Parigi non vale una messa?
Il rapporto di Croce con la cultura francese si può far partire da un famoso discorso che il filosofo ha pronunciato al Senato italiano il 24 maggio 1929 contro l’approvazione del Concordato tra il regime fascista e la Chiesa cattolica. In quella circostanza è ricordato il «trito detto che Parigi val bene una messa», notoriamente attribuito all’ugonotto Enrico di Navarra, il quale, soltanto mediante la conversione al cattolicesimo, poté divenire re di Francia con il nome di Enrico IV. A quell’opportunistico precedente, Croce oppone invece una laica provocazione: «accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza […]»[1].
Al di là dello specifico contesto storico e politico in cui il discorso si inserisce, e in cui va ricordato come fattore determinante l’antifascismo crociano, il capovolgimento del “trito detto” aiuta subito a chiarire che il rapporto di Croce con la Francia non è paragonabile al rapporto, mai dismesso neanche negli anni delle due guerre mondiali, tra Croce e la Germania.
La Napoli in cui Croce si era formato era impregnata di cultura tedesca: basti pensare ai nomi di Bertrando Spaventa, esponente del neohegelismo del secondo Ottocento, o di Francesco de Sanctis, da sempre considerato da Croce tra i suoi pochi maestri spirituali, anche per aver dato dell’hegelismo una visione più viva e concreta e per aver avviato per primo un confronto critico con Hegel che Croce avrebbe continuato, a partire dai primi del Novecento e instancabilmente fino alla fine dei suoi giorni[2]. La cultura tedesca entra anche nella riscoperta crociana di Vico, che si distanzia dal recupero idealistico e storicistico tedesco del filosofo e dalle sue dimenticanze: la monografia del 1911, La filosofia di Giambattista Vico, è, ad esempio, dedicata a Wilhelm Windelband, il quale, dopo la “disattenzione” per Vico nella sua Storia della filosofia moderna, fa ammenda, anche a seguito del rilievo che gli era stato mosso da Croce.
Eppure Vico è già un capitolo che si inscrive nel confronto con la Francia, senz’altro perché un altro interprete vichiano, da cui la lettura crociana prende le distanze, è lo storico Jules Michelet: egli avrebbe equivocato il reale contenuto della vichiana “scienza nuova” (che per Croce è prevalentemente l’estetica), dandole per titolo, nella sua riduzione francese, Philosophie de l’histoire, tramutandola cioè in quella “filosofia della storia” di matrice voltairiana e di impianto hegeliano che Croce ha sempre criticato[3].
Ma Vico è un capitolo importante del rapporto tra Croce e la Francia per un’altra più consistente e teoretica ragione. L’oscuro professore napoletano di retorica, sostanzialmente sconosciuto al proprio tempo e per molti versi anticipatore di istanze della filosofia successiva, costituisce una matrice filosofica del tutto alternativa all’altra robusta radice della filosofia europea moderna, che discende da Descartes.
Due vie gnoseologiche si dipartono dunque dalla modernità filosofica dell’Europa: una è quella cartesiana, l’altra è quella vichiana. In sede critica si è talvolta enfatizzato molto su questa alternativa che discende dall’autore della Scienza nuova: in realtà, come dimostrano soprattutto altri scritti minori[4], egli non si pone come un Anti-Cartesio, quanto piuttosto come supplemento storico-umanistico, compensazione necessaria a quell’eccesso di intellettualismo e razionalismo che Vico già riconosce nel suo “Renato Delle Carte” e che Croce approfondirà meglio come tratto specifico della moderna filosofia francese, lungo una linea di continuità che congiunge Descartes alle Lumiéres.
In termini di bilancio è da dire che, per la ragione appena esposta, la “fede nel libro francese” è di gran lunga inferiore alla «fede nel “libro tedesco”» che fu «inculcata» da Silvio Spaventa e «rafforzata» da Antonio Labriola nel giovane e tormentato Croce, bisognoso di rifarsi «in forma razionale una fede sulla vita»[5]. Se non di “fede”, si è comunque trattato di amichevole inimicizia intellettuale, e quindi di un autentico, dialettico e vivace confronto. Ed è quanto qui sarà approfondito: non tanto la presenza di Croce in Francia, nell’ambito della cosiddetta “storia della fortuna”, verso la quale lo stesso filosofo si poneva abbastanza criticamente; nemmeno soltanto l’“assenza” di Croce nella cultura francese contemporanea, denunciata ancora nei primi anni Ottanta da Sergio Romano, e attribuibile non tanto a carenze della cultura filosofica francese ma a effetti di negligenze che provengono direttamente dall’Italia. Parlare della Francia di Croce significa qui discutere del diretto confronto di Croce con autori, eventi e problemi della filosofia e della cultura francese storica e a lui coeva[6].
Une philosophie en langue italienne
Prima di entrare nel dettaglio di questo rapporto, va ricordata, in via di premessa, la scarsa sensibilità di Croce per i processi di “nazionalizzazione” delle culture[7]: nello spirito della Weltliteratur goethiana, la cultura per Croce non ha confini e limiti territoriali, ma è vera cultura soltanto se, al di là della particolarità linguistica in cui si esprime, parla la lingua universale dell’umanità. Questo spiega anche perché Croce si sia occupato di espressioni artistiche per così dire popolari, che prediligono forme dialettali: per fare un esempio, tradusse in italiano Lo Cunto de li Cunti, capolavoro in “lingua” napoletana di Giambattista Basile.
La prospettiva di sovranazionalità o, meglio, di cosmopolitismo culturale va però chiarita in un punto dirimente. Croce non stabilisce limiti nazionali o territoriali alla cultura – il francese Deleuze direbbe che fa opera di “deterritorializzazione”[8]. Eppure è consapevole della formatività linguistica del pensiero, ossia della capacità del pensiero di “formarsi” nel quadro della lingua. Una celebre tesi crociana ha postulato la coincidenza di ogni fatto linguistico con il fatto espressivo, che è estetico: ciò vale per l’artista, per il poeta, non meno che per lo scrittore di prosa, il critico, il filosofo, lo storico, l’economista, il politico. Nello specifico, il nesso che viene stabilito tra pensiero ed espressione comporta, quasi come logica conseguenza per uno scrittore filosofico, l’urgenza di una “resa estetica” chiara e piana, alla cui limpidezza deve arrendersi anche il più complesso costrutto concettuale. Esponendo il pensiero all’espressione, Croce assegna a quest’ultima la funzione di pietra di paragone del primo. Da ciò la dipendenza della logica dall’estetica, che qui può essere solo accennata.
Questo presupposto teorico consente di svolgere qualche considerazione sulla lingua di Croce, su quella dimensione “particolaristica” – l’esprimersi in lingua italiana – che ha reso ineguagliabile la sua prosa. La particolarità della filosofia crociana è, infatti, il suo essere non tanto una “filosofia italiana” quanto una “filosofia in lingua italiana”, con esiti certamente anche estetico-letterari, ma che non sono tuttavia gli unici obiettivi della speculazione filosofica che vi è implicita. L’appartenenza di Croce a quella che si potrebbe chiamare una “filosofia mondiale”, contrapposta a quelle frammentate tradizioni nazionali, è data chiaramente da un passo dell’Avvertenza alla monografia vichiana, là dove Croce parla di un «sentire italianamente la moderna filosofia, pur pensandola cosmopoliticamente»[9].
La strutturale espansione dei confini territoriali è confermata da un ulteriore specifico tratto della filosofia crociana – anch’esso fonte di qualche incomprensione – che “contamina” il filosofico con il non-filosofico, ovverosia “feconda” l’astrattezza di certa filosofia di contenuti reali, più immediatamente esperibili anche nel quotidiano. L’arte come via d’accesso alle questioni filosofiche è l’esempio forse più lampante di questa attitudine: la capacità di riconoscere la bellezza è, dice Croce, “aurora dello spirito”, porta di ingresso alla comprensione delle più complesse questioni di logica, metafisica ed etica. Il passaggio dall’“infanzia” – nel senso letterale di non saper articolare un giudizio di senso – alla “storia”, intesa come capacità di rispondere alle sollecitazioni provenienti dal proprio contesto storico-spirituale, è dato innanzitutto dall’esperienza estetica del mondo, dall’intuire che “qualcosa”, oltre i confini angusti dell’ego, esiste e chiede riconoscimenti appropriati. È questo quel che Vico intendeva quando diceva che i primi umani furono “poeti” e iniziarono a esperire il mondo “cantando”[10].
Il carattere “impuro” – che non significa “spurio” – e per certi versi “pratico” della riflessione crociana (come gli riconosceva Antonio Gramsci) è tipico di tutte le filosofie post-metafisiche e rigorosamente immanentistiche, nelle quali Croce si inscrive di diritto. In difetto di “sistema”, la filosofia cerca di rinnovare la propria identità nell’“altrove” – ad esempio, nella grande poesia che è in grado di descrivere “processi della mente” in maniera molto più intuitiva di quanto lo farebbe un trattato filosofico. Insomma, questa rigorosa “filosofia in lingua italiana” attinge il proprio repertorio in una complessa e ampliata idea di “mondo”, del quale Croce individua un’unica forza motrice: la storia.
Storia di Francia attraverso i suoi “lumi” e le sue rivoluzioni
Croce legge la Francia, dunque. Il richiamo finale alla storia porta a far iniziare questa “lettura” dall’evento fondamentale della storia europea moderna, quello durante il quale i malheureux – direbbe Hannah Arendt, ricordando Saint-Just – si sono riversati nelle strade di Parigi e hanno dato inizio alle rivoluzioni moderne e a un paradigma rivoluzionario risultato “vincente” (rispetto a quello americano) nella storia europea[11].
Sulla Rivoluzione francese il giudizio di Croce, non solo storiografico ma soprattutto etico-politico, è apparentemente senza appello. Esso consiste in una condanna senza riserve non del fermento rivoluzionario – non si spiegherebbe altrimenti l’alto coinvolgimento emotivo e politico per la Rivoluzione napoletana del 1799, che da quella parigina prendeva le mosse e l’ispirazione[12]. La condanna cade invece netta sugli esiti: sul radicalismo giacobino, su quella che Tzvetan Todorov avrebbe chiamato la “tentazione del bene” che può condurre ai peggiori crimini, appunto al Terrore come “terrorismo della virtù”, personificato dalla figura dell’intransigente Robespierre, emblema altresì della rivoluzione che divora i suoi figli[13].
Altrettanto critico è il giudizio crociano sulla Comune del 1871, più attenuato quello sul 1848, decisamente favorevole quello sulla “gloriosa” rivoluzione del luglio 1830, la sola rivoluzione francese che, a suo dire, si sarebbe svolta nell’alveo della legalità, capace dunque di inaugurare un nuovo corso istituzionale: la monarchia dei francesi e non più della Francia[14].
Le simpatie di Croce vanno, in conclusione, non per le rivoluzioni che fanno proprie le rivendicazioni sociali ma per quelle che pongono questioni politiche: la libertà prima tra tutte. Nessun altro distinguo può essere esercitato: il realista Croce, pur manifestando una vicinanza emotiva ai movimenti storici pacifici, assumendo a modello ideale la “rivoluzione cristiana”, che è stata però una “rivoluzione spirituale”, esclude da principio che un discrimine tra le rivoluzioni politiche possa essere la loro natura violenta o non-violenta. Rivolgendo invece l’attenzione alle conseguenze concrete dei fenomeni rivoluzionari, egli arriva a chiamare “rivoluzioni liberali” le autentiche rivoluzioni in quanto battaglie di libertà – la libertà, nelle sue affermazioni storiche, è sempre rivoluzionaria – e a prediligere in particolare quelle che nel corso dell’Ottocento hanno portato a compimento i processi di unificazione nazionale (è questo in particolare il destino delle due “nazioni sorelle”, Italia e Germania)[15].
Poiché la libertà è criterio sufficiente di ogni rivoluzione, la sacra triade francese liberté, égualité, fraternité è da Croce considerata la conseguenza politica, nemmeno troppo felice, dell’intellettualismo filosofico delle Lumiéres che penetra nel movimento storico: questo intellettualismo illuministico è da interpretarsi come una “geometria” della mente violentemente applicata alle “passioni” umane, come uno sforzo sovrumano della ragione di instaurare un regno dell’eguaglianza, che è poco più di una formula aritmetica, che si impone sulla legge fondamentale della vita, la quale è invece “dissimmetria” e “diseguaglianza”.
Esiste per Croce, come già rilevato, una filiazione diretta dell’Illuminismo francese dalla tradizione cartesiana. Perciò, ad esempio, nella Logica può scrivere:
Il secolo decimottavo, matematico, astrattista, intellettualista, raziocinatore, antistorico, illuminista, riformista e in ultimo giacobino, è figlio legittimo di codesta filosofia cartesiana, che scambia la logica della filosofia con la logica della matematica, la ragion ragionante con la ragion raziocinante e calcolante[16].
Queste riserve di natura eminentemente teoretica – che ripetono l’obiezione di tutta la filosofia contemporanea alla cosiddetta “ragione tecnico-strumentale” – non gli impediscono tuttavia, nel famoso discorso oxoniense del 1930, diretto contro le antistoricistiche “storie dell’irrazionale” del suo tempo, di presentare l’Illuminismo come seconda autentica rivoluzione spirituale dell’Occidente dopo il cristianesimo[17].
Nello specchio della Francia
Rousseau è il caso maggiormente illustrativo della discendenza cartesiana della filosofia moderna in lingua francese, in virtù del suo astrattismo giusnaturalistico, del mito di una «natura fuori della storia», che confligge con il realismo crociano di marca machiavelliano-vichiana[18]. Rousseau è però anche il nome da cui far partire il tormentato confronto di Croce con la grande letteratura francese: il filosofo ginevrino è infatti considerato il caposcuola di uno specifico indirizzo che ha tramutato la letteratura in una «grande confessione»[19] e che estende le sue ramificazioni fino alla Recherche di Proust. Verso quest’ultima opera, in un tardo e controverso scritto, Croce arriva a parlare di uno “storicismo decadentistico”, estrema conseguenza di quella «misostorica tradizione cartesiana e francese» che arriva fino a Bergson[20].
Il nome di Henri Bergson si trova spesso associato a quello di Croce nella rinascita spiritualistica di inizio Novecento e per la centrale funzione, svolta nei pensieri di entrambi gli autori, dell’idea di “intuizione”. Intuizione è parola fondamentale dell’estetica e, di conseguenza, della logica crociana – poiché l’Estetica è principalmente una “teoria della conoscenza” – ma si concede a fraintendimenti sui quali Croce è dovuto tornare più volte[21]. Nella conclusione del saggio su Proust, ad esempio, ricorda che soltanto negli anni della Restaurazione si ebbe in Francia «un più serio e profondo concetto della storia» – e credo che i nomi a cui si riferisce Croce siano quelli indicati anche da Sergio Romano: Constant, Royer-Collard e Tocqueville[22]. Prosegue dicendo che, sebbene contenesse «qualche premessa necessaria del pensiero storico», la filosofia bergsoniana
non si è sviluppata in teoria e logica della storia, perché il Bergson, arrestatosi alla sua cosiddetta «intuition», non è mai salito al concetto speculativo e alla sua dialettica, e perché la stessa cultura di lui era, ed è rimasta, di provenienze e di fondo naturalistico, e antistorica o astorica. La filosofia intuizionistica del Bergson, non trattata come fermentum cognitionis, ma accettata dommaticamente conclusa in sé, piacque ai letterati decadenti, tra i quali il Proust […][23].
Questi e consimili giudizi, in primo luogo, devono essere storicizzati e riportati alla diagnosi che, in opere come la Storia d’Europa, Croce ha fatto della “cultura della decadenza”, antistorica per definizione. L’approccio critico si estende all’allora nascente esistenzialismo (comprese le rinascite di Hegel e del cattolicesimo), considerato, seconda una fortunata formula circolante negli studi crociani, più recentemente riabilitata, momento di una “metafisica della crisi”[24]. È sostanzialmente una preoccupazione di ordine etico a portare il Croce degli anni Trenta e oltre a esprimere valutazioni estetiche e storiografiche che la nostra sensibilità fatica a non trovare discutibili. In secondo luogo, questi complessi giudizi meritano di essere confrontati con più sobrie e scientifiche proposizioni, che possono apportare al nostro dialogo interculturale e nobilmente europeo argomenti migliori rispetto alle sterili polemiche cultural-nazionalistiche.
Più volte Croce cita opinioni bergsoniane, come quella del “filosofo che non cerca di dire che una sola cosa”[25], o che “altro è parlare il mondo, altro pensarlo”[26]. Un giudizio importante relativo al filosofo francese si legge però in un libro crociano fondamentale, la già citata Logica, dove, nel capitolo della parte storica dedicato alla Teoria del concetto, Bergson è posto in linea di continuità con alcuni momenti del neokantismo e dell’empirio-criticismo tedeschi e collocato tra
un gruppo di pensatori, variamente denominati filosofi della contingenza, della libertà, dell’intuizione, dell’azione. Il Bergson, che è tra essi il più cospicuo, considera, non diversamente dal Mach, i concetti delle scienze naturali come symboles ed étiquettes; e oltre alle finissime applicazioni che egli ha fatte di questo principio all’analisi del tempo, della durata, dello spazio, del movimento, della libertà, dell’evoluzione, spetta a lui il merito di aver rotto le tradizioni dell’intellettualismo e astrattismo del suo paese, dando per la prima volta alla Francia quella viva coscienza dell’intuizione che sempre le è mancata, e scotendo la fiducia eccessiva che essa ha sempre avuta nelle nette distinzioni, nei concetti ben contornati, nelle classi, nelle formole, nei raziocinî filanti bensì diritto ma scorrenti sulla superficie della realtà[27].
Ma più dei Mach e degli Avenarius, alla ricerca di un’“esperienza pura” o “primitiva” anteriore al pensiero,
con genialità artistica che difetta ai due tedeschi, ma seguendo la stessa loro via, il Bergson ha disegnato una nuova metafisica, che proceda in senso opposto a quella della conoscenza simbolica e dell’esperienza generalizzata e astraente: una metafisica, «qui prétend se passer des symboles», una «science de l’expérience intégrale», la quale sarebbe l’inverso dell’ideale kantiano, della matematica universale, del platonismo dei concetti, e si fonderebbe sull’intuizione, solo organo dell’Assoluto, perché «est relative la connaisance symbolique par concepts préexistants qui va du fixe au mouvant, mais non pas la connaissance intuitive, qui s’installe dans le mouvement et adopte la vie même des choses. Cette intuition atteint l’Absolu». La conclusione è l’estetismo, e talvolta qualcosa di meno ancora dell’estetismo, il misticismo: l’action, sostituita dal concetto[28].
Qui penetriamo tuttavia in una storia non solo filosofica del Novecento su cui l’occhio di Croce si è rivelato lungimirante e critico anzitempo e sulla quale non possiamo attardarci. Ricordando brevemente l’impegno bergsoniano a favore del patriottismo francese durante la Prima guerra mondiale e la contestuale opposizione crociana al conflitto, si profila all’orizzonte un altro confronto francese che vede Croce, pur con qualche distinguo, schierato al fianco di Julien Benda nella sua denuncia della Trahison des clercs, l’inquinamento pratico-politico e il conseguente asservimento della coscienza intellettuale[29].
Oltre all’eccesso di razionalismo, un’altra insidia culturale o pseudo-tale allarma Croce. Non si comprende appieno il programma crociano di rilegittimazione dell’idealismo e dello spiritualismo, che ha preso forma in operazioni di politica culturale molto decise, se non si intende il contestuale riferimento polemico al Positivismo: anche questo è un capitolo specifico di “Croce e la Francia”.
Figure come quelle di Auguste Comte o Hyppolite Taine, nei lavori crociani, vestono i panni dell’antifilosofo che disprezza la filosofia perché in fondo non sa cosa sia: si muove goffamente verso il superamento della metafisica e conclude il suo itinerario con l’istaurazione della nuova e più insidiosa metafisica del “fatto”[30]. Al di là delle forti e quasi caricaturali espressioni che abbondano nelle pagine crociane, è tuttavia da dire che il superamento del Positivismo proposto da Croce si rivolgeva non tanto contro i suoi interpreti francesi, quanto contro le sue rielaborazioni italiane, che prendevano corpo in una cultura gretta, superficiale, approssimativa e in atteggiamenti politici altrettanto discutibili. Perché l’ostilità crociana nei confronti dell’atteggiamento positivistico non porti acqua al mulino del maggior pregiudizio anti-crociano, vale a dire l’immagine di un Croce avverso alla scienza, va segnalata contestualmente la convergenza epistemologica con Henri Poincaré.
Mette radici nella polemica culturale antipositivistica anche il confronto crociano con il marxismo o, meglio, con il “materialismo storico” da un lato e con l’“economia marxistica” dall’altro. Fautore della diffidenza per il Positivismo e dell’“appassionamento” per il marxismo, è stato Antonio Labriola. Labriola funge anche da tramite per una conoscenza francese di Croce che ha impresso una decisa svolta anti-labriolana nel cuore del suo quinquennio “marxistico” (1895-1900), lo ha portato nel clima della “crisi del marxismo” di fine secolo e lo ha introdotto nel dibattito sul “revisionismo”, suscitando la viva attenzione anche di Eduard Bernstein.
Mi sto riferendo a Georges Sorel, che accoglie nella sua rivista «Devenir social» una serie di contributi crociani che risultano funzionali ad approdare a quella che Croce chiama una vera e propria “morte” del marxismo teorico[31]. La corrispondenza e l’intesa tra Croce e Sorel prosegue anche nel Novecento: sulla «Critica» crociana appaiono le lettere, le recensioni di libri soreliani, alcuni inediti; infine l’introduzione, scritta da Croce, alla traduzione laterziana del 1909 delle soreliane Réflexions sur la violence[32].
Sull’intesa con Sorel va registrato l’interessante commento di Romano, che attribuisce a essa la causa dell’«ammirazione distratta» della Francia per Croce; l’altra grande ragione, connessa alla prima, sarebbe lo scoppio della Rivoluzione russa. Mentre infatti Croce, nell’ambito del dibattito revisionista, aveva proclamato la fine del marxismo, l’evento rivoluzionario sembrò apparentemente confutare le previsioni crociane e soreliane. Oggi, a più di un secolo di distanza, possiamo forse guardare con maggiore disincanto ai fatti e accogliere il suggerimento di Romano, secondo il quale si sarebbe trattato in quel caso già di un evento da inscriversi nella storia del post-marxismo[33].
“Passages” dell’arte nella filosofia
C’è infine un ulteriore riflettersi di Croce nello specchio di Francia e questa estrema riflessione, forse la più interessante, viene dal passage che congiunge poesia e filosofia.
Al periodo a cavallo tra gli anni Dieci e Venti risalgono alcune riflessioni crociane su poeti e scrittori europei, e non solo, allo scopo di inverare o dimostrare principi di estetica. Negli anni in cui l’Europa era dilaniata da una guerra fratricida, Croce ha l’esigenza di stringersi intorno alla grande poesia europea: nascono il primo volume del Goethe (1919), l’Ariosto, Shakespeare, Corneille (1920), La poesia di Dante (1921), Poesia e non poesia (1922), che ha per sottotitolo Note sulla letteratura europea del secolo decimonono [34]. La poesia ha, da questo punto di vista, un effetto terapeutico: non perché sia consolatoria dei mali del mondo, un’oasi di pace in cui fuggire per un eccesso di travaglio. La poesia è curativa nella sola ed esclusiva accezione che alle particolarità dilaniate e dilaniantesi oppone, forse ancor più della filosofia, un concreto terreno di incontro e di dialogo tra i popoli. Non sta qui ricordare la tesi crociana sull’intraducibilità della poesia (egli stesso è stato traduttore di poeti); ciò che conta è invece constatare l’afflato universalistico del dire poetico, la costituzione della poesia come territorio sovranazionale, luogo possibile di un cosmopolitismo reale che non sconfini nello sradicamento[35]. In questa prospettiva, senza arrivare mai a contaminarsi con finalità pratiche o di impegno politico, la poesia svolge una funzione altamente civile.
Nel percorso europeo ricostruito nelle pagine crociane, la Francia è rappresentata da Corneille, Stendhal, De Vigny, George Sand, De Musset, Balzac, Zola, Daudet, Maupassant, Mallarmé, Valéry, ma soprattutto da Flaubert e Baudelaire.
Il saggio dedicato a Corneille è esempio calzante del crociano dialogo diretto con la grande critica francese, pur nel suo essere controcorrente, occupandosi di un autore considerato ormai minoritario nella storia letteraria del suo paese. Intervenendo nel dibattito relativo all’ideale poetico di Corneille, Croce sostiene che esso era sì la volontà, ma non la volontà razionale (altra discendenza cartesiana), quanto piuttosto la «volontà deliberante»[36], quella volontà che prima di agire “consulta” la propria anima. Il teatro corneliano invera il principio dell’estetica crociana secondo il quale alla materia poetica offerta dalle passioni è sempre necessario un processo di liberazione o, meglio, rarefazione della particolare situazione, quella che Goethe chiamava l’“occasione”. Il tumulto e la forza “misteriosa e rapace” delle passioni non sono superati con sforzo o proposito razionale ma attraverso un deliberato atto di volontà. E di libertà.
Questo principio spiega l’interessamento di Croce per il Flaubert scrittore e per il Baudelaire poeta. A determinare il loro salto qualitativo rispetto alla coeva letteratura “romantica” e “decadente” è la persistenza, nel loro poetare e nelle loro teorie estetiche, dell’idea di “forma”. Nella Folie Baudelaire, libro che prende le mosse dal giudizio di Sainte-Beuve nei confronti di Baudelaire – Sainte-Beuve è molto seguito da Croce (si veda, ad esempio, la conclusione del saggio su Corneille) ma in quanto critico ritenuto sovrastimato dal suo tempo[37] –, Roberto Calasso ha ricordato che, dal punto di vista stilistico, non vi era differenza tra un sonetto cinquecentesco e una lirica baudelairiana[38]. Questo giudizio rende ragione dell’attenzione che Croce rivolge a un poeta maudit, apparentemente così distante dai suoi gusti estetici.
C’è tuttavia un’ulteriore ragione estetico-filosofica. Nelle pagine di storia dell’estetica, dal trattato del 1902 fino agli ultimi contributi, Croce riconosce, nello scarno panorama di contributi estetici del proprio tempo, un ruolo fondamentale a Flaubert e a Baudelaire nel campo delle teorie dell’arte. Poiché l’estetica che ha in mente Croce non nasce mai a tavolino, e meno che mai dalle meditazioni di un professore di estetica spesso a digiuno di comprensione artistica, le più interessanti riflessioni provengono dagli artisti. Così, nel desolato panorama dell’estetica a lui contemporanea, Flaubert e Baudelaire siedono accanto a Francesco de Sanctis.
Flaubert interessa a Croce per la sua teoria dell’impersonalità – che per certi versi richiama il principio crociano della risoluzione della persona nella propria opera –, e per i contributi all’art pour l’art, che non è altro se non espressione del principio anche crociano dell’autonomia dell’arte[39]. Ancora più suggestivo è forse il confronto con Baudelaire. Egli è per Croce poeta, teorico dell’arte e critico della modernità. Sarebbe stato uno di quei fuochi attraverso i quali Croce avrebbe bruciato il suo giovanile “astratto moralismo”, se non avesse provveduto a farlo già il marxismo. Baudelaire, agli occhi del suo critico, ha superato la concezione romantica dell’amore, ha dato voce a un’umanità minore, è stato critico dell’Illuminismo e ha considerato il progresso come un moderno feticcio. Argomenti destinati a circolare in varie forme anche nella filosofia crociana[40].
- B. Croce, Discorsi parlamentari, con un saggio di M. Maggi, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 177. ↑
- I due principali documenti di riferimento sono il Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia (1913), a cura di A. Savorelli, con una nota al testo di C. Cesa, Napoli, Bibliopolis, 2006, e Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952), a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1997. ↑
- B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1911), a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 1997, in particolare p. 139 e la seconda Appendice sulla Fortuna del Vico, pp. 289-91. ↑
- Su tutti si veda l’orazione inaugurale De nostri temporis studiorum ratione (1709): cfr. G. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Arnoldo Mondadori, 2007, pp. 87-215. ↑
- Cfr. B. Croce, Etica e politica, aggiuntovi il Contributo alla critica di me stesso (1931), a cura di A. Musci, Napoli, Bibliopolis, 2015, pp. 358 e 356. ↑
- Della letteratura su “Croce e la Francia” segnalo l’introduzione di Sergio Romano all’antologia da lui selezionata di B. Croce, La philosophie comme historie de la liberté. Contre le positivisme, Paris, Edition du Seuil, 1983 (ristampata in traduzione italiana e con l’aggiunta di un’Avvertenza con il titolo Per la conoscenza di Croce in Francia, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1984); la monografia di G. Pagliano Ungari, Croce in Francia. Ricerche sulla fortuna dell’opera crociana, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1967; e i lavori in lingua francese di P. Olivier, Benedetto Croce ou l’affirmation de l’immanence absolue, Paris, Seghers, 1975, e di C. Boulay, Benedetto Croce jusqu’en 1911. Trente ans de vie intellectuelle, Genève, Dorz, 1981. ↑
- Cfr. B. Croce, La nazionalità e la filosofia (1919), in Id., Conversazioni critiche. Serie quarta, Bari, Laterza, 1951, pp. 5-8; e Id., Nazionalità e individualità (1920), in Id., Conversazioni critiche. Serie quarta, op. cit., pp. 8-9. ↑
- Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it. a cura di C. Arcuri, Torino, Einaudi, 2002. Le tesi della “geofilosofia” deleuziana si trovano riprese nei recenti lavori di Roberto Esposito, che approfondiscono la natura di “pensiero vivente” e di “estroflessione” della filosofia italiana: si vedano in particolare R. Esposito, Il pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2010, e Id., Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Torino, Einaudi, 2016. ↑
- B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., p. 10. ↑
- G. Vico, Princìpi di scienza nuova (1744), in Id., Opere, op. cit., pp. 411 e sgg. Cfr. anche G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, nuova edizione accresciuta, Torino, Einaudi, 2001. ↑
- Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), tr. it. di M. Magrini, introduzione di R. Zorzi, Torino, Einaudi, 2006. ↑
- Si veda l’accorata Prefazione di Croce alla sua Rivoluzione napoletana del 1799. Biografie – Racconti – Ricerche, a cura di C. Cassani, Napoli, Bibliopolis, 1998. Sull’interesse di Croce per la “rivoluzione passiva” (nota espressione adoperata da Vincenzo Cuoco per la rivoluzione partenopea e recuperata da Croce nel suo studio di fine Ottocento) ha insistito in modo particolare Antonio Gramsci nei Quaderni: si veda in particolare il Quaderno 10 (XXXIII), 1932-1935, La filosofia di Benedetto Croce, in A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, Quaderni 6-11 (1939-1933), edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2014, pp. 1205-362. ↑
- Si vedano in particolare T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Milano, Garzanti, 2004; e Id., L’arte nella tempesta. L’avventura di poeti, scrittori e pittori nella Rivoluzione russa, Milano, Garzanti, 2017. ↑
- Si vedano i relativi capitoli di B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1993. Per una più profonda lettura dei distinti giudizi crociani sulla rivoluzione rinvio a G. Cotroneo, Le due facce della rivoluzione, in Id., Croce filosofo italiano, Firenze, Le Lettere, 2015, pp. 65-81. ↑
- Rinvio in modo particolare alla nota Libertà e rivoluzione che si legge in B. Croce, Discorsi di varia filosofia, vol. II, a cura di G. Giannini, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2011, pp. 443-45. ↑
- B. Croce, Logica come scienza del concetto puro (1909), a cura di C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 360. ↑
- B. Croce, Antistoricismo (1930), Lettura tenuta al VII Congresso internazionale di filosofia a Oxford il 3 settembre 1930, in Id., Ultimi saggi (1935), a cura di M. Pontesilli, Napoli, Bibliopolis, 2012, pp. 233-44. Si veda inoltre G. Cotroneo, Croce e l’Illuminismo, Napoli, Giannini, 1970; e Id., Illuminismo, in Lessico crociano. Un breviario filosofico-politico per il futuro, a cura di R. Peluso, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2016, pp. 385-94. ↑
- B. Croce, Rousseau – Il diritto naturale, negli Elementi di politica (1925) di Id., Etica e politica, op. cit., pp. 243-46. ↑
- B. Croce, Il carattere di totalità dell’espressione artistica (1917), in Id., Nuovi saggi di estetica (1920), a cura di M. Scotti, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 111-36, in particolare p. 122. ↑
- B. Croce, Un caso di storicismo decadentistico, in Id., Discorsi di varia filosofia, vol. II, op. cit., pp. 426-33. ↑
- Si veda ad esempio il saggio del 1908 L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, in Id., Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana (1910), a cura di M. Mancini, Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 11-37. Sulla relazione tra estetica e logica rinvio a R. Viti Cavaliere, Abbozzo di una logica nell’Estetica del 1902, in Ead., Storia e umanità. Note e discussioni crociane, Napoli, Loffredo, 2006, pp. 61-75. ↑
- S. Romano, Per la conoscenza di Croce in Francia, op. cit., p. 67, dove è ricordato anche il saggio Constant e Jellinek: intorno alla differenza tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, di B. Croce, Etica e politica, op. cit., pp. 278-84. ↑
- B. Croce, Un caso di storicismo decadentistico, op. cit., pp. 432-33. ↑
- Cfr. R. Franchini, Metafisica e storia, seconda edizione accresciuta, Napoli, Giannini, 1977, e il già citato recente studio di R. Esposito, Da fuori. ↑
- B. Croce, Fare al mondo una sola cosa, Pensieri varî. XXVIII, in Id., Discorsi di varia filosofia, vol. II, op. cit., p. 568. ↑
- Cfr. su tutto B. Croce, Filosofia e storiografia (1949), a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, p. 24. ↑
- B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., pp. 377-78. ↑
- Ivi, p. 380. Per altri luoghi rinvio a S. Cingari, Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, to. I, pp. 115, 139, 178, 191, e to. II, p. 321. ↑
- Cfr. B. Croce, Recensione a J. Benda, La trahison des clercs, in «La Critica», 26, 1928, pp. 213-14; G. Pagliano Ungari, Croce in Francia. Ricerche sulla fortuna dell’opera crociana, op. cit.; P. Sosso, Julien Benda, Benedetto Croce e la funzione dell’intellettuale, in L’utile, il bello, il vero. Il dibattito francese sulla funzione della letteratura tra Otto e Novecento, a cura di T. Goruppi e L. Sozzi, Napoli, Edizioni ETS, 2002, pp. 273-90. ↑
- Cfr. G. Cotroneo, Positivismo, in Lessico crociano, op. cit., pp. 533-48. ↑
- Su tutti questi temi sono da vedere i saggi di B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1900), a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, con una nota al testo di P. Craveri, Napoli, Bibliopolis, 2001, e in particolare l’Appendice del 1937 Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali, dove viene data anche lettura della funzione antipositivistica del marxismo di impostazione labrioliana. ↑
- Su questo scritto soreliano e sulle riflessioni sulla violenza di un’altra figura chiave dell’“emancipazione” crociana dal marxismo ortodosso, l’economista Vilfredo Pareto, rimando anche a H. Arendt, Sulla violenza (1970), tr. it. di S. D’Amico, Milano, Ugo Guanda Editore, 2017. ↑
- S. Romano, Per la conoscenza di Croce in Francia, op. cit., pp. 7-9. ↑
- Cfr. B. Croce, Goethe, 2 voll., Bari, Laterza, 1959; Id., Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 1968; Id., La poesia di Dante, a cura di G. Inglese, Napoli, Bibliopolis, 2021; Id., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1950. ↑
- Cfr. J. Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, tr. it. di B. Moroncini, Napoli, Cronopio, 2005. ↑
- B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, op. cit., p. 211. ↑
- Valga per tutte la postilla di B. Croce, La Francia e l’estetica, in «La Critica», 13, 1915, p. 483. ↑
- R. Calasso, La folie Baudelaire, Milano, Adelphi, 2008. ↑
- Per una più esaustiva ricostruzione rinvio a P. D’Angelo, La teoria dell’arte di Flaubert nell’interpretazione di Croce, in Id., Il problema Croce, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 209-29. ↑
- Ho discusso in maniera più approfondita i termini della lettura crociana di Baudelaire in un precedente articolo per questa stessa rivista: «Ho passato la vita intera a imparare a costruire frasi». Croce, Baudelaire e la “cultura della decadenza”, in «Diacritica», III, 1, 13, 25 febbraio 2017, pp. 91-113. A esso mi permetto di rinviare, anche nella prospettiva che il presente studio costituisca un’ideale premessa a quel precedente. ↑
(fasc. 43, 25 febbraio 2022)