«Ho passato la vita intera a imparare a costruire frasi». Croce, Baudelaire e la “cultura della decadenza”

Author di Rosalia Peluso

C’est là que les avis se séparent
les savants se disputent.
Mais mon nom, si tu le connais,
reste imprononçable.
Il est prononcé – malediction.
(Einstürzende Neubauten, Blume)

I principali documenti della lettura crociana di Baudelaire sono tre. Il primo è contenuto nelle Note sulla poesia italiana e straniera del secolo decimonono del 1919, e gli altri due negli Studi su poesie antiche e moderne del 1938. Tutti i saggi qui richiamati sono apparsi prima su «La Critica» e poi, con qualche variazione nei titoli, confluiti in volume: rispettivamente il primo in Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono del 1922, e i secondi in Poesia antica e moderna. Interpretazioni del 19411. A questi saggi espressamente dedicati alla poesia baudelairiana occorre aggiungere le note che nel corso degli anni Croce ha riservato a Baudelaire in alcune sue opere fondamentali, che vanno dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902, in particolare la seconda parte sulla “storia dell’estetica”, all’Aesthetica in nuce del 1929, fino alla Poesia del 1936, dove Croce ritorna su un suggerimento baudelairiano che egli aveva fatto già proprio nel ’19, relativo al concetto melanconico di bellezza. Accanto a questi scritti bisogna porre le note di Croce sulla poesia contemporanea, soprattutto nel quadro della sua polemica estetica ed etica contro il “decandentismo”, qui assunta nella variante della più generale critica alla “cultura della decadenza”, questione via via sempre più insistente soprattutto nel Croce a cavallo tra gli anni Venti e Quaranta. Testimonianze indispensabili alla precisazione del fenomeno si leggono nel terzo capitolo, sul Romanticismo, della Storia d’Europa nel secolo decimonono del 1932; nella «Difesa della poesia» del 1933 e in alcune “note di estetica, istorica e etica” dei Discorsi di varia filosofia, scritti tra il ’41 e il ’43 e apparsi in volume nel 19472.

Il giudizio crociano su Baudelaire può essere tripartito in giudizio sulla poesia, sulla teoria estetica e sull’idea di modernità.

Baudelaire poeta

Il Baudelaire di Croce è «poeta di specie rara o, meglio, della rara specie dei poeti, sempre rari». È questo un punto fermo di ogni confronto reiterato negli anni e mosso dal tentativo di salvare la “comprensione” e il “gusto” delle Fleurs du mal dall’«odiosa critica francese accademica, moralistica e misoneistica» da una parte, e, dall’altra, dal «culto settario (…) dei varî estetizzanti», che intendono trasformare il poeta nel «capostipite di una nuova razza di poeti “decadenti” o “puri”»3. Questa duplice difesa si approfondisce negli anni e non è un caso che si legga in apertura al primo dei saggi baudelairiani del ’38 di Poesia antica e moderna, dedicato proprio a quei «componimenti condannati», cioè eliminati, per sentenza del tribunale, dall’edizione delle Fleurs, e che prestavano argomenti favorevoli all’uno e all’altro indirizzo critico.

Già nel saggio del ’19, prendendo posizione contro quella che poi chiamerà la “critica moralistica e misoneistica”, Croce attribuisce al Baudelaire poeta e teorico dell’arte il superamento della concezione etica e religiosa dell’amore. Superamento da un lato del romanticismo e recupero dall’altro della tradizione libertina del secolo dei Lumi, dal quale il Baudelaire critico della modernità prenderà per molti versi le distanze. Croce riconosce in Sade il maestro del Baudelaire che punta «l’occhio al fondo dell’erotismo» e scopre la vanità di «ogni tentativo di moralizzarlo»4. Ma, se in un primo tempo il Marchese è il «filosofo» alle cui «dure e coraggiose verità» in fatto d’amore «conviene tornare»5, più avanti egli è considerato una «disgrazia» per il poeta: una “disgrazia”, tuttavia, determinata da quel cattivo gusto per la «confessione psicologica» e la «curiosità patologica», e sorella dell’altra grande “disgrazia” di Baudelaire: la «curiosità per le cose sacre e per gli atti e le cerimonie del culto, e il gusto che gliene provenne della contaminazione o profanazione»6.

Contro gli “estetizzanti”, genericamente i «virtuosi» della cosiddetta “arte pura” o “arte per l’arte”7, e i profeti della cultura decadente e decadentistica, Croce approfondisce le virtù della poesia baudelairiana che vanno rinvenute nell’equilibrio faticoso e non sempre raggiunto tra le due categorie che nell’estetica crociana prendono il nome di “classicismo” e “romanticismo”: sono concetti storici che Croce sovradetermina, fino a renderli le due ideali, necessarie e dialettiche anime della poesia compiuta. I motivi che secondo il filosofo rendono Baudelaire a suo modo un “classico” e lo tengono lontano dal cosiddetto “decadentismo”, estrema propaggine dell’attitudine poetica “romantica” soverchiante rispetto all’equilibrio in cui essa deve stare con l’istanza classica, mettono radici nella sua «polemica contro l’arte informe» e al contempo contro ogni «astratta forma»: l’equidistanza tra gli eccessi di “informale” e “formalismo” realizza appunto quell’unità di contenuto e forma, intuizione ed espressione, che costituisce il caposaldo dell’estetica crociana. Non è un caso se nella Poesia si trova allora citata, nella postilla La vita passionale nella poesia, come esempio di «espressione poetica (…) che placa e trasfigura il sentimento», la celebre lettera di Baudelaire, nel passo in cui, parlando delle Fleurs, esplicita: «Dans ce livre atroce, j’ai mis tout mon cœur, toute ma tendresse, toute ma religion (travestie), toute ma haine. Il est vrai que j’écrirai le contraire, que je jurerai mes grands Dieux que c’est un livre d’art pur»8.

Da un altro indirizzo critico Croce prende poi le distanze: quello che sostiene il legame tra arte e biografia nell’intelligenza della poesia stessa. Legame certamente indissolubile, per come la intende Croce, vale a dire come trasfusione della vita nell’arte per mezzo della creazione e della catarsi emotiva. L’apprezzamento delle ragioni poetiche è tuttavia disgiunto dalla conoscenza del dato biografico che pur legittimerebbe l’espressione poetica. I «concetti e sentimenti, e tutta la realtà di cui facciamo parte, sono stati nella poesia trasfigurati e hanno perduto l’impronta storica e unilaterale per ricevere impronta umana e onnilaterale»9, scrive sempre nel libro del ’36. Nella postilla relativa ricorda inoltre che l’emistichio iniziale della poesia BalconMère des souvenirs, maîtresse des maîtresses, | ô toi, tous mes plaisirs! ô toi, tous mes devoirs!») possiede un valore universale che prescinde dalla «mulâtresse alcoolique que Baudelaire protégea fidèlement, même pendant ses années de noir misère»10cui allude il critico qui discusso, Hk. Brugmans.

Ora, quelle parole, per il lettore ignaro delle faccende erotico-sentimentali del Baudelaire, significano a pieno quanto debbono significare, parlandogli di una donna alla quale tutti sono rivolti i pensieri, i propositi, le fatiche, le industrie di colui che l’ama («tous mes devoirs»), perché essa è la fonte di tutta la delizia che egli possiede sulla terra («tous mes plaisirs»). La conoscenza dei fatti biografici non solo non aggiunge qui niente di necessario, ma apporta alcunché di superfluo (la «mulatta», l’«alcolica», e via), che distrae dalla visione di questa che è una delle più belle liriche del Baudelaire (…). La lirica ha filtrato la torbida acqua della realtà; ed ecco, si vuole rigettare e riagitare, nell’acqua filtrata e pura, il fondiglio!

Allo stesso modo, a proposito di un’altra lirica baudelairiana, La servante au grand cœur, non giova conoscere la vera identità di questa “serva dal gran cuore” che suscita gelosia in un’altra donna (la madre o l’amante). Perché quella che il critico chiama «“émotion réelle”», l’aver cioè conosciuto il nome della povera ma generosa donna, è piuttosto un’«“image troublante”, perché viene, in effetto, a turbare e disturbare la lettura della poesia» e rischia di trasformare un grande poeta in «uno dei tanti fanciulli trascurati nella loro infanzia dalla madre, e amati e protetti dalla serva di casa»11. «Baudelaire era un artista, – si legge in Poesia e non poesia – e aveva perciò un terzo partito, una vera e propria via d’uscita, nel ridurre il problema, insoluto nella vita, a problema che risolveva nell’arte»12.

Il miracolo che tiene unite le ragioni della mente (il “classicismo”) e quelle del cuore (“romanticismo”) è comunque evento raro e irripetibile. Pur emancipando la poesia di Baudelaire dalle strettoie di indirizzi critici che ne fraintendevano a suo giudizio l’essenza, Croce registra comunque in alcune parti della lirica baudelairiana una certa propensione intellettualistica, propria del prosatore, e talvolta una sovrabbondanza di sensualismo, che inficiano la purezza della sua poesia, altrove grandiosa. Croce fornisce anche un implicito elenco dei componimenti in cui «la forza dell’arte di Baudelaire (…) è veramente forte»: Don Juan aux Enfers, Les petites vieilles, Le vin des chiffonniers, Les sept vieillards, Les phares, Madrigal triste, Examen de la nuit, Amour du mensonge, Hymne à la Beauté, La servant au grand cœur, Parfum exotique, Idéal, Rêve d’un curieux. Alla lista del ’19 vanno aggiunti Le balcon, Le jet d’eau, Je n’ai pas oublié, voisine de la ville, e le «pièces condamnées» commentate nel primo saggio del ’38: À celle qui est trop gaie, Femmes damnées e Lesbos. Su altri, come Élevation, Le flambeau vivant, Le cygne e Harmonie du soir, si sofferma invece per stigmatizzare il «modo debole o sbagliato (di) certi passaggi e certi finali»13.

La prima immagine che Croce consegna del suo Baudelaire poeta è, seppur non sia esplicitato, quella del flâneur14. Di colui cioè che vaga nella sua moderna giungla metropolitana e, per attitudine o protesta, viaggia in direzione contraria al flusso ordinato della massa. Questa posizione gli consente di inquadrare volti che altrimenti il cammino unidirezionale della fiduciosa borghesia progressista, che procede in senso lineare verso la propria destinazione e apoteosi storica, nemmeno renderebbe visibili. Sono quei “fiori” appunto nati dal “male”, piccole infiorescenze malsane di vite in disuso. Da uno di questi rifugi cittadini, da un angolo, da un’ombra, nascosto sotto un lampione, al poeta-flâneur capita – perché è assolutamente indispensabile che egli non vada a cercare intenzionalmente la sua esperienza – di assistere all’imperiale marcia barcollante di uno straccivendolo ubriaco che, a causa (o per colpa?) dell’ebbrezza del vino e del sogno di cui è responsabile solo Dio, vagheggia progetti di riscatto personali: «Pronuncia giuramenti, detta leggi sublimi, | solleva i giusti, atterra i prepotenti, | e sotto il baldacchino delle stelle | s’inebria allo splendore della propria virtù»15. E dietro al suo grido di battaglia si risollevano tutti i «canuti camerati» per darsi appuntamento con lui sulle barricate della redenzione. Il critico, com’è suo ufficio, affiancando cioè il poeta nella sua visione e a suo modo ricreandola, annota:

Ma quale rappresentazione quella del vecchio cenciaiuolo, che, barcollando ubbriaco per le vie, sogna e gestisce il sogno eroico e generoso dell’umanità; e come sembra esprimere tutt’insieme che il sublime è nell’uomo, ma che l’uomo non lo ritrova se non solo al fondo della sua abiezione e imbestialimento! Slancio e ironia, fusi perfettamente: irragionevolezza: poesia16.

La pietas umana, che si fa poi slancio poetico per questa umanità in stato di dismissione, trova un’altra intensa «pittura collettiva», che dipinge appunto «con tocchi stupendi di grottesco e di pietà» Le piccole vecchie17. Il poeta non è estraneo alla condizione di infecondità e di isterilimento, tipica delle vecchie e delle lesbiche, «ruderi» che perciò vengono solennemente chiamati «mia famiglia»18. Nulla più della vecchiaia può meglio definire l’essenza di un’esistenza in putrescenza. Eppure proprio queste “vecchiette”, «creature decrepite, curiose, affascinanti», «vacillanti fantasmi», «fragili creature», «Eve ottuagenarie», per le quali si preparano tombe piccole come quelle di bambine, «sono anime ancora» e perciò vanno “amate”19:

E così ve ne andate, stoiche e senza lamenti,
attraverso l’inferno della città che vive,
madri dal cuore piagato, cortigiane o sante
il cui nome correva un tempo su ogni bocca.

Voi che foste la grazia, voi che foste la gloria,
nessuno vi ravvisa! (…)
Vergognose d’esistere, ombre paurose20.

Tra le figure dell’umanità invisibile e reietta, alla quale Baudelaire si sentiva di appartenere per elezione o per bisogno di “auto-punizione”, un posto di primo ordine spetta non tanto alle “puttane” quanto alla «femmina, regina dei peccati», «vile animale», «sublime infamia, altezza verminosa» e di cui pur c’è bisogno «perché un genio abbia vita»21. Per Baudelaire la “femmina” altro non è se non natura: cruda, autentica natura, al punto da gridare in uno degli slanci d’odio del Mio cuore messo a nudo che «La donna non sa separare l’anima dal corpo. È semplicista come gli animali. – Un satirico direbbe che è così perché non ha che corpo»22. A quanti gli chiedevano una “poesia naturale”, una poesia che per lui suonava pressappoco come un elogio dei vegetali, egli a suo modo offriva la sua variante: una poesia sulla terribile femmina-natura, segnata dal “peccato originale”, da una “colpa” mai espiabile. Un’idea che sostiene anche le riflessioni teoriche e che segna ulteriormente la sua distanza dall’attitudine romantica e post-romantica del tempo. Abbandonata l’illusione che l’eros, specie se sublimato, porga al poeta la mano nel suo mistico itinerario di elevazione spirituale, non rimane che rassegnarsi alla sua nuda e naturale verità, all’amore cioè come «delitto in cui non si può fare a meno di un complice»23.

Nella prima delle “pièces condamnées”, À celle qui est trop gaie, Croce nota un movimento interno tipico della poesia baudelairiana: la visione della «sana e gaia bellezza» della donna riappacifica il poeta con la «bella natura». Poi, improvviso come un colpo di vento, l’«impeto di distruzione» che si tramuta nel desiderio sadico di “punire” entrambe perché portatrici di «una vita dalla quale [egli] è escluso»24. Straziato il petto dal sole, con il cuore «umiliato» dalla primavera, avverte allora prima l’impulso di profanare la natura: «ho punito in un fiore l’insolenza | della Natura». E immagina infine di punire “colei che è troppo gaia” per la sua gaiezza: «vorrei (…) castigarti (…) straziarti (…) aprire una profonda, una larga ferita» e «infonderti (…) il mio veleno»25. L’infusione finale del proprio “veleno” è la contaminazione dell’invereconda salute della natura con la malattia spirituale di cui l’uomo è portatore: spleen, malinconia. Nella finale «scena di furore belluino» Croce registra il passaggio dalla «vaghezza poetica» alla «confessione psicologica, o piuttosto pseudoconfessione, calunniatrice di sé» (e fa i nomi dei cospiratori: Rousseau e Sade)26. Può servire a chiarire questo passaggio un passo della Poesia, dove si ribadisce che «la poesia ha per unico fine sé stessa» e che «bisogna stare guardinghi» verso i giudizi dei «creatori» perché qualche volta essi «si divertono a calunniarsi e a non lasciarsi scorgere nelle loro vere sembianze, come adoprò il Baudelaire, con la conseguenza di aggiungere ostacoli al riconoscimento che pur gli spetta come uno dei più forti poeti dell’ottocento»27.

È vero tuttavia che all’acme della massima calunnia e della massima profanazione Baudelaire sembra riconciliarsi con l’idea primigenia di natura delittuosa – da cui avevano preteso di distoglierlo le belle sembianze della donna – e che è in fondo la sua stessa natura: dissacrando un fiore e sognando di profanare l’interezza di un bel corpo femminile, il poeta non fa altro che realizzare il compito di essere “punitore di se stesso”. E ritorna così, castigatore-castigato, nelle braccia dell’autentica natura.

Un caso paradigmatico dell’equilibrio perfetto di forma e contenuto, di classicità e romanticismo, e quindi del «Baudelaire poeta», è documentato da due componimenti sull’amore saffico, Femme damnées e Lesbos. Qui l’attenzione va concentrata non tanto sul poeta osservatore, contemplatore di “casi patologici”, «artista del morboso e del ripugnante», al suo complice e duplice interessamento di malato e «moralista»: la morale, non meno del sensualismo patologico o del voyeurismo, è per Croce incompatibile con l’arte. Ciò che è grandioso è invece la sua “retorica”, «“rhétorique” (…) splendida», dispensatrice di «splendore d’immagini e bellezza». Al punto da indurre Sainte-Beuve – l’ideatore della “folie Baudelaire” – a chiedere, a proposito di Lesbo, «“pourquoi (…) cette pièce n’est-elle pas en latin ou plutôt en grec”», perché appunto non fosse stata scritta in latino o in greco28.

Il commento al Don Juan aux Enfers nasce invece dalla reazione alle «dodici grandi e fitte pagine» di Henry David, autore di un saggio del 1937 sul componimento baudelairiano, ed è paradigmatico del metodo critico adoperato da Croce29. Reagendo all’eccesso di filologia – a quello che lui chiama «filologismo» –, enumerando tutte le faticose conquiste di questo genere di esercitazione – sterile se rimane a livello di «appunti incoerenti» –, alla fine sbuffa («Uff!») quando lo studioso conclude la sua dotta dissertazione sulle fonti del Don Giovanni e dell’inferno di Baudelaire annotando che la poesia resta un «énigme (…) en dépit des éclaircissements que cette étude apporte»30. Il problema è, secondo Croce, non comprendere perché Baudelaire abbia sostituito l’oltretomba pagano con quello cristiano, ma intendere invece che qui si tratta di «un oltretomba affatto poetico»31: che dunque le ragioni della poesia non possono essere esaurite dallo zelo dei commenti o dall’enumerazione dei precedenti. Conclude Croce:

La genesi del Don Juan aux Enfers [è] in uno degli aspetti o momenti della disposizione del Baudelaire verso la vita, nella sfiducia e nell’ironia per quel che gli uomini considerano bene e virtù e dovere e purità, e correlativamente vizio, male, passione e impurità: contrasto superato da lui in una concezione non già religiosa ma naturalistica dell’universo, o in una concezione religiosa bensì, ma satanica. Il don Giovanni della leggenda gli si presentò spontanea forma di questo stato d’animo. Ad accogliere in sé quel satanismo e a rappresentarlo, era necessario tale che, a modo suo, fosse un “eroe”32.

Le ragioni della poesia sono inintelligibili al di fuori della stessa poesia.

Baudelaire teorico dell’arte

Il Baudelaire di Croce non è stato soltanto poeta. Innanzitutto perché non lo è stato nemmeno il Baudelaire storico, benché egli si imponesse il dovere – in fondo non troppo sgradito al filosofo – di essere «sempre poeta, anche in prosa»33. Una parte cospicua dell’apprezzamento crociano riguarda le riflessioni che Baudelaire ha dedicato all’arte e che gli fanno meritare una menzione speciale nel panorama per molti versi desolante dell’estetica contemporanea. Nell’Avvertenza all’edizione dell’Estetica del 1921, che accompagna la quinta edizione del trattato, Croce ricorda il giudizio tagliente di Antonio Labriola, che aveva seguito e incoraggiato i primi passi dell’estetica crociana, ma non aveva lesinato di esprimere le sue perplessità. Di fronte alla parte storica, in cui il filosofo aveva liquidato secoli di storia dell’estetica, dall’antichità ai suoi giorni, Labriola aveva esclamato che quello non era un libro ma un «“camposanto”»34. In mezzo al cimitero delle riflessioni estetiche contemporanee degli ultimi capitoli della sua “storia”, a partire dalla terza edizione del 1908, che apporta modifiche sostanziali alle prime edizioni del 1902 e del 190435, Croce aggiunge una nota rilevante: «Dell’arte scrissero con profondità, e forse meglio di tutti i professionali filosofi e critici del loro paese, Carlo Baudelaire in articoli e pagine sparse, e Gustavo Flaubert, nelle sue lettere»36. E, a proposito del primo, cita in nota la sua Art romantique. Dinanzi, insomma, alla sterilità di dispute sulla preminenza della forma o del contenuto, di uno o più generi e classificazioni, o sulla necessità del “ritorno a…”, Croce apprezza la vitalità di ragionamenti che, pur non componendo propriamente un’estetica vera e propria, o meglio una filosofia dell’arte, elaborano però una “teoria dell’arte” che nasce dalla carne viva dell’attività artistica. I nomi di Baudelaire e Flaubert sono già venuti fuori. A loro vanno aggiunti Tolstoj, Nietzsche – che per Croce è artista più che filosofo – o i critici Hanslick e Fiedler, che rientrano nel novero dei «pensatori più notevoli (…) nel campo estetico», pur costruendo «teorie di arti particolari. E poiché (…) leggi e teorie filosofiche di arti particolari non sono concepibili, le idee presentate da quei pensatori dovevano essere (come infatti sono) nient’altro che conclusioni generali di Estetica»37.

La riconferma di questo giudizio, arricchito di altri nomi, arriva anche anni più tardi, nella conclusione dell’Aesthetica in nuce del ’29:

Quel che di meglio si pensò sull’arte in questo tempo, è da cercare non nei filosofi ed estetici di professione, ma nei critici di poesia e d’arte, come in Italia nel De Sanctis, in Francia nel Baudelaire e nel Flaubert, in Inghilterra nel Pater, in Germania nello Hanslick e nel Fiedler, nell’Olanda in Julius Lange, e simili. Essi solo veramente consolano delle trivialità estetiche dei filosofi positivistici e della faticosa vacuità dei cosiddetti idealisti38.

Una postilla alla “critica e storia” estetica della Poesia così si conclude:

mi preme aggiungere quello che ho già più volte avuto occasione di dire: che in Francia i veri teorici dell’arte non s’incontrano tra i professori di filosofia e i trattatisti, quasi tutti mediocrissimi, ma tra i grandi artisti: Flaubert, Baudelaire, Becque, i quali per l’appunto dettero aperti segni d’insofferenza contro le melensaggini degli «universitaires qui se mêlent de l’art»39.

La pagina che con maggiore complessità scende nel particolare contributo baudelairiano all’estetica moderna – e la ragione del suo continuo avvicinamento a Flaubert – si legge in Poesia e non poesia: «Dell’arte, pochi, non solo tra i letterati francesi, ma anche tra i filosofi di professione, ragionarono con pari profondità di lui», ribadisce ancora una volta Croce, approfondendo qui l’opposizione di Baudelaire alla «poesia filosofica» e all’idea connessa, comune a Flaubert, della «“grande poesia [che] è essenzialmente bête: crede, e in ciò è la sua gloria e la sua forza”».

La poesia filosofica, invece, ritornava alla imagerie, consueta nell’infanzia dei popoli, in un tempo in cui essa non poteva gareggiare di evidenza con un articolo dell’Enciclopedia; e perciò era inutile. E non solo inutile, ma dannosa, introducendo artificialmente il filosofare nell’arte, la quale ha una sua propria filosofia implicita e spontanea, perché il poeta è «sovranamente intelligente» e la fantasia è «la più scientifica delle facoltà, comprendendo essa sola l’analogia universale, e quel che una religione mistica chiama corrispondenza». Al pari del Flaubert sentiva l’inartistico della passione, tiranneggiante l’arte; perché «il principio della poesia è strettamente e semplicemente l’aspirazione umana verso una bellezza superiore, e si manifesta con un entusiasmo, un trasporto dell’anima, affatto indipendente dalla passione che è l’ebbrezza del cuore, e della verità, che è il pabulo della ragione. La passione è cosa naturale, troppo naturale, sì da introdurre un tono che offende e discorda nel dominio della pura bellezza; troppo familiare e troppo violenta, sì da recare scandalo ai puri Desiderî, alle graziose Malinconie e alle nobili Disperanze, che abitano le regioni soprannaturali della poesia»40.

E ancora continua l’enumerazione dei meriti estetici di Baudelaire:

Abbondano nelle sue pagine osservazioni acute, come quella sui veri disegnatori che «disegnano sempre secondo l’immagine scritta nel loro cervello e non mai secondo natura»; o sul bisogno di allargare la storia dell’arte col comprendervi tutte le forme infinite della bellezza universale, che il Winckelmann escludeva, e con l’attenersi, in mancanza di un sistema soddisfacente, alla impeccable naïveté; o sulla storia della moda e degli abbigliamenti; o sulla buona barbarie artistica, che è quella «inevitabile, sintetica, fanciullesca, che si scorge sovente anche nell’arte perfetta, e nasce dal bisogno di vedere cose in grande, e considerarle soprattutto nel loro effetto complessivo». Anch’egli notava la poca disposizione dello spirito francese alla poesia schietta, perché «la Francia è stata provvidenzialmente creata per la ricerca del vero più che per quella del bello», e nei tempi moderni la mente francese ha preso «un carattere utopico, comunistico, alchimistico, che si diletta esclusivamente di formole sociali». Della letteratura francese del suo secolo non gli piacevano se non Chateaubriand, Balzac, Stendhal, Mérimée, De Vigny, Flaubert, e gli amici coi quali aveva comuni ideali, il Gautier, il Banville, il Leconte de Lisle41.

La poesia del ’36 contiene altre note importanti che fanno luce su alcune specifiche questioni di estetica. La prima, benché riconosciuta da Croce come “non ben fondata”, riguarda le “parti strutturali” della poesia e in particolare la brevità dei componimenti. Nell’introduzione alle Nouvelles histoires extraordinaires, da lui tradotte, Baudelaire rinforza la condanna di Poe della «“lunga poesia”» come «“contraddizione in termini”», esplicitandola come condanna della poesia epica che «sacrifie la condition vitale de toute œuvre d’art, l’Unité»42. Questa unità come “condizione vitale” dell’opera d’arte non è tuttavia l’unità esteriore di tempo né la lunghezza o l’estensione del componimento ma, continua Baudelaire, «l’unité dans l’impression, (…) la totalité de l’effet». L’epica, non senza ragioni, meglio esplicitate ad esempio in Benjamin, è considerata forma ormai superata: «Le temps de ces anomalies artistiques est passé»43.

Quello che invece può essere considerato il cuore dell’estetica baudelairiana riguarda la definizione della bellezza. Già nel primo saggio risalente al 1919 Croce era stato colpito da una descrizione che si legge in Razzi. Qui Baudelaire scrive:

Ho trovato la definizione del Bello, – del mio Bello. È qualcosa di ardente e di triste, qualcosa di un po’ vago, che lascia corso alla congettura. Applicherò, se si vuole, le mie idee a un oggetto sensibile, all’oggetto, per esempio, più interessante in società, a un volto di donna. Una testa seducente e bella, una testa di donna, voglio dire, è una testa che permette di fantasticare, – ma in modo confuso, – a un tempo di voluttà e di tristezza; che implica un’idea di malinconia, di spossatezza, persino di sazietà: ma anche un’idea contraria, vale a dire un ardore, una voglia di vivere, associate a un’amarezza rifluente, come provenisse da mancanza o disperazione. Il mistero, il rimpianto sono anch’essi caratteri del Bello.

Una bella testa d’uomo non ha bisogno, eccetto forse agli occhi di una donna, – agli occhi di un uomo si capisce – di implicare in sé questa idea di voluttà che in un volto femminile è una provocazione tanto più attraente quanto in genere il volto è più malinconico. Ma questa testa avrà in sé anche qualcosa di ardente e di triste, – bisogni spirituali, ambizioni tenebrosamente represse, – l’idea di una potenza crucciata e senza impiego, – a volte l’idea di una insensibilità vendicatrice (perché il tipo ideale del Dandy non è da trascurare a questo riguardo), – a volte anche, ed è uno dei caratteri più interessanti della bellezza, il mistero, e infine, (purché io abbia il coraggio di confessare fino a che punto mi sento moderno in estetica), l’Infelicità. – Io non pretendo che la Gioia non possa associarsi alla Bellezza, ma dico che la Gioia ne costituisce uno degli ornamenti più volgari: – mentre la malinconia ne è per così dire l’illustre compagna, al punto che io non concepisco per niente (il mio cervello sarebbe uno specchio stregato?) un tipo di Bellezza in cui non ci sia dell’Infelicità. – Sorretto, altri direbbero: ossessionato da – queste idee, si comprende che mi sarebbe difficile non concluderne che il più perfetto tipo di bellezza virile è Satana, – alla maniera di Milton44.

Già nella prima dedica, che dovette poi rimaneggiare su indicazione dello stesso Gautier, Baudelaire presentava le Fleurs come «miserabile enciclopedia della malinconia e del delitto»45. Qui tuttavia si tratta di una definizione di bello artistico, per quanto personale (“il mio Bello”), su cui si incardina un’intera teoria dell’arte. Quantunque sottolinei il «modo (…) travagliato e confuso» del passo, Croce, nella postilla alla Poesia intitolata proprio Malinconia, ne riconosce il «forte sapore di verità» e pone la definizione baudelairiana accanto a giudizi non dissimili che si possono leggere in Poe e Platen prevedibilmente, e meno in Carducci o perfino in Virgilio46. Nella nuova “estetica” del ’36, dopo aver discorso di “espressione poetica”, Croce così chiude:

A rendere l’impressione che la poesia lascia di sé nelle anime, è affiorata spontanea sulle labbra la parola «malinconia»; e, veramente, la conciliazione dei contrari, nel cui combattersi solamente palpita la vita, lo svanire delle passioni che insieme col dolore apportano non so qual voluttuoso tepore, il distacco dalla terrestre aiuola che ci fa feroci, ma è nondimeno l’aiuola dove noi godiamo, soffriamo e sogniamo, questo innalzarsi della poesia al cielo è insieme guardarsi indietro che, senza rimpiangere, ha pur del rimpianto. La poesia è stata messa accanto all’amore quasi sorella e con l’amore congiunta e fusa in un’unica creatura, che tiene dell’uno e dell’altra. Ma la poesia è piuttosto il tramonto dell’amore, se la realtà tutta si consuma in passione d’amore: il tramonto dell’amore nell’euthanasia del ricordo. Un velo di mestizia par che avvolga la Bellezza, e non è velo, ma il volto stesso della Bellezza47.

Il bello non è più, come voleva Stendhal, e come dietro di lui dice Baudelaire, «promessa di felicità» ma memoria della felicità già dileguata48. Il volto della Bellezza è un viso malinconico, la posa nostalgica delle incisioni di Dürer, l’attitudine saturnina del “genio”, la tristezza della poesia che giace, come in un disegno di Delacroix, accanto a un letto disfatto e vuoto a rammentare quel che fu49. Il principio estetico crociano dell’arte come trasfigurazione della passione non è la trionfalistica asserzione che la poesia vince sul sentimento che l’ha generata. È piuttosto radiografia di un “tramonto”, quindi mesta contemplazione di una “vita anteriore”. Passata, trascorsa.

Baudelaire critico della modernità

«In Francia mi annoio, soprattutto perché tutti somigliano a Voltaire»50. La storia della critica baudelairiana alla modernità può partire da qui, da questa nota che stringe insieme la “noia”, gli umori e i miasmi a essa collegati della Parigi del secondo Ottocento, e il capostipite dei responsabili della condizione socio-politica della Francia del tempo: Voltaire e le Lumières, e dopo di loro gli idolatri della bontà e perfettibilità del genere umano. «Nella numerosa enumerazione dei diritti dell’uomo che la saggezza del secolo XIX ricomincia così spesso e con tanta soddisfazione, due piuttosto importanti sono stati dimenticati, che sono il diritto di contraddirsi e il diritto di andarsene»51.

Le componenti di questa polemica antimoderna, che talvolta sembrano condurre il suo autore fino a uno violento misoneismo, sono da un lato l’anti-illuminismo, e dall’altro l’anti-romanticismo e la congiunta critica all’«ideologia liberale». Poiché, se egli da un lato rifiuta la «dottrina della bontà naturale e della perfettibilità umana o del cosiddetto “progresso”», da lui notoriamente definito «fanale oscuro», eredità del diciottesimo secolo ancora agente nel diciannovesimo, dall’altro oltrepassa «la religione dell’amore» dei romantici come «concezione etica», e di entrambi, illuminismo e romanticismo, critica il relativo «culto della natura». Questi sono a giudizio di Croce gli ingredienti della critica baudelairiana alla “stoltezza moderna”52.

Rideva dei liberi pensatori, degli umanitarî che volevano abolire la pena di morte e l’inferno per amicizia verso il genere umano, o la guerra col mezzo di una sottoscrizione popolare di un soldo a testa; dei fanatici, che erano persuasi che l’industria e le macchine avrebbero un giorno «mangiato il diavolo»; di tutto ciò, insomma, che egli chiamava la «sottise» moderna. Contro la quale rialzava la dottrina del «peccato originale», e faceva valere l’evidenza dell’osservazione quotidiana, che l’uomo «è sempre nello stato selvaggio». Il «progresso» gli sembrava una credenza di santo comodo e pigrizia, propria dell’individuo che conta sui vicini per il lavoro che tocca a lui (…). La politica era, a suo avviso, e doveva essere, una «scienza senza cuore», e il vero politico riunire sempre le qualità del «rivoluzionario» e del «gesuita»53.

L’ampliamento della teoria del “peccato originale”, ovvero della “colpa”, che Baudelaire estende dagli uomini alla natura, lo porta di conseguenza a notevole distanza dalla celebrazione ingenua dei «“legumi santificati”», e ciò in poesia e in generale nella visione del mondo moderno. Una visione che è chiaramente “disincantata”, libera e orfana degli incanti dei miti, sia naturali sia religiosi. La presenza di Dio nelle pagine baudelairiane è, infatti, per Croce null’altro che «una figura poetica» – non dissimile dalla natura ridotta a «foresta di simboli» – e qualche volta «un modo di suggestione tentata sopra sé stesso, o, tutt’al più, l’accenno di un bisogno che egli provava: il bisogno di pregare e confidare»54.

Critica, dunque, la sua, affatto negativa; che da una parte gli toglieva di riposare nella ideologia comune, volgare o borghese che si voglia dire, nella fede laica della fratellanza umana e del progresso, coi congiunti doveri che essa comanda; e, dall’altra, strappava ogni velo alle illusioni che irideggiano la cupidità sensuale ed erotica; ma non surrogava nulla alla fede distrutta e nulla contrapponeva alla sensualità irruente e turbolenta. Anzi, questa restava pur tuttavia unica ragion di vita, con la sola differenza che non era più, come in altri, una malvagità inconsapevole, e, conoscendo sé stessa, disprezzando sé stessa, era meno bassa e più virile, «più prossima (come egli diceva non del tutto a torto) alla guarigione»55.

La distanza che opportunamente Baudelaire mantiene dai fanatismi del razionalismo e del sensualismo mette capo non soltanto a una “critica” ma anche a una “teoria della modernità” – come ha notato in modo particolare Benjamin, assegnando al poeta la funzione di guida nei meandri storico-metropolitani del XIX secolo. L’aspetto più rilevante ai fini dell’inquadramento di questa “teoria” nel pensiero crociano riguarda l’assoluta estraneità di Baudelaire a quel fenomeno estetico, ma soprattutto etico, che nelle pagine di Croce è spesso chiamato “decandentismo” e che, anche allo scopo di evitare appiattimenti sul solo movimento letterario, sarebbe più opportuno definire “cultura della decadenza”. Baudelaire non è l’«Empire à la fin de la décadence», nel modo in cui Verlaine definiva se stesso; eppure è, come ha scritto una volta Gianfranco Contini a proposito di Croce, “castigatore” e “tributario” di questa cultura. A tal proposito è interessante esaminare gli scritti in cui meglio si disegna la polemica crociana contro questo clima intellettuale, che è, si ribadisce, una polemica culturale ed etico-politica, prima ancora che estetica.

La decadenza è per Croce una vera e propria “malattia spirituale”. Le pagine che il filosofo dedica all’idea di romanticismo nella Storia d’Europa sono in tal senso paradigmatiche e si inscrivono nel quadro della diagnosi della storia europea elaborata nei primi anni Trenta. C’è da dire che il volume della cosiddetta “storiografia etico-politica” precedente la Storia d’Europa era stato la Storia dell’età barocca in Italia, uscito nel ’29, libro nel quale, riprendendo i suoi lunghi studi sul Seicento, Croce era tornato anche su una categoria storiografica da lui già molto discussa, appunto quella di “decadenza”. Tra tutte le “storie” di Croce si può dire, con qualche licenza, che quella del barocco è la sua unica “storia di una decadenza”. Perché tuttavia l’analisi della decadenza, ammessa storiograficamente da Croce nella sua variante relativa e mai assoluta, non si tramuti in una “storia negativa”, le prime parole dedicate al romanticismo europeo del diciannovesimo secolo aprono una nota e ideale distinzione tra un «romanticismo (…) teoretico e speculativo» e un «romanticismo in campo pratico, sentimentale e morale», più avanti stigmatizzato come «malattia morale» e autentico «“male del secolo”»56. Il primo, malgrado alcuni impeti irrazionalistici ed errori concettuali (come le filosofie della storia e della natura), reagisce all’accademismo e all’intellettualismo della stagione illuministica e tiene a battesimo l’estetica, riconosce diritto all’esistenza della «spontaneità», della «passione», dell’«individualità» in ambito etico e storico e perciò «risplende di verità» e non può essere «mai abbassato ad infermità, a debolezza e a insania». Il secondo, invece, «ha preso subito questo sembiante morboso (…) e si è sempre avvertita la necessità di medicarlo e procurarne la guarigione»57. L’inquietudine che attraversa la “malattia morale” qui delineata risulta inefficace dal punto di vista pratico e civile perché incapace di collocare una nuova fede sul seggio lasciato vacante dalle religioni tradizionali. Si vagheggiano allora non rivoluzioni ma restaurazioni, cioè antistorici ritorni alla natura e alla semplicità del vivere, «alla trascendenza religiosa» nelle forme del cattolicesimo, del paganesimo, del panteismo, del magismo e del misticismo orientale; in quelli meno «metafisicamente o sacerdotalmente disposti» e «più eroticamente intonati» prende forma la già condannata «religione romantica dell’amore» che tenta di affidare all’eros sensualizzato e a fragili creature femminili virtù salvifiche e divine58. La forma più insidiosa di questi vagheggiati recuperi del passato è per Croce la «“politica romantica”», che si manifesta come «religione del medioevo» prima, e poi via via come «religione della stirpe e della gente»59. E qui si giunge a un punto d’arrivo che congiunge la storia europea dell’Ottocento al presente, verso il quale si indirizzano tutte le preoccupazioni del filosofo e nel quale trova senso la genesi dell’Europa libera qui descritta nelle sue anime o, meglio, come dice il realista Croce, «forze». La «perversione» romantica e le sue conseguenze soprattutto in ambito etico-politico, costituiscono

un pericolo che, nella sua essenzialità morale, è di tutti i tempi, ma che nella società moderna prende particolare consistenza e, con la grandezza e complessità di essa, si dilata, e, col crescere dei suoi contrasti, e col diminuire della loro nobiltà, acquista più maligna natura. Più tardi, infatti, si allargò nell’arte, nel pensiero, negli affetti, nei costumi, nella politica nazionale e internazionale; e, fatto più evidente e mostruoso, ricevette, e sovente se ne fregiò, il nome di «decadentismo», che non è poi altro che il vecchio romanticismo morale, esasperato e imbruttito, e di quello ripete i motivi fondamentali applicandoli a materia meno degna e tenendo maniere meno elette60.

Il “decadentismo” è per Croce molto più che genericamente un movimento artistico e letterario: è espressione di una “cultura”, incardinata sull’acritica celebrazione della decadenza dei tempi moderni per la quale cerca vie di fuga dal presente e dal moderno non nell’azione e nella progettualità del futuro quanto nella «nostalgia restauratrice»61 del passato. È estrema propaggine di una predisposizione dell’anima europea, perciò ritornante, e rientra con ogni diritto nell’insieme dei fenomeni post-romantici di ordine pratico-politico dei primi decenni del Novecento. In questo contesto è da inscriversi anche il giudizio crociano sullo “storicismo decadentistico”, come forma di “romanticismo pratico” applicato alla storia. Nel saggio dei primi anni Quaranta, confluito poi nei Discorsi di varia filosofia che confermano la diagnosi già «delineata della cultura e della civiltà dell’Occidente nella Storia d’Europa nel secolo decimonono»62, Croce si accanisce in modo particolare su Proust, considerato erede della «misostorica tradizione cartesiana e francese»63. Il punto dirimente riguarda tuttavia non tanto il valore letterario dell’opera quanto l’idea di temporalità storica che soggiace alla Recherche. La riattivazione proustiana della storia, più che far leva su «un bisogno morale», e dunque su una precisa “intenzionalità” pratica dello storico – principio sostenuto invece da Croce sia in Teoria e storia della storiografia sia nella Storia come pensiero e come azione – si fonda sull’“involontarietà della memoria” che sfugge al controllo dello storico e si abbandona interamente a «un sentimento di commisto piacere e dolore, che risveglia una sequela d’immagini conformi»64. Le “obbligazioni contratte in una vita anteriore” mortificano il dramma della libertà dell’uomo che lotta per la propria autocreazione e finisce invece schiavo di «servitù (…) oppressione (…) accasciamento»65. Lo “storicismo decadentistico”, ovvero l’antistoricismo66 sottostante la “cultura della decadenza” qui delineata, trasforma l’«alta matrona com’è la storia, educatrice con la severità del pensiero alla severità dell’azione» in «una sorta di donnetta impudica, procuratrice di rare e squisite commozioni ai nervi ammalati»67. Ha, per chiudere, una colpa non emendabile: la resa “patologica” dell’arte che «non è malattia perché sanità, e non è decadenza perché è ragione di vita e di maggiore umanità»68.

Nell’ottobre del 1933 Croce tiene a Oxford un noto discorso sulla “difesa della poesia”, traendo ispirazione dalla Defence of Poetry di Shelley, ma ampliando la discussione, sino a fornire nell’insieme il suo contributo alle proposte, avanzate dal Settecento in poi, da Schiller in particolare, in merito all’“educazione estetica dell’umanità”. Può la poesia essere «apportatrice di salute» di fronte alla «rozzezza» e alla «barbarie» del presente? In «una società così tecnicamente perfezionata e così rozza spiritualmente», può la poesia “curare” il disagio dei tempi storici che degenerano in catastrofe?69 Non è un caso che nel testo ricorrano numerose metafore cliniche, che, come già testimoniato dalla Storia d’Europa, amplificano l’apprensione di Croce per l’attualità, nella convinzione che una “malattia spirituale” avvinca il tempo storico e lo marchi di “decadenza”. Il filosofo non propone soluzioni intellettualistiche e dunque un’“estetizzazione” di questa diagnosi, come fanno a suo dire i “decadenti”: egli sa che l’educazione è sempre un processo che coinvolge l’uomo nella sua integralità, e dunque la poesia non sarà la risposta a problemi di natura etico-politica che essa non ha generato e che pertanto non può guarire. Nemmeno occhieggia alla soluzione in chiave mistica e a lui contemporanea del “pensiero poetante”. Riconosce però, anticipando la nota distinzione che si legge poi nella Poesia tra la “poesia come opera di verità” e la “letteratura come opera di civiltà”, una funzione civile all’“educazione estetica”, in quanto “sostegno” e “rinvigorimento” delle «forze superiori su quelle inferiori dell’uomo»70.

Si può invocare la poesia

per la rigenerazione e il rinfrescamento e il rinvigorimento spirituale delle umane società, ma sempre secondo l’esser suo, e non già come tale che possa sostituire o generare di per sé le altre forze, capacità e attitudini umane; e, insomma, come una sola delle vie che conducono a quell’unico effetto. Anche altre vie vi conducono: quelle del pensiero e della filosofia e della religione, del sentimento morale e dell’opera politica, e perfino le vie dell’attività che attende alla produzione dei beni economici e che, seriamente esercitata, è portata a risalire all’universale di cui è specificazione e senza di cui le verrebbe meno l’interno vigore, l’entusiasmo e la costanza71.

La poesia autentica per Croce mantiene fermo il suo carattere di “purezza”: esiste cioè un’autonomia del discorso poetico o, come egli scrive, dell’“espressione poetica”, che non può essere inquinata e soverchiata dall’impoetico. Il male diagnosticato ancora una volta da Croce in queste righe è la cosiddetta «nuova poesia (…) “lussurioso-mistica”» che consiste

nell’unire un libidinoso godimento con l’equivoco sentimento che in quella libidine si attinga il misterioso fondo dell’universo e si raggiunga una specie di estasi beatifica. È un’idea della poesia e dell’arte che, per vie riposte, si connette con quel che si dice «decadentismo» e che si manifesta per l’appunto col cancellare la distinzione tra materia e forma, tra sensibile e ideale, tra voluttà e moralità, e col dare alla voluttà l’impronta della moralità, alla sensualità quella dell’idealità, alla materia bruta pregio di forma, e nell’abbondarsi per tal modo a una tregenda nella quale il diavolo tiene le parti di Dio ed è adorato come Dio72.

A questa sorta di Valpurga della poesia, alla generale “cultura della decadenza”, non appartiene il Baudelaire di Croce, che si mantiene, seppur esistenzialmente in bilico, in classico equilibrio tra le nuove ragioni della modernità e le antiche esigenze di forma. Una pagina aneddotica di Roberto Calasso illustra perfettamente questa inspiegabile conciliazione e il significato per molti versi indecifrabile e misterioso della parola “classicità”:

Per Baudelaire, la poesia non era un commando della vita, come talvolta sembrerà implicare Rimbaud. E neppure qualcosa di irrespirabile, innanzitutto per se stessa, come talvolta sembra intimare Mallarmé. Per Baudelaire, la poesia occupava più o meno il posto di sempre, come per Orazio o per Racine. Innovazioni nella forma non lo attraevano. Con lui, forse per l’ultima volta, l’alessandrino fu il medium universale. Un giorno Aleksander Wat mostrò a Miłosz una poesia di Baudelaire accanto a un sonetto del Cinquecento, senza dire chi erano gli autori. «Era difficile indovinare» ricorda Miłosz. Tutto questo non spiega – e rende più difficile spiegare – perché la sua parola fosse un po’ più penetrante delle altre, più pronta ad annidarsi nei cunicoli della memoria, per un puro fatto di sensibilità, a cui si aggiungeva – elemento decisivo – che quella parola proveniva da qualcuno che poteva dire di sé: «Ho passato la vita intera a imparare a costruire frasi»73.

  1. B. Croce, Note sulla poesia italiana e straniera del secolo decimonono. V. Baudelaire, in «La Critica», XVII, 1919, pp. 65-75, poi col titolo Baudelaire, in Id., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Gius. Laterza & figli, 1950, V ed., pp. 246-59; Id., Studi su poesie antiche e moderne: VIII. Intorno a Baudelaire, in «La Critica», XXXVI, 1938, pp. 1-9, poi col titolo Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», in Id., Poesia antica e moderna. Interpretazioni, a cura di G. Inglese, apparati critici a cura di G. Macciocca, Napoli, Bibliopolis, 2009, pp. 382-92; Id., Studi su poesie antiche e moderne. XI. Baudelaire. II. «Don Juan aux Enfers», in «La Critica», XXXVI, 1938, pp. 241-44, poi col titolo «Don Juan aux Enfers», in Id., Poesia antica e moderna, op. cit., pp. 392-97.
  2. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 3 voll., a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2014, in particolare vol. I, cap. XVIII, Psicologismo estetico e altri indirizzi recenti, pp. 479-97; Id., Aesthetica in nuce, in Id., Ultimi saggi, a cura di M. Pontesilli, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 13-48; Id., «Difesa della poesia», ivi, pp. 63-80; Id., La poesia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994; Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1993, pp. 57-75; Id., Discorsi di varia filosofia, 2 voll., a cura di A. Penna (I) e G. Giannini (II), con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2011, in particolare vol. II, Un caso di storicismo decadentistico, pp. 426-33.
  3. B. Croce, Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», op. cit., p. 382.
  4. B. Croce, Baudelaire, op. cit., p. 248.
  5. Ibidem.
  6. B. Croce, Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», op. cit., p. 392.
  7. B. Croce, La poesia, op. cit., pp. 60 e 249 (Poeti impeccabili). Si ricorda che l’appellativo «poète impeccable» fu attribuito, non senza ironia, a Théophile Gautier da Baudelaire nella dedica delle Fleurs du mal.
  8. B. Croce, La poesia, op. cit., pp. 20 e 203.
  9. Ivi, p. 91.
  10. Ivi, p. 281.
  11. Ivi, p. 282.
  12. B. Croce, Baudelaire, op. cit., p. 252.
  13. Ivi, p. 257; B. Croce, Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», op. cit., infra. L’ultima citazione è tratta dalla p. 390.
  14. La dimensione della flânerie come tipica della poesia e della teoria di Baudelaire è uno dei temi dominanti della lettura di Walter Benjamin: rimando in particolare a Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle, Vicenza, Neri Pozza, 2012.
  15. C. Baudelaire, Les Fleurs du mal, CV. Le vin des chiffoniers (1857), vv. 9-12, tr. it. con testo francese a fronte I fiori del male. CV. Il vino degli straccivendoli, in Id., Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, intr. di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1996, pp. 216-19.
  16. B. Croce, Baudelaire, op. cit., p. 257.
  17. Ivi, p. 258.
  18. C. Baudelaire, Les Fleurs du mal, XCI. Les petites vieilles (1859), v. 81, tr. it. in Id., Opere, op. cit., pp. 183-89.
  19. Ivi, vv. 7, 4, 25, 41, 83.
  20. Ivi, vv. 61-66, 69.
  21. C. Baudelaire, Les Fleurs du mal, XXV. Tu mettrais l’univers entire dans ta ruelle (1857), vv. 16-18, tr. it. in Id., Opere, op. cit., pp. 64-65.
  22. C. Baudelaire, Mon cœur mis à nu, XXVII, 49, tr. it. in Id., Opere, op. cit., p. 1434.
  23. Ivi, XXI, 35, p. 1429.
  24. B. Croce, Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», op. cit., p. 384.
  25. C. Baudelaire, Pièces condamnées tirées des Fleurs du mal, V. À celle qui est trop gaie (1857), tr. it. Poesie condannate tratte dai Fiori del male, V. A colei che è troppo gaia, vv. 20, 22, 28-36, in Id., Opere, op. cit., pp. 292-95.
  26. B. Croce, Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», op. cit., p. 386.
  27. B. Croce, La poesia, op. cit., p. 119.
  28. B. Croce, Baudelaire. I. Intorno alle «Pièces condamnées», op. cit., pp. 387-90.
  29. B. Croce, «Don Juan aux Enfers», op. cit., p. 392.
  30. Ivi, pp. 393 e 395.
  31. Ivi, p. 395.
  32. Ivi, p. 397.
  33. C. Baudelaire, Hygiène, III, 90, tr. it. in Id., Opere, op. cit., p. 1409.
  34. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, op. cit., vol. I, pp. 13-14.
  35. Queste due edizioni coprono il secondo volume dell’Edizione Nazionale dell’Estetica sopra citata.
  36. B. Croce, Psicologismo estetico e altri indirizzi recenti, in Id., Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, op. cit., vol. I, p. 487.
  37. Ivi, p. 488.
  38. B. Croce, Aesthetica in nuce, op. cit., p. 46.
  39. B. Croce, La poesia, op. cit., p. 310.
  40. B. Croce, Baudelaire, op. cit., pp. 252-53.
  41. Ivi, p. 254.
  42. B. Croce, La poesia, op. cit., p. 292.
  43. Ivi, p. 293.
  44. C. Baudelaire, Fusées, X, 16, tr. it. in Id., Opere, op. cit., pp. 1395-96.
  45. «So che nelle regioni eteree della vera poesia il Male non esiste, così come non esiste il Bene, e che questa miserabile enciclopedia della malinconia e del delitto può legittimare le reazioni della morale, allo stesso modo che chi bestemmia conferma la religione» (citato in Id., Opere, op. cit., p. 1525).
  46. B. Croce, La poesia, op. cit., p. 212.
  47. Ivi, p. 23.
  48. C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Id., Opere, op. cit., pp. 1272-1319, in particolare p. 1275. Cfr. R. Calasso, La folie Baudelaire, Milano, Adelphi, 2008, pp. 21-22.
  49. Sul richiamo a Delacroix, ivi, pp. 146-47. Sulla storia dell’umore saturnino rimando al classico studio di R. Klibansky, E. Panofsky, F. Sakxl, Saturno e la melanconia, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2002.
  50. C. Baudelaire, Mon cœur mis à nu, XVIII, 29, tr. it. in Id., Opere, op. cit., p. 1427.
  51. Id., Edgar Poe, sa vie et ses œuvres, cit. in R. Calasso, La folie Baudelaire, op. cit., p. 56.
  52. B. Croce, Baudelaire, op. cit., pp. 246-49.
  53. Ivi, pp. 246-47.
  54. Ivi, p. 249.
  55. Ivi, p. 250.
  56. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, op. cit., pp. 57 e 60.
  57. Ivi, p. 59.
  58. Ivi, pp. 62-64.
  59. Ivi, pp. 65-66.
  60. Ivi, pp. 69.
  61. Ivi, pp. 68.
  62. G. Sasso, Nota a B. Croce, Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. II, pp. 573-89, in part. p. 579. Si vedano, dello stesso autore, L’‘estetica’ di Benedetto Croce, in Id., Filosofia e idealismo. I. Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 1994, pp. 217-72, in part. pp. 222-23; Sul concetto crociano di letteratura, ivi, pp. 417-40, in part. pp. 422 e sgg.
  63. B. Croce, Un caso di storicismo decadentistico, in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. II, p. 431.
  64. Ivi, p. 428.
  65. Ivi, pp. 429-30.
  66. Su questo punto occorre riferirsi al testo oxoniense del 1930 Antistoricismo, in B. Croce, Ultimi saggi, op. cit., pp. 233-44.
  67. B. Croce, Un caso di storicismo decadentistico, op. cit., p. 433.
  68. B. Croce, Vita intellettuale-morale e poesia, in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. II, p. 381.
  69. B. Croce, Difesa della poesia, op. cit., pp. 67 e 66.
  70. Ivi, p. 72.
  71. Ivi, p. 78.
  72. Ivi, p. 73.
  73. R. Calasso, La folie Baudelaire, op. cit., p. 285.

(fasc. 13, 25 febbraio 2017)