«Parlava solo del tempo e di frigoriferi». Ivy Compton-Burnett e Anne Fine: dialoghi in famiglia

Author di Massimo Scotti

Ritorna nelle librerie italiane Ivy Compton-Burnett. Una scelta encomiabile, da parte dell’editore romano Fazi, che sta riproponendo alcuni dei suoi titoli famosi e altri mai tradotti prima in italiano. Un lavoro svolto con coraggio e intelligenza, dalle molte virtù e dai pochi difetti[1].

L’autrice è di un’inusualità degna di nota e regna ormai da quasi un secolo nell’elitario empireo degli Incomprensibili. Avvolta dalle spire di un contegno e di una riservatezza degni della defunta regina d’Inghilterra, visse a suo dire un’esistenza del tutto priva di eventi significativi (“I have had such an uneventful life, that there is little information to give”, sosteneva). Si potrebbe darle ragione solo a patto di trascurare un doppio suicidio in famiglia e i suoi legami saffici, all’epoca non precisamente convenzionali.

Le due sorelle più giovani si tolsero la vita con il veronal il giorno di Natale, nel 1917. Ivy ebbe due compagne: Margaret Jourdain e, dopo la morte di questa, Madge Garland. Nelle fotografie – tante, in verità – guarda fisso lo spettatore, attraverso gli anni, con un’acconciatura sempre identica, sorta di casco o di scodella dal bordo spesso, che fa pensare a un elmo da guerra. Quel che colpisce di più sono comunque i suoi occhi, severi e penetranti come quelli di un giudice spietato.

E spietata, inflessibile è la sua scrittura, di un’esattezza implacabile quanto il suo ritmo narrativo, lento e sincopato, che procede con la cadenza di una marcia militare o di un requiem interminabile. I suoi romanzi cominciano sempre in medias res e terminano ex abrupto, consegnando il lettore al vuoto pneumatico che precede e segue le sue vicende; senza concedere troppo spazio alla scenografia o alla componente visiva della narrazione (gesti, paesaggi, oggetti), le sue storie si fondano essenzialmente sull’avvicendarsi delle battute fra i personaggi e si esauriscono sostanzialmente in esse.

I dialoghi di Ivy Compton-Burnett sono leggendari e costituiscono il suo tratto peculiare: cristallini ma impenetrabili, fatti di reticenze, allusioni e superficiali cortesie, dissimulano abissi di significati occulti e di avvenimenti irriferibili. Tradimenti, omicidi, crimini vari, incesti, furti, testamenti bruciati, angherie protratte, vessazioni, torture. E tutto si svolge in famiglia, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno faccia niente per emendare o redimere colpe, liberare i congiunti da prigionie, schiavitù, orrori in quantità. Ma ogni delitto si svolge quasi sempre fuori scena, come nella tragedia greca, che Ivy Compton-Burnett conosceva molto bene, da lettrice e studiosa accanita di cultura ellenica, in grado di riprodurre, nei suo venti romanzi, infinite variazioni dell’Edipo re o dell’Orestea. È come un cuoco specializzato solo ed esclusivamente in un’eterna torta al rabarbaro, acidula, stravagante, indigesta. Ma perfetta.

Oggi quei suoi libri sono definiti “ritratti di famiglie disfunzionali”. In un’ottica storica si potrebbe parlare di stupefacenti denunce degli intrighi e delle nefandezze abituali che le levigate superfici della società vittoriana – ma più ampiamente britannica, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento – amavano accuratamente nascondere.

In realtà, queste vicende si svolgono di solito in un tempo indefinito, forse coevo alla vita dell’autrice (1884-1969); certo è che il succedersi dei decenni non si avverte in quelle storie prive di connotazioni storiche evidenti, a volte sbalorditive per la loro contemporaneità: immutabili come vecchi merletti, presentano però un’attenzione specifica e circostanziata per esempio nei confronti delle disforie di genere[2]. More Women than Men (1933)[3] non ha un titolo che si riferisce solo alla quantità numerica dei personaggi femminili rispetto a quelli maschili, ma che allude invece, propriamente, alla qualità dei caratteri e delle fisionomie di donne e uomini che vi sono rappresentati: signore protervamente mascoline, maschi decisamente femminei. I patriarchi, in queste famiglie, sono indifferentemente uomini o donne, accomunati dalle stesse caratteristiche: plenipotenziari, gelidi, anaffettivi, insensibili, crudeli, inclini al sadismo. Incarnano una forza brutale che divora le proprie vittime. Ma si tratta di una forza declinabile dialetticamente, in una dimensione weiliana:

Niente e nessuno ne è immune, e chi si illude di esserlo sta tirando una coperta ideologica sulla nuda realtà dei fatti. Il massimo che possiamo fare è sospendere a tratti il dominio di questa fisica bruta, trovare un geometrico equilibrio tra le forze e tenere ferme le tensioni contrarie in un’ascesi contemplativa. Non si può cancellare la ferocia che ci governa, solo esercitarsi ad arrestarne provvisoriamente l’azione[4].

L’equilibrio geometrico, l’esercizio dello stile sono le armi d’acciaio ben temperato che Ivy Compton-Burnett usa con suprema maestria per rielaborare, forse, un’autobiografia molto ardua e ancor più dolorosa, ma soprattutto – ed è quello che più le interessa – forme romanzesche di assoluto rigore, di conquistata “semplicità” e di lucido, implacabile raziocinio. Il risultato è un testo di levigatezza inimmaginabile, una tela di ragno tessuta e ritessuta sempre allo stesso modo per venti narrazioni diverse che si somigliano tutte ma che ogni volta riescono ad avvincere in modo sempre nuovo, e ineguagliabile (tanti, ed eletti, sono i suoi estimatori).

Quella che Alberto Arbasino chiamava con ammirazione e rispetto “la Grande Signorina” è rimasta isolata nel suo spazio eccentrico, non risulta collocabile in categorie riconosciute dalla critica (se non, forse, nella multiforme sfera della sperimentazione narrativa, parte del modernismo romanzesco) e non ha avuto imitatori – essendo, appunto, e per sua fortuna, inimitabile – a parte qualche sporadica e divertita emulazione. Una delle sue estimatrici italiane, Natalia Ginzburg, ammetteva di aver preso spunto da lei per un suo testo fatto sostanzialmente di dialoghi com’è Le voci della sera, ma tutto qui.

C’è però un’autrice inglese (perché solo gli inglesi forse possono imitarsi fra di loro, ad alti livelli, intendo) che dimostra una forza analoga a quella di Ivy Compton-Burnett nella costruzione di trame capaci di affrontare il tema dei sabba familiari. Ed è l’insospettabile Anne Fine, nota ai più per l’apparentemente innocuo Madame Doubtifire (1987), diventato un notissimo film con il compianto Robin Williams: Mrs. Doubtfire.

Per esempio In Cold Domain (1994, in italiano Villa Ventosa, Milano, Adelphi, 2000) e Telling Liddy (1998, in italiano Lo diciamo a Liddy?, tradotto sempre per i tipi dell’Adelphi, 2002) sono romanzi in cui Anne Fine, pur senza adottare gli stilemi compton-burnettiani, riproduce ed esplicita la critica della grande maestra all’istituzione familiare, alle sue ingerenze soverchianti sulla vita dei singoli, all’ottusità borghese e infine alla cecità con cui il patriarcato, esattamente come il matriarcato, distrugge in modo sistematico le personalità individuali, costrette a lottare fino a snaturarsi o a soccombere.

Non c’è sperimentalismo in questi romanzi suadenti, soavi, comici e feroci, ma un senso del ritmo narrativo che sembra un distillato contemporaneo dell’astratta musica da camera di Ivy Compton-Burnett. Anne Fine svolge con successo e levità un compito difficile: scardinare le convenzioni tipiche della “letteratura domestica”, ma anche della chick lit, per diffondere il gradevole veleno del dubbio circa l’indiscutibile bontà degli affetti familiari e dei legami tra fratelli e sorelle, mettendo in scena personaggi apparentemente stretti nell’intimità fra congiunti, in realtà ansiosi di esprimere tutti gli egoismi, le meschinità, le ansie di prevaricazione ribollenti nelle loro anime nere.

  1. Di seguito, esempi di virtù e difetti. Le copertine dei volumi sono incantevoli, come lo è complessivamente la linea grafica che caratterizza la collana «Le strade» dell’editore Fazi. Le illustrazioni di Flavia Remotti, stilizzate, corrusche e variopinte, evocano atmosfere gradevolmente rétro e alludono sapientemente a effigi celebri (per esempio il profilo di Greta Garbo sulla copertina di Più donne che uomini). La confezione è importante ora più che mai. Si nota, in generale, nelle pubblicazioni più recenti, una progressiva omologazione fra i vari prodotti librari, e si fatica sempre di più a riconoscere una collana dall’altra, una casa editrice dall’altra. Fazi sceglie di essere inconfondibile, e si spera che questo merito le venga riconosciuto: la scelta delle immagini di copertina, in particolare, è sempre puntuale e aggraziata, mentre in altri casi, e presso altre case editrici, si commettono errori imbarazzanti e inspiegabili. Picchi di ignominia: copertine della Gita al faro woolfiana con immagini di armamentari da picnic, in plastica; le Cime tempestose brontiane illustrate da un ridente cottage con un radioso cielo blu a fare da sfondo; felini sbadiglianti per Le tigri di Mompracem salgariane e un maialone sorridente per la Fattoria degli animali orwelliana; Dracula di Bram Stoker con una dentiera in un bicchiere; il Cuore di tenebra conradiano con uno zampirone in copertina (chissà perché? forse, la notte). Casi estremi, le Canne al vento di Grazia Deledda illustrate da un accendino (!) e la Certosa di Parma stendhaliana da una fetta di pane con formaggio spalmato (mi sono chiesto a lungo come mai. Evidentemente il grafico pensava al noto prodotto Galbani, la crescenza “Certosa”, appunto). Tornando all’editore Fazi, gli si può rimproverare solo qualche peccato veniale. Classici non noti ai più come i romanzi di Ivy Compton-Burnett richiederebbero, oggi, qualche parola di introduzione o una, anche breve, postfazione. Se non altro per evidenziarne la singolarità assoluta, ma soprattutto per far capire a un pubblico nuovo e diverso rispetto a quello dei decenni passati la superiorità e la complessità dello stile dell’autrice. E, a proposito di stile, a volte le traduzioni faticano a riprodurne i tortuosi anfratti. Un vero e proprio sbaglio è stato quello di rendere in italiano A House and its Head con Il capofamiglia. Una delle caratteristiche peculiari del macrotesto autoriale è il titolo sempre composto da due elementi: dopo il primo romanzo, Dolores, che risale al 1911, Ivy Compton-Burnett pubblica esclusivamente libri dal titolo duplice, spesso allitterante: Pastors and Masters (1925), Brothers and Sisters (1929), Men and Wives (1931) e così via. Bisogna rispettare queste scelte d’autore, specialmente quando rappresentano un suo speciale “marchio di fabbrica”.
  2. È strano che la critica femminista e i gender studies abbiano tardato tanto a riconoscere il potere sovversivo dei romanzi di Ivy Compton-Burnett, e lo comprendano ancora così poco. Elaine Showalter parlava addirittura di «ripresa passiva di temi e stereotipi tipici della letteratura femminile» (The Female Tradition, in The Feminine Middlebrow Novel 1920s to 1950s: Class, Domesticity and Bohemianism, London, Virago Press, 1984, pp. 3-36).
  3. Il romanzo, già edito da Longanesi nel 1950, nel 1974 e nel 1979, tradotto da Orsola Nemi ed Henry Furst, è stato riproposto da Guanda nel 1994, quindi da Fazi nel 2019 con la nuova traduzione di Stefano Tummolini. L’editore ha attualmente in catalogo anche Mariti e mogli (2022), Il capofamiglia (2020), Servo e serva (2021). Hanno pubblicato in Italia libri di Ivy Compton-Burnett, fin dagli anni Cinquanta, anche Garzanti, La Tartaruga, Einaudi, Mondadori, Fabbri, Adelphi. In realtà, mentre l’autrice era ancora in vita, le case editrici italiane si contesero letteralmente i diritti per la traduzione dei suoi romanzi, come racconta molto bene Teresa Franco in un suo articolo del 2022, Natalia Ginzburg e Adriana Motti: due traduttrici per i romanzi di Ivy Compton-Burnett, in «The Italianist», Forty One 2021-2022, DOI: 10.1080/02614340.2021.2004692. Come spiega l’autrice, Giorgio Bassani era interessato all’acquisizione per la Feltrinelli, ma la competizione era anche con la Garzanti, che fra il 1961 e il 1963 pubblicava dapprima I grandi e la loro rovina, poi Fratelli e sorelle nella «Collezione di letteratura» diretta da Attilio Bertolucci (cfr. l’articolo citato, pp. 3-4). Lo studio, raffinato e accurato, in poche pagine ricostruisce con acume e dovizia di dettagli la ricezione italiana di Ivy Compton-Burnett e il fascino che esercitava per esempio su Natalia Ginzburg: «Sono romanzi dove non c’è che dialogo: un dialogare pervicace e maligno. Mi piacevano. Avrei voluto poter incontrare Ivy Compton-Burnett, anziana signorina che abitava, m’avevan detto, nel mio quartiere» (la Ginzburg in quel periodo viveva a Londra). «Tuttavia m’avevano detto che non era interessante incontrarla, perché parlava solo del tempo e di frigoriferi. Ma io amavo i suoi libri e avrei voluto, una volta, parlare di frigoriferi con lei» (N. Ginzburg, Prefazione a Cinque romanzi brevi, Torino, Einaudi, 1964, p. 16).
  4. M. Marchesini, Potere, prestigio, riconoscimento, amore / Simone Weil: la forza, la grazia, in «Doppiozero», 24 ottobre 2017 (https://www.doppiozero.com/simone-weil-la-forza-la-grazia).

(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. II)