essere stati, forse, troppo pavidi per riuscirci davvero (o troppo malati e pieni di rimorsi). Sicché, nell’infelice timidezza di fronte al morire, lo scrittore chiede ai cento occhi della memoria di cinquanta e più uomini diversi che hanno sostanziato il suo passato di prelevare dalla vita che fu la materia del suo racconto. La scrittura, dunque, si declina adesso (in modo non definitivo poiché com’è chiaro il narratore lascia intendere di essere certo di mutare procedendo con il racconto)[5] come una pausa felice, una sospensione di gusto, un diletto per differire la fine, convincendosi per qualche tempo ancora che il momento della fine non deve venire, una disposizione d’animo necessaria, forse l’unica, con cui provare a cercare questa salus vindice della timidezza e della morte: «Non resta che differire sine die la salute, pago d’aver cavato dall’avventura qualche momentanea lusinga ad amare l’inverosimile vita…»[6]. Anche se si fallirà con il proprio proposito, certamente ambizioso, e cioè di salvarsi grazie a una letteratura avente come argomento la rievocazione e la modellazione artistica del passato, si sarà almeno goduto del racconto stesso, ci si sarà in qualche modo fatti blandire dalle lusinghe di questa «inverosimile vita», che non può che essere, insistendo con la metafora, proprio questa arte-fatta vita letteraria. Mal che vada, dunque, alla fine della sua fatica, lo scrittore sarà un po’ meno infelice. Si può scrivere immaginandosi un lettore per rendersi il compito più agevole, senza alcuno schema e a seconda di come le cose vengano alla memoria, per costringersi a presentare quanto raccontato in modo decente, per darsi un sollievo o per fabbricarsi un’aura solenne. Ma, quali che siano le motivazioni, preferisco dare per un attimo la parola al dostoevskijano uomo del sottosuolo: «Qua, in effetti, c’è un’intera psicologia. Forse è che sono semplicemente un vigliacco. O forse immagino apposta di avere davanti un pubblico, per comportarmi più decorosamente per tutto il tempo che scriverò. Di ragioni potrebbero essercene un migliaio»[7].
In questo breve tracciato ermeneutico mi faccio forte della premessa, un po’ metodologica e un po’ prudenziale, che Bufalino dà a se stesso: «Partire da questa ipotesi. Poi si vedrà che succede»[8]. Dall’estate della vita veramente vissuta con cui inizia il vero e proprio romanzo vedremo, perciò, se alla fine la narrazione potrà assurgere a “estate ritrovata” nella notte di San Silvestro dell’esistenza.
Non mi soffermerò sulla trama, bensì su alcune soste “teoriche” in cui Bufalino interrompe la narrazione per riflettere sulla tecnica narratologica, per fare un bilancio di quanto raccontato e anche per esternare le difficoltà e i colpi bassi inferti dalla facoltà primaria del suo dire, e cioè la memoria. Difatti, questa sosta non programmata lungo la rievocazione del romanzo si intitola Primo dubbio dell’autore sul libro che sta scrivendo. Potrebbe trattarsi di una vaga mise en abîme, di un gesto di sincero raccoglimento o al contrario di una sottile verve letteraria, che per stile e brio paiono quasi richiamare alla mente l’indimenticabile Pirandello delle due premesse al Mattia Pascal[9].
«Al tempo, dove sto andando? La favola mi scappa via dalle mani, la memoria mi fa la buffona dietro le spalle. Altrettanto le parole: vengono fuori storte, bistrate, beffarde; agrodolciumi volti a corrompere, come si corrompe un ragazzo, un ricordo minorenne dietro di me…»[10]. Lo scrittore chiede al tempo in persona (o in non-persona) la direzione, la ragione e il senso del proprio vagare. Fino a qui si tratta dell’individuazione nella propria memoria di uno spaziotempo veramente felice, dal quale iniziare a ricamare facendo sperabilmente del seguito un altrettanto felice intrattenimento letterario.
Modica, la canicola, le ragazze. Ricordi appassionati rivissuti con la consapevolezza di un oggi – papinianamente – “puzzoso” di vecchiaia. E, tuttavia, Bufalino si chiede se la favola che sta raccontando a se stesso, e quasi incidentalmente al lettore, sia veramente tale, e non una caricatura del ragazzo che con un viso sornione scimmiotta il vecchio di adesso per le condizioni miserevoli in cui si trova. La memoria di un tempo felice, proprio perché felice contrariamente all’oggi triste e vilipeso, si prende gioco di lui, e sembrano farlo anche le parole, che gli sembrano totalmente inadeguate a descrivere come le cose fossero veramente, essendo storte e deformate come le dita che le imprimono sulla carta battendole a macchina.
L’io narrante ironizza sulla faciloneria e la banalità della sua situazione, riuscendo a prevedere, come un infallibile previsore delle piogge del giorno successivo che parla dal dopodomani, ciò che della sua vita deve accadere dai fatti narrati. Sembra dire che la sceneggiatura del suo racconto è una storia scontata che non vale la pena di narrare e nemmeno di essere ascoltata, per il fatto di conoscerne l’esito e di non poterlo modificare. Ma, pur considerando la fine della sua storia, cioè il suo io di adesso che racconta da vecchio, essa può giocare, proprio perché viene raccontata e scritta, un influsso determinante sulle sorti della sua vita futura, quando, cioè, la stanchezza degli anni chiude le palpebre degli occhi della speranza e, grazie alla cecità acquistata, si attivano altri occhi, ci si rende abili a una nuova visione, quella di Argo che vede il padrone dopo vent’anni[11], che nella nostra metafora significa il passato sconosciuto ora divenuto urgente da comprendere e, riconosciuto il quale, ci si può finalmente accomiatare nella nera notte della morte.
La sceneggiatura del romanzo, dice l’autore, non ha passaggi e personaggi prestabiliti e immodificabili, come ricavati da un unico pezzo di marmo; semmai, le storie dell’io narrante sono plastiche come statue di cera, che in ogni momento possono essere rimodellate a seconda delle bizze della memoria, che viene definita appunto come un «juke-box di ricordi programmato a disubbidire»[12]. La casualità è dunque la cifra del copione, che in realtà è più un canovaccio da Commedia dell’arte con alcune linee fondamentali piuttosto che una pedissequa recitazione a memoria di un pezzo concertato.
Che fare, però? Assecondare il capriccio del “riessere”[13] oppure sforzarsi di giungere alla pura essenza del proprio vissuto, quella che con Proust appartiene all’uomo eterno che giaceva ascoso in noi e che solo la memoria involontaria può rivelare, essenza che, una volta divelta dall’oblio, fa rilucere il passato del corpo e della mente in cui era stata smaterializzata senza la nostra consapevolezza? E come fare a esprimerla? Per lo scrittore francese l’unico modo per restituire l’eterno all’eterno è la scrittura, è la letteratura, la quale, come egli afferma in una frase ormai icastica del Temps retrouvé, è la sola vera vita[14]. La scrittura per Bufalino, nel torno di queste pagine, sembra essere, in realtà, anche qualcosa di più: non soltanto, dunque, come per Proust la più valida motivazione per continuare a vivere ma l’unica ragione di sopravvivenza, l’unico pensiero che «mi dissuada la fatica di tagliarmi i polsi, debolmente, ogni quattro mesi…»[15]. Se la vecchiaia è la fine ingloriosa e per nulla godibile, per la verità una condanna dell’esistenza, la speranza è di avere ancora qualche stilla di energia per riandare con la memoria al passato e comprendere quanto si è stati felici senza, tuttavia, saperlo mentre lo si viveva. La scrittura e la letteratura si declinano, dunque, in un modo che sembra essere tutt’altro che una constatazione ironica su se stessi in quanto vecchi, con la mano della morte sui propri occhi, come un di più della vita, una sua «vece»[16]. La letteratura è, allora, una specie di sesto o addirittura di settimo senso, un braccio in più, con Hölderlin un occhio di troppo, quello che dota della vista quando gli occhi del corpo non riescono più a vedere.
Molte testimonianze di anziani riportano che durante la notte si ha sempre meno bisogno di dormire, che basta soltanto qualche ora di ristoro, che si fa anche fatica a prendere sonno per quel poco che serve, e che allora, quasi come una lugubre anticipazione della morte in quanto sonno perenne, si resta comunque svegli a letto per il fatto che il mondo tutto intorno dorme, a pensare sul gravame di ricordi che affollano la mente nel momento della giornata e della vita in cui siamo più soli[17]. Scrivere diventa in questa maniera alleggerire se stessi di quel passato che nell’oscurità del sonno e della vita rischierebbe altrimenti di sopraffarci, e significa anche rammemorare e nella rammemorazione riflettere, dando una forma in parole in cui l’io e il lettore possano leggersi e riconoscersi. «Un arto artificiale, s’intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua, ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno, la sera»[18]. La scrittura è il nero che fa il bianco nella notte.
Bufalino, nella pagina successiva, esprime una formula che assurge a definizione non soltanto del romanzo che sta scrivendo, ma direi di questo genere di vita e di letteratura che vengono a coincidere nel crepuscolo dell’esistenza. Tale godimento provocato e provato durante la rievocazione, e anche in grazia di quest’ultima, viene visto come «una sorta di sedentario entusiasmo, se così posso chiamare l’impasto di passione e distanza di cui si compone il mio sentimento»[19]. Un entusiasmo che fa uscire da se stessi nell’estasi mnemonica, l’emozione per la vicinanza di ciò che è lontano, che non è altro che un assai raffinato modo di dire, com’è consuetudine in Bufalino, la nostalgia. Ciò che fa l’io narrante è dare una forma concreta alla nostalgia, tale Stimmung fondamentale non ancora tematizzata a fondo in chiave fenomenologica ed esistenziale (e penso ai tipi delle magistrali analisi kierkegaardiane e heideggeriane su disperazione, angoscia e noia)[20] che riavvicina le cose lontane alle quali, tramite la parola letteraria, viene data una forma artistica godibile anche da un altro avventore della pagina, e cioè il lettore.
E a questo lettore Bufalino si rivolge dagli alti trampoli della propria vecchiaia, gli stessi trampoli del duca di Guermantes con cui si conclude la Recherche, sui quali confidare che il cadere, con il conforto della scrittura, gli sia meno grave e rovinoso, o per meglio dire dai trampoli dell’acrobata Zanni[21], il quale è certo invece che cadrà in terra ma nella speranza che, quando succederà, non ci sia nessuno a spiarlo. Un lettore che resta muto e che non vede, una presenza fittizia che sta davanti alla portatile dello scrittore, ma la cui presenza reale è invece invocata per dare un senso in più a questo stanco trotto sui tasti della macchina da scrivere e della memoria.
Proseguendo nella lettura, in un modo anche sorprendente che suggerisce una decisa divaricazione tra le due figure del romanzo, cioè il Gesualdo artefatto e protagonista della narrazione e il Bufalino scrittore, la voce narrante informa il lettore, quasi come uno sfogo e rivincita, che scrivere non gli piace: «Ma scrivere mi piacesse, almeno! Invece trascino la penna come una gamba zoppa, aro la carta per amaro farmaco e penitenza»[22]. È singolare che qui Bufalino paragoni la penna, come si sa l’appendice del pensiero, l’arto della scrittura di cui si diceva, a una gamba zoppa, a un arto in verità difettoso, che più che essere un bastone che sorregge il corpo e lo fa camminare è invece una zavorra, una frattura non ricomposta. Così come è altrettanto strano che Bufalino prosegua dicendo che tale creazione miracolosa finisce per apparirgli «un’azione losca, una colpa»[23]. Ma non era proprio tale colpa che Bufalino voleva estirpare in hora mortis nostrae? La scrittura letteraria non era una fulgida stella dirimente del proprio passato per riscattare quanto di colposo c’era in esso affinché non restasse irredento?
L’impressione è che l’autore, oltre a essere il puparo di se stesso, oltre a essere il pagliaccio infelice che riceve dal medico il consiglio di andare al suo stesso spettacolo per tirarsi un po’ su, faccia della scrittura un’azione peccaminosa, un qualcosa di non consentito, come se all’umano non sia concesso adoperarsi con un simile sotterfugio. L’umano è colpa, rimorso e dolore terminale, sicché ogni tentativo di sfuggire a ciò resta un amaro misfatto. Cionondimeno, egli non si perde d’animo e continua a scrivere, quasi prendendo le mosse dalla Trilogia beckettiana i cui protagonisti, il primo gambizzato e il secondo senza nome chiuso in un luogo oscuro e imprecisato, continuano in una continuazione che consiste nel proseguire a scrivere[24].
Se dall’incipit, per dir così, promettente e incoraggiante, l’autore transita per una riformulazione della scrittura come condizione ingiusta, colposa e non confacente allo scopo che si era prefissato, una risoluzione ulteriore in tal senso si evince in seguito, quando l’io narrante discute del «cuore scuro»[25] del padre. Sembra che in queste pagine l’autore affermi quasi in modo definitivo che la sua impresa di farsi un po’ compagnia e di assaporare qualche attimo di felicità scrivendo e rievocando sia approdata a un fallimento. Il padre aveva il “cuore scuro” per il fatto di non poter ricordare se non andando un po’ al cinema, travolto dalla mareggiata assassina dei minuti sulla spiaggia dell’ora. Da figlio di suo padre, l’autore commisera se stesso:
Dunque io che posso dire, io figlio di mio padre? Se coi ricordi, con le loro menzogne, malizie, disguidi, combatto e perdo da sempre, sanguino e perdo, sanguino e combatto?… Uno spettro s’aggira per le strade della Sicilia ed è la mia gioventù. Mi siano perdonate le imboscate che gli tendo, quasi sempre a vuoto, del resto, come si conviene a un pescatore di nuvole, a un fanfarone…[26].
I ricordi sono qualcosa con cui “si combatte”, anche intendendo questo verbo nella bellissima accezione con cui nella lingua siciliana si intende il generale avere a che fare con le cose del mondo, l’avere cura, l’heideggeriana Sorge. I ricordi non sono in nostro possesso, non sono veramente nostri poiché non possiamo disporne a piacimento, come la letteratura proustiana e non solo ha ormai dimostrato. Ma anche evidenze scientifiche della psicologia e della psicopatologia hanno acclarato che la memoria non è fissa e inerte, ma plastica e in continuo divenire, capace dunque, anche a seconda della carica affettiva di cui alcuni ricordi sono investiti, di riscrivere i frammenti del passato[27]. Ed è lo stesso Bufalino ad affermarlo in Cere perse:
Ricordare, ora lo so, può essere per una volta un dono celeste, ma nove volte rappresenta una trappola delle peggiori, un nascondiglio di vipere micidiali. Sono bestie strane, i ricordi. E ora si negano cocciutamente; ora giungono spontanei, simili ad amici che entrano senza bussare. […]
Sì, perché la memoria ha questo di difficile, che trapassa rapidamente dall’impudenza al pudore, dalla delazione impulsiva all’omertà più ritrosa […][28].
Se prima la scrittura e il girovagare nella memoria erano azioni losche da perdonare poiché colpose, adesso l’io narrante chiede persino perdono per la caccia condotta ai suoi stessi danni, una caccia infruttuosa che non cattura alcunché con nemmeno la consolazione d’aver goduto nel frattempo. Questo intrattenimento che doveva approdare alla salvezza di G., che doveva anche solo per un momento sospendere dal peso della vecchiaia e asciugare dal proprio collo l’umido del fiato della morte, sembra evincersi come un fallimento, una vana fantasticheria un po’ più verosimile delle fantasie diurne e notturne perché vagamente fondate sulla memoria. Addirittura la gioventù, che nella scrittura doveva essere riacciuffata e rivestita di nuove carni, quelle delle parole, è uno spettro che si aggira per i luoghi della sua vita passata e che non ha ancora acquistato, e forse non l’acquisterà mai, una parvenza definitiva, come un dipinto troppo guasto nel quale non si riescano più a distinguere sia le figure che la mano del pittore.
Poco più avanti l’autore sembra mettersi a nudo davanti al lettore e a se stesso più di quanto non abbia fatto finora, confessando la sua passione divorante, il toro di Falaride nel quale arde continuamente: la noia. Purtuttavia aggiunge: «Mai mi diverto tanto come quando do fastidio e muoio di noia»[29]. Pare proprio una dichiarazione di vendetta, un passatempo malizioso e grottesco, quasi impudente, con cui affermare che, quanto più la noia si è impossessata di lui, più egli gode a torturare il lettore con il singhiozzo della sua storia inverosimile. Troppo tempo dice di aver trascorso a far sanguinare il suo cuore, ma adesso è il momento di applaudire con Augusto alla commedia della vita che si è vissuta e riderne di gusto.
Andando ancora con la mente all’uomo del sottosuolo dostoevskijano[30], egli dunque si chiede se non sia l’allegria ciò che lo può salvare («Ché se così è, perché non cercare di salvarmi con l’allegria?»), un’allegria con cui prendere in giro di gusto e sfottere la sua stessa vita, burlandosi di tutto come più giusta ricompensa prima della fine. «Una rivalsa da bambino, non c’è che dire, ma abbastanza efficace per avere ragione di me, e mettermi ogni notte sulla testa una corona»[31]. È la corona di Quasimodo, felice di essere la maschera più brutta, pur non essendo alcun travestimento ma tragicamente se stesso[32]. Un gesto infantile, una pausa dettata più dalla frustrazione che da una seria riflessione, poiché, per quanto la risata sia necessaria su molte cose, la bocca spalancata del sorriso non coglie la lacrima che cola dall’occhio di un cieco.
Si rinnova, quindi, la domanda: continuare? E come? Più che essere una diceria, questo racconto pare, a detta dell’autore, un florilegio di chiacchere. L’ormai declamata e famosa estate del cinquantuno per il lettore è un miraggio inconsistente, una ventata di nebbia. Pensando a Pavese, non si può più attingere all’estate della nostra vita in cui si era veramente felici. «Fui dunque giovane e felice, quell’estate del cinquantuno. Giovane e felice. Giovane e… / Macché, non è vero, mi sono vantato»[33]. Che quell’estate sia allora un falso mito, che la scrittura piuttosto che bere da una fonte creduta salubre si dimostri per quello che è, un rivolo prosciugato di cui restano soltanto le rocce levigate da un sentimento inattingibile?
«Lettore, non è che io ti voglia piantare in asso, ci mancherebbe. So bene d’essere sulla terra un inquilino moroso, e che per saldare il mio debito ho solo le chiacchere»[34]. Il debito da rifondare con le parole richiama i folgoranti versi luziani: «Non ancora, non abbastanza, / non crederlo / mai detto / in pieno e compiutamente / il tuo debito col mondo»[35]. Il Dasein, con Heidegger, è in grazia della sua finitudine ontologicamente un essere in colpa e in debito[36], e, se il suggerimento di Luzi è opportuno, questo è debito col mondo (che si è anche supposto essere ben presente in Bufalino sin dall’inizio di questo romanzo), il modo più efficace per porvi rimedio è proprio la parola, la scrittura. Eppure parlare di chiacchere, oltre a essere un’ulteriore conferma del tono fortemente ironico del libro, pare un richiamo all’inanità di questo dire così faticoso e snervante. Cosa fare: rinunciare al proposito, consapevoli del fatto che vivere un’altra estate nel freddo inverno di quest’età della vita sarà impossibile, oppure tentare di andare ancora più a fondo, in tale estate mitica e forse inesistente?
L’Exit, il capitolo conclusivo del romanzo, è una decisa negazione, un’alzata di bandiera bianca, un’irredenta uscita di scena:
Lettore, estate, diciamoci addio. C’era una volta un ragazzo che credeva d’essere un vecchio, ora le parti si sono scambiate, il vecchio s’è finto ragazzo e per ingannare meglio se stesso ha velato con un panno tutti gli specchi di casa. Sono espedienti leciti, se non necessari. Io ho scritto a scopo geriatrico, dopotutto, la mia mozione d’affetti non era rivolta che a me. Ma vorrà dire qualcosa se quelle antiche giornate piovono ancora nella memoria come bionda polvere d’oro[37].
È il momento del commiato: questa sortita, questa gita fuori dalle mura del presente, è stata del tutto inutile. Il ragazzo che con tutto se stesso si impegnava a essere più anziano è scomparso, evocato senza successo dalla fantasia di un vecchio che ha voluto impedire a se stesso di vedersi tale per rivedersi ragazzo. E tuttavia, anche essendo un gesto lecito, un palliativo allo strazio quotidiano della perdita delle forze vitali e della contrazione irreversibile del futuro, un sommovimento affettivo verso questo vecchio nostalgico che racconta, le pagine scritte e lette che sia l’autore che il lettore si sono messi alle spalle dovranno pur significare qualcosa. La memoria, prolungando la bella immagine proposta da Bufalino, è come la pioggia d’oro in cui Zeus si trasforma per fecondare Danae, anche questo un espediente per eludere i timonieri che remano contro la nostra guarigione. Si possono, allora, inventare di sana pianta un passato e un futuro, come suggerisce Bufalino ricordando Alvise? Rinnegare se stessi come fece il santo illustre prima che il gallo cantasse?[38] Fare ciò, tuttavia, anche soltanto insinuare la plausibilità di tale proposta, significa non solo destituire di senso l’ipotesi ermeneutica condotta fino a qui, ma in modo più decisivo perdere di vista il senso fondamentale rinvenuto nella narrazione bufaliniana. Se si inventa qualcuno al proprio posto, in cui l’opera di fantasia soppianta il verosimile di questo racconto, com’è possibile guarire, com’è possibile salvarsi?
Lo scopo era di scaricare su me, controfigura e cascatore di me stesso, i debiti di me narrante e liberarmene giocando. E per un po’ ha funzionato. Un giorno che m’ero divertito, nel pensiero, te, voi, a travestirvi da plauditores m’addormentai col capo sul tavolo, non mi succedeva da quand’ero bambino. Oh sì, scrivere è stato un’innocenza e una tana, un trono dentro una tana, non mi dirò grazie abbastanza per aver avuto il coraggio di farlo[39].
La scrittura si configura come un gioco delle parti tra un sé verosimilmente costruito sul calco del proprio passato e il sé dello scrittore, tra il G. della dedica e il Gesualdo sulla copertina per una loro possibile convergenza. Un’attività puramente ludica, un passatempo che ha sortito per un po’ qualche effetto liberando il presente del suo angoscioso gravame. Pupi e pupari sono uomini che applaudono a questa sceneggiata di eco augustea, un applauso dal sapore antico che si rinnova come un archetipo che non muore mai e che si risveglia, contrariamente all’autore che, adesso, in preda al suo trastullo infantile, rubizzo e rinfrancato, può finalmente prendere sonno sullo stesso tavolo su cui egli sta scrivendo, come al termine di una fatica. Perché faticoso è pensare e faticoso è scrivere. Ma la scrittura, compiuta sulla sedia del proprio scrittoio divenuta un trono, praticata in quello studiolo assurto a tana e a luogo domestico in cui sentirsi veramente al sicuro, con un eccezionale coup de théâtre, diviene “innocenza”, da contrapporre convintamente allo stato colposo in cui si versava all’inizio del racconto e al quale si cercava di porre un rimedio. E l’io narrante ringrazia se stesso per aver vinto la colpa, il rimorso e la diffidenza, poiché ci vuole davvero coraggio per affrontare i propri ricordi, i quali hanno ali come i serafini e code aguzze come i demoni.
E tuttavia, quando si è finito di percorrere i ricordi, quando il percorso che per caso o per decisione è stato tracciato nella selva della memoria termina nel presente, quando le cento e poco più pagine che rimpinguano il libro hanno ricongiunto il ragazzo di quell’estate con il vecchio armato di penna e chino sui suoi fogli, proprio quella vecchiaia è l’ultimo dato della vita. Bufalino, nelle ultime pagine, offre una vera e propria fenomenologia della vecchiaia, un ritratto dell’artista da vecchio, logoro e consumato come una poltrona esausta dei suoi inquilini.
Le parole non bastano, scrive l’autore, a fermare la vecchiaia: essa sarà più forte. Ma che valore dare a quanto scritto? È stata solo una tergiversazione erudita e ampollosa, senza troppe pretese sulla vita e sullo spirito? Non è stata compiuta, con il Proust tanto amato da Bufalino, la trasfigurazione della vita in parola di cui la Recherche è l’esempio massimo? Se questo Argo cantastorie di una fumigante giovinezza, sostenuto da un corpo in rovina, non può più vedere distintamente il futuro poiché per lui è quasi esaurito, può invece voltarsi indietro e adoperare gli occhi che solo un passato sostanzioso riesce ad aprire. Sicché il romanzo, a prescindere dalla sua trama e da ciò che ne viene narrato, in questo esperimento di narrazione e al contempo di meta-narrazione, costituisce una veduta coglibile solo dagli occhi di un vecchio, che rimugina sui suoi ricordi e, raccontandoli ad arte, li trasforma in logos, redime la colpa, dà al ragazzo un corpo incorruttibile che nessuna vecchiaia può corrompere.
È senz’altro vera e condivisibile l’ultima pagina del romanzo, la Preghiera, dietro le quinte, accettare dunque che la vita è altra cosa rispetto alla letteratura, e che quest’ultima non può fermare il rovinoso declinare dell’esistenza. La vita che è, ricollocando un’idea che già all’inizio lo scrittore aveva definito con una bella crasi “odiosamabile”, «odiabile, amabile vita! Crudele e misericordiosa. E sei ora fra le mie mani: una spada, un’arancia, una rosa. Ci sei, non ci sei più: una nube, un vento, un profumo…»[40]. Di tutti i sensi che possono attribuirsi a questa bella espressione direi che, coerentemente con il nostro discorso, una possibile interpretazione potrebbe essere questa: la vita è funesta perché muore, ma è gaudente perché di essa, con innocenza, si può fare il più dolce degli svaghi e la più metafisica delle trasformazioni, che è la scrittura. «Vita, più il tuo fuoco langue più l’amo. Gocciola di miele, non cadere. Minuto d’oro non te ne andare» (ibidem). La vita più mostra di lasciarci facendoci morire, più noi l’amiamo, perché in fondo si ama di più ciò che ci abbandona e che vorremmo eternamente nostro.
Si dice allora: dolcezza non consumarti, attimo rimani con me. Una preghiera che, ancora con un verso famoso di Luzi, è la richiesta di salvezza a quell’amore che «aiuta a vivere, a durare»[41], il cui soffio dà sollievo e soccorso. La pena di Luzi, che è anche quella di Bufalino, è «durare oltre quest’attimo»[42]. Mi sembra, dunque, che alla luce di ciò la scrittura letteraria, tale trastullo della memoria, sia proprio questo impulso a durare, qualcosa che rifulge nel lucore dell’istantaneo e che sollecita a trasformare la vita in un quid più alto, al quale aspira anche il lucido e potente canto di Dylan Thomas, nel quale mi sembrano condensarsi le analisi fin qui condotte e con cui concludo:
There’s plenty that doth die;
Time cannot heal nor resurrect;
And yet, mad with young blood or stained with age,
We still are loth to part with what remains,
Feeling the wind about our heads that does not cool,
And on our lips the dry mouth of the rain[43].
- G. Bufalino, Le menzogne della notte, Milano, Bompiani, 1990, p. 39. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, Milano, Bompiani, 2020, p. 3. ↑
- M. Cicirello, La voragine dell’esistenza perduta: l’identità proustiana dei romanzi di Bufalino, in «Quaderni proustiani», IX, 2015, p. 97. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 5. ↑
- Sull’impatto trasformativo del racconto sul nostro essere cfr. A. Sichera, Per un’ermeneutica della narrazione, in Id., Ermeneutiche. Punti di vista sul confine, Leonforte, Euno Edizioni, 2019, pp. 53-85. Più in generale cfr. naturalmente l’imprescindibile P. Ricœur, Tempo e racconto. Volume 1 (Temps et récit. Tome 1, 1983), trad. di G. Grampa, Milano, Jaca Book, 2016. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 5. ↑
- F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo (Zapiski iz podpol’ja, 1864), a cura di I. Sibaldi, Milano, Mondadori, 2015, p. 59. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 5. ↑
- Cfr. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 2011, pp. 3-8. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 28. ↑
- Cfr. Omero, Odissea, trad. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 2020, Libro XVII, vv. 304-27, p. 483. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 28. ↑
- Cfr. G. Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 1996, p. 75. Se dovessi riformulare il riessere bufaliniano in termini ancora più genuinamente proustiani, direi proprio che la possibilità formale del riessere, del rivivere, è la scrittura. ↑
- «La vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie, par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature. Cette vie qui, en un sens, habite à chaque instant chez tous les hommes aussi bien que chez l’artiste. Mais ils ne la voient pas, parce qu’ils ne cherchent pas à l’éclaircir», in M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P. E. Robert e B. Rogers, in Id., À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Parigi, Gallimard, Parigi, 2019, pp. 2284-85 («La vera vita, la vita finalmente scoperta e messa in luce, di conseguenza la sola vita realmente vissuta è la letteratura, vita che, in un certo senso, dimora in ogni momento in tutti gli uomini così come nell’artista. Ma essi non la vedono perché non cercano di portarla alla luce», trad. di M.T. Nessi Somaini, Milano, Rizzoli, 2012, p. 280). ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 29. ↑
- Ibidem. ↑
- Una consonante testimonianza di ciò, così come del rimestìo interiore dell’io narrante di Bufalino, la ritrovo in queste belle pagine pavesiane, benché dal punto di vista del ragazzo: «Non potevo credere che i vecchi, i quali dormono poco, trascorrano le ore di veglia, e specialmente quelle sull’alba, riandando il passato. Essere sveglio vuol dire pensare e vivere, aspettare la luce e smaniare. Fossero pur vecchi e avvezzi al tempo, ma i loro sensi induriti e il sangue spesso dovevano tanto più aver bisogno dell’urto e del rimescolìo della vita. Questa vita era fatta di visi e di cose, di schianti, di voci, era un incessante incontro, un movimento che non aveva passato. Non capivo come ci si potesse docilmente fermare, sia pure per sazietà, e abbandonarsi ai ricordi. Voleva dire sentire il tempo, e la morte», in C. Pavese, Il tempo, in Id., Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 2017, pp. 101-102. Il corsivo è mio. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 29. ↑
- Ivi, p. 30. ↑
- Per la concettualizzazione della disperazione, da intendere anche in senso non cristiano, cfr. S. Kierkegaard, La malattia mortale (Sygdommen Til Döden, 1849), trad. di M. Corssen, Milano, Mondadori, 2013. Per la concettualizzazione dell’angoscia e della noia cfr. invece M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), trad. di A. Marini, Milano, Mondadori, 2012 e Id., Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine (Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, 1983), trad. di C. Angelino, Genova, Il melangolo, 1992. ↑
- Cfr. G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 58. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. soprattutto la pagina finale dell’Innomable: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuerò, bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare, forse è già fatto, forse mi hanno già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, mi stupirebbe, se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo», in S. Beckett, L’innominabile (L’innomable, 1953), trad. di G. Falco, Torino, UTET, 1973, p. 461. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 94. ↑
- Ivi, p. 95. ↑
- Cfr. almeno J.-Y. Tadié, M. Tadié, Il senso della memoria (Le sens de la mémoire, 1999), trad. di C. Marullo Reedtz, Bari, Dedalo, 2000 e A. Benini, Neurobiologia del tempo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017. ↑
- G. Bufalino, Lanterna cieca, in Id., Cere perse, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 190-91. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 98. ↑
- Il riferimento di Bufalino in questo locus del romanzo è ancora una volta al celebre incipit della già citata opera dostoevskijana: «Io sono una persona malata… sono una persona cattiva. Io sono uno che non ha niente di attraente», in F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., p. 5. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 99. ↑
- Cfr. il quinto capitolo Quasimodo del romanzo in V. Hugo, Notre-Dame de Paris (1831), trad. di G. Leto, Milano, Mondadori, 2011, pp. 48-55. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 107. ↑
- Ibidem. ↑
- M. Luzi, Auctor, in Id., Frasi e incisi di un canto salutare, in Id., Le poesie, Milano, Garzanti, 2020, p. 713, vv. 1-5. ↑
- Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., § 58, pp. 394-407. ↑
- Ivi, p. 148. ↑
- Cfr. G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 149. ↑
- Ivi, p. 151. Per alcune considerazioni sulla claustrofilia creativa di Bufalino e nello specifico sull’importanza di questo brano cfr. G. Traina, Gesualdo Bufalino, ulisside in una stanza, in Aspetti dell’ulissismo intellettuale dall’Ottocento a oggi. Atti del Convegno di studi (Ragusa Ibla, 20-21 ottobre 2016), a cura di N. Zago, Leonforte, Siké Edizioni, 2018, pp. 77-85. ↑
- G. Bufalino, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, op. cit., p. 154. ↑
- M. Luzi, Aprile-amore, in Id., Le poesie, op. cit., p. 205, v. 25. ↑
- Ivi, p. 206, v. 33. ↑
- D. Thomas, There’s plenty in the world, vv. 14-19: «C’è molto nel mondo che muore; / Il tempo non guarisce né risuscita; / Eppure, pazzi di sangue giovane o macchiati dagli anni, / Siamo ancora restii a rinunciare a ciò che resta, / Sentendo il vento sul capo che non rinfresca / E sulle labbra l’arida bocca della pioggia», trad. di A. Maranni, Torino, Einaudi, 2016, p. 283. ↑
(fasc. 40, 5 ottobre 2021)