Chiaromonte, di scorcio

Author di Raffaele Manica

Varrà forse la pena, all’inizio di quest’intervento, schizzare con tratti rapidissimi la figura di Nicola Chiaromonte: ogni volta che occorre, si mette in evidenza qualche tratto diverso. Chiedo scusa ai conoscitori, ma è una ripetizione che non guasta.

Chiaromonte (1905-1972) è stato uno dei più grandi saggisti del nostro Novecento, di statura internazionale. Amico in gioventù di Alberto Moravia, a causa dell’esilio durante il fascismo, vissuto prima in Francia poi negli Stati Uniti, con l’Italia si trovò ad abbandonare anche l’italiano, scrivendo in francese e in inglese per importanti riviste. Gli argomenti toccati dai suoi scritti vanno dalla riflessione politica (fondamentali i suoi scritti sul fascismo e sulla natura dei regimi totalitari) alla meditazione filosofica, affidata soprattutto a taccuini e dedicata assai spesso ai greci antichi, con predilezione, oltre che per i filosofi, per i tragici: ogni mattina, come personale esercizio spirituale, Chiaromonte traduceva qualche pagina dal greco antico, prima di passare alla lettura dei giornali e alla sua passeggiata consueta, per poi tuffarsi negli impegni quotidiani. Questo una volta tornato in Italia, dopo lunghi anni di esilio, durante i quali è collaboratore di «Giustizia e Libertà» di Carlo Rosselli poi delle riviste newyorkesi del dissenso («Partisan Review», «politics»).

Tornato in Italia, dunque, all’inizio degli anni Cinquanta, iniziò la collaborazione al «Mondo» di Mario Pannunzio, dove fino all’ultimo numero fu titolare della rubrica di critica teatrale, con recensioni di altissima qualità conformate alla maniera di brevi e fulminanti saggi sulle opere che andavano in scena. Nel 1956 fondò e diresse, fino al 1968, con Ignazio Silone il mensile di politica e cultura «Tempo presente» i cui fascicoli, sfogliati oggi, ci mettono di fronte a una delle riviste più brillanti e profonde del secondo dopoguerra, tenace nelle sue persuasioni fino allo stremo. Qui riprese alcuni dei temi che gli erano più cari, articolandoli nuovamente in saggi distesi dedicati ad argomenti politici e civili, visti spesso dalla specola delle vicende del romanzo europeo tra Otto e Novecento. Dai saggi sul romanzo derivò quello che è il suo titolo più celebre, Credere e non credere, l’unico libro pubblicato in vita, oltre a una raccolta di scritti sul teatro, La situazione drammatica e a un opuscolo, Il tempo della malafede, dove sono precisate, in chiave antitotalitaria, le ragioni del suo anticomunismo.

Durante gli anni dell’esilio entrò in contatto con alcuni dei maggiori intellettuali del secolo, da Albert Camus, che gli fu caro amico (e al quale su «Tempo presente» dedicò uno stupendo epicedio, uno dei suoi scritti più belli) a Hannah Arendt, da Mary McCarthy a Saul Bellow, da Raymond Aron a Isaiah Berlin. Da tutte le testimonianze che abbiamo sappiamo come egli fosse, alla maniera della tradizione antica, un maestro dell’oralità: di ciò i suoi scritti sembrano potersi definire le risultanti. Organizzati dalla sua vedova Miriam in vari volumi dopo la scomparsa di Chiaromonte, sono ora raccolti in un Meridiano Mondadori dal titolo Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura.

Libertario con suggestioni socialiste (sulla scia del suo maestro, Andrea Caffi) venate di liberalismo, Chiaromonte è sostanzialmente un inclassificabile, un uomo che iniziava ogni volta a pensare da capo, con forte temperamento morale, e ostile a ogni forma di egemonia, culturale e politica. Presto diventò una leggenda: la sua partecipazione alla guerra di Spagna ispirò un personaggio ad André Malraux; la sua militanza in «Giustizia e Libertà» fu narrata da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare; agli anni newyorkesi accenna Bellow nel Dono di Humboldt. Oggi torna la sua opera, per assegnargli il posto che merita nella cultura e nella civiltà italiana.

L’intera opera di Chiaromonte (c’è ancora qualche ritegno a definirla “opera” per il modo frammentario in cui si presenta, ma credo che il Meridiano nel suo insieme giustifichi finalmente l’adozione di questo termine) si distende su circa cinque decenni e leggendola ci si accorge che i dati che concorrono a definire una civiltà sono i punti che, attraverso un ragionare instancabile, Chiaromonte ha via via definito e sempre più, perfino testardamente, approfondito (in un percorso che può ricordare quello di Ortega y Gasset). La sua opera è dunque un ragionare tornando sui medesimi snodi, con costanti e varianti, ovviamente, ma con accanimento intorno a quel nucleo di verità che fa sì che una civiltà sia tale. Tali punti vanno dal ragionamento sul sacro (particolarmente presente nei suoi taccuini, raccolti sotto il titolo di Che cosa rimane, per le cure postume di Miriam, la vedova del grande saggista) alle varie articolazioni, politiche e filosofiche del concetto e della pratica di libertà. In particolare, mi pare ancora da sottolineare l’apporto di Chiaromonte sulle antiche e moderne tirannie, sviluppato dall’incontro “in diretta” con i sistemi totalitari degli anni Venti e Trenta. Della deriva tirannica della Rivoluzione russa lo mise sull’avviso il suo maestro Andrea Caffi, un grande dimenticato.

Come ho accennato, fu Miriam, negli anni Settanta, a raccogliere la sua produzione, tutta dispersa in riviste, in tre volumi che erano anche, diciamo così, delle categorie di pensiero: gli Scritti politici e civili, gli Scritti teatrali e Silenzio e parole, un magnifico libro di saggi filosofici e letterari. Miriam era una grande conoscitrice dell’opera di Nicola. Mi è parso di rispettare la volontà di entrambi restando fedele a quella scelta, appena integrandola con altri scritti segnalati da Miriam nell’approntare l’edizione americana e italiana di Il tarlo della coscienza, antologie dallo stesso titolo ma diverse nella scelta, degli scritti di Chiaromonte. Dove possibile ho riscontrato sulle prime edizioni apparse in rivista. Gli emendamenti, nonostante una tradizione circoscritta ma accidentata, sono stati pochi. Della quasi totalità degli scritti non si hanno gli originali manoscritti o dattiloscritti: consegnati in tipografia, chissà che fine hanno fatto.

Era persuasione di Chiaromonte che la circolazione della cultura potesse aver inizio solo rivolgendosi a piccole cerchie, come anche pensava il suo maestro Caffi. Un’idea elitaria: Chiaromonte non aveva in mente le masse ma gli individui che, anche presi tutti insieme, non erano massa. Si tratta di un atteggiamento che lascia capire la sua avversione non solo al marxismo come dottrina ma al comunismo, simile in questo all’Orwell di Omaggio alla Catalogna (come lui, partecipò alla guerra di Spagna, quasi negli stessi giorni) e a Camus. Lesse precocemente Simone Weil, che fece tradurre in America. Se il suo socialismo libertario ebbe venature di liberalismo, fu anche per la frequentazione (non solo per lettura) con grandi liberali come Raymond Aron e Isaiah Berlin. Conobbe in America la grande indagatrice del potere totalitario, Hannah Arendt.

Quanto a «Tempo presente», la rivista fondata e diretta con Silone, fu una casa di accoglienza e di discussione, in Italia, del pensiero europeo e mondiale che andava in questa direzione. Grande saggista internazionale, per vocazione, apertura di sguardo, intonazione, in Italia Chiaromonte, tutto sommato, è un frutto anomalo, per dire così. L’unico della sua generazione con simili doti è forse Moravia, che si dichiarava marxista e che frequentò con frequenti, amichevoli dissidi. Con Silone, uscito dal comunismo durante i primi anni dello stalinismo, l’incontro era naturale, fatte salve, anche qui, tutte le differenze, anche caratteriali.

Con Camus erano due anime fraterne, che potevano capirsi senza parlare per molto tempo. Perfino l’atteggiamento di Chiaromonte verso Sartre è segnato dall’amicizia con Camus. Recentemente è stato pubblicato il carteggio tra Chiaromonte e Camus[1]: è la storia di un’amicizia di grande intensità, nonostante i silenzi. Ed è senza reticenze. Il sentire di Chiaromonte era affine a quello di Camus intimamente, oserei dire, nonostante la differenza di età. Furono due grandi esempi di libertà e di quello che è stato chiamato l’anticomunismo democratico (lontano cioè da ogni tentazione filofascista, e anzi francamente antifascista). Dalle lettere si capisce anche la comune attrazione per il mondo greco, così come la critica verso le distorsioni della modernità. L’articolo, già accennato, scritto da Chiaromonte per la morte dell’amico è teso per la commozione, come se in Camus Chiaromonte avesse intravisto l’essenza stessa dell’essere uomo, persona compiuta che non ha dismesso nessuna delle proprie inquietudini.

Forse si può dire che uno dei suoi fari sia da considerare Tolstoj, soprattutto quello delle parti saggistiche di Guerra e pace: un faro come romanziere e come pensatore. Non dico che fosse simile la concezione della storia, ma simile risulta l’atteggiamento, il modo di porsi verso ciò che chiamiamo passato, quel territorio sterminato dal quale nasce la storia: il capitolo dedicato a Tolstoj in Credere e non credere è una magnifica meditazione sulla storia e sul senso della storia. Credo inoltre che termini come “pace” o “democrazia”, che hanno piccola parte nel lessico di Chiaromonte, siano definibili da altri versanti del suo pensiero: fanno parte di ciò che serve a rimediare alle storture della storia. Per Tolstoj va ricordata una definizione che si legge nell’articolo scritto da Chiaromonte in morte di Gandhi:

Tolstoj era un grande artista, tormentato da problemi morali. Anche lui era un semplificatore. Come ha detto Lenin, era la grande voce della Russia contadina, inconsapevole dei problemi del proletariato industriale. Sappiamo, comunque, che mentre predicava la castità, tormentava la moglie con la sua lussuria esigente; mentre infieriva contro chi mangiava carne, andava in cucina di notte a mangiarne di nascosto, e non riuscì mai a liberarsi dalla sua posizione sociale di scrittore famoso, di proprietario terriero e di pater familias. Questo sì, è complessità. Possiamo simpatizzare sia con il suo sforzo etico che con il suo fallimento. Oppure possiamo sorridere di tutti e due. Possiamo stupirci e ammirare. In ogni caso ci sentiamo autorizzati a pensare che sarebbe sbagliato prendere troppo sul serio la responsabilità morale, poiché l’esempio di Tolstoj sembra dimostrare che l’etica non è una dimensione indipendente della vita, ma solo un nome per designare contrasti che vanno affrontati, ma non necessariamente risolti, in quanto, apparentemente, non sono suscettibili di vere soluzioni. Fra noi il messaggio tolstojano di non resistenza al male non ebbe la minima eco, mentre nella sua Russia natale gli rispose l’olocausto di venti milioni di vite umane solo perché il proletariato russo potesse spezzare le proprie catene. Eh, già, quella di Tolstoj era una visione intellettuale ed estetica delle cose, piuttosto che una verità morale o un possibile comportamento sociale. Sicuro, e comunque, non è male che qualcuno tra noi abbia di questi pensieri. Dio sa quanto arricchiscono la nostra cultura. È vero che la conclusione non migliora le cose per noi né per la nostra civiltà; ma rafforza la nostra saggezza più preziosa: non prendertela troppo e alla fine fidati dell’evento, che ti suggerirà quale reazione avere[2].

L’arte di Chiaromonte è quella del saggista che per statuto, quasi, vive in un campo di forze che tirano da più lati. Ha bisogno di ciò per esercitare insieme pensiero e scrittura; anzi talvolta il pensiero si sviluppa e prende forma solo scrivendo. Un saggio può partire anche dalla volontà di andare a vedere “come va a finire”, che forma prendono i nostri pensieri anche ancora sparsi e confusi. Scrivere, per un saggista, è affilare e lasciar sedimentare il pensiero attraverso l’atto materiale dello scrivere. Forma di scrittura e forma di pensiero, così, si equivalgono e si sorreggono. Sembrerà forse un ragionamento-limite e sul filo del paradosso, ma ha una sua verità. E poi i saggisti non sono tutti uguali: nulla lega la “capricciosità” di Praz allo sguardo severo di Chiaromonte. Però come non cogliere qualche tratto comune nella disponibilità alle cose?

Lo stesso nel rapporto tra Chiaromonte e il teatro. Quelle recensioni e note e saggi sono di una densità pari alla limpidezza, parlano del teatro e di altre innumerevoli cose. Pochissime pagine, a volte, ma con dentro tante idee che interi volumi non riescono a individuare con tanta sicurezza di giudizio: non solo sugli spettacoli, ma soprattutto su libri e autori. Saggista teatrale, Chiaromonte lo è stato per l’arco che va da Eschilo a Beckett. La sua «idea del teatro» è alta e nobile, in tutto contrapposta al cinema che, troppo accentuatamente, vedeva quasi solo come intrattenimento. Infine, anche riflettere sul teatro fu per Chiaromonte un modo per riflettere sui dati di civiltà.

Ho lavorato al Meridiano durante il lockdown imposto dalla pandemia. A un certo punto avevo necessità di vedere la prima edizione di Credere e non credere, che allora non possedevo. Ho cercato sui siti delle biblioteche dove poterne rintracciare una copia. Che stupore vedere in quali biblioteche si trova il maggior numero di copie di Credere e non credere: nelle biblioteche dei seminari. Non credo che quelle copie fossero arrivate lì per caso o per attrazione del titolo. Credo che ci siano vicende misteriose nella storia dei libri. Chiaromonte aveva per il sacro, in tutte le sue manifestazioni, un interesse intenso. Non a caso uno dei suoi libri più belli, purtroppo non compreso nel Meridiano, che comprende solo saggi, è costituito dalle lettere (una scelta delle circa 1200 scritte) a una monaca benedettina, già poetessa e traduttrice, discendente dall’aristocrazia bavarese e di madre statunitense, che si era ritirata in un convento americano. Si scrivevano con una frequenza impressionante e con lei Chiaromonte ribadiva in altro modo le sue persuasioni più profonde. Aggiungo che Muska, come egli confidenzialmente chiamava Melanie von Nagel (vedova del pittore Halil-beg Mussayassul) poi Sister e Mother Jerome, dovette avere il permesso dei superiori per intrattenere questa corrispondenza. Si erano conosciuti in Italia. Il ciclo di conferenze che è all’origine di Credere e non credere, tenuto da Chiaromonte in America, reca tracce di questo incontro. L’epistolario si intitola Fra me e te la verità[3]. Il titolo è tolto da un frammento di Mimnermo che, secondo Chiaromonte, è «molto facile da tradurre, e che io tradurrei così: “stia fra me e te la verità, il più vero dei beni”» (come le scrive il 28 marzo 1967). Credo possa dirsi una sigla decisiva non solo per quel rapporto ma per il rapporto di Chiaromonte con ogni suo interlocutore e, oggi, con ogni suo lettore.

  1. Cfr. A. Camus, N. Chiaromonte, In lotta contro il destino. Lettere 1945-1959, trad. it. di A. Folin, Vicenza, Neri Pozza, 2021.
  2. N. Chiaromonte, La morte di Gandhi, in Id., Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura, progetto editoriale, saggio introduttivo, cronologia e note di R. Manica, Milano, Mondadori, 2021, pp. 169-73: 171-72.
  3. Cfr. N. Chiaromonte, Fra me e te la verità. Lettere a Muska, a cura di C. Panizza e W. Karpinski, Forlì (FC), Una Città, 2013.

(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. II)