Le ragioni dell’interesse per la storia della storiografia
Il rapporto di Croce con la storia della storiografia non è di certo il momento più studiato tra i tanti che caratterizzano il pensiero e l’opera del filosofo. È possibile, anzi, affermare che, rispetto all’indagine di esso, si è, non di rado, creata quella pericolosa frattura tra filosofia e storiografia da lui lucidamente avvertita come la negazione stessa della filosofia e dell’essenza stessa della storiografia.
Del Croce storico della storiografia, in altri termini, non si sono occupati troppo né gli storici né i filosofi, relegando questa importante pagina della riflessione crociana – che accredita ulteriormente, ove ve ne fosse bisogno, il tenore di quella che giustamente Raffaello Franchini ha definito «la scoperta di una nuova dimensione della storia»[1. R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, Napoli, Morano, 1966, p. 111.] – entro i ristretti campi dell’erudizione, troppo lontani dal serio lavoro della storiografia e, ancor più, dai vasti spazi concettuali dell’indagine filosofica.
Eppure Croce si è costantemente occupato della storiografia e della sua storia ed è tornato spesso sul problema della loro dignità teorica, consegnando a ogni stagione della sua esperienza di ricerca e alla sua riflessione matura la consapevolezza dell’appartenenza dell’indagine storiografica al lavoro del pensiero, in quanto forma teoretica delle attività dello spirito.
Il nuovo concetto della storiografia – scriveva, infatti – «distingue più nettamente questa dalla cronaca e dall’aneddotica, e la contrappone più saldamente alle false storie che sono schematismi deterministici e causalistici o narrazioni tendenziose e simili; e in ciò ha compiuto così grande avanzamento da sembrar cosa del tutto nuova, onde anche per essa si è adoperato il motto di un’avvenuta “rivoluzione copernicana”. Ma per ciò stesso, (…) dà il modo di riconoscere la storiografia genuina in tutti i tempi, giacché sempre, in guisa più o meno rilevata e appariscente, l’uomo compié l’atto di pensiero col quale interpretò di volta in volta gli avvenimenti storici in relazione alla situazione nella quale si trovava e nei limiti di questa. / Condizione di questo riconoscimento è che anch’esso si compia in modo storico, cioè col trasferirsi idealmente nelle età passate e non pretendere di starle a guardare e giudicare come se fossero l’età e il momento presente»[2. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, a cura di M. Mastrogregori, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 149-150. Il corsivo è mio.].
Ma Croce non si è limitato a questa, pur fondamentale, acquisizione e ha conferito al “riconoscimento” della prossimità tra filosofia e storiografia una caratterizzazione anche storica, nella misura in cui ha intuito che la comprensione della natura dell’atto storiografico passa anche attraverso il farsi storico di esso. E, ancora, ha individuato e affermato con forza la felice contiguità tra la storia della storiografia e la storia della filosofia, in quanto entrambe pertinenti alla forma teoretica dello spirito. Il tutto, proponendo un’area di ricerca senza precedenti nel panorama intellettuale italiano del suo tempo.
Se è vero, infatti, che la cultura europea dell’Ottocento aveva raggiunto importanti risultati in questo – basti pensare alla notissima opera di Fueter, ma anche alle ricostruzioni di Ulrici, di Ranke, di Voss −, che Croce conosceva bene e in parte apprezzava, non era possibile individuare, nella cultura italiana coeva, un lavoro della stessa natura, avente le medesime finalità e ricadute.
Sulla storia della storiografia – scriveva, infatti, in uno dei suoi testi più celebri – si hanno «molti lavori così speciali circa singoli autori, come più o meno generali intorno a gruppi di essi (storie della storiografia presso un popolo o in un’epoca determinata o addirittura storie “universali”); e non solamente lavori di bibliografia e di erudizione, ma di critica, e taluni eccellenti, segnatamente nella letteratura scientifica tedesca, sempre la più vigile fra tutte a non lasciare inesplorati nessuna parte e nessun cantuccio nel dominio del sapere»[3. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 185.].
Si rivelava, perciò, più che mai necessario avviare nell’ambiente intellettuale italiano un percorso che la tradizione storiografica europea e, in particolar modo, tedesca aveva già, in larga misura, intrapreso, conferendo ad esso, però, nuovo smalto e rinnovata ispirazione – visto che, come egli stesso badava a precisare, «prendere a ritrattare (…) da capo a fondo il tema, non può essere nel mio disegno»[4. Ibidem.] −, a partire dalla necessità di individuare il tratto distintivo della riflessione storiografica italiana dell’ultimo secolo.
L’itinerario metodologico crociano, in questo senso, si sviluppava in due direzioni: la prima, nel senso dell’accreditamento teorico del lavoro storiografico nella sua impostazione storica; la seconda, alla precedente intimamente connessa, nella direzione di un preciso interesse verso il percorso storico della storiografia italiana, mai indagata fino a quel momento dagli storici coevi, se non in rari episodi, senza particolare ispirazione e dignità.
Quanto alla prima direzione, forte era la consapevolezza che la scommessa della filosofia si gioca sempre e soltanto sul piano della storia o, come egli stesso scriveva molto efficacemente in uno dei suoi capolavori, la Logica come scienza del concetto puro, che «la pietra di paragone delle filosofie è la storia».
In quanto giudizio individuale – notava infatti −, la storia è «sintesi di soggetto e predicato, di rappresentazione e concetto: l’elemento intuitivo e l’elemento logico sono in lei inseparabili. (Capo v.) L’esigenza del soggetto o dell’elemento intuitivo importa che la storia non si può costruire col puro raziocinio, ma richiede la visione del fatto accaduto, che è l’unica fonte storica. (… ) Se storia non è possibile senza l’elemento logico ossia filosofico, filosofia non è possibile senza l’elemento intuitivo ossia storico. (…) Si richiede (dunque), (…) per la verità della filosofia, che si conosca la storia»[5. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti, nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 232, 205, 223-24.].
Se, dunque, era chiara, ai suoi occhi, l’idea di una dimensione teorica della storiografia e della sua storia, giacché
la storia e la teoria della storia sono entrambe opere di pensiero, così legate tra loro come è legato in sé il pensiero, che è uno; e non v’ha storico che non possegga in modo più o meno riflesso una sua teoria della storia, perché, per non dir altro, ogni storico disputa espressamente o per sottinteso contro altri storici (contro le altre «versioni» e «giudizi» di un fatto); e come mai potrebbe disputare, e come criticarli, se non si riferisse a un concetto di quel che sia e debba essere la storia, a una teoria della storia? (…) La storia della storiografia è (infatti) storia del pensiero storico; e in questo torna impossibile distinguere teoria della storia e storia[6. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 193-194.];
se, dunque, era chiaro tutto questo, si rivelava necessario un lavoro di scavo e di ricostruzione del contributo che gli storici italiani avevano dato alla vicenda dell’idea di storiografia, alla considerazione, in breve, del farsi storico dell’atto costitutivo del pensiero, il comprendere, in forza della persistenza «anche presso i migliori (di) talune confusioni e perplessità, che ingenerano poi errori di giudizio o almeno di prospettiva»[7. Ivi, p. 185.].
Da questo angolo visuale, più che su Teoria e storia della storiografia, occorre indugiare su un altro fondamentale testo crociano, spesso, a dire il vero, trascurato, la Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, che rappresenta un contributo di indubbia originalità nel panorama degli studi del tempo, sia in ordine alla caratterizzazione teorica del lavoro sia in relazione alla precisione e all’ampiezza della materia indagata.
La “rottura dei cancelli del sistema”: l’interesse per la storiografia italiana
Tale contributo non aveva affatto la fisionomia di un percorso intellettuale estemporaneo, ma mostrava da subito il carattere di un grave impegno, destinato, come già accennato, ad avere larghi esiti nel prosieguo dell’esperienza crociana, giacché forte era nel filosofo la determinazione a indagare un ambito tematico estremamente affascinante e complesso, lasciato troppo a lungo nell’ombra e scarsamente approfondito[8. «Io lavoro qui tutto il giorno in biblioteca» − scriveva il 18 settembre del 1914 da Torino a Giovanni Gentile, in merito alle nuove ricerche che caratterizzavano quel periodo della sua esperienza di studio − «per radunare il materiale pei miei saggi sulla storia. Ho visto in questi ultimi sei mesi centinaia e centinaia di volumi: ma bisogna veder molto per esser ben sicuri delle affermazioni generali. Del resto, i primi 10 saggi (fino al 1848) sono disegnati, e il materiale è quasi completo. A Napoli li scriverò, spero, in una ventina di giorni»: B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, introduzione di G. Sasso, Milano, Mondadori, 1981, p. 478.].
Nel 1915, in quel piccolo capolavoro che è il Contributo alla critica di me stesso, a proposito della maturazione di questo interesse scriveva:
Quando, terminato che ebbi di pubblicare la Filosofia dello spirito, molti m’invitavano al riposo, perché (dicevano) avevo ormai compiuto il mio «sistema», io sapevo che in realtà non avevo né compiuto né chiuso nulla, ma solamente scritto alcuni volumi intorno ai problemi accumulatisi nel mio spirito via via sin dagli anni della mia giovinezza. E mi ridetti a vivere la vita e a leggere libri non tanto di filosofi quanto di poeti e di storici; e dopo un po’ sorsero spontanee le mie meditazioni intorno alla Filosofia del Vico, le dissertazioni sulla Teoria e sulla Storia della storiografia, i Frammenti di Etica, i saggi sulla Storia della storiografia italiana: tutti pensieri che rompono i pretesi cancelli del preteso sistema e danno, se ben si guardi, nuovi sistemi o nuove «sistemazioni», perché a ogni passo nostro si muove sempre il tutto[9. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 64.].
Alla base della consapevolezza di questo incessante cammino c’era, in Croce, la certezza che «la perfezione di un filosofare sta (…) nell’aver superato la forma provvisoria dell’astratta “teoria”, e nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata»[10. Ivi, p. 65.]. Era questo il punto di partenza di un lavoro che interessava senza soluzioni di continuità la cultura italiana del secolo precedente, il secolo per eccellenza della storia, restituendo, così, a quest’ultima il carattere e l’oggetto che le erano più prossimi: i fatti e il loro “pensamento”.
I saggi che compongono i due densi volumi della Storia della storiografia italiana, scritti tra il 1914 e il 1915[11. I saggi sono apparsi inizialmente su «La Critica», a. XIII-XVIII (1915-1920), e successivamente in volume: cfr. Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1921. L’edizione da cui sono tratte le citazioni a seguire è quella del 1947.] e riuniti in volume soltanto sei anni dopo, conservano l’impronta che ha sempre caratterizzato la ricerca crociana, in quanto segno di quella perfezione del filosofare che si realizza pienamente soltanto nell’esercizio dell’atto storiografico, fuori da costruzioni sistematiche, ovvero da forzature concettuali monotematiche; e in Croce, altresì, questo segno riceveva un’ulteriore precisazione nella misura in cui si accompagnava al suo interesse verso gli sviluppi del pensiero storiografico italiano dell’Ottocento, trascurato dal, pur mirabile, lavoro sulla storiografia europea di Fueter, «valoroso compagno nelle indagini storiche»[12. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., vol. I, p. III.], a cui, non a caso, il filosofo dedicava il presente volume.
Già nell’Avvertenza Croce chiariva le proprie intenzioni, esponendo le ragioni di una scelta che non aveva precedenti nella cultura italiana del tempo:
Il mio intento – scriveva infatti – (…) non fu solo quello di recare un contributo alla migliore conoscenza della vita spirituale italiana durante il secolo decimonono, e di riempire al tempo stesso una lacuna nelle storie generali della storiografia che finora si posseggono; ma anche, e soprattutto, di offrire ai giovani italiani, che si accingono agli studi storici, sotto specie di racconto, una sorta di metodica, più efficace, a mio avviso, che non le astratte metodiche dei manuali[13. Ivi, p. VII.].
In questo obiettivo, ritenuto un vero e proprio “dovere”, era contenuta la radice stessa dell’impegno di Croce, sovente scandito da una forte attenzione al portato metodologico che ogni ricerca storica reca in sé.
Oltre che chiarire, infatti, il carattere dell’evoluzione degli studi storici dell’Ottocento italiano, il suo obiettivo specifico era quello di affiancare al farsi storico del pensiero una severa disamina dell’itinerario concettuale che quell’evoluzione aveva supportato. In altri termini, occorreva individuare la radice metodologica di un’attitudine che con sempre maggiore prepotenza aveva interessato la cultura italiana, valutando volta per volta l’efficacia delle soluzioni proposte e la coerenza tra queste e lo sviluppo effettivo delle prospettive storiografiche prese in esame. Il tutto, alla luce del fatto che occuparsi delle ricerche storiche importava inevitabilmente una riflessione sulle ragioni di pensiero che le avevano animate, senza la quale l’analisi del percorso storiografico in questione diventava mera erudizione, priva di una connotazione teorica solida.
La cultura storica italiana durante il “secolo della storia”
Il lavoro crociano si apprestava a diventare, dunque, parafrasando Foscolo, un’“esortazione alle storie”[14. Ivi, p. 1. Cfr. U. Foscolo, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, prolusione letta presso l’Università di Pavia il 28 gennaio 1807.], un compito ineludibile che assecondava una tendenza al racconto e alla comprensione dei fatti, dal filosofo individuata senza ambagi nella cultura storica italiana dell’Ottocento, sulla scorta di una forte contaminazione con i modelli storiografici europei, in particolare tedeschi. Riferendosi al carattere di questa tendenza, scriveva infatti:
Non si trattava di estrinseca adesione a una moda, o d’imitazione delle cose forestiere, sibbene di un bisogno che in Italia si sentiva come da per tutto altrove, e che nelle opere del pensiero straniero trovò anticipati concetti che rispondevano a domande identiche o simili o analoghe a quelle formatesi in Italia. Che se non fosse stato così, a quel moto di studi sarebbe mancato il gran calore che lo animò, né esso avrebbe ottenuto gli effetti cospicui che ottenne[15. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., p. 8.].
In questo “bisogno” era contenuta la necessità di un «ricongiungimento» con la tradizione nazionale italiana, «anteriore di gran lunga»[16. Ibidem.] a quella straniera, che costituiva la ragione e l’origine di quell’attitudine concettuale che il pensiero italiano dell’Ottocento aveva dovuto soltanto recuperare, poiché antica e forte era la sua struttura.
Riferimenti privilegiati di questa tendenza erano due tra gli autori di Croce: Vico e Cuoco, artefici dello sviluppo della migliore tradizione nazionale, nonché volàno degli studi storici (e filosofici) del XIX secolo. A partire dalla loro riflessione, infatti, la cultura filosofica italiana aveva formulato un nuovo intendimento della storia e del suo metodo, inaugurando una tradizione che i secoli precedenti non avevano conosciuto.
Proprio negli ultimi del Sette e nei primi dell’Ottocento – scriveva, infatti, Croce – si cominciò a «far luce sull’opera di Giambattista Vico, e la Scienza nuova venne giustamente interpretata come contenente un nuovo concetto della storia, del suo metodo e dell’ufficio e importanza sua nella vita mentale e sociale. Tale scoperta e interpretazione si compié in Napoli, sullo scorcio del Settecento, dai fervidi giovani che poi parteciparono alla repubblica dell’anno ’99, e fu da quei giovani, esuli nella reazione, divulgata e inculcata in Milano e in altre parti d’Italia»[17. Ibidem.].
Vico offriva alla cultura storica italiana la chance per un inedito rilancio, poiché riconduceva l’indagine sui fatti alla più qualificante esperienza di pensiero, ossia a quello sforzo di comprensione che rende la ricerca non pura erudizione, né asettica ricostruzione di eventi, ma opera vivificante di indagine. Connotava, in altre parole, in maniera viva e feconda la prassi storiografica, il cui cardine diveniva il giudizio, disciplinato e irrobustito da una salda lezione di metodo, di cui la Scienza nuova costitutiva il testo più accreditato.
Determinante per la rinnovata comprensione del pensiero vichiano, a giudizio di Croce, era senz’altro Cuoco, che «andò attorno spiegando che la Scienza nuova non aveva “prodotto ancora tutto quell’effetto che doveva produrre, perché era superiore di mezzo secolo all’età in cui fu scritta”»[18. Ivi, pp. 8-9.]. Il filosofo tornava molto spesso sulla tesi – di origine spaventiana – di Vico “genio solitario”, origine di una rivoluzione di pensiero che il suo tempo non aveva affatto compreso, e recuperava quel canone ermeneutico che individuava nella Scienza nuova la ragione dello sviluppo della cultura storica del secolo successivo.
Cuoco, a suo giudizio, rappresentava l’artefice di quest’individuazione, anche se non si limitava soltanto al traghettamento di quest’opera nel XIX secolo, ma riusciva anche a verificare l’efficacia del metodo vichiano in una materia culturalmente e politicamente nuova, quale era la stagione della rivoluzione napoletana del 1799.
Il Saggio storico (1800) del Cuoco – scriveva −, che «per lunga pezza è stato riverito come insigne monumento di amor patrio, solo di recente si è venuto scoprendo qual è realmente opera capitale di pensiero storico, la quale tiene in certo modo in Italia, e con maggiore larghezza di spirito, il posto che altrove occupano le Reflections on the devolution in France di Edmondo Burke e le Considérations sur la France del De Maistre. Il Cuoco si propose di dare non già la “leggenda” della rivoluzione napoletana, e neanche quel che si soleva chiamare una “storia”, ma un’indagine rivolta a ciò che reputava “vero scopo d’ogni storia”, l’“osservazione del corso che hanno, non gli uomini che brillano un momento solo, ma le idee e le cose che sono eterne”»[19. Ivi, pp. 9-10.].
Da Vico a Cuoco, dunque, la cultura italiana aveva superato il pregiudizio settecentesco nei confronti dell’“utilità” della storia, come Croce dimostrava, sottoponendo a una severa disamina la produzione di Melchiorre Delfico − autore di un libretto di Pensieri intorno all’incertezza e all’inutilità della storia −,definito, non senza polemica, «un superstite “intellettuale” del secolo precedente»[20. Ivi, p. 17.], ossia di quell’età dei Lumi, che, secondo Croce,
guardando al passato come a un brutto sogno e al presente e all’avvenire come al regno iniziato e vittorioso della ragione, accettò sovente questa conseguenza paradossale: che la storia, la quale appunto serbava memoria di quel passato, fosse non solo inutile (utili si giudicavano le scienze naturali e la filologia, fondamenti della morale e della politica), ma addirittura perniciosa come serbatoio di cattivi esempi[21. Ivi, p. 16-17.].
Da Botta a Colletta, a Balbo, a Troya, a Manzoni, l’Italia rispondeva, dunque, al pregiudizio illuministico, durante tutta la prima metà del secolo, giudicata assai positivamente da Croce, diversamente dalla seconda – nella valutazione della quale incidevano fortemente alcune variabili legate essenzialmente, come vedremo, al giudizio crociano sulla cultura positivistica −, dando vita a una vera e propria «gara d’indagini, dispute e ricostruzioni storiche»[22. Ivi, p. 4.], che riabilitavano un’attitudine all’indagine storica da sempre appartenuta alla cultura italiana.
La (…) nuova disposizione degli spiriti, che si opponeva (…) alla disposizione del secolo precedente – precisava, infatti, Croce – doveva far sorgere in tutta Europa e risonare anche in Italia il motto: che il secolo che si era iniziato, e nel quale si viveva, era per eccellenza il secolo della storia: denominazione che è poi rimasta al secolo decimonono, sebbene, appropriatissima alla prima metà di esso, non possa dirsi altrettanto meritata dalla seconda[23. Ivi, p. 18.].
Questa prima stagione della storiografia italiana aveva, in sostanza, traghettato nell’ambito dell’indagine dei fatti quella categoria di “svolgimento”, tanto cara al dibattito filosofico romantico e protoromantico, da Herder a Hegel, passando attraverso i grandi risultati del vichismo: si trattava, allora, di rendere questo concetto come proprio del nuovo secolo, in quanto caratterizzazione di un tempo che in esso aveva il proprio criterio politico, sociale e teoretico.
Alla base di questo nuovo intendimento, lo sforzo di recuperare l’assoluta “medesimezza” di filosofia e storia, spesso pregiudicata da orientamenti scientifici della storiografia, ovvero dalle derive di una filosofia della storia, agli occhi di Croce sempre più presuntuosa.
E veramente – scriveva infatti – la «prosecuzione sostanziale del Vico non era da cercare nello Herder o nel Kant delle Idee di una storia universale o nello Hegel della Filosofia della storia, ma nel Kant della sintesi a priori e nello Hegel della dialettica e del concetto concreto, e perciò nella investigazione del rapporto di filosofia e storia, e del modo di ridurre la storia a verità, il certo al vero: donde il valore del quesito sulla certezza della storia, la cui soluzione era stata promessa ma non attuata né cercata davvero dalla “Scienza della storia”, mentre il quesito non veniva nemmeno proposto dalla Filosofia della storia, così priva di cautele critiche e di senso gnoseologico»[24. Ivi, p. 39.].
E ancora, sempre tenendo come origine salda il pensiero vichiano, alla base di tutto questo nuovo impianto degli studi storici c’era il recupero di un concetto rinnovato di filologia, che dalla Scienza nuova in poi diveniva la bussola che orientava, assieme alla filosofia, quel felice connubio tra certo e vero, tra fatto e pensiero, tra il dato empirico e la sua pensabilità.
Riferendosi ancora alla storiografia della prima metà del secolo e, in particolare, alla fruttuosa vicenda dell’«Archivio storico italiano», Croce, non certo senza ragione, scriveva:
Ma la verità è che non mai, come allora, l’erudizione italiana, considerata nel suo complesso, si levò e si tenne così alto. (…) Penetrò allora generalmente nella coscienza degli studiosi il convincimento dell’unico valore delle fonti originali; donde la predilezione per le vecchie rozze cronache, rispetto alle storie eleganti umanistiche, un tempo troppo pregiate, e la ricerca assidua dei documenti. (…) In ispecie, i documenti tornavano indispensabili per ricostruire la storia civile ossia sociale. (…) Nel che è da vedere altresì una traccia del Vico, il quale aveva procurato di mettere in valore quelli che egli chiamava i «grandi rottami dell’antichità», i rari documenti superstiti di essa, che sono assai più ricchi di significato, per chi sappia interrogarli, che non le storie narrate o «formate»[25. Ivi, pp. 46-48.].
Muovendo dalla “storiografia anacronistica” di Botta e Colletta e attraversando, di conseguenza, la stagione del recupero della storiografia umanistica che rompeva sia con la tradizione illuministica sia con quel tempo nuovo degli studi storici[26. Ivi, pp. 68-96.], Croce indugiava non poco sull’incontro tra la storiografia e il “sentimento politico nazionale”, che aveva dominato i decenni preunitari.
L’amore per l’Italia, l’idea di patria, già interiorizzati dalla cultura italiana, costituivano ormai il sentimento «promotore di ricerche storiche» e l’origine di una tradizione nella quale si sarebbe felicemente innestata la preparazione del percorso unitario. Il nuovo sentimento nazionale, ben diverso da quello “umanistico” di Botta e Colletta, pervadeva, così, ogni settore, anche quelli meno accreditati, degli studi storici, divenendo la cifra del nuovo indirizzo della cultura del tempo.
Croce rafforzava ulteriormente questa tesi, anticipando, per così dire, la curvatura che la sua posizione in merito avrebbe assunto successivamente, sostenendo che la dominante del dibattito culturale italiano lungo l’intero arco dell’Ottocento era costituita dall’«incontro del pensiero storiografico, dominato dai concetti di svolgimento e di progresso, con gli ideali del sentimento politico nazionale italiano»[27. Ivi, p. 119.]; incontro animato da una ricerca condotta con «grave animo filiale» sulla «storia dei tempi oscuri»[28. Ivi, p. 113.], il Medioevo.
Fortemente motivato dal convincimento secondo cui «la storiografia (…) è indissolubile dalla vita» e ha bisogno di «allearsi, anzitutto, con l’amore pel proprio paese»[29. Ivi, p. 117.], legittimava l’opzione della storiografia ottocentesca verso la vituperata “età di mezzo” con questo importante passaggio, significativo per la comprensione dell’itinerario che gli studi storici del XIX secolo avevano percorso non senza difficoltà, soprattutto in vista di quella tanto auspicata unificazione nazionale, che avrebbe rappresentato la chiave di volta della vita culturale, politica e civile dell’Italia del tempo:
I motivi che dal Medioevo traeva quello che abbiamo chiamato l’epos italiano − scriveva, dunque −, erano le aspirazioni stesse e i bisogni dell’Italia presente. La quale, uscita dalle riforme dell’assolutismo rischiarato e dai rivolgimenti della rivoluzione francese, era borghese, e perciò idoleggiava i Comuni italiani, prima affermazione della borghesia nella storia moderna; avversa al sensismo e materialismo settecentesco, vagheggiava la conciliazione tra gli ideali della borghesia moderna e la religione, e perciò esaltava i pontefici che favorirono i Comuni contro l’Impero; gridava indipendenza dallo straniero, e perciò palpitava d’ammirazione pei combattenti di Legnano contro il Barbarossa. Comuni (cioè Italia), Papato, Impero erano i tre grandi personaggi epici[30. Ivi, p. 115. Cfr. anche B. Croce, Sulla Storia d’Italia, in Id., L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, terza ed., Bari, Laterza, 1950.].
A questo recupero era strettamente connesso, nel quadro che Croce con tanta passione e tanto rigore ricostruiva, lo sforzo di sistemazione di un genere storiografico che tenesse insieme le fila di questo complesso quadro del percorso politico e civile dell’Italia non ancora divenuta Stato: tale sistemazione metteva capo alla stesura di lavori sulla storia d’Italia, divenuto il compito precipuo della storiografia del tempo, nonché lo strumento della ricostituzione della coscienza nazionale, come attesta questo significativo passaggio:
Il sommo di tutti i lavori mossi dal sentimento politico, anzi etico-nazionale, e quello su cui tutti i voti si raccoglievano, era, com’è ben naturale, una Storia d’Italia, della quale si avvertiva la mancanza, poiché le antiche non più contentavano. (…) Segno di questo intenso bisogno fu la cattedra di «Storia d’Italia», che nel 1816 re Carlo Alberto, sulla proposta del marchese Cesare Alfieri, presidente del magistrato della riforma, cioè ministro della istruzione, istituì nella università di Torino, affidandola ad Ettore Ricotti, al quale il Balbo, che gliela offerse, fece osservare, ch’egli avrebbe «pel primo avuto l’onore di bandire i fatti degli Italiani da una università d’Italia»[31. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, op. cit., pp. 104-105.].
Il profilo che, in maniera niente affatto scontata, emerge dalle osservazioni crociane contribuisce a mettere a fuoco le motivazioni di quella forte esigenza storico-politica che aveva dominato, senza soluzione di continuità, la prima metà del XIX secolo. L’esigenza, cioè, di produrre un canone storiografico, quasi uno stile culturale ed etico, sostenuto dalla determinazione a superare i regionalismi e le storie parziali, per recuperare, al contrario, pur con i grossi ritardi e tutti i deficit dell’esperienza politica italiana, la garanzia ferma e salda di un’unità faticosamente e lentamente ricercata e, di fatto, individuata a tutti i livelli, ma avviata soprattutto a partire da un modello storiografico avente la sua coerenza e organicità nel rinvenimento di un forte elemento di coesione, attorno al quale far confluire l’intero corso degli eventi storici italiani.
Attraverso un lento lavoro (il cui segreto era giocoforza politico) alla costante ricerca del momento di legittimazione di una realtà geografica, quale era l’Italia, ansiosa di riconnettersi alla realtà europea, gli studi storici del primo Ottocento avevano, dunque, quasi monopolizzato il dibattito culturale italiano con criteri il cui tratto dominante Croce sintetizzava scrivendo:
Ma il problema dell’Italia non era allora di muoversi nel mondo europeo com’esso s’era costituito nella “storia presente”, sibbene di ricongiungersi a questo mondo, formandosi a Stato moderno, come le era stato vietato all’uscita dal Medioevo: donde il maggiore interessamento che gli italiani prendevano a quella età remota, a ciò che era accaduto nel duodecimo o addirittura nel sesto e nel quinto secolo[32. Ivi, p. 117.].
L’atteggiamento degli studi del tempo, dunque, tendeva, per un verso, a individuare un centro propulsivo nello sviluppo del corso storico e, per un altro, in maniera consequenziale, a stabilire una drastica e irreversibile distanza storica e politica da una precisa stagione, il Rinascimento − prodotto esclusivo della cultura italiana, eppure vituperato ed eclissato senza appello dalla storiografia del tempo −, considerato improduttivo per il percorso politico dell’Italia in vista del conseguimento dell’unità statale. Questa grande azione epica medievale – scriveva, infatti, Croce −, nella quale «si ritrovava o simboleggiava la lotta attuale in Italia, faceva impallidire le età seguenti; onde non mai come allora gl’italiani menarono così poco vanto del Rinascimento, che era stato opera loro e che gli stranieri ammiravano, continuandone l’impulso»[33. Ivi, p. 116.].
A conferire impulso a questa tendenza storiografica era la scuola cattolico-liberale o neoguelfa, su cui Croce non poco indugiava, in quanto essa rappresentava una delle anime più forti dello storicismo italiano preunitario, avendo tra i suoi rappresentanti Balbo, Gioberti, Manzoni, Troya, Capponi, uomini, questi, che avevano a lungo segnato l’andamento della cultura filosofica italiana, inaugurando quella che Croce definiva una vera e propria «tendenza»[34. Ivi, p. 130.].
Muovendo dalla – a suo giudizio “tendenziosa” − ricostruzione dell’antitesi tra la tradizione di pensiero che conciliava le istanze del Papato con quelle dell’indipendenza dallo straniero e della conseguente unità statale del Paese, e il versante dei teorici dello Stato laico, Croce sottoponeva a una severa analisi quell’area di ricerca che aveva condotto alla pubblicazione di classici del pensiero storiografico italiano, quali il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia di Manzoni, il Primato morale e civile degli italiani di Gioberti, le “Storie d’Italia” di Troya e Balbo, che non poco avevano contribuito al cambiamento in atto negli studi del tempo. In questa analisi, il suo giudizio non tardava a manifestarsi, come si evince da questo passaggio:
La tendenziosità della scuola cattolico-liberale era duplice, come si vede, e come suona il nome stesso che le abbiamo dato: verso la difesa della fede religiosa e verso la difesa del sentimento nazionale; sebbene le due tendenze confluissero in un mercé l’immaginosa concezione dei rapporti del Papato con l’Italia. E l’una e l’altra la portavano fuori della critica e fuori della scienza, perché la tendenziosità patriottica o nazionalistica cangiava la sua storiografia in poema della patria, e l’altra, religiosa, la spingeva addirittura nella mitologia e nella teologia[35. Ivi, pp. 149-50.].
E tuttavia, malgrado quest’ultimo giudizio, l’analisi crociana si soffermava in maniera molto meno benevola, come già accennato, sugli studi storici della seconda metà del secolo, segnatamente su quella stagione della cultura italiana che – conclusasi la vicenda del Quarantotto e, assieme ad essa, esauritosi il portato di idee e valori che l’avevano animata – aveva rinchiuso il tracciato della storia entro il limitato reticolo della filologia e dell’erudizione, separandolo inesorabilmente dalla filosofia.
Si era, in altri termini, rapidamente passati a una fase di declino e di impoverimento, che aveva svuotato la storiografia della carica civile e politica fino a quel momento fortemente mantenuta, diluendo l’interesse patriottico in motivi retorici di ininfluente respiro.
La cultura italiana aveva, quindi, conosciuto una forte battuta d’arresto, le cui conseguenze non sarebbe stato facile limitare, come attesta questo passaggio:
Ma, quando la luce della filosofia idealistica, dissipate le nubi, splendeva coi suoi raggi più vivi, eccola, come un tratto, oscurarsi e spegnersi; quando quel moto di pensiero era giunto a una cima dominante, e cominciava a scorrere con lo sguardo sui piani tutt’intorno e ripigliava lena per proseguire l’ascesa, sopravvennero insoddisfazione e fastidio, e cominciò una discesa per la china opposta. Che cosa accadeva? Quel che accadeva era cosa non dell’Italia solamente, ma di tutta Europa, dove dappertutto si venne spegnendo dopo il 1850 (e in Italia alquanto più tardi) l’interessamento speculativo[36. Ivi, vol. II, p. 17.].
A versare in una crisi inesorabile era, dunque, l’idealismo, che in Italia, con Spaventa e De Sanctis, nei decenni precedenti, aveva offerto soluzioni di pensiero solide e vigorose, modelli etico-politici efficaci e fruttuosi, e, non da ultimo, inedite acclimatazioni del portato migliore della tradizione culturale italiana.
La sorprendente inversione di tendenza che aveva interessato la parabola di sviluppo dell’idealismo creava i presupposti per l’affermazione di una tendenza storiografica, giudicata in maniera a tratti severa da Croce, fortemente legata all’itinerario concettuale del Positivismo, che non solo aveva irrimediabilmente compromesso l’unità di filosofia e storiografia, nell’affannosa ricerca di una perfezione erudita di chiaro stampo filologico, ma aveva costretto il lavoro storico entro le stringenti maglie di una pretesa di scientificità, difficilmente assecondabile nel campo dei fatti umani.
Quello che Croce definiva l’ideale di “storiografia pura”, portato avanti da due generazioni di “puri storici” – Villari, Marselli, De Leva, Malfatti, De Blasiis, Comparetti, Pais, Graf, Crivellucci, Cipolla – e dai loro allievi durante i primi anni del Novecento[37. Ivi, pp. 123-156.], pur tentando di offrire al dibattito storiografico una mole vastissima di documenti e ricostruzioni, affrontati con serietà di metodo e di ricerca, non aveva fatto altro che inaridire la «sorgente della filosofia, i rivoli che da essa erano scorsi, e che ancora qua e là mostravano le loro acque luccicanti e rinfrescanti», sostituendoli con «aridi campi di erudizione»[38. Ivi, p. 86.], che soltanto alcuni decenni dopo, segnatamente a partire dal «risveglio della storiografia filosofica»[39. Ivi, p. 123.], a seguito della nascita del materialismo storico, avrebbero conosciuto una rinascita e un rinnovato vigore.
Nondimeno – notava −, l’«elemento filosofico che si ravvisa in parecchi di essi non era il cominciamento di qualcosa di nuovo, ma quasi sempre l’ultimo anelito e l’ultimo guizzo di un pensiero morente, e il residuo di vecchi abiti sentimentali e morali. Chi ha il senso di queste cose – proseguiva −, avverte che l’ambiente è filosoficamente depresso, che vi manca un fuoco centrale, che perfino nei migliori le idee giuste e i giudizi acuti non hanno quella ricchezza di riferimenti e di sottintesi, che sono propri di una intensa vita mentale»[40. Ivi, p. 84.].
A mano a mano, dunque, che si allontanava dalla filosofia, la storiografia conosceva un inesorabile impoverimento, che non riusciva a rinvigorire la pur significativa caratterizzazione filologica delle ricerche avviate. L’erudizione fine a se stessa, in altri termini, non poteva condurre su nuovi binari una materia che aveva bisogno dell’azione vivificante del pensiero e del giudizio per essere compresa e attualizzata.
Da queste ultime considerazioni emerge distintamente il tratto teoretico caratterizzante questo momento forte del pensiero crociano. Nel tracciare, infatti, le linee evolutive della storiografia del suo secolo, come in altri casi era accaduto, il filosofo offriva ancora una volta un saggio efficace della sua teoria della storia, del suo ragionare sulla storia in maniera non disancorata dal pensiero, dall’indagine filosofica; e laddove, nel tempo, questa profonda compromissione era venuta meno, di assoluta necessità diventava il lavoro di individuazione delle cause che avevano condotto a quella regressione.
Non si trattava, dunque, di ricostruire sine ira et studio la storiografia italiana; semmai, di leggere quel percorso alla luce di quanto lo aveva corroborato o impoverito, indicando ancora una volta i termini metodologici di un lavoro che andava profondamente rivisto.
Se, in sostanza, nei suoi lavori storici Croce aveva conferito la concretezza del giudizio agli eventi indagati − se aveva, in altri termini, reso operante il significato teorico della filosofia intesa come metodologia della storiografia −, in quest’opera, che era una ricognizione storica del tracciato della storiografia, egli aveva voluto individuare in maniera via via sempre più compiuta la realizzazione storica di quell’intendimento della filosofia come metodologia della storiografia, dimostrando come le categorie filosofiche assumano concretezza soltanto nella prassi storiografica. Se, in breve, nelle opere storiche aveva reso vive e concrete le categorie logiche dell’indagine storiografica, nelle opere di storia della storiografia e segnatamente in quest’opera dimostrava come, storicamente, quelle categorie si erano andate approfondendo (o eclissando), esprimendo in maniera più o meno perfetta la loro rilevanza.
In forza di tutto ciò, le opere di storia della storiografia prodotte da Croce non potevano affatto dirsi opere minori, di puro diletto filologico, ma erano parte viva dell’indagine storiografica, o, ancora più precisamente, determinante corredo dell’indagine filosofica, che senza il loro indispensabile ausilio non avrebbe potuto dirsi feconda e coerente.
(fasc. 7, 25 febbraio 2016)