Croce, la religione e l’ideale
In questo lavoro si proverà ad individuare i presupposti filosofici del crocianesimo e della cultura politica di estrazione azionista, cercando di analizzarli tenendo presente la forte critica che il filosofo muove ai protagonisti di quella breve stagione intellettuale.
Al di là delle specifiche ascendenze teoretiche dei principali interpreti del partito d’Azione, il punto che ci preme sollevare investe in particolar modo la natura dello storicismo e le problematiche del Sollen.
L’obiettivo è cercare di capire quanto lo storicismo metodologico di Croce sia realmente disgiunto da ogni imperativo categorico e quanto l’illuminismo ideologico degli azionisti sia distante dal senso storico.
L’idea che la visione liberale di Croce presenti alcune «anomalie»[1. G. Cotroneo, Un liberalismo “anomalo”, in La tradizione filosofica crociana a Messina, a cura di G. Giordano, Messina, Armando Siciliano, 2002, pp. 103-25. Per Serge Audier quello di Croce è un «libéralisme atypique»: S. Audier, Néo-liberalisme(s). Une archéologie intellectuelle, Paris, Grasset, 2012, p. 259.] − e di conseguenza, per alcuni studiosi, andrebbe respinta sul piano politico[2. Solo alcuni esempi: Giuseppe Bedeschi definisce Croce un «eminente pensatore», ma non un liberale, in G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, p. 260. Giovanni Sartori sostiene che «Croce non arriva al liberalismo» e ancora che «dalla riconduzione del liberalismo alla filosofia idealistica, il liberalismo minaccia di uscire dissolto»: G. Sartori, Studi crociani, vol. II, Bologna, il Mulino, 1997, p. 168. Entrambi gli interpreti si ispirano, nella loro lettura anti-crociana, al celebre giudizio espresso da Norberto Bobbio, il quale consiglia – al fine di imparare la lezione del liberalismo moderno – di andare a scuola dai giusnaturalisti come Locke, o da liberali utilitaristi come Mill ed economisti come Einaudi, ma non dal filosofo-politico Croce: N. Bobbio, Croce e il liberalismo, in Id., Politica e Cultura, Torino, Einaudi, 2005, pp. 177-228. Una risposta intelligente alle considerazioni bobbiane è ritrovabile in Gennaro Sasso, in cui si ammette, al contrario, di prediligere due maestri di Croce, vale a dire Machiavelli e Marx, ai Locke e Mill e, soprattutto, Croce stesso a Luigi Einaudi: G. Sasso, Benedetto Croce e il Liberalismo, in Filosofia e idealismo. Secondi Paralipomeni, vol. V, Napoli, Bibliopolis, 2007, pp. 579-630. Una lettura molto negativa del liberalismo crociano è data da Raimondo Cubeddu e Antonio Masala, i quali sostengono che il ritardo culturale del liberalismo italiano del dopoguerra è dovuto sostanzialmente alla separazione crociana tra il liberalismo etico e il liberismo economico che dominerebbe all’interno del mondo della cultura, influenzando in particolare i dirigisti, nonché i futuri sostenitori del partito azionista: R. Cubeddu-A. Masala, Le libéralisme italien, in Histoire du libéralisme en Europe, a cura di Philippe Nemo et Jean Petitot, Paris, Presses Universitaires de France, 2006, pp. 563-64; su questi ultimi temi guardare pure R. Cubeddu, Croce, gli Austriaci e il liberalismo, in «MondOperaio», 2003, n. 6.] − si rivela attendibile quasi quanto si rivela priva di fondamento l’analisi che riconosce in Croce un autore anti-illuminista tout court[3. Paolo Rossi, ad esempio, non tiene conto della posizione ambivalente che Croce assume nei riguardi del pensiero illuminista: P. Rossi, La «rivalutazione» dell’illuminismo e il problema del rapporto con lo storicismo, in «Rivista Critica di Storia della Filosofia», II, 1957. Il convincente richiamo all’ambivalenza crociana è invece contenuto in G. Cotroneo, Croce e l’illuminismo, Napoli, Giannini, 1970. Sulla scia di Cotroneo, Ernesto Paolozzi, pur ribadendo le ragioni – che via via nel testo si rievocheranno – dell’antilluminismo crociano, precisa che «neanche si può ritenere semplicisticamente che Croce fu un liquidatore della Ragione illuministica nel nome di un vago irrazionalismo e nel nome di uno storicismo relativistico, o peggio, di un bieco conservatorismo»: E. Paolozzi, Antilluminismo di Croce?, in Il liberalismo come metodo. Antoni-Croce-de Ruggiero-Popper, Roma, Fond. Luigi Einaudi, 1995, p. 117. Inoltre, nonostante Carlo Antoni probabilmente esageri nel dire che il «concetto “progressista” della libertà», elaborato da Croce, rinnova «l’istanza illuministica», non può aver torto quando ricorda a tutti coloro che definiscono Croce anti-illuminista, «le pagine vibranti di commossa ammirazione che Croce ha dedicato al pensiero e all’opera degli illuministi napoletani della Repubblica partenopea, creatori eroici di una prima coscienza civile e patriottica in Italia», oppure quando «non ha esitato a riconoscere che il suo amato e venerato Vico era stato sordo a siffatte voci e pertanto era rimasto tagliato fuori del movimento mentale e pratico del suo secolo»: C. Antoni, Il Liberalismo, in La restaurazione del diritto di natura, Venezia, Neri Pozza, 1959, pp. 119-37. Croce, infatti, scrive che «si sente nel Vico pedagogista e critico qualcosa di retrivo. Si sente che egli, esclusivamente sollecito dalle sorti della grande e severa scienza e fisso l’occhio nella forma più compiuta dell’umanità, non intendeva il valore rivoluzionario di quello scetticismo e razionalismo e di quella ribellione al passato, che erano necessari strumenti di guerra contro re, nobili e preti: di quei ristretti e dizionari che dovevano mettere capo alla Enciclopedia; di quella scienza popolare che preludeva al giornalismo; di quei libercoli per dame e per eleganti conversazioni che avrebbero alimentato i salotti del secolo decimottavo e temprati gli spiriti al radicalismo giacobino»: B. Croce, La filosofia di G. B. Vico, Bari, Laterza, 1965, p. 217.].
Croce condanna l’ideologia illuministica, anche se approva i risultati storici che ne scaturiscono. Questo è il primo motivo, di ordine formale, che fa di Croce un teorico non completamente anti-illuminista. Vi è, però, una ragione più importante che lo legherebbe in parte allo spirito settecentesco. Una ragione di ordine sostanziale che chiamerebbe in causa, con toni originali, l’epoca del romanticismo.
Prima andrebbe detto che l’illuminismo è da Croce interpretato come una Weltanschauung intenta a rivendicare il ruolo assoluto della Verità da contrapporre alle esperienze legate alla storia, alle tradizioni, al volgo. La narrazione filosofica degli illuministi, per dirla con Nietzsche, abiterebbe in «un mondo dietro il mondo»[4. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 2005, pp. 29-32.] e nuoterebbe nelle sicure acque della trascendenza. Una narrazione costituita dalle regole geometriche del reale e da un approccio quantitativo non consono, secondo Croce, alla vera natura dell’uomo. Il radicalismo giacobino, preziosa anima di questo movimento, si servirebbe della libertà per propositi liberticidi, per porre le basi di un mondo (iper-democratico) guidato dall’ideale dell’eguaglianza.
Il romanticismo è l’immediata reazione alle astrattezze della raison. A partire dal secolo XIX, aggiunge Croce, è possibile scovare diverse e plausibili risposte al dominio illuministico: risposte a sfondo irrazionale – si pensi al movimento culturale dello Sturm und Drang che, d’altra parte, non andrebbe avvicinato in maniera eccessiva al romanticismo, a causa dei suoi «bollori giovanili»[5. De Ruggiero è convinto che «bisognerà che l’ardore si smorzi, che la selvaggia passione si plachi e si veli di nostalgia, che il titanismo ironizzi se stesso, che la grezza natura si circondi di un mistico alone soprannaturale, perché lo “Sturn” diventi Romanticismo»: G. De Ruggiero, La filosofia moderna. L’età del Romanticismo, Bari, Laterza, 1946, p. 23.] − e risposte di natura razionale. Croce aderisce alla seconda alternativa, tipicamente hegeliana, e, a differenza del sapere immediato di un Jacobi, ritiene che non si possa svilire l’attività logica; quindi, come Hegel, si mostra a suo agio con una certa declinazione illuministica del sapere, anche se ciò non sarebbe sufficiente. Non basta la Ragione al maiuscolo, svuotata di ogni serio cominciamento e sviluppo storico. Occorre, afferma Croce, storicizzarla. L’intelletto, nel frattempo, dovrebbe costituire l’organo operativo delle scienze e di ogni possibile astrazione.
L’illuminismo è il sogno democratico dipinto nei cieli astratti dell’a priori. Il romanticismo s’identifica con la realtà storica del liberalismo e con la realizzazione dell’immanentismo assoluto.
Il passaggio da un razionalismo astratto (Settecento-democrazia) ad un razionalismo concreto (Ottocento-liberalismo) Croce lo immagina radicato nel travaglio morale di ogni singolo uomo: il fanciullo dapprima è egoista, dopodiché insegue il momento della ribellione, del dover aggiustare idealmente il mondo (democrazia/intelletto), e alla fine «si procura d’intenderlo, di giudicarlo e d’indirizzarlo»[6. Per dirla con le sue parole: «Tutti passano e debbono passare, per questo stadio di facile critica e di facilissimi sogni, perché è la legge dello spirito umano che non si possa superare un errore se non facendone esperienza, vivendolo, e perciò accettandolo, almeno come ipotesi provvisoria. Tutti passano di là, ma i seri, gli intelligenti, gli scrupolosi, gli autocritici non vi si fermano, e un po’ prima o un po’ dopo pervengono al nuovo maturo stadio»: B. Croce, Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1928, p. 257.] (liberalismo/ragione).
Le prime fasi della ribellione, direbbe ancora Croce, si iscrivono nel contesto semplicistico dell’utopia. L’utopia del democratismo egualitario che lotta per sconfiggere definitivamente il male. Si tratterebbe, a suo parere, di una riflessione culturale immatura e del tipico atteggiamento massonico che coinvolge menti pigre e astratte[7. Uomini, cioè, scrive Croce, di «mezzana cultura»: «maestri di scuola primaria, diplomati di scuola tecnica, laureati farmacisti, e poi altresì specialisti, anche valorosi, medici, avvocati, ingegneri, militari, che conoscono bene la loro specialità, ma non hanno svolto abbastanza la loro umanità, la consapevolezza filosofica e storica, e si sono contentati per questa parte dei risultamenti ottenuti nel primo sforzo, delle prime nozioni, necessariamente astratte e semplicistiche»: ivi, p. 258.].
Egli scorge, dunque, nello stadio intellettualistico del sapere, un approccio originario, la riflessione in nuce che prima o poi dovrà essere soverchiata dagli «addottrinati» e dagli «avveduti», dagli uomini con il più alto senso storico, consapevoli che il corso della storia non può essere sradicato e che il Sollen – recependo la lezione hegeliana − non è altro che l’illusione degli ingenui.
La prima formulazione dell’atto riflessivo non soltanto spalanca le porte alla vera riflessione, ma subisce un’importante trasformazione in quanto si inserisce in un contesto operativo (intelletto) e parallelo alla medesima e reale conoscenza (ragione).
L’inizio, il consolidamento e la definitiva consumazione di un secolo e poi l’ingresso, lo sviluppo e la conclusione di quello successivo, segnano così ‒ agli occhi dell’autore della Storia d’Europa ‒ il passaggio dall’ingenuità[8. E ancora, sul tema che vede intrecciato lo spirito illuministico e l’età giovanile, si guardi B. Croce, Agli amici che cercano il trascendente, in Id., Etica e politica, Bari, Laterza, 1967, pp. 378-84.] a quello della maturità del pensiero, sempre sotto il segno dell’accrescimento della libertà.
Il punto sorprendente risiede in quel senso di eternità che trapelerebbe dai due secoli fin qui analizzati. Come se il Settecento, oltre a mettere in evidenza un chiaro contenuto religioso improntato all’eguaglianza, fosse sempre presente ‒ col suo irrinunciabile dover essere ‒ nella natura ancora acerba dell’individuo e, non diversamente, l’Ottocento, oltre a racchiudere non una religione fra le altre ma la vera religione[9. Sui rapporti tra i due secoli, si segnala inoltre un’altra pagina dell’autore, il quale, dopo aver detto che la Rivoluzione francese «fu di somma importanza nella storia della civiltà», non manca di criticare con toni aspri l’«egalitarismo giacobino», definito come l’«estrema conseguenza dell’astratto e matematizzante razionalismo settecentesco» e in cui si esprime una netta preferenza, ripetiamo, dal carattere ‘religioso’, nei confronti del pensiero dell’Ottocento, quale «intelligente accettazione storica di tutto il passato, anche di quello che per le recenti lotte era più aborrito, come il feudalesimo e il monarcato assoluto»: B. Croce, Libertà e giustizia, in Id., Discorsi di varia filosofia, vol. I, Bari, Laterza, 1945, pp. 268-69.], fosse sempre vivo nelle moderate convinzioni dell’individuo adulto, cioè di chi ha compreso che il «legno storto» di kantiana memoria non può essere raddrizzato. Croce arriverà persino a dire che lo storicismo è il vero illuminismo, «assimilato e convertito in succo e sangue»[10. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di Maria Conforti e con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 68-69.]. In altri termini, lo storicismo è il perfezionamento della ragione illuministica.
Riluttante ad un certo liberalismo chiacchiereccio, nonché ai preziosismi della retorica – interpretata come «il correlato stilistico dell’insincerità interiore»[11. S. Cingari, Alle origini del pensiero “civile” di Benedetto Croce. Modernismo e conservazione nei primi vent’anni dell’opera (1882-1902), Napoli, Editoriale Scientifica, 2002, p. 74.] −, il giovane Croce veramente giovane, forse, non lo è stato.
Ritornando alla descrizione che egli stesso compie in merito al naturale passaggio da una passione giovanilistica − contaminata da una vera e propria ansia di democraticità − ad una passione realistica che dovrebbe investire le menti esperte e liberali, si potrebbe dire che questo esame interiore, il Nostro, probabilmente non lo vive. Pesano senz’altro le vicissitudini che colpiscono lui e la sua famiglia[12. Ci si riferisce al terremoto di Casamicciola del 1883, in cui Croce, all’epoca diciassettenne, perde la sua famiglia, rimanendo «segnato nel corpo e nella psiche»: S. Cingari, Alle origini del pensiero “civile” di Benedetto Croce, op. cit., p. 27.], e che lo raffreddano in merito ad una certa inclinazione entusiastica della vita[13. Il filosofo scrive che «la sventura domestica», «lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gli incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili mi toglievano ogni lietezza di speranza e mi inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane»: B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 23.]. Sta di fatto che il fascino sovrasensibile del Sollen pare non abbia fatto breccia nel suo cuore. In fondo è lui stesso ad esplicitarlo in molteplici occasioni. Ma non è la Libertà e niente altro, per dirla in modo provocatorio con Gaetano Salvemini, il suo peculiare dover essere?
Procediamo con ordine. In un Collegio cattolico frequentato fin dalla tenera età, Croce ascolta con attenzione le lezioni filosofiche di religione impartite da un «pio sacerdote e dotto teologo»[14. Ivi, p. 20.], e dopo un difficile processo di transizione[15. Egli dichiara di provare molte ansie e tristezza «per quel vacillare della fede», dopodiché, per un breve periodo, non si pone più interrogativi religiosi, anzi, continua a praticare «per abito o per convenienze esteriori alcune pratiche religiose», fin quando non esprime «chiaro a se stesso» di essere del tutto estraneo al credo religioso: ivi, pp. 20-21.], si rende conto di aver perduto la fede. Inizia, così, la sua battaglia contro la trascendenza.
Il filosofo, salvo errore, menziona per la prima volta l’espressione «religione della libertà» nei Capitoli introduttivi di una storia d’Europa nel secolo decimonono, pubblicati nel 1931 e poi ripresi nella celebre Storia d’Europa dell’anno dopo. Il Croce maturo, della svolta anti-fascista, non può essere identificato con il Croce fin de siècle: un «involontario filosofante»[16. Ivi, p. 26.] alle prese con problemi speculativi riguardanti l’arte, la storia e la scienza. E non può coincidere del tutto con quel Croce che cerca di individuare pregi e difetti del marxismo, oppure con il Croce sistematico, attento critico della dialettica di Hegel, nonché impegnato a raccogliere spunti anti-positivisti nella sua rivista «La Critica».
Egli, va sottolineato, nei primi anni della sua formazione filosofica, non matura ancora una nitida visione «metapolitica» e meta-istituzionale del liberalismo. Si sente un liberale moderato, un uomo di studio che disprezza le radicalità politiche: niente di più. Tuttavia, le distinzioni argomentate nei primi lustri del secolo scorso, a proposito di religione e di filosofia, non solo anticipano con coerenza la sua futura esposizione liberale, ma contengono l’a priori che lo accompagnerà fino alla fine. In breve, solo una sua mancata esplicitazione, o chiarimento concettuale, potrebbe giustificare la presunta assenza religiosa e liberale dei primi periodi. Il suo impianto speculativo, di inizio Novecento, ospita il senso vivo della trascendenza che, in Croce, acquisisce fin d’allora il valore della Libertà.
Le opere dello spirito, l’incontro sintetico e categoriale fra il particolare e l’eterno, la natura intrinseca di quegli opposti che animano il meccanismo dialettico, le azioni individuali e soprattutto l’insidiosa teoria dell’«accadimento» − esposta, in maniera approfondita, nella sua Filosofia della pratica del 1909 −, scaturiscono da una precipua professione di fede: la scelta metafisica della storia nel suo perpetuo divenire. Ecco il suo inizio assoluto e ideale: il suo Sollen.
Croce, in Cultura e vita morale del 1914, distingue la sfera religiosa da quella filosofica. La prima è «un sistema di pensieri nel quale sono misti elementi non dedotti dal pensiero, ma posti dalla volontà o dal sentimento»[17. B. Croce, Il risveglio filosofico e la cultura italiana, in Id., Cultura e vita morale, Napoli, Bibliopolis, 1993, p. 16.], la seconda è «il pensamento dell’universale» che matura mediante severo spirito critico.
La religione, quale «filosofia imperfetta»[18. Ibidem.], riposa in un rapporto di tensione e confusione che investe il momento poetico e quello riflettente, un miscuglio di fede, mitologia e nel contempo timidi richiami di razionalità. La filosofia, al contrario, è un’attività logica che si serve di un iniziale passaggio sentimentale (religione), per poi “superarlo” mediante un procedimento speculativo in cui ogni seme dogmatico dovrà esser vinto[19. Egli sostiene che è impossibile «conservare una conoscenza imperfetta e inferiore, quale è la religiosa, accanto a ciò che l’ha superata e inverata» e aggiunge che la filosofia «toglie ogni ragion d’essere alla religione». L’attività speculativa, infatti, essendo una «scienza dello spirito», «guarda alla religione come a un fenomeno, a un fatto storico e transitorio, a uno stato psichico superabile»: B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1965, pp. 70-71.].
La sua futura religione della libertà, quella che, ripetiamo, viene resa nota dopo gli anni ’30, sembrerebbe molto più vicina alla sua concezione originaria della religione, anziché al significato gnoseologico dell’immanente. Essa è un impulso, quella che Vico chiamerebbe l’«inopia» della mente[20. B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 131.]. Non è un concetto puro, ma un attimo di sospensione trascendentale; o, in ogni caso, è un a priori che dovrà spiegarsi attraverso le categorie eterne con cui lo spirito si afferma nella storia. La sua prospettiva religiosa è uno stadio (philosophia inferior) da travalicare in nome della storia effettuale[21. Dopotutto, anche quando Croce affermerà nel 1938 che la sua «religione della libertà» è una «religione critica» − quasi a voler far intendere che la vorrebbe già collocare in un ufficio più propriamente “filosofico” −, subito dopo precisa che la sua religione non va incontro «ad una sostanziale differenza verso le altre religioni, le quali anch’esse pensano e professano verità con purezza di verità»: B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 245. Al di là dell’ambiguità di quest’ultima asserzione − specie se si prende come punto di riferimento la distinzione che lui stesso pone fra elemento “religioso” (mito, dogma) ed elemento “filosofico” (spirito critico, riflessione concettuale, ricerca della verità) −, pare evidente che Croce non abbia vera intenzione di sceverare dal generale contesto “religioso” la sua «religione della libertà».].
La Libertà, che chiamerà «senz’altra determinazione»[22. B. Croce, Storia d’Europa, op. cit., p. 21.], nonché vissuta come «l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia»[23. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 54.], e che non guarda tanto all’avvenire, avendo come oggetto «l’eterno»[24. B. Croce, Storia d’Europa, op. cit., p. 434.], rappresenta il suo Sollen.
La lotta contro se stesso, contro il crocianesimo della fede, è il suo intervallo posto tra un peculiare Sollen (Libertà come necessità) e lo spirito immanente (libertà come determinazione).
Il dogma della Libertà gli suggerisce, inoltre, di essere marxiano e non marxista, cautamente dialettico, ma non hegeliano tout court, favorevole al metodo naturalistico, anche se convinto oppositore della dottrina positivistica, simpatizzante di una certa idea democratica e tuttavia avversario della rispettiva interpretazione illuministica. Se non si può parlare di «filosofia della storia»[25. Egli, del resto, scrive in maniera abbastanza nitida che il suo liberalismo, da interpretare come «religione dello svolgimento e della storia, rigetta e condanna, col nome di “utopia”, l’idea di uno stato definitivo e perfetto, o di uno stato di riposo, quale che sia la forma in cui si è proposto o possa proporsi»: B. Croce, La Storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 251.], nel suo caso specifico, allo stesso tempo non si può facilmente respingere l’ipotesi che lo vede sensibile all’a priori, ad un preciso indirizzo dogmatico che lo costringe ad accettare in anticipo qualsiasi evento accada nella storia. Si tratterebbe, infatti, di un evento che, al pari di ogni altro, contribuirebbe a rendere libera la «storia della libertà»[26. Secondo Antonio Gramsci, la storia della libertà teorizzata dal filosofo corrisponde ad una «formula» «valida per la storia di tutto il genere umano di ogni tempo e di ogni luogo», ed è «libertà anche la storia delle satrapie orientali»: A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1.229.]. Tutto, nella storia, è intriso di libertà, a partire da ogni singola azione umana[27. In uno dei pochi lavori in cui l’autore ha cercato di trattare sistematicamente il tema della libertà, oltre a ribadire il suo valore di «forza creatrice della storia, suo vero e proprio soggetto», aggiunge che «tutto ciò che l’uomo fa, è fatto liberamente, siano azioni o istituzioni politiche o concezioni religiose o teorie scientifiche o creazioni della poesia (…)»: B. Croce, Principio, Ideale, Teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, in Id., Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1963, p. 112.].
La libertà come determinazione, invece, corrisponde alla reale auto-articolazione dello spirito e si configura in quattro momenti sintetici (estetica, logica, economica, morale). Ciò lascia supporre che anche Croce abbia conosciuto direttamente il problema giovanilistico, sebbene sopraggiunto con chiarezza concettuale in tarda età. La sua attività logica non riesce ad eliminare una volta per tutte il primordiale atto di fede, condizione necessaria per lo svolgimento dell’altra[28. Ricorda Ludovico Geymonat che l’atto dogmatico è indispensabile «per lo sviluppo di una qualunque esigenza critica. Rinunciare ad esso significa rinunciare a cercare; significa porre alla nostra esigenza critica una barriera, postulando che al di là di essa sia necessario appellarsi a qualcosa che non potrà più venir posto in discussione»: L. Geymonat, Neo-illuminismo e metafisica immanentistica, in «Atti del XVI Congresso Nazionale di filosofia promosso dalla Società Filosofica Italiana. Il problema della filosofia oggi», Milano, Bocca, 1953, p. 566. Si rinvia, inoltre, su questi temi al volume Impegno per la ragione. Il caso del neoilluminismo, a cura di W. Tega, Bologna, il Mulino, 2010.].
Croce non si è assuefatto alle dure regole del disincanto e non si è riconciliato con la storia, distruggendo ogni residuo dogmatico. Persino lui, dunque, il più accanito oppositore del dualismo e dell’Iperuranio dalle mille declinazioni, si è lasciato contagiare dallo spirito illuministico, riscoprendolo in maniera originale.
In ogni modo, tenendo fede alla distinzione che egli adopera tra il giovanilismo democratico, rispolverato politicamente dai ribelli azionisti, e quello romantico, rivendicato da uomini saggi proiettati verso l’immanentismo liberale, andrebbe collocato in questo secondo ufficio il lungo impegno filosofico, politico e morale di Croce.
Il democratico e il liberale
Il democratico, nel discorso crociano, non è soltanto colui che promuove delle tecniche di comodo pratico – suffragio popolare, sistemi elettorali, formazione di partiti – utili per una determinata società; o chi cerca di costruire un quadro liberale attraverso norme provvisorie che lo rendano efficiente.
Il democratico è in primo luogo colui che sente religiosamente la questione dell’eguaglianza, ponendo riparo alle ingiustizie umane e, contrariamente ad un certo liberalismo puro[29. Si guardi K. Minogue, La mente liberal, Macerata, liberilibri, 2011.], ha a cuore il tema del bisogno, avverte che il mondo così com’è non va bene e lo definisce ingiusto in quanto non tutti i «coinquilini del pianeta»[30. S. Veca, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano, Feltrinelli, 2006.] godono delle medesime fortune, o più precisamente dello stesso ius.
Urge precisare che non tutti i democratici si riconoscono in uno schema giusnaturalistico e illuministico[31. Basti pensare che uno dei più duri rivali del liberalismo crociano, ovvero Guido Calogero, dichiara che «l’uguaglianza degli uomini non è una loro natura, è un dovere nostro. E s’intende che rendere uguali le sorti umane non significa verniciare tutte le facce con la stessa vernice (…). L’uguaglianza – continua Calogero – che è un ideale del volere, non è l’appiattimento uniforme delle personalità e delle capacità (…), ma l’equilibrio delle fruizioni del mondo, l’equilibrio delle libertà»: G. Calogero, Intorno al concetto di giustizia, in Difesa del liberalsocialismo e altri saggi. Con alcuni documenti inediti, Roma, Atlantica, 1945, p. 17. Da queste riflessioni è possibile ricavare, secondo Thomas Casadei, una certa vicinanza fra Calogero e lo studioso americano Michael Walzer, in quanto il pensatore italiano non difende una forma di egualitarismo “semplice”, ma “complessa”, ovvero «tesa a tutelare l’“individuale varietà dei gusti”»: G. Calogero, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, con una testimonianza di N. Bobbio, nuova ed. a cura di T. Casadei, Reggio Emilia, Diabasis, 2001, p. XXI.]. La cultura filosofica del liberalsocialismo o del socialismo liberale italiano non può essere, ad esempio, completamente identificabile con la prospettiva liberal di matrice anglosassone: la prima appartiene alla tradizione dello storicismo continentale, la seconda è legata al modello analitico[32. Paolozzi sottolinea il netto divario culturale fra de Ruggiero, Antoni e il neocontrattualismo contemporaneo di matrice anglosassone sostenuto «da alcuni teorici della giustizia come John Rawls»: E. Paolozzi, Neoilluminismo, socialismo liberale e liberalismo, in Id., Il liberalismo come metodo, op. cit., p. 109. Tuttavia, sono alquanto incontrovertibili alcuni segni di comunanza: Thomas Casadei, riferendosi a Calogero, sostiene ad esempio che la sua opera «può inserirsi nel dibattito più recente, volto a delineare un rinnovato incontro fra liberalismo e socialismo nel quadro delle istituzioni democratiche (…) e a descrivere i tratti della libertà eguale»; l’interprete, in particolare, riconosce una convergenza fra Calogero e autori quali: Walzer – di cui già si accennava nelle note precedenti −, Sen, lo stesso Rawls, soprattutto Apel e Habermas: G. Calogero, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, op. cit., p. XXIV. Più o meno lo stesso fa Bobbio, secondo cui – sempre a proposito della prospettiva teorico-politica di Calogero − «può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell’equità», in Il più giovane dei miei maestri. Testimonianza di Norberto Bobbio, op. cit., p. 141. Nondimeno, non bisognerebbe enfatizzare questa possibile convergenza circa le conseguenze politiche dei rispettivi approcci, in quanto il liberalsocialismo di Calogero presenta un’assoluta novità strettamente legata al suo stesso indirizzo teoretico. Per un breve confronto fra il liberalismo metapolitico di Croce e le teorie liberals di autori quali Ronald Dworkin, Bruce Ackermann, e i già citati Walzer e Rawls, si rinvia a G. Cotroneo, Croce. Filosofo italiano, Firenze, Le Lettere, 2015, pp. 228-32.].
Croce, tuttavia, non sembra tener conto di queste importanti differenze. Egli, con coerenza, rimprovera la sintesi fra liberalismo e socialismo sviluppata in modo dottrinale dal movimento calogeriano e capitiniano; solo che, in generale, denuncia ogni tentativo progressista di «aggiustare il mondo», tacciandolo di anti-storicismo, e riconduce le formazioni democratiche al fondamento giusnaturalistico[33. Bobbio scrive che, per Croce, la «confusione» dei vari Calogero, Capitini e dei vari azionisti, è dettata da una «perdurante mentalità illuministica» che non si rassegna «ad accettare la critica storicistica della ragione astratta»: N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento Italiano, Torino, Einaudi, 1986, p. 147.].
Così, il partito d’Azione subisce un duro rimprovero, malgrado l’approccio di quest’ultimo si riveli «meno lontano dalle posizioni crociane di quanto la polemica di allora non lasciasse supporre»[34. M. Biscione, La filosofia politica del Novecento in Italia, Roma, Bonacci, 1981, p. 118.]. Questi aspetti saranno approfonditi a tempo debito.
Il liberalismo di Croce sfodera, in un primo tempo, motivi religiosi al fine di corroborare la netta differenziazione fenomenologica che intercorrerebbe non soltanto tra il suo sentimento liberale e quello egalitario, ma anche nei confronti di quel liberalismo tecnico ritenuto non dissimile, sul piano filosofico, dall’impianto razionalistico e settecentesco.
Molti critici di Croce, lo si accennava all’inizio, lamentano proprio l’assenza di un impegno analitico e largamente costituzionale della sua teoria liberale, come se risultasse stravagante o lacunosa per il solo fatto che non riesce a manifestarsi in viva sintonia con lo spirito liberale del tempo. Una teoria sovente dichiarata conservatrice, o dal piglio idealistico ed hegeliano, per nulla meritevole di confluire nella ricca famiglia di quel liberalismo moderno che avrebbe il merito di riconoscere come padre indiscusso il filosofo empirista John Locke e la figura di John Stuart Mill con il suo prezioso On liberty. Se del primo Croce non manifesta una grande stima, il secondo, a causa della sua convinzione utilitaristica, viene addirittura accusato di aver promosso dei «fallaci teorizzamenti». Il problema di Croce lo si può sintetizzare in questi termini: troppo Hegel e poca analisi.
In generale, nonostante le convergenze, andrebbe riferito che Croce cerca di tenere distante il suo approccio storicistico e soprattutto politico da quello difeso dal filosofo di Stoccarda[35. Croce dice che la filosofia hegeliana, a causa del suo sistema chiuso e definitivo, «si convertì» in una specie di «romanzo cosmologico»: B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Milano, Adelphi, 2001, p. 69. Inoltre, in una pagina interessante, in cui il filosofo distingue in modo chiaro il vecchio storicismo (quello hegeliano) dal nuovo storicismo (il suo), si legge che quest’ultimo «pur accogliendo, estendendo, approfondendo e mettendo in opera il principio vichiano della conoscibilità di quello solo che si fa e perciò dell’uomo che conosce soltanto quello che è la sua storia perché egli l’ha fatta, e il principio hegeliano dello svolgimento dialettico per conservazione e superamento, tiene salda non meno, e approfondisce, estende e fa fruttificare la teoria kantiana del giudicare, integrandola con le due precedenti. E per tanto il nuovo storicismo rifiuta, anzitutto, la cosiddetta “Filosofia della storia”, che considera, se mai come una sua prima e mitologica o “simbolica” forma, e contro di questa nega, insieme con ogni altro apriori in filosofia, la conoscenza apriori della storia in qualsiasi sua parte (…)»: B. Croce, Lo Storicismo hegeliano e quello nuovo, in Id., Discorsi di varia filosofia, vol. 1, Bari, Laterza 1945, pp. 124-25.]; basti riflettere sul differente modo di analizzare lo Stato: lo Stato etico e «divino» di Hegel, che poi sarà in parte ereditato da Gentile, non sembrerebbe compatibile con lo Stato «attività»[36. G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Napoli, Morano, 1966, p. 19.] elaborato da Croce, peraltro vissuto come elemento di tensione con la (superiore) etica individuale, vale a dire con la volizione dell’eterno o del divenire. Anche se la concezione tedesca della volontà di potenza non dispiace molto al Croce delle Pagine sulla guerra.
Per quanto riguarda il tema dell’analisi, egli, a suo modo, attribuisce una delicata importanza al ruolo assunto dalle scienze di ogni settore, a differenza delle esplicite svalutazioni hegeliane, gentiliane o esistenzialistiche. Un valore non conoscitivo, ma di mera utilità.
Diversi intellettuali, dunque, qualificano il suo liberalismo come poco utile, a causa di una sua presunta disattenzione nei riguardi delle scienze politiche, giuridiche ecc. Un liberalismo che oramai avrebbe fatto il suo tempo. Che ha offerto indiscutibili contributi culturali alle giovani generazioni annebbiate dal totalitarismo fascista, ma che dovrebbe lasciare campo e spazio ad altre dottrine politiche, liberali in altro modo e con altre motivazioni.
L’accusa di «poco utilità»[37. Gaetano Salvemini, ad esempio, sostiene che la Libertà di Croce risiede in una zona morta, in quanto si nutre di astrazioni e di metafisica, ed «ha poco o niente a che vedere con quelle determinate libertà personali e politiche, alle quali noi poveri diavoli non viventi nella stratosfera filosofica pensiamo quando usiamo questa parola magica: libertà!». E continua: «Croce non definisce mai in termini concreti quali libertà» debbono manifestarsi nell’Italia di «oggi», dove «Croce vive». Insomma, la libertà «ideale astratto di Croce, non è mai esistita fuori della mente di Croce»: G. Salvemini, Che cosa è un «liberale» italiano nel 1946, in Id., Opere, VI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 365-66.] Croce la ribalta, facendone un punto di forza. Il suo obiettivo è quello di purificare il liberalismo dai meccanismi e dalle tecniche positivistiche, innalzarlo a valore religioso (la Libertà priva di determinazione), nonché custodirlo in un versante propriamente filosofico (le libertà determinate dei quattro volti dello spirito, incluso quindi quello politico in senso lato) che consenta di far circolare la Libertà dell’a priori, sottoposta, di volta in volta, ad una sicura e dialettica determinazione: libertà estetica, interpretata come raggiungimento della chiarificazione interiore di chi trasforma delle mere impressioni in espressioni; libertà filosofica, che si identifica con la manifestazione intellettuale di un pensiero critico proiettato verso l’orizzonte del vero; libertà economica, da non confondere con un mero risvolto liberistico, che invece consiste in quella libertà di chi agisce con spirito volitivo e infine vi sarebbe una libertà a sfondo morale che vuole la profondità dello spirito nel suo progressivo arricchimento: la volontà del Tutto.
C’è chi definisce il suo liberalismo «incompleto»[38. C. Ocone-D. Antiseri, Liberali d’Italia, pref. di Giulio Giorello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, p. 50.]. Al massimo può essere definito opinabile. L’intera impalcatura speculativa presenta non poche aporie. Ciò, d’altra parte, non pregiudica l’impegno crociano di dedicarsi ad una sfera di completezza in riferimento al senso di libertà.
Storicismo assoluto e storicismo relativo
Alla luce di quanto detto finora, se si volessero individuare i presupposti filosofici di Croce, oppure dei maggiori interpreti (o precursori) del già citato partito d’Azione, sarebbe fuorviante compiere un’operazione scolastica e immaginare che il primo risponda solo a quel paradigma romantico della libertà in cui soggiornano impeti vitalistici, variegato irrazionalismo e poi le teorie di De Maistre, Bonald …; o credere che gli azionisti si rifacciano soltanto alla raison.
Occorre insistere sul fatto che la critica mossa da Croce ad ogni religione mitologica certamente si incrocia con quella cultura fondata sull’«intimità della coscienza», sul «principio epistemologico del dubbio» e sulla «critica razionalistica e illuministica degli idola»[39. A. Di Mauro, Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 35-36.]; anche se la filosofia di Croce intende recuperare, con molta cautela, le linee guida dell’impostazione hegeliana ed abbracciare una Storia che diviene il suo Sollen, in quanto la divinizza anche grazie all’introduzione della legge (provvidenzialistica) dell’accadimento.
Lo stesso varrebbe, a parti invertite, nei confronti della cultura azionista. In primo luogo andrebbe detto che essa, nella sua ridefinizione partitica, ospita talmente tante sensibilità che risulterebbe quasi impossibile esprimere una chiara configurazione teoretica di questo partito o coglierne con precisione le rispettive origini speculative.
Non è semplice, ad esempio, scorgere segni di comunanza fra la visione culturale avanzata dall’azionista di “sinistra” Emilio Lussu – il quale aderiva precedentemente all’esperienza rosselliana di Giustizia e libertà – e quella sostenuta dall’area amendoliana guidata da Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, le cui divisioni di intenti e prospettive contribuiranno non poco al precoce scioglimento del partito[40. Paolo Bonetti, a tal proposito, scrive che «Lussu parlava di operai e contadini, di Fiat e di Montecatini, allo stesso modo in cui ne parlavano i parlavano i partiti socialista e comunista, voleva insomma creare un terzo Partito socialista che andasse a cercare il consenso presso gli stessi ceti a cui si rivolgeva, con ben altro radicamento, la sinistra tradizionale, mentre La Malfa negava che l’azionismo dovesse fare concorrenza a questi partiti, il suo compito essendo piuttosto quello di trovare una distinta identità politica e un differente radicamento sociale, sottraendo i molteplici gruppi di piccola e media borghesia alle suggestioni della destra antidemocratica, come seppe poi fare, con grande efficacia, la Democrazia Cristiana»: P. Bonetti, Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, postfazione di Dino Cofrancesco, Macerata, Liberilibri, 2014, p. 90.]. Inoltre, sarebbe un errore abbandonarsi all’eventuale comodità di riunire in una medesima voce diretti protagonisti o importanti precursori dell’azionismo: la corrente del liberalsocialismo[41. Si segnala, nel merito, lo scritto di A. Galante Garrone, Echi del liberalsocialismo a Torino: La rivista «Argomenti», in «Il Ponte», 42 (1986), pp. 87-95.]; il liberalismo sociale di Guido de Ruggiero[42. Non ci sembra molto convincente il tentativo di Monique Canto-Sperber volto a riunire in un’unica voce – quella del liberalismo sociale, tanto cara, appunto, a de Ruggiero − l’intero filone del liberalsocialismo e del socialismo liberale sul piano normativo. Come se vi fosse filosoficamente un’assoluta equiparazione – per quanto riguarda ad esempio la tradizione italiana − fra la prospettiva rosselliana e quella salvaguardata dal duo Calogero-Capitini e fra le stesse e l’impronta riformista nonché tendenzialmente crociana portata avanti dallo stesso de Ruggiero. Insomma, ci sembra un po’ affrettato e riduttivo asserire che, a proposito del socialismo liberale, verrebbe «naturale chiedersi se non sia più opportuno parlare di “liberalismo sociale”, allo scopo di sottolineare come l’orientamento e i valori siano d’origine liberale e le poste in gioco concrete, per non dire gli scopi, siano socialisti»: M. Canto-Sperber, La filosofia del socialismo liberale, in Liberal-socialisti. Il futuro di una tradizione, a cura di N. Urbinati e M. Canto-Sperber,Venezia, Marsilio, 2003, p. 38. Sembrano considerazioni poco attendibili, sul piano filosofico, in quanto una cosa è l’identità intrinseca del liberalsocialismo calogeriano, un’altra il liberalismo dal respiro sociale di de Ruggiero, e altre caratteristiche – mosse prevalentemente da un puro spirito religioso – sono rintracciabili nel liberalsocialismo di Aldo Capitini, il quale, per ragioni coerenti alla sua filosofia, rifiuta di iscriversi al partito d’Azione voluto dal suo amico Calogero; a tal proposito si guardi A.Capitini-G. Calogero, Lettere 1936-1968, a cura di Thomas Casadei e Giuseppe Moscati, Fond. Centro studi Aldo Capitini (Perugia), Roma, Carocci, 2009.]; la prospettiva di una libertà liberatrice elogiata da Adolfo Omodeo[43. Aldo Garosci rammenta il risaputo crocianesimo di Omodeo, ma anche le sue simpatie mazziniane, dato che, mettendo in luce «quelli che erano a suo parere “i fondamentali ideali del partito d’Azione”, li ritrovava nella religione della libertà, accettando dal Croce anche l’ideale primato della libertà sulla giustizia, ma cercando di rendere più intenso e attivo il significato della libertà»: A. Garosci, Adolfo Omodeo, a cura di Maurizio Griffo, Roma, Ed. di Storia e letteratura, 2013, p. 106.]; il socialismo liberale di Carlo Rosselli, il cui approccio ideologico andrebbe in qualche modo collegato al sogno liberale e rivoluzionario di Piero Gobetti; o ancora si pensi al sottile crocianesimo di Piero Calamandrei − altra figura di spicco del partito d’Azione −, unanimemente riconosciuto tra i padri del nostro costituzionalismo democratico.
Sarebbe un grave errore eludere la dimensione complessa di questo movimento[44. Addirittura Galvano della Volpe inserisce in un unico calderone liberal-socialista figure eminenti del revisionismo marxista del calibro di Rodolfo Mondolfo o lo stesso Croce, accusato di aver spiritualizzato il fattore economico, rendendolo contraddittoriamente un distinto fra le categorie eterne, ma nel contempo assoggettato alla sfera morale che tutto padroneggia e che consente, con accento illuministico e idealistico – qui il materialista della Volpe non distingue i due approcci, collegandoli entrambi alla visione cristiano-platonica della «persona originaria» –, di separare il liberalismo etico-politico dal liberismo economico, creando confusione e col solo intento di preservare politicamente e culturalmente il conservatorismo liberal-borghese: G. Della Volpe, La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion “pura” pratica, Messina, Ed. Vincenzo Ferrara, 1946, pp. 46-57. Nicola Tranfaglia riferisce, al contrario, che non sarebbe lecito rifarsi «ai Fabiani o a Bernstein e in genere a tutto il revisionismo europeo agli inizi del Novecento» nel momento in cui «si vuol delineare il nucleo dell’ideologia liberalsocialista», quanto a L. T. Hobhouse, all’italiano Saverio Francesco Merlino e inoltre a Carlo Rosselli, Guido Calogero – in questo discorso generale l’autore giustamente non si sofferma sulle differenze fra i due, posto che l’intento è solo quello di marcare la differenza fra questi e, appunto, i revisionisti prima detti – e agli altri interpreti del movimento liberalsocialista degli anni Trenta e Quaranta: N. Tranfaglia, Liberalsocialismo, in Il Dizionario di Politica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 2004, p. 529.], anche perché si farebbe un torto sicuro alle convinzioni maturate dai singoli azionisti, i quali, nonostante le adesioni formali ad un progetto unitario[45. Va precisato che intellettuali come Rosselli, o Gobetti, data la loro morte prematura, non potrebbero essere considerati tecnicamente degli azionisti; d’altra parte, il movimento Giustizia e libertà, fondato proprio da Rosselli, confluisce nel partito d’Azione e rappresenta la sua ala massimalista; quanto a Gobetti, al di là della stretta affinità con l’ideologia rosselliana, sembra molto attendibile, come si vedrà, la sua affinità teoretica e politica a questo partito.], non perdono occasione, in verità, di sottolineare vicendevolmente le distanze.
Si potrebbe cercare di comprendere se la loro collocazione sia inquadrabile nell’orizzonte settecentesco e giacobino − come pretende forse con troppa sicurezza Croce −, oppure se anche gli azionisti si rivelano in parte eredi della lezione romantica.
Non soltanto i crociani de Ruggiero e Omodeo rientrano senza dubbio nella logica storicista. Il senso storico viene salvaguardato, altresì, da altre figure non meno rilevanti: si pensi a Rosselli, il quale, come ricorda Bobbio, è molto distante da «un’astratta utopia per oziosi sognatori di città celesti al di fuori della storia»[46. C. Rosselli, Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, introd. e saggi critici di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 2009, p. XXIV.]. Croce stesso osserva con simpatia l’indirizzo del socialismo liberale, perché, essendo un’«eresia marxistica» e dunque serbando un certo grado di concretezza e storicità, si ricondurrebbe in parte «all’interno di un rinnovato liberalismo»[47. A. Jannazzo, Croce e il comunismo, Napoli, Ed. Scientifiche italiane, 1982, p. 160.]; mentre, a suo dire, Calogero e Capitini costruirebbero a tavolino il loro liberalsocialismo[48. A tal proposito, Sasso afferma che Calogero «alimentò in sé l’illusione che il compito al quale, con la sua parte politica, era atteso, non consistesse che nel tradurre nella realtà quel che, meglio di ogni altra, la cultura liberale, o liberalsocialista, aveva avuto il merito di prospettare, nelle sue teorizzazioni, come sul serio essenziale» e aggiunge che una delle sue più gravi illusioni, sempre in merito all’autore di Logo e Dialogo, riguardava il fatto «che niente, nel pensiero suo e della tradizione alla quale apparteneva, ci fosse ormai da rivedere e riesaminare: niente, s’intende, che riguardasse i fondamenti»: G. Sasso, Guido Calogero. Considerazioni e ricordi, in Filosofia e idealismo. De Ruggiero, Calogero, Scaravelli, vol. III, Napoli, Bibliopolis, 1997, p. 152.].
In un breve saggio di ricostruzione interpretativa dell’opera di Capitini, Calogero – in pieno accordo con il pensatore perugino – prende le distanze da una rigida applicazione della formula hegeliana secondo cui «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale»[49. G. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1954, p. 15.], dato che, secondo il teorico del dialogo, non si può prescindere da un ideale etico che illumini la storia (empirica) dei fatti; tuttavia, Calogero riferisce che «l’abito storicistico, senza dubbio, è cosa importantissima. Guai se non fossimo, nel senso giusto, storicisti»[50. G. Calogero, Aldo Capitini e la “Religione aperta”, in “Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi”, a cura di Michele Schiavone e Dino Cofrancesco, Milano, Marzorati, 1972, pp. 320-21; nel prosieguo di questo lavoro riprenderemo l’edizione originale del testo.].
Egli, anche se prende atto dell’irrinunciabilità della storia, tiene a sottolineare che «gli ideali non aspettano conferma dai fatti»[51. E continua dicendo – giusto per confermare l’importanza storica degli eventi, pur sempre coniugandoli con l’impulso trascendentale dei valori – che «le nostre aspirazioni di civiltà avrebbero serbato identico pregio anche se la vittoria di Hitler le avesse ricacciate per secoli nel segreto cuore di esigue minoranze di uomini»: G. Calogero, Difesa del liberal-socialismo, op. cit., p. VIII.]. Sulla stessa scia di Calogero, il suo amico Capitini, sottolineando con costanza l’insufficienza della realtà cosi com’è, afferma che la storia risiederebbe, con ambiguità, «tra l’essere e il dover essere»[52. A. Capitini, L’atto di educare, a cura di Massimo Pomi, Roma, Armando Ed., 2010, p. 133.], e così i due più autorevoli interpreti del liberalsocialismo corroborano un tracciato dualistico che Croce puntualmente rifiuta; quest’ultimo, al pari di Hegel, detesta, come si è ben capito, il dover essere degli illuministi, ovvero «l’impotenza dell’ideale che deve sempre essere e non è, e che non trova mai nessuna realtà a lui adeguata»[53. E continua affermando che «il destino di quel “dover essere” è di venire a noia, come vengono a noia tutte le più belle parole (Giustizia, Virtù, Dovere, Moralità, Libertà, ecc.), quando restano mere parole, risonanti fragorosamente e sterilmente dove altri opera e non teme di macchiare la purezza dell’idea, traducendola nel fatto»: B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Id., Saggio sullo Hegel, Bari, Laterza, 1967, p. 42.].
Fatte le debite differenze teoretiche, queste riflessioni calogeriane e capitiniane non sembrano molto distanti dalle rivalutazioni filosofico-politiche compiute da Guido de Ruggiero, le quali, com’è noto, infastidiscono non poco Croce. Secondo l’autore della monumentale Storia del liberalismo europeo, urge distinguere i valori universalistici dai fatti e condurre una battaglia intellettuale contro l’immediatezza empirica dell’«equazione hegeliana», in favore della sfera meta-storica dello spirito[54. G. De Ruggiero, Il ritorno alla ragione, Bari, Laterza, 1946.].
In breve, accanto ad uno storicismo assoluto di stampo hegelo-crociano, è possibile scorgere uno storicismo più tenue che, in quanto tale, non rinuncia al Sollen e nel contempo recepisce, con spirito critico, la stessa lezione del crocianesimo.
Gobetti (storicista e azionista)
La critica al neoilluminismo degli azionisti, avanzata da Croce, non potrebbe investire direttamente il ruolo assunto in modo emblematico da Piero Gobetti. O, meglio, andrebbe svolta con riserve. Il giovanissimo torinese, con la medesima intensità di Croce, respinge ogni vaghezza giusnaturalistica[55. Gobetti apprezza la filosofia di Croce nel suo riscontro dinamico. Egli, infatti, sostiene che Croce stesso s’identifica con la parola «svolgimento» e che il suo pensiero non poteva essere fermato per l’eternità, anche se molti dei suoi interpreti affermavano spesso l’esatto contrario. Si guardi Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969, p. 46.], sposando la trama di ascendenza marxiana del conflitto[56. Egli, infatti, afferma che non soltanto il concetto di élite è «schiettamente liberale», ma anche quell’idea di conflitto sociale che si appropria della prevalenza «degli elementi autonomi e delle energie reali, rinunciando all’inerzia di quelle ideologie che si accontentano di avere fiducia in una serie di entità metafisiche come la giustizia, il diritto naturale, la fratellanza dei popoli»: P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggi sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi, 1949, p. 62.], della lotta costante per la progressiva riaffermazione dell’ideale morale della libertà.
Poco attento alle raffinatezze dottrinali o alle distinzioni giuridico-istituzionali, Gobetti si fa promotore di un’originale lezione di intransigenza permeata di spirito kantiano. Se la visione di Croce è definita «anomala», quella del giovane Gobetti non lo è da meno. Non soltanto questa ripudia le linee direttive del liberalismo classico, ma il suo nucleo filosofico è così vicino allo spirito storicistico che, per salvaguardare concretamente un ideale etico di libertà, egli addirittura identifica la classe sociale del proletariato[57. Criticando Croce e in particolare il suo saggio Il partito come giudizio e come pregiudizio – in cui i partiti, interpretati come pseudoconcetti, venivano equiparati ai generi letterari –, Gobetti scorge, nella fattispecie, un vizio «illuministico» nel filosofo, così come lo riscontra facilmente «quando il Croce parla della lotta di classe come di un “concetto logicamente assurdo, perché formato mercé l’indebito trasferimento della dialettica hegeliana dei concetti puri alle classificazioni empiriche; e praticamente pernicioso, perché distruttivo della coscienza dell’unità sociale”»; qui Gobetti precisa che una critica di siffatta portata «sarà valida contro la filosofia della storia di Marx e contro l’illusione messianica, di natura mistica e hegeliana, di un’abolizione finale delle classi» e continua dicendo che «la praxis ci addita ogni giorno, in senso all’unità sociale, il formarsi di classi distinte che, per legge naturale, si ipostatizzano, si associano, combattono per interessi presenti e idealità future»; in conclusione, «a queste classi, che si sentono unite e nemiche e che hanno creato i loro costumi e le loro aspirazioni attraverso una lotta reale nella storia, il filosofo non potrebbe senza palese ingenuità predicare l’unità sociale e spiegare la natura gnoseologica delle loro illusioni, perché queste illusioni non sono un artificioso schema come i generi letterari, ma la necessità più intima della loro vita, le loro speranze e le loro sofferenze»: ivi, pp. 63-64.] con il soggetto storico liberale. È opportuno precisare che Gobetti non avrebbe nient’altro in comune col comunismo[58. Sembra, infatti, inappropriato l’ossimoro di «liberal-bolscevico» che Revelli gli attribuisce: M. Revelli, Gobetti “liberal-comunista”?, in I dilemmi del liberalsocialismo, op. cit., p. 84.]. Non solo. Gobetti non può essere avvicinato neppure al nucleo socialistico, né ad un ideale egalitario.
La sua prospettiva è intenta a fronteggiare ogni insidia «parassitaria»[59. P. Gobetti, La rivoluzione liberale, op. cit., p. 58.], atteggiamenti paternalistici di sussidiarietà sociale, qualunque giuoco di compromessi politici che possano ferire la vera natura del liberalismo, la quale non risiede, a suo giudizio, in un documento legal-positivistico o nella fallace conservazione di conquiste maturate nel campo della scienza, dell’arte e così via, perché la natura autentica del liberalismo, secondo Gobetti, sta nell’atto energico di un riscatto morale.
La classe borghese, dice Gobetti, ha perduto di vitalità. Cosciente dei traguardi ottenuti, essa assopisce il liberalismo nei luoghi discriminanti del privilegio, perdendo, appunto, la qualifica di soggetto liberale. Anche la sua libertà, parafrasando Croce, è «priva di aggettivi», ma talmente vissuta nel conflitto e radicata nelle contingenze del reale che finisce per ideologizzarsi con accenti libertari. Contrariamente alla libertà concettuale di Croce, la libertà passionale di Gobetti rivitalizza lo pseudoconcetto nella sua declinazione di classe e di partito, e si trasmuta in un corpo organico. Sfrutta le occasioni rivoluzionarie, quindi diviene una libertà partigiana, ma non avrebbe come scopo finale quello di tutelare, nei contenuti, i programmi politici o le rispettive filosofie delle classi di riferimento, quanto quello di sorreggere, nella forma, l’impulso conflittuale che anela alla liberazione.
La sua scelta di aderire idealmente solo allo spirito rivoluzionario e non a quello riformistico[60. Gobetti vede nel socialismo riformista, capeggiato dal – poco stimato – Filippo Turati, «una mediocrazia più o meno sapiente che professa a priori una funzione di assistenza e di aiuto al popolo», un partito complice del giolittismo dei compromessi che «tenta di corrompere con le riforme e l’opera di conciliazione ogni azione diretta, per illudere i ribelli con proposte pacifiche che le conservino una illuministica funzione educativa»: P. Gobetti, La rivoluzione liberale, op. cit., p. 102.] chiarifica la sua avversione agli ideali socialisti. Il comunismo rivoluzionario, in poche parole, si trasmuta nella storica arma della libertà emancipatrice. Come se non bastasse, la riprova del suo anti-socialismo è data, inoltre, dal suo coerente animo liberista[61. Secondo Bobbio, egli riesce, grazie alla lezione einaudiana, a rafforzare «il suo primitivo, spontaneo, non mediato culturalmente, antistatalismo, in cui s’incontrano liberalismo, liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale. Dai suoi primi scritti sino agli ultimi egli si considera un “liberale”. La connotazione positiva di questo aggettivo “liberale” che i suoi amici marxisti usano in senso negativo è di netta origine einaudiana»: N. Bobbio, Piero Gobetti (Compagni e maestri), in Norberto Bobbio. Etica e Politica. Scritti di impegno civile, a cura di Marco Revelli, Milano, Mondadori, 2010, p. 101.]. Quest’ultimo, nel suo concreto significato, si riallaccia alla più vasta e complessiva tematica a sfondo spirituale da lui delineata. La lezione di intransigenza e l’ideale morale della libertà liberatrice fanno di Gobetti, a tutti gli effetti, uno dei principali precursori del variegato universo azionista.
Lo storicismo di Gobetti non è equiparabile a quello di Croce: entrambi, come sopra indicato, rinunciano alle astrazioni e alle «alcinesche seduzioni» delle dee egalitarie, solo che il realismo gobettiano non divinizza la storia, non accetta il reale così com’è. Al pari di quella di Capitini, anche la realtà di Gobetti deve razionalizzarsi. Per il filosofo perugino ciò dovrebbe accadere grazie ad un afflato religioso che anticipi il paradigma «pedagogico» della compresenza[62. L. Romano, La pedagogia di Aldo Capitini e la democrazia. Orizzonti di formazione per l’uomo nuovo, Milano, FrancoAngeli, 2014.]; viceversa, per il giovane Gobetti, la razionalità della storia è l’esito in formazione del conflitto storico.
Il Sollen di Gobetti è caratterizzato da questa tensione che permane nel teatro vivo della storia. Il Sollen di Croce, invece, riprende hegelianamente l’accettazione immediata della storia – si pensi alla celebre, quanto controversa, critica deruggieriana – e respinge, come si è visto, il dover essere migliorista celebrato dagli intellettuali azionisti.
Il Sollen di Calamandrei
Allievo diretto di Giuseppe Chiovenda e protagonista importante della cosiddetta «seconda generazione» dei giuristi, Piero Calamandrei, come ricorda Bobbio, ispirandosi alla dottrina dello storicismo crociano, porta avanti una battaglia coraggiosa contro il formalismo kelseniano – la «terza generazione» – e contro tutti coloro che, al pari di Francesco Carnelutti, pensano i concetti del diritto come verità.
Le costruzioni astratte della scienza giuridica, per Calamandrei, non potrebbero ambire a traguardi surreali, come la pretesa di individuare certezze metafisiche volte ad accompagnare dall’alto i ritmi storici e revisionabili del diritto positivo. Compito della scienza del diritto è quello di suggerire, con i loro chiarimenti concettuali, nuove prospettive, possibilità attendibili per le vie del diritto, avendo la consapevolezza che tutto ciò che ne verrà fuori, in termini di teoria e di riflessioni dottrinali, risulterà sempre incompatibile con la verità, la certezza e la conoscenza.
Secondo Calamandrei, infatti, la scienza del diritto risponde soltanto al paradigma dell’utilità[63. Bobbio scrive che il giurista, seguendo Croce, sposa l’indirizzo pratico delle scienze, l’idea cioè che la scienza giuridica, nella fattispecie, si dovesse dedicare unicamente ad «un umile lavoro strumentale di classificazione e sistemazione, che la storia nel suo divenire s’incarica di mettere a repentaglio o addirittura a soqquadro»: N. Bobbio, Piero Calamandrei, in Norberto Bobbio. Etica e Politica, op. cit., p. 289.]. Egli, ad esempio, giustifica in parte, ma solo sul piano filosofico, l’«illusione» o la «non realtà» delle leggi, dato che potrebbe anche starci, e qui riprende Croce, che
la volontà astratta ed ipotetica non si traduce in atto se non c’è la volontà concreta di chi agisce in senso conforme alla legge: sicché, in realtà, quel che conta è la volontà individuale, che è libera di comportarsi secondo la legge o anche contro di essa[64. P. Calamandrei, Non c’è libertà senza legalità, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 16.].
Detto questo, non andrebbe confusa la posizione filosofica sul diritto di Croce con quella assunta da Calamandrei. Il primo incasella nella categoria spirituale dell’utile l’intero pacchetto giuridico; il diritto, nella sua configurazione di atto contenutistico di una legge, si giustappone agli atti politici ed economici. Perciò rientra nelle sfere spirituali ed eterne del reale, a differenza della legge nella sua variante estrinseca, o ancora di tutti quegli ordinamenti legal-positivistici che confluiscono, come un qualunque momento astratto, nel terreno controverso dello pseudoconcetto. Nella riflessione crociana imperniata sull’immanentismo assoluto, il ruolo e le qualità specifiche del giudice coprirebbero un ufficio empirico.
Molto nota è la sottile distinzione che Croce muove tra l’azione e l’accadimento. La prima è «l’opera del singolo», il secondo «l’opera del Tutto»[65. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 68.]. L’azione è l’intenzione consapevolmente maturata dall’individuo ed è «il contributo che esso reca alle volizioni di tutti gli altri enti dell’universo»; l’accadimento è «l’insieme di tutte le volizioni»[66. Ibidem.].
Croce sostiene che un qualsiasi evento storico non è altro che l’esito involontario delle molteplici proposte avanzate dagli individui. In ogni modo, da questa arbitraria differenziazione come è possibile, si chiede Calogero, distinguere «ciò che propriamente faccio, l’evento figlio del mio intervento, la mia paternità reale nell’immensa famiglia delle cose?[67. G. Calogero, Etica Giuridica Politica, Torino, Einaudi, 1948, p. 83.]».
Il Croce maturo, distraendosi dal suo recinto schematico, saluta con vivo entusiasmo due saggi di Calamandrei, ovvero Il giudice e lo storico e La relatività del concetto di azione[68. Croce, riprendendo le teorie di Calamandrei, afferma che la libertà del giudice deve essere governata «nel modo più severo dalla sua coscienza morale» e che egli deve mostrarsi «un uomo serio e non già un ragazzo stordito ossia un attivista rompicollo e fracassatore degli oggetti circostanti. Forse il trascurare o facilmente perdere di vista la regola e il freno che è della coscienza morale, fondamento e presupposto necessario di ogni vita umana, è il vero pericolo o il vero cattivo avviamento dei nostri tempi»: B. Croce, Pagine sparse, vol. III, Bari, Laterza, 1960, p. 448.]; al contrario, occorre tener presente che la teoria crociana dell’accadimento, peraltro mai revisionata dal suo ideatore, potrebbe recare non poche perplessità in riferimento all’istituto, tanto caro al giurista fiorentino, della responsabilità giuridica[69. Non si dimentichi che sulla natura della «responsabilità» Croce si pronuncia così: «l’individuo non è responsabile della sua azione», in quanto «l’azione non è scelta da lui ad arbitrio, e perciò non gliene spetta né biasimo né lode, né castigo né premio»: B. Croce, Responsabilità, in Id., Frammenti di etica, contenuti in Id., Etica e Politica, op. cit., pp. 146-47.]. Se l’accadimento, quale fondamento della storia spirituale, scaturisce da un insieme complessivo di singoli gesti individuali, ne deriva che gli autori, presi uti singuli, sfuggono sempre al richiamo imperativo della responsabilità. Si arriverebbe all’insolita considerazione di valutare irresponsabile un imputato accusato di aver volutamente recato un’ingiustizia ad un altro uomo e persino lo stesso giudice, chiamato a pronunciarsi nel merito, non può essere considerato responsabile dell’atto che compie nell’esercizio delle sue funzioni.
Per Calamandrei, le cose stanno in maniera diversa. Al di là del suo celebre elogio dei giudici[70. Anche se, più che elogiare sic et simpliciter giudici o avvocati, esprime un convinto «elogio della giustizia e degli uomini di buona volontà che, sotto la toga del giudice o sotto quella dell’avvocato, hanno dedicato la loro vita a servirla»: P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, introd. di Paolo Barile, Milano, Ponte alle Grazie, 2014, p. XXXVI.], del loro essere in un certo senso artisti razionali nei loro atti di responsabilità creativa, quel che più affascina, della sua lettura, è la rivisitazione in chiave umanistica del processo giuridico[71. Su questi temi si rinvia a B. Romano, Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’. Trenta tesi per una filosofia del diritto 2005-2006, Torino, Giappichelli Ed., 2006; e inoltre, dello stesso autore, Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, Giappichelli Ed., 2008.].
Il dover essere – offeso dal realismo crociano – riprende il suo ritmo trascendentale nella figura di un giudice, il cui pronunciamento imparziale non dovrebbe affogare nella pigrizia di una routine anti-giuridica per definizione; anzi, l’intera scena processuale non dovrebbe fossilizzarsi in cavilli tecno-burocratici[72. P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, op. cit., p. 251.] e chiudersi in se stessa, ma deve aprirsi all’opportunità e alla ricerca della verità.
Il giudice, dice Calamandrei, è l’incarnazione del diritto: un uomo, prima di tutto, che con semplicità e severità di giudizio spiega la sua interiorità in relazione ai casi e alle biografie di vita da analizzare. Non può guardare in faccia nessuno: guai alle seduzioni del danaro, alle lusinghe dei potenti ecc. Solo il volto metafisico della verità, nelle sue continue e storiche determinazioni, lo deve preoccupare.
In questa direzione interpretativa, la verità cammina in simbiosi con il senso di responsabilità morale. L’avvocato Calamandrei vede nella figura del giudice il «sacerdote del diritto»[73. Egli scrive che i giudici rientrerebbero in una sorta di «ordine religioso» ed è fondamentale che «ognuno di essi sia un esemplare di virtù, se non vuole che i credenti perdano la fede»: ivi, p. 256.]. Egli è il titolare di una sentenza che andrà ad espletare. Se in Croce l’unica religione ammissibile è quella di una Libertà «senz’altra determinazione», in Calamandrei l’impegno universalistico delle azioni morali assurge a valore religioso.
La morale per Croce è di sicuro un momento importante, un atto pratico che raccoglie la volizione universale, il significato storico dello spirito diveniente. Per Calamandrei, la morale è il senso dell’uomo. Il giudice non dovrebbe disporre di chissà quale forma acuta di intelligenza. Egli deve prioritariamente prestare fede all’atto di responsabilità e mostrare un’infaticabile passione per la giustizia. Calamandrei non abbandona mai la lezione crociana della storia, l’impegno cioè di valutare con senso storico i fatti e riconoscere una certa importanza alla tecnica normativa, alle parole che costruiscono, sul piano formale, una norma di legge o i riti e le consuetudini; solo che lo studioso del diritto non si arresta qui. Non si ferma alle faccende pratiche, in quanto la giustizia, nel suo riscontro trascendentale, è appunto un’idea del «bene supremo al di sopra delle leggi storiche»[74. Ivi, p. 296.].
In altri termini, un processo che non risulti semplicemente legale, ma soprattutto sia pronto ad affacciarsi al mondo autentico della giuridicità, assume un valore morale e combacia davvero con il diritto solo se il giurista non perde mai di vista, per dirla con Bobbio, «la stella polare del firmamento giuridico, cioè l’idea della giustizia»[75. N. Bobbio, Piero Calamandrei, in Norberto Bobbio. Etica e Politica, op. cit., pp. 292-93.]. Il diritto attraversa, con spirito kantiano, le leggi imperative della trascendenza: quel Sollen identificato nella socratica interpretazione della giustizia. Calamandrei, convinto assertore del principio di legalità e dell’idea che il giudice deve subordinarsi alle decisioni del legislatore di turno – il quale non è altro che il prodotto democratico di una molto più ampia decisione collettiva –, non trascura l’altra componente della giustizia: il suo risvolto legale.
In sintesi, vi sono due concezioni di giustizia: o la s’intende in termini metafisici (e perciò anti-crociani), oppure come un atto di rispetto nei confronti della legge positiva. Non esisterebbe, d’altra parte, un rapporto di simultaneità fra le due voci della giustizia, bensì di parallelismo.
Secondo Calamandrei, infatti – e qui ritornano, anche se solo di sfuggita, i lineamenti storicisti del crocianesimo –, l’interpretazione politica del periodo storico e sociale in cui si vive può facilitare un itinerario a sfondo legalistico fondato sul rispetto delle leggi dello Stato, e in alternativa può promuovere le basi per un serio ripensamento dell’intero quadro legale, dove a quel punto, il giudice, ovvero «il sacerdote del diritto», rispondendo alla propria coscienza morale, seguirebbe una via parallela rispetto ai documenti realizzati dai precedenti legislatori.
Nel primo caso – giustizia legale –, ci troveremmo a conservare un regime repubblicano che coltiva il vocabolario della civiltà e della democrazia; nel secondo – giustizia morale –, i ritmi della società risulterebbero caratterizzati da un vuoto culturale e sociale che andrebbe colmato attraverso un impegno etico.
Inoltre, per il padre costituente, il rigido impegno della morale, rimanendo a contatto con la cultura politica e con il senso storico da valutare, assume un prezioso significato pedagogico. Essere uomini morali vuole dire esteriorizzare un atto di fede al fine di coinvolgere le diverse anime che popolano una comunità. Predicare la morale diviene una missione degna di un Paese civile. Così si spiega la sua posizione culturale, quella di integerrimo oppositore della dittatura fascista[76. P. Calamandrei, Il fascismo come regime della menzogna, Roma-Bari, Laterza, 2014.]. La sua probità morale e la sua sensibilità sociale lo portano con coerenza a fondare, assieme ad altri, il Partito d’Azione[77. Franco Sbarberi asserisce che Calamandrei, oltre ad essere stato «uno dei padri fondatori e, insieme, dei critici più avvertiti della Costituzione del 1948», si è rivelato «uno dei maggiori rappresentanti del liberalismo sociale di matrice azionista»: F. Sbarberi, Piero Calamandrei: la rivoluzione democratica come discontinuità dello Stato, in L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 115.], in un periodo complicato della storia d’Italia, in una fase in cui bisogna anteporre la giustizia morale a quella legale.
Per quel che riguarda le sue convinzioni più propriamente politiche, il distacco da Croce è netto. Il liberalismo di Calamandrei non trova gratificante l’atteggiamento «puro» o «metodologico» di Croce e crede che, solo coniugando – in un a priori legalmente riconosciuto[78. «Vi è dunque alla base del metodo liberale – riferisce Calamandrei – questa che può parere una contraddizione col sistema stesso: l’affermazione di un dogma, che è il rispetto di certe libertà minime che sono messe a priori fuori discussione: dogma che ha origine religiosa per i credenti, e che in ogni modo è un imperativo categorico morale scritto nella coscienza, che non si giustifica storicamente ma che si dà come esistente. Questo è riconosciuto dagli stessi liberali: anche il Croce è d’accordo che non si avrebbe un regime liberale là dove fossero abolite le “istituzioni liberali”. E allora se è così – continua l’autore – si domanda perché non dovrebbe essere logicamente permesso, senza con questo toccare il sistema della libertà, inserire tra questi diritti di libertà che sono condizioni a priori del regime liberale, l’affermazione di un minimum di benessere economico considerato anch’esso come condizione perché i cittadini possano partecipare liberamente alle lotte politiche»: P. Calamandrei, Non c’è libertà senza legalità, op. cit., p. 36.] – i diritti negativi di libertà con quelli positivi, sia possibile proporre un’ideologia liberale al passo coi tempi.
Il liberale deve essere socialista in quanto deve mostrarsi cosciente del fatto che la dialettica non può funzionare se la questione sociale non diviene prioritaria[79. Ibidem.]. Per Calamandrei, allo scopo di scongiurare il pericolo collettivista d’impronta bolscevica (socialismo puro) e di ridimensionare l’idea di una libertà interpretata con accenti formali, traducibile come fonte di privilegio per pochi (liberalismo puro), occorrerebbe promuovere un disegno liberalsocialista intento a rinforzare proprio la coscienza liberale.
Un punto originale e significativo risiede in questo tentativo illuministico di fondare a priori l’opportunità di un legame indissolubile fra il liberalismo e quella componente di socialismo riformista attenta alle problematiche delle classi meno abbienti. Tutto questo andrebbe integrato con la sua fede democratica: un tema ulteriore che si allinea con coerenza all’indirizzo ideologico dell’azionismo e che Calamandrei sviluppa sul piano teorico e dottrinale. In conclusione, anche con lo scienziato del diritto si ripresenta il binomio illuminismo-storicismo. Il secondo dei due termini non sfigura, ma brilla il primo termine[80. Secondo Sbarberi, inoltre, Calamandrei «farà sua l’idea – di origine illuministica – che la morale e il diritto, i principi etico-politici e la tecnica costituzionale, pur strettamente intrecciati nella realtà, vanno tenuti distinti sul piano metodologico, perché i criteri ispirativi e i diritti indisponibili della persona vengono prima e sono esterni all’ordinamento giuridico-statale»: F. Sbarberi, Piero Calamandrei: la rivoluzione democratica come discontinuità dello Stato, in L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio, op. cit., p. 117.].
Risulta, dunque, impossibile esprimere un rigido profilo teoretico in riferimento sia al crocianesimo sia ad alcuni suoi rivali azionisti. In entrambe le parti si scorge un’inclinazione illuministica e parimenti romantica; in Croce è accentuata la sensibilità romantica[81. Alcuni studiosi, invece, capovolgono la portata − quasi come se fosse lui l’«azionista» −, e sostengono che «l’animo “illuministico” di Croce era temperato dalla sua mens storicistica e “romantica”»: A. Di Mauro, Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce, op. cit., p. 31.], negli altri si rivela prioritario il comandamento del Sollen, inquadrato in un orizzonte largamente kantiano.
Croce e il Partito d’Azione
Croce, nel ’31, discute di politica in casa di Rosselli a Parigi: un invitato, in quell’occasione, gli fa notare che il popolo non pretende una libertà senza aggettivi, ma «qualche altra cosa» che l’accompagni. Croce replica che la libertà non la si può identificare con il pane o con «qualche altra cosa», perché essa è sia il più alto principio morale sia un «principio religioso»: di qui prende avvio una polemica molto dura innescata tra l’autore della Storia d’Europa e le prospettive del socialismo liberale e del liberalsocialismo, confluite nel programma politico del Partito d’Azione[82. Per un resoconto esaustivo di questo movimento vedi G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, Torino, Utet, 2006; inoltre, M. Andreis, P. Gerbido, Le origini del Partito d’azione, in «Quaderni dell’Italia libera», n. 21, 1944; A. Omodeo, La frattura del Partito d’azione, in «L’Acropoli», n. 12, 1945; S. Fedele, Il liberalsocialismo meridionale (1935-1942), Messina, Edas, 2002.].
Croce definisce questo soggetto politico inadeguato sul piano logico, perché «quelle idee devono essere state messe insieme da qualche professore di filosofia che non è sottile in logica e ragiona sincreticamente»[83. B. Croce, Note a un programma politico, in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, Bari, Laterza, 1963, p. 93.]; ma anche sul piano politico, in quanto, pur affrontando temi liberali, il Partito d’Azione, scrive Croce, cela ambizioni socialistiche da conseguire attraverso procedimenti rivoluzionari, giacché l’intento è di realizzare una «rivoluzione sociale» e ciò può accadere solo «con la forza, con la dittatura, con la milizia rossa, ecc., cioè con un rinnovato “fascismo”»[84. Ivi, p. 92; in un’altra occasione ribadirà questi concetti, affermando che il P. d’A. «stringe in strano connubio una professione di ardente fede liberale e un metodo pratico dittatoriale promettendo (come ha scritto nel suo programma), la “simultanea” effettuazione di una proclamata libertà e di una totale riforma sociale, che non potrebbe a quel modo e in quel punto attuarsi se non con metodo antiliberale senza elezioni, parlamento, dibattiti, votazioni di maggioranza, e con indispensabile complemento di una fedele guardia della rivoluzione»: Il partito liberale, il suo ufficio e le sue relazioni con gli altri partiti, cit., p. 135.].
Sembrano accuse molto pesanti quelle che Croce indirizza ad un movimento le cui attitudini emergono da un profondo dissidio con l’atmosfera dittatoriale che imperversa nel triste Ventennio italiano. Questo partito nasce in forte contrapposizione ad ogni germe totalitario[85. Bobbio, tuttavia, esprime un rimprovero molto severo all’esperienza moralistica (e forse in questo senso «giacobina» o totalizzante) di questo movimento: gli azionisti, per il pensatore torinese, non sono altro che dei «moralisti d’abord» intenti a stravolgere con toni paternalistici le regole del costume, anche se ritengono che per realizzare questa «restauratio» non serva instaurare la rivoluzione, e così vengono respinti sia da quella borghesia che non vuole la lezione sui valori sia dal proletariato che non rinuncia all’utopia rivoluzionaria. Essi, infine, sono dei «moralisti integerrimi», ovvero dei «capi senza esercito»: N. Bobbio, Inchiesta sul Partito d’Azione, in «Il Ponte», 1951, VII, n. 8, p. 906. In una lettera che invia a Calogero il 7 marzo del 1946, dopo aver definito «interessante» la rivista «Liberalsocialismo» di Calogero, Bobbio riferisce a quest’ultimo che non si trova affatto d’accordo «sull’impostazione ideologica», perché, come Marx rimette in piedi il mondo teoretico di Hegel, così gli azionisti vorrebbero, a suo parere, «rimetterlo di nuovo sulla testa», esibendo un discorso dottrinale senza avanzare un autentico spirito realistico.]. Calogero scrive che «l’estremismo sociale» non può risolvere «i problemi necessari della libertà»; pertanto, non sarebbe possibile prescindere da «tutti quegli istituti della libertà democratica che hanno assicurato il fiorire dello stato moderno»[86. G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, op. cit., p. 231.].
Per quanto riguarda la prima accusa, quella di natura logica, bisogna precisare che essa potrebbe investire, fino ad un certo punto, solo il linguaggio teoretico adottato da alcuni esponenti di questo partito, e ci si riferisce in particolare al già citato Calogero e al suo movimento liberalsocialista[87. Infatti, scrive puntualmente Antonio Jannazzo, Croce individua soprattutto nella componente liberalsocialista «forti elementi dottrinari» e «forti componenti di astrattismo politico», oltre che «il proseguimento di una tendenza filosofica e politica che, fin dal 1932, al tempo del congresso di Ferrara sul corporativismo, aveva cercato una “terza via” intellettualistica tra liberalismo e socialismo»: A. Jannazzo, Il partito che non c’era, in Liberali e azionisti tra politica e cultura, Palermo, La Zisa, 1993, p. 149.], definito dai liberali puri come un «pesce-mammifero» o un «ircocervo»[88. Ivi, p. 31.].
Il partito, infatti, nella sua unità organizzativa, è governato fin dal principio dal gruppo milanese dei Parri e dei La Malfa, cioè dall’area più moderata che, da sola, dà vita ufficialmente al soggetto politico azionista[89. De Luna, nel suo saggio prima evocato, riporta la dichiarazione di Apponi, il quale scriveva che «durante il loro arresto fu decisa una riunione del movimento; io feci sapere che non ritenevo opportuno incontrarci finché mancavano gli amici in carcere a Firenze. Il Convegno, però, si tenne, ugualmente nella casa romana dell’avv. Federico Comandini ed avvenne ciò che già da tempo era maturato: la trasformazione del movimento in partito, il Partito d’Azione»: G. De luna, Storia del Partito d’Azione, op. cit., pp. 31-32.] e che cerca di realizzare un punto di incontro fra la prospettiva liberale e quella socialista entro dinamiche più strettamente governative, «piuttosto che nelle azzardate sintesi filosofiche calogeriane»[90. Ivi, p. 32.].
In altri termini, gli obiettivi politici di questo partito rimangono ancorati ad un disegno liberal-progressista. Tra le ambizioni economiche vi sono quelle di nazionalizzare i monopoli e i grandi complessi finanziari, industriali, assicurativi e il cosiddetto meccanismo di «economia a due settori» anche per l’agricoltura[91. Ibidem.].
Da una parte, però, la vena intellettualistica – Calogero, Capitini –, dall’altra, quella volontaristica – Rosselli, Lussu e il movimento di Giustizia e libertà – soccombono di fronte al tentativo di «accentuare l’ipoteca riformista sul processo di riorganizzazione del PSI»[92. Ivi, p. 33.] e in generale sulle direttive strategiche condotte sempre dalla costola amendoliana[93. È stato detto che certi «tratti caratteristici della personalità di Ugo La Malfa, certe sue rigidità caratteriali, il senso dello Stato, l’attenzione nei confronti della dinamica della spesa pubblica, la sottolineatura dell’esigenza di buona amministrazione, contengono più di un’eco dell’impostazione di Giovanni Amendola»: L. Ghersi, Liberalismo unitario (Scritti 2007-2010), Roma, Bibliosofica, 2011, p. 180.]. Che il programma riformistico dell’ala moderata non possa conciliarsi con l’anima socialistica è alquanto risaputo. Ciò che qui interessa concerne la critica aspra e singolare che Croce porta avanti contro l’ideologia di questo partito. Un conto, infatti, è rifiutare la dottrina liberalsocialista d’impronta calogeriana[94. In una lettera che Croce invia a Calogero il 29 ottobre del 1945, il maestro liberale rivendica «il merito di avere sin da principio dato amichevoli avvertimenti sulla cattiva via che si prendeva, e additato anche la buona, che era di restaurare e ammodernare il socialismo riformista» come egli stesso restaurava e ammodernava «il partito Liberale»; in un’altra lettera del gennaio del 1946, Croce ribadisce le sue critiche e aggiunge: «Liberal-socialismo? Ma perché non sciogliere la formula oscura in quella chiara: Socialismo liberale (riformista)?». Calogero replica puntualmente con un’altra lettera – sempre molto cordiale ed affettuosa – che le osservazioni di Croce, anche se «molto interessanti», non sembrano corrispondere al vero; insomma, il filosofo non risulta essere «troppo precisamene informato di alcuni aspetti della struttura interna» del Partito d’Azione: Carteggio B. Croce-G. Calogero, a cura di Cristina Farnetti, introd. di G. Sasso, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli, il Mulino, 2004, pp. 69-75.] o l’impalcatura radicale del gruppo rosselliano; un altro, condannare l’intero nucleo azionista, soprattutto in quanto le finalità riformiste di esso non sembrano particolarmente distanti da quel riformismo crociano che si batte non soltanto a tutela della libertà, nel suo riscontro morale, o di metodo di governo, ma anche, specie nei primi anni Quaranta, a favore di una maggiore giustizia sociale[95. Sandro Setta ricorda che negli anni ’43-’44 il liberalismo di stampo crociano «era giunto ad un approdo radicalmente riformistico», il quale confutava il «suo asserito indifferentismo nei confronti delle soluzioni economiche»: S. Setta, Croce il Liberalismo e l’Italia post-fascista, Roma, Bonacci, 1979, p. 22.], contrariamente ad un passato forse caratterizzato da qualche accento «liberistico»[96. S. Cingari, Di alcuni antecedenti dello sganciamento crociano del liberalismo dal liberismo: Rosselli-Levi-de Ruggiero-Pareto, in «Rivista SSEF», a cura del Cerdef, n. 6-7, giugno-luglio 2004.]. La sua accusa politica – il riconoscimento di un vizio «giacobino» e «fascistico» nel P. d’A. – è infondata, per la verità, anche nei confronti della dottrina calogeriana, la quale interpreta la politica come «l’arte del possibile»[97. Nonostante i consueti richiami del Sollen e del criterio etico – imperniato su una prospettiva alquanto originale di «altruismo» − idoneo a confermare una «buona» politica oppure a respingere quella dal contenuto «immorale», Calogero dice che l’uomo-politico deve risultare antitetico all’uomo-utopista; quest’ultimo «è, appunto, colui che bada solo a ciò che desidera, al quadro ideale della società che vorrebbe: e non guarda, invece, alle possibilità d’attuazione, non tiene conto del fatto che ci sono tanti sogni che potrebbero forse realizzarsi tra gli angeli, ma non in mezzo alla scabra convivenza degli uomini», e non si può auspicare che proprio gli uomini, scrive Calogero, «si trasformino di punto in bianco»: G. Calogero, Etica Giuridica Politica, op. cit., p. 319. Insomma, la proposta avanzata dal filosofo del dialogo si rivela del tutto opposta a ogni tentativo («giacobino» o «rivoluzionario») di stravolgere la storia e la società in cui si vive.].
Non si vuole asserire che fra il crocianesimo dell’immediato dopoguerra e la cultura azionista vi sia una totale equiparazione di prospettive politiche[98. È necessario precisare che la reimpostazione in chiave riformista – parafrasando Setta – del liberalismo politico di Croce continua pur sempre a mostrare alcune serie riluttanze nei confronti di iniziative politiche dal chiaro contenuto socialistico; come ricorda Santi Fedele, in occasione della visita a Bari da parte di Croce, nell’autunno del 1941 il filosofo si rifiuta di dare il suo consenso al nuovo programma liberalsocialista meridionale, in quanto «fra i vari punti è compresa la radicalizzazione della riforma agraria»: S. Fedele, Il liberalsocialismo meridionale (1935-1942), op. cit., pp. 48-50.]; anche se appare condivisibile la tesi in forza della quale
se il problema non si fosse posto, fin dall’inizio, nei termini di una disputa filosofica, invisa a Croce per la implicita confutazione della sua concezione della libertà, egli avrebbe visto con favore, almeno in linea di principio, il tentativo azionista[99. S. Setta, Croce il Liberalismo e l’Italia postfascista, op. cit., p. 57.].
Il filosofo della Libertà, dunque, non si è «assolutamente sforzato di capire le motivazioni profonde delle scelte di tanti che pure si erano dichiarati suoi discepoli»[100. G. De Luna, Dal liberalsocialismo all’azionismo, in I dilemmi del liberalsocialismo, op. cit., p. 142.]; altrimenti non si spiegherebbe la sua clamorosa affermazione che recita:
se il socialismo non sarà più angustamente ristretto alla classe operaia, se esso correggerà o abbandonerà le teorie marxistiche, se si amplierà di nuovo a movimento umano e liberale o democratico che si dica, come era nella sue origini, lis finita est, e socialismo e liberalismo confluiranno[101. B. Croce, Tendenze sociali e politiche del mondo moderno, in Id., Nuove pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1966, p. 337.].
È vero che dagli scritti crociani trapelano sporadiche dichiarazioni in favore di una certa andatura riformistica; tuttavia, ogni qualvolta Croce si pronuncia in favore del Partito Liberale, la sua linea è prettamente speculativa.
Il suo partito deve svolgere una funzione «metodologica»[102. Un allievo critico di Croce, Carlo Antoni, pur raccogliendo quanto di buono vi è nel tentativo di contrastare l’ideologismo e l’intellettualismo astratto contenuto nelle «solenni dichiarazioni programmatiche dei partiti», scrive che «il rifiuto a ricorrere a formule astratte e lusingatrici non può significare la rinuncia ad un principio d’azione, che, nella contingenza della situazione immediata, deve determinarsi e, per dir così, articolarsi in propositi concreti. Altrimenti, continua Antoni, c’è sempre il pericolo che il liberalismo si riduca ad attendere che le situazioni spontaneamente si evolvano, dando di volta in volta esse il suggerimento dell’azione», e conclude con tono perentorio, affermando che «una siffatta “spontaneità” non esiste nel mondo della politica»: C. Antoni, Il liberalismo, in La Restaurazione del diritto di natura, op. cit., p. 133.], come se fosse un «pre-partito»[103. A. Jannazzo, Croce e il prepartito della cultura, Roma, Carocci, 1987.] con lo scopo di garantire, promuovere e far rispettare la libertà. Inoltre, esso rigetta etichette empiriche che, invece, abbondano in altri soggetti politici: continuerà a chiamarsi Partito Liberale e a rifiutare di compilare programmi generali perché, oltre al controllo etico, non può sostenere a priori azioni economiche di qualsivoglia portata, ma è sempre pronto, scrive Croce, a discutere e dialogare con altre anime ideologiche, accettando persino la misura più radicale mai pensata prima, purché rispettosa dell’etica liberale.
Questa prospettiva realista, sebbene condizionata da un profilo speculativo volto a coordinare spiritualmente la condotta partitica e l’impegno economico dei rispettivi protagonisti, si fonda su una consapevole spregiudicatezza immanentistica.
Il Partito Liberale ha il dovere di rammentare a se stesso, e soprattutto agli altri, il richiamo al buon senso[104. Dopotutto, egli era diffidente nei confronti della componente “illuministica” e “dottrinaria” che «dominava la classe politica liberale»; infatti, «per Croce contavano di più, ai fini dell’avanzamento civile, gli uomini che “sanno fare” e non gli uomini che “sanno”»: A. JANNAZZO, Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 15.], a quel laico pragmatismo sollecitato dalle continue sorprese della vita. Il suo partito, privo di contenuti perché questi ultimi possono scaturire solo dalle imprevedibilità del reale, rinnega l’ipotesi prescrittiva in chiave ideologica e si intreccia con la variazione storicista preannunciata da Croce già diversi decenni prima nei quattro volumi dello Spirito.
Lo stesso liberalismo politico di Croce sposa con coerenza sistematica le manovre compromissorie dell’età giolittiana[105. A proposito di trasformismo, va riferito che «Croce, in tal modo, anticipava un giudizio che la storiografia liberale, con Romeo, con Galasso e con Ghisalberti avrebbe confermato nella seconda metà del Novecento, in riferimento al grande valore della “mediazione” e del “metodo liberale”, in un paese come l’Italia, percorso da grandi forze politiche “anti-sistema”, come quelle clericali, mazziniane e internazionaliste nell’Italia liberale e, successivamente, come quelle comuniste nella seconda metà del Novecento. Visto alla luce di queste considerazioni, il trasformismo, come Croce aveva sottolineato, perdeva il suo carattere “equivoco”, come se fosse una sorta di “debolezza italiana”, e diventava strumento di governo efficiente»: ivi, pp. 16-17.]. Il suo inconsapevole panlogismo, l’insistenza ad attribuire al Partito Liberale una vocazione pragmatica di centro da agganciare direttamente alla prospettiva dello spiritualismo assoluto[106. Contrariamente alle nostre opinioni, Setta è dell’avviso che quando Croce, nel periodo che va dal ’43 al ’45, delinea la sua posizione centrista, fa riferimento politico alla «sterminata serie dei bisogni sociali cui il liberalismo non poteva restare insensibile»: S. Setta, Croce il Liberalismo e l’Italia post-fascista, op. cit., p. 151. Rimane il fatto, come tra l’altro sostiene lo stesso Croce, che non andrebbe confusa la sua vocazione di centro con una qualunque variante moderata e diplomatica: il suo centrismo, ripetiamo, risponde al paradigma dello spiritualismo nella sua declinazione immanentista, è legato alla rivalutazione spirituale – di origine marxiana – dell’utile e non consiste nel trovare di volta in volta le buone ragioni della sinistra e quelle della destra, ma nel rifiutare un connotato aprioristico che possa caratterizzare ideologicamente un partito «non economico» qual è, appunto, quello Liberale nella configurazione crociana.], stride con alcune sue dichiarazioni intenzionate a promuovere una direzione riformistica della società[107. Non si vede, infatti, come possa una posizione a-economica, a-programmatica, asservita alle «continue sorprese della vita», cavalcare, parimenti, solide ipotesi riformistiche improntate – indipendentemente dagli “umori” e dalle opinioni dettate dalla contingenza – al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche delle classi disagiate.] e contribuisce a peggiorare ancor di più il rapporto sia teoretico sia politico con quella che si potrebbe definire la sfortunata tradizione liberal italiana[108. L’aggettivo liberal, che qui si utilizza per descrivere il socialismo liberale italiano, non deve però destare fraintendimenti. Va ribadito, infatti, che la cultura tipicamente liberal dal respiro anglosassone non andrebbe confusa con la (fallimentare) variante progressista sviluppata nel nostro Paese. Cubeddu, a tal proposito, sottolinea non solo la netta distanza fra Rawls, i democratici americani e il liberalsocialismo italiano, ma sostiene, con buoni argomenti, che la riflessione culturale dei liberalsocialisti risulta legata a «una prospettiva molto italo-centrica, nella quale i temi di confronto sono sostanzialmente la possibilità di conciliare un liberalismo di stampo crociano con un socialismo d’anteguerra»; si tratterebbe di una «formazione filosofico-culturale» non di «tipo europeo», «ma prettamente italiana, e accanto a quella crociana si possono ritrovare forti influenze gentiliane e mazziniane»: R. Cubeddu, Atlante del liberalismo, Roma, Ideazione, 1997, pp. 98-99. Se tutto questo è vero, non si può, d’altra parte, non scorgere alcune affinità politiche, sintetizzabili nel bisogno continuo di socializzare il prioritario fondamento della libertà individuale. Per tali ragioni, ci permettiamo di adottare questa espressione (liberal) altresì per il liberalsocialismo italiano. In merito alle tante critiche di provenienza azionista mosse al Partito Liberale, si ricorda quella avanzata da Calogero, secondo cui il P. L. si impegna a garantire le libertà costituzionali – del resto, aggiungiamo noi, ciò risulta in perfetta sintonia con quel richiamo di purezza metodologica costantemente sottolineato da Croce –, ma per quanto riguarda «la decisione del problema istituzionale, cioè della scelta fra monarchia e repubblica, esso rinuncia a qualunque iniziativa, anzi vorrebbe che nessuno prendesse l’iniziativa, e che si stesse ad attendere il corso delle cose, il responso dell’Avvenire, della Storia, della Provvidenza»: G. Calogero, La democrazia al bivio e la terza via, in Difesa del liberalsocialismo, op. cit., p. 78.].
(fasc. 7, 25 febbraio 2016)