Questo contributo rappresenta uno dei tasselli di un più ampio studio che intendo portare avanti sul rapporto tra Croce e la letteratura a lui contemporanea, in particolare in relazione alle accuse rivolte al critico da più parti sulla sua presunta incapacità di intendere e comprendere appieno certa sensibilità novecentesca.
Dando seguito, in primo luogo, a riflessioni innescate, ormai svariati anni fa, soprattutto dalla folgorante lettura del fondamentale saggio di Gennaro Sasso Per invigilare me stesso1, e rispondendo, poi, alle sollecitazioni dell’Ernesto Paolozzi del recente profilo su Benedetto Croce, al suo invito a studiare le affinità tra l’estetica crociana e il «simbolismo francese, le intuizioni di E. Allan Poe, le teorie di T. S. Eliot, la sensibilità di Joyce (…). Dal che emergerebbe, molto probabilmente, un Croce attualissimo nella concezione della modernità e perfino della post-modernità, in stridente contraddizione con il suo linguaggio, con il suo stile di vita»2, ho ritenuto di dare finalmente forma e di fermare su carta certe considerazioni su tale vasto tema, partendo da uno snodo che mi pare sia assai interessante sia, sebbene molto letto e citato, forse non ancora del tutto sviscerato in alcune implicazioni meno intuitivamente rilevabili.
Del 1907 è il notissimo saggio di Croce dal titolo Di un carattere della più recente letteratura italiana, uscito sulla sua «Critica»3, nel quale egli si sofferma a lungo su tre autori di successo della letteratura a lui contemporanea, alludendovi come alla «triade onomastica»4: come molti sanno, si tratta di d’Annunzio, Fogazzaro e Pascoli. Per comprendere appieno tutti i riferimenti del lungo contributo critico crociano, converrà, però, a mio avviso, volgersi indietro, all’anno precedente, e ripercorrere all’uopo la corrispondenza intercorsa in quel periodo tra Croce e Giovanni Papini.
Nel 1906, nella seconda recensione crociana al «Leonardo», la vivace rivista di Papini e Prezzolini da lui già recensita in precedenza5, alla convinzione dei leonardiani «che bisogni proporsi grandi cose»6, cioè effetti che secondo Croce tenevano del «meraviglioso»7, egli opponeva una «morale della sobria operosità»8, ovvero quella dei «semplici lavoratori»9 della «Critica», che miravano a
difendere e svolgere e correggere, secondo le nostre forze, l’idealismo speculativo, applicarlo ai problemi storici; scrivere, con quanto maggior esattezza ci sia possibile, la storia della letteratura e della filosofia e della coltura italiana contemporanee; pubblicare buone edizioni dei classici della filosofia, onde, chi voglia, possa più agevolmente studiarli; elaborare trattazioni delle varie scienze filosofiche, che si giovino di tutte le ricerche finora fatte e spingano più innanzi le soluzioni dei problemi; distinguerci nettamente dai positivisti, dagli spiritualisti e dai mistici (…). Non taumaturghi, ma operai; e, come operai, costretti a delimitare prosaicamente il nostro compito, a procedere con concordia d’intenti e d’intonazione, a sommergere le nostre individualità nell’opera comune, che sola c’interessa10.
Con un’argomentazione da lui adoperata in più occasioni nei riguardi dei cosiddetti “giovani”, accusava, inoltre, i leonardiani di voler confutare Hegel senza averlo studiato per almeno quattro o cinque anni di seguito, o addirittura senza averlo mai letto. E aggiungeva sarcasticamente che essi erano, forse, troppo giovani per comprendere che il mondo non è «un prodotto mal riuscito che si possa rifar da capo»11 o una «pasta molle, che ognuno possa foggiare a suo capriccio»12. Egli si contrapponeva a loro in quanto “non più giovane”, ma ribadiva di non essere nemmeno ancora «vecchio»13, non accettando, dunque, che essi avessero provato a tracciare14 la storia di una rivista – la sua – il cui ciclo non era ancora compiuto: a maggior ragione dato che – concludeva – «alla storia professano di non credere, o la considerano come un tessuto di capricci, di passioni e d’immaginazioni»15.
Quella rappresentata dal «Leonardo» veniva, dunque, in quell’articolo, considerata alla stregua di una «tipica tendenza giovanile»16; e per questo, in realtà, «spostando interamente sul terreno psicologico e generazionale le ragioni della polemica, Croce definisce i rispettivi ruoli nelle loro differenze, ma anche in una prospettiva di possibile riconciliazione: il contrasto è infatti destinato a risolversi appunto in quanto è essenzialmente conflitto tra giovinezza e maturità»17.
I suoi interlocutori, però, non apprezzarono il punto di vista crociano che, ovviamente, a loro parere era riduttivo. Prezzolini, dopo aver in privato rivendicato con orgoglio l’originalità e il valore del «Leonardo» («Mi permetto però d’osservare che lei da giovane non ha mai pensato a fare qualcosa di simile al Leonardo. La Critica non è stata preceduta che dalla Napoli Nobilissima»18), più che di differenza d’età, parlò, dunque, di «differenza di temperamento»19; e anche Papini non dissimulò la propria delusione riguardo alla recensione crociana: «invece di una risposta ho trovato una diagnosi e mi sembra che abbiate cangiato una questione filosofica in una questione cronologica»20. E aggiunse provocatoriamente: «non credete, carissimo Croce, che invecchiando si perda la fede nella malleabilità del mondo non perché il mondo non sia davvero malleabile ma perché ci sentiamo meno forza addosso e perché ci contentiamo di meno?»21. A ogni modo, nella chiusa, dopo aver lodato i volumi su Hegel e Bruno appena usciti per i tipi di Laterza nella collezione filosofica, dichiarava anche di sforzarsi «ancora, tante volte, di capire Hegel»22. E concludeva: «Vedete che non sono incurabile. In ogni modo vogliatemi bene»23.
Croce gli rispose dopo più di una settimana24, a causa di un’influenza, e liquidò la questione «Leonardo» in modo piuttosto sbrigativo, alludendo alla lunga corrispondenza che aveva avuto con Prezzolini al riguardo25. Anche a quest’atto, forse, d’involontaria scortesia Papini rispose pubblicando, sul numero successivo del «Leonardo», una nuova coda alla questione, intitolata Schermaglie. A Benedetto Croce26, nella quale si diceva meravigliato del fatto che, anziché una risposta alle sue «obiezioni filosofiche»27, il filosofo avesse replicato, nella «Critica», con «descrizioni sul tipo naturalistico, (…) indicazioni di pali di confine e (…) questioni di età»28: risposta della quale il suo avversario si disse «contento, perché chiude la polemichetta: io non ho ragione di replicare»29.
La menzionata corrispondenza con Prezzolini chiarifica in modo più approfondito le reali ragioni del dissenso espresso da Croce: all’inizio egli chiarì che per amicizia («da lei e dal Papini, preferirei dissentire simpatizzando»30) avrebbe anche evitato di replicare all’articolo prezzoliniano sulla «Critica», ma che era stato costretto a farlo soprattutto per difendere i propri collaboratori, specie Gentile. L’8 febbraio, poi, spiegava nel dettaglio le proprie ragioni:
Ella sa che io ho una fede fortissima nella ricerca del vero, che costituisce per me la serietà della vita. E questa ricerca importa metodo, disciplina, continuità storica, ecc. (…) Ma il Leonardo sostituisce alla fede nella verità la manifestazione del temperamento individuale, e quindi non sa che farsi del metodo, e delle altre cose dette di sopra. Questo atteggiamento, a mio parere, è artistico e non filosofico. O meglio, non è filosofico, ma non è neppure veramente artistico: è qualche cosa di mezzo tra arte e filosofia. Se fosse pura arte, l’accetterei come tale. Ma essendo un miscuglio di arte e filosofia sono costretto a combatterlo, come già più volte ho fatto, e farò ancora in seguito. (…) il loro atteggiamento misto (…) mi pare filosoficamente infecondo e dannoso alla vita spirituale italiana31.
Nella conclusione alla lettera, egli scriveva anche che, notando nelle pagine dei leonardiani «tanti elementi di sana vita mentale»32, non riusciva, comunque, ad abbandonare la speranza che il loro “atteggiamento misto” si sarebbe risolto o nella filosofia o, più realisticamente, nell’arte pura.
Come accennato, dunque, le idee espresse da Croce nella lettera a Prezzolini trovarono formulazione più ampia e organica nel noto “articolo di fondo” dal titolo Di un carattere della più recente letteratura italiana, apparso prima sul «Giornale d’Italia» il 17 maggio 1907 e poi integralmente sulla «Critica» dello stesso anno33, che trattava della «condizione di spirito»34 del periodo a lui contemporaneo.
È importante, ai nostri fini, sottolineare il passaggio che apre l’intervento crociano, dall’autore definito «intermezzo»
non già soltanto perché esso esce dallo schema solito degli altri, ma perché oltrepassa, in verità, quella stretta considerazione letteraria ed artistica, cui procuro di rigorosamente attenermi nelle mie Note. Il fatto, che vorrei mettere in rilievo, benché abbia relazione con la letteratura determinando e certi motivi artistici e certe brutture antiartistiche, è, prima che un fatto letterario, una condizione di spirito: la quale, essendo assai diffusa e riflettendosi anche in molte manifestazioni letterarie, viene poi a costituire un «carattere», ˗ uno dei caratteri, e non il più attraente, ˗ della più recente letteratura35.
Croce tiene a precisare in maniera esplicita e inequivocabile che non gli interessa tanto, in questo intervento, parlare di letteratura e arte, ma “oltrepassarle”, mettendo in rilievo quello che «prima che un fatto letterario»36, rappresenta una «condizione di spirito»37 «assai diffusa»38 in quel preciso momento storico. Precisazione importantissima, specie alla luce della lettura che è stata data di questo articolo di fondo da certa critica, ovvero come di una “bocciatura” degli esponenti principali della letteratura dei primi anni del Novecento e delle loro opere artistiche.
Nell’articolo Croce tiene a distinguere nettamente l’idealismo da misticismo, estetismo e tendenze occultistiche e spiritistiche, precisando: «la rinascita dell’idealismo è, e dev’essere, la restaurazione dei valori dello spirito, e in prima linea, del valore del Pensiero»39. Com’è noto, il periodo seguito, intorno al 1885-1890, all’epoca carducciana (ovvero quella di Carducci, dei veristi, di positivisti e neocritici, dell’«eruditismo»40) e nel quale, a suo giudizio, spira «vento d’insincerità»41 (nel senso di «poca chiarezza intima»42), viene, appunto, identificato da Croce con la «triade onomastica»43 di d’Annunzio, Fogazzaro e Pascoli e, dunque, con le figure dell’esteta, del mistico e dell’imperialista, «tutti operai della medesima grande industria: la grande industria del vuoto»44, intrisa della «nuova retorica»45 dell’«ineffabile»46. In un veloce passaggio, nonostante tutto, Croce riconosce, però, a quel periodo, rispetto a quello precedente, letterariamente contrassegnato dal nome di Carducci (dagli anni 1865-1870 fino al lustro 1885-1890), una «maggiore finezza e complicatezza spirituale»47; e, in precedenza, ammette che le due “epoche storiche” «formano in realtà un unico processo, che si tratta d’intendere»48.
Quali gli aspetti positivi del periodo carducciano? Le «forme dell’arte e del pensiero»49 da Croce indicate come validi modelli si basano tutte «su quei sentimenti, che potrebbero dirsi fondamentali dell’umanità: l’eroismo, la lotta, la patria, l’amore, la gloria, la morte, il passato, la virile malinconia»50. Croce sottolinea come quello carducciano non sia un ideale «transitorio, ma è quello che canta nel fondo di ogni animo forte e sensibile, complesso ed equilibrato: perciò il Carducci è sulla linea della grande poesia: è un omerida»51. Terrei a sottolineare l’aggettivo «equilibrato», adoperato da Croce in questo passo.
Di Carducci egli elogia anche la coerenza dell’uomo che difende sempre un medesimo ideale, pur nelle sue «mutazioni apparenti»52.
Il programma dei veristi, com’è chiaro, non può, invece, essere condivisibile per Croce, che lo definisce «sbagliato; la scienza e l’arte sono inconciliabili, non perché avverse ma perché diverse»53; però, ne loda l’«onestà di propositi, così da parte dei maggiori come dei minori di quell’indirizzo, nel far del loro meglio per eseguire il loro programma»54 e afferma che essi ubbidiscono, sebbene inconsapevolmente, a una «necessità superiore»55, essendoci nella loro opera «l’elemento vivo, proveniente dalle condizioni generali dello spirito europeo che s’era rivolto fiducioso alle scienze naturali e aveva chiesto la verità all’esplorazione naturalistica dell’uomo»56. I veristi, dunque, sebbene i loro esiti artistici a giudizio di Croce non siano dei più apprezzabili, hanno svolto un ben preciso ruolo nel cammino verso il progresso dello Spirito: in fondo, il loro ufficio tanto somiglia a quello che Croce attribuirà in seguito alla letteratura, definendola come “opera di civiltà” in contrapposizione alla poesia quale “opera di verità”57.
Anche di positivisti e neocritici, «sgrammaticati»58, «ignoranti della storia filosofica e della grande filosofia»59, talora «ridicoli»60, egli apprezza l’«entusiasmo, del quale l’uomo non può far di meno»61.
Anch’essi sono stati un inconsapevole “strumento”: infatti,
dopo l’orgia metafisica della prima metà del secolo, dopo le facili costruzioni della filosofia della natura, una reazione era inevitabile che affermasse l’autonomia delle scienze esatte. Le reazioni come le rivoluzioni non scelgono i loro strumenti: prendono quelli che trovano; e presero i positivisti e i neocritici, i quali, per tal ragione, espressero qualcosa di serio, forse loro malgrado (…)62.
All’ingenuità di certe figure che hanno caratterizzato il periodo precedente Croce contrappone la vacuità dei nuovi punti di riferimento, dei «tipi psicologici»63 che caratterizzano l’età a lui contemporanea. Imperialisti, mistici ed esteti, infatti, a suo dire, raccolgono la materia prima della «grande industria del vuoto»64: «la sottomettono a una sgrossatura, la fanno passare pei varii gradi di elaborazione, la riducono in forma di manufatti, la mettono in mostra nelle vetrine, la consegnano agli adescati consumatori»65. Temi simili ritorneranno in quella mirabile fotografia della produzione editoriale italiana degli anni precedenti la Prima guerra mondiale che è il saggio Le lettere di Renato Serra66.
«Che cosa vogliono?»67, si chiede Croce in relazione a questi nuovi “tipi”; e risponde: «Chi lo sa?»68. Aggiunge: «Se a quell’artista dite di provarsi a far qualcosa di chiaro e semplice, vi considererà come un borghese incapace di penetrare nella sacra ombra del tempio dell’arte»69.
Non è casuale che l’«insincerità»70 che Croce ravvisa nel periodo a lui contemporaneo della vita e della letteratura italiane, quell’insincerità definita come «fabbrica del vuoto, (…) vuoto che vuol darsi come pieno, (…) non-cosa che si presenta tra le cose e vuole sostituirvisi o dominarle»71, venga da lui additata come «malanno»72, con un termine che rimanda a tutto un florido e sfaccettato campo semantico che riaffiora continuamente, nelle sue varie declinazioni, nella produzione crociana di ogni tempo.
Egli contrappone la «ciarlataneria»73 dell’«enfasi»74 del passato, comunque “solida” e poggiante su esigenze reali, alla «nuova retorica»75 dell’«ineffabile», che si esprime in «gesti che non si traducono in movimenti né di mano, né di piede, né di alcun’altra parte del corpo»76.
Quella che Croce ritrae e, in un certo senso, “dileggia” in questi passaggi è, in fondo, l’inettitudine, la malattia del secolo, che popolerà i romanzi del Novecento di gesti mancati e vite “agìte”. E la “irride”, seppur velatamente, non certo – a mio modesto avviso ˗ perché non riesca a coglierla (ché, anzi, le sue descrizioni piene di ironia e sarcasmo la ritraggono con grande precisione), ma perché ne intravede la “pericolosità”: sia a livello socio-culturale sia a livello squisitamente personale. Il clima che si respira, in quel frangente storico, in Italia somiglia, forse, troppo a una condizione di spirito che anche egli stesso ha dolorosamente attraversato in gioventù e dalla quale a fatica è riuscito – sempre temporaneamente ˗ a divincolarsi, con un quotidiano “travaglio” e un faticoso lavoro su se stesso, i propri pensieri, le proprie angosce, i propri nodi irrisolti.
Quell’inettitudine, quell’incapacità di agire, quell’inquietudine, quella sregolatezza impersonificate dalle nuove figure di letterati e artisti di successo del primo Novecento devono, forse, far agitare, in lui, vecchi fantasmi ancora vivi sotto la cenere. Si può dire, scomodando Virgilio, che riconosca i segni dell’“antica fiamma”, ma si tratta di una fiamma che evidentemente ha soprattutto un potenziale distruttivo, nella propria capacità di autoalimentarsi, ardendo e bruciando.
Croce sembra confermarlo, parlando di «stati d’animo» e riportando indirettamente la condizione di spirito che vede dominare il suo tempo alla propria dimensione interiore, nel passaggio in cui intende confutare la possibile obiezione che non si possa parlare d’insincerità trattando di «stati d’animo (…) sinceramente sentiti»77, che «meritano rispetto»78:
Oltre l’insincerità superficiale, ch’è quella che si usa con gli altri, quando si mente nascondendo il nostro vero pensiero, ve n’ha un’altra, profonda, che usiamo con noi stessi, quando non ci adoperiamo a venire in chiaro del nostro vero essere. È questa seconda insincerità, che ho principalmente di mira: la poca chiarezza intima; lo stato psicologico in cui l’uomo non mente più agli altri, perché ha già mentito a sé stesso; e, a furia di mentirsi, ha fatto tale una confusione nel suo animo, che non ci si raccapezza più: ha arruffato una matassa, che non riesce più a dipanare: è giunto a una sorta d’incolpevolezza e d’ingenuità, che ha a fondamento una grande colpa e un grande artificio79.
Ecco il punto: ciò che Croce coglie di colpevolmente deteriore in tali atteggiamenti è la mancanza di un reale impegno nel venire a capo della propria confusione interiore, permanendo in quello stato patologico di irresolutezza e indeterminatezza che egli condanna anche perché, di norma, è una disposizione d’animo che paralizza l’uomo nell’azione. Il suo pragmatismo non può tollerare tali impedimenti interiori, tali “stadi intermedi” che egli considera di passaggio e, quindi, degni di poca considerazione (quasi al pari degli “scartafacci” della filologia d’autore), in vista del loro successivo, auspicabile “scioglimento”. Ciò che è indefinito e irrisolto non ricade nella sua sfera d’interesse, sia in ambito estetico sia in ambito morale, anche perché lo turba profondamente, in quanto possibile fonte di quell’angoscia che, parte integrante della vita umana, deve essere quotidianamente addomesticata e tradotta in opera, per annullarne la carica distruttiva e trasformarla in potenziale costruttivo.
Da notare, a margine, che questi passaggi sono indirettamente riferiti anche a Giovanni Papini, che, nel citato Carteggio con Croce, ammette proprio nell’ottobre del 190780 di non sapersi risolvere tra la propria dimensione artistica e quella filosofica. E, infatti, in precedenza, il 24 maggio81 aveva confessato, com’è ormai noto, di essere stato molto colpito e “impressionato” dall’articolo di fondo di Croce, che avrebbe innescato un serio ripensamento anche dei fini del «Leonardo» e avrebbe condotto Papini e Prezzolini alla decisione di porre fine alla rivista, per rivedere bene il proprio progetto editoriale in termini e modi che, poi, si sarebbero tradotti e sviluppati nella realizzazione del nuovo periodico «La Voce».
Nell’intervento Croce parla, infatti, di colpevole «pigrizia»82 di chi tenta di conciliare opposti inconciliabili quali misticismo e filosofia, ascetismo e vita attiva, ineffabilità e arte etc. E, quindi, conclude: «Contro la forza delle cose non vale forza di parole. Si può spiegare l’errore, si può attenuarlo mostrando come in alcuni sia uno stato di confusione passeggiera o di transizione: ma la contradizione resta»83.
Ad ammorbidire la categoricità di certe affermazioni, Croce tiene a precisare, però, che sta parlando di una «corrente spirituale»84, di uno «stato psicologico»85, di “tipi”, perché, fortunatamente, gli uomini empirici, gli individui, sono spesso migliori dei loro “falsi ideali”: «e se in parte della loro opera manipolano il vuoto nel modo che si è detto, in altre parti mettono il meglio di loro stessi: acuti pensieri, accurate ricerche storiche, delicate impressioni artistiche, sinceri slanci religiosi»86. Infatti, anche riguardo ai tre protagonisti della temperie spirituale che sta sottoponendo a critica, Croce ammette: «I lettori sanno come io faccia grande stima di una parte della loro produzione, e specie dell’opera del primo (d’Annunzio), che è, dei tre, il più ricco e forte temperamento artistico»87. Ma, nel paragrafo dedicato agli aspetti deteriori della loro opera, non si può non notare come riemerga la metafora della malattia:
Nel passar da Giosue Carducci a questi tre sembra, a volte, di passare da un uomo sano a tre neurastenici! Artisti, senza dubbio, che hanno scritto il loro nome nelle pagine della storia letteraria italiana; ma che temo lo abbiano scritto anche in quelle della storia civile, la quale dovrà spesso ricordarli come insigne documento del presente vuoto spirituale88.
Dunque, sanità versus malattia e conseguente passaggio in secondo piano del riconoscimento del valore artistico di certi “Poeti” rispetto alla denuncia della loro “pericolosità” come esempi e modelli sul piano civile e morale. In questo, come in altri casi, il Croce teorico sembra essere più “avanti” del critico (come, per altri versi, accade il contrario) nella concreta prassi dell’esercizio del proprio giudizio di valore: sono le occasioni in cui ragioni extraestetiche sembrano avere la meglio sulla difesa dell’autonomia dell’arte. Si tratta, però, di ragioni extraestetiche che hanno una propria assoluta rilevanza nel loro essere legate alla sfera di quella forza imprescindibile, di quel motore dell’intera esistenza – luminoso istinto di conservazione ma insieme anche volontà oscura di autodistruzione – che l’ultimo Croce definirà come Vitalità.
Dopo un accenno alla sua battaglia contro il «prammatismo»89, sempre indirizzato agli amici leonardiani, Croce riconduce la condizione spirituale della vita culturale e morale europea, che produce una serie di «manifestazioni malsane»90, a «due grandi colpe»91: dal punto di vista filosofico, la reintroduzione dell’«Inconoscibile»92 e del mistero in funzione antipositivistica; dal punto di vista politico, la negazione del socialismo, ovvero dell’«entrata della classe operaia nell’agone politico»93, rifiuto dal quale traggono origine, a suo parere, gli «ineffabili ideali della forza per la forza, dell’imperialismo, dell’aristocraticismo»94. Da quel «doppio peccato, intellettuale e morale»95, si genera, a suo dire, «quella Egoarchia, quell’Egocentricità, quella Megalomania, che è tanta parte della vita contemporanea»96 e dalla quale non si può guarire che guardandosi dentro, in quella «continua correzione di noi stessi in cui consiste l’onestà della vita»97.
I leonardiani, anche se non menzionati apertamente, non potranno non sentirsi coinvolti specie da tale critica e, appunto, investiti dal suddetto vento d’insincerità e dalla «moderna malattia dell’istrionismo»98 secondo Croce dominanti, tanto più dato che questi riconduce anche il Pragmatismo alla disposizione d’animo da lui descritta e lo legge come una forma di «nietzschianismo passato attraverso il dannunzianesimo»99.
La reazione, infatti, non si fa attendere ma, nel complesso, è un moto di adesione alle tesi crociane. Già il 22 maggio100 Prezzolini esprime un proprio parere favorevole su una prima versione non integrale del contributo, apparsa sul «Corriere della sera» cinque giorni prima; come ricordato, il 24 maggio Papini si unisce all’amico, rivelando a Croce che il suo articolo gli ha fatto «grande impressione»101, poiché si trova in una disposizione d’animo atta a comprenderlo e a «sentirlo»102 profondamente, e che «l’insincerità che voi scoprite in noi io pure la sento e tento di rimettermi dinanzi a me stesso, ingenuamente e severamente, per giudicarmi come un altro potrebbe giudicarmi»103. Gli rivela, pertanto, di sentirsi meno lontano da lui, rispetto a qualche mese prima.
Anche Prezzolini torna ad esprimersi sull’argomento il 27 maggio104, confermando quanto già anticipato dall’amico e sodale:
Quel suo articolo è capitato in un momento eccellente per esser capito da noi, e le cose che lei ci dice in molte pagine, ce le eravamo dette, talora anche in modo più aspro, fra noi. Io ho sentito e sento il bisogno di rifarmi, perché capisco che tutto, e conoscenze e teorie e conoscenza di me stesso anche son sbagliate per quel difetto che lei ha saputo trovar così bene: di sincerità verso se stessi. Tanto che tutto quel che faccio ora, è alla stracca e di malavoglia, perché non desidero altro che trovarmi con me, e ripulirmi, e avere per ciò del tempo105.
Croce risponde a Papini il 27 maggio106 e a Prezzolini il 2 giugno 1907107, specificando, nella seconda lettera, di aver scritto il proprio articolo mosso da una «seria preoccupazione»108: dato che li ritiene «qualcosa di più e di meglio che dei giovani in formazione»109, ammette che gli sia stata «assai cara la (…) piccola vittoria su certe tendenze del vostro spirito di cui abbiamo più volte discusso insieme a viva voce»110.
In quell’arco di tempo, come anticipato, matura la decisione, da parte di Papini e Prezzolini, di porre termine all’esperienza del «Leonardo», la cui conclusione viene sancita nel noto articolo intitolato La fine, dell’agosto 1907, nel quale viene rivelato ai lettori un bisogno, dei due direttori, di serio ripensamento, di riflessione su se stessi e di approfondimento, che di certo risente molto delle sollecitazioni, in questo senso, provenienti da Croce stesso e che sfocerà, poi, nella fondazione di una nuova rivista, «La Voce», che si distinguerà da quella crociana «non tanto per l’orientamento teorico quanto per la funzione da svolgere nell’ambito di un progetto comune»111.
A partire dall’estate 1907 Papini trascorre un periodo di “segregazione” in campagna e non riesce neanche a incontrare Croce, di passaggio a Firenze alla fine di settembre112: questi deduce, con tono di affettuosa comprensione, che la mancata visita dell’amico sia stata causata da una sua certa condizione di spirito, che gli fa cercare la solitudine, confortato, poi, nella propria interpretazione, dallo stesso Papini, che il 6 ottobre gli confessa:
La mia simpatia per voi, per la vostra lealtà, franchezza e laboriosità, non è diminuita ma piuttosto cresciuta. Soltanto ho bisogno di raccoglimento e di decidere finalmente ciò che di meglio io possa fare nel mondo dopo il vagabondaggio della prima giovinezza. Credo, in questo momento, di esser nato piuttosto per l’arte (…). D’altra parte la filosofia – e concepita più seriamente che non dai pragmatisti – mi attrae di nuovo e non so se questo ormai vecchio dissidio del mio spirito potrà finire. In ogni modo, o artista o filosofo, sarò vostro “justiciable” e vostro amico113.
Come sempre nei casi in cui un amico è in difficoltà, Croce risponde con tono affettuosamente partecipe, seppur sollecitando la consegna di un lavoro editoriale per Laterza. Alla fine del mese, dopo qualche indugio, Papini gli promette, comunque, che porterà a termine il compito, ottenendone in cambio, da Croce, un’altra cartolina affettuosa di approvazione114 e, quattro giorni dopo, dei complimenti per la traduzione da Berkeley («ne sono rimasto soddisfattissimo»115) da lui approntata. Di certo, emerge da queste missive la sincera contentezza di Croce nel constatare che l’amico ha preso finalmente una decisione “operativa”, uscendo dal proprio stato di prostrazione spirituale e di inattività, e soprattutto che ha deciso di tener fede alla parola data, rispettando la consegna116.
Concludendo questo primo tassello di un percorso di studio che spero si possa articolare a breve nelle tappe più significative della riflessione crociana sulla sensibilità novecentesca, mi sembra utile ricordare un passaggio pregno di senso sul concetto di “personalità”, in una delle ultime conferenze crociane, tenuta nel 1949 nell’ambito delle Conversazioni con gli alunni dell’istituto Storico di Napoli, dalla quale traluce una definizione trasversale di “letterato decadente”, che va oltre le periodizzazioni proposte da certa storiografia letteraria:
(il concetto di personalità) non è nell’ordine dei concetti coi quali si chiarisce e definisce la storicità, ma in quello degli altri attinenti alla pratica, alla volontà, all’azione, che pone come dovere all’uomo la formazione di un proprio carattere, conforme alla disposizione o vocazione di cui egli sente nella sua coscienza la voce, di una propria e coerente personalità che sia saldo strumento di azione. (…) non sempre dalla semplice forma volitiva di essa, nella quale può essere posseduta anche da un uomo rozzo e perverso, si distingue la forma superiore o morale, poco gradita e prosaica agli occhi dei letterati decadenti dei nostri tempi. Anche la personalità morale, al pari dell’individualità in generale, nella storia vale soltanto per l’opera e nell’opera a cui partecipa e in cui si risolve117.
- Cfr. G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, il Mulino, 1989. ↵
- E. Paolozzi, Benedetto Croce. La logica del concreto e il dovere della libertà, prefazione di G. Gembillo, Roma, Aracne editrice, 2015, p. 31. ↵
- In «La Critica», 1907, fasc. V, pp. 177-90. ↵
- Ivi, p. 177. ↵
- In «La Critica», a. I, luglio 1903, fasc. 4, pp. 287-91. Cfr. B. Croce, G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, con introduzione di G. Sasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, pp. 25, 50-55. ↵
- Cfr. B. Croce, Rec. a «Leonardo. Rivista d’idee», IV, ottobre-dicembre 1906, in «La Critica», vol. V, 1907, pp. 67-69. ↵
- Ibidem. ↵
- L. Lattarulo, Egemonia e dialogo. Croce e la letteratura primonovecentesca, Manziana, Vecchiarelli, 2000, p. 26. ↵
- B. Croce, Rec. al «Leonardo» del 1907, art. cit., p. 67. ↵
- Ivi, pp. 67-68. ↵
- Ivi, p. 68. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. la recensione di Prezzolini alla «Critica», firmata «G. il S.», in «Leonardo», ottobre-dicembre 1906, pp. 361-64. ↵
- B. Croce, Rec. al «Leonardo» del 1907, art. cit., p. 69. ↵
- L. Lattarulo, Egemonia e dialogo, op. cit., p. 26. ↵
- Ibidem. ↵
- B. Croce-G. Prezzolini, Carteggio, a cura di E. Giammattei, vol. I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1990, p. 61, missiva 78, del 30 gennaio 1907. ↵
- Ibidem. ↵
- B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, op. cit., pp. 177-78, lettera n. 135 del 31 gennaio 1907: cit. a p. 178. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 179, cartolina n. 136, dell’8 febbraio 1907. ↵
- Cfr. B. Croce-G. Prezzolini, Carteggio, op. cit., vol. I, missive 75-82. ↵
- Cfr. «Leonardo», V, III serie, febbraio 1907, pp. 110-11. ↵
- Ivi, p. 110. ↵
- Ibidem. ↵
- B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, op. cit., pp. 180-82, cartolina n. 137, del 28 febbraio 1907: cit. a p. 180. ↵
- B. Croce-G. Prezzolini, Carteggio, op. cit., vol. I, pp. 62-64, missiva 79, del 31 gennaio 1907: cit. a p. 64. ↵
- Ivi, missiva 81, pp. 66-68: cit. alle pp. 67-68. ↵
- Ivi, p. 68. ↵
- Cfr. «La Critica», V, 1907, pp. 177-90. ↵
- Ivi, p. 177. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 187. ↵
- Ivi, p. 182. ↵
- Ivi, p. 178. ↵
- Ivi, p. 184. ↵
- Ivi, p. 177. ↵
- Ivi, p. 182. ↵
- Ivi, p. 183. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 178. ↵
- Ivi, p. 177. ↵
- Ivi, p. 178. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 179. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. B. Croce, La poesia, opera di verità; la letteratura, opera di civiltà, in «Quaderni della Critica», n. 5, vol. 15, 1949, pp. 50-60. ↵
- Cfr. «La Critica», V, 1907, p. 179. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, pp. 179-80. ↵
- Ivi, p. 182. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Roma, Bontempelli, 1914. Per il quale mi permetto di rimandare a M. Panetta, Renato Serra e il panorama delle Lettere, in Ead., Guarire il disordine del mondo. Prosatori italiani tra Otto e Novecento, Modena, Mucchi, 2015, pp. 97-104. ↵
- Cfr. «La Critica», V, 1907, p. 182. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 183. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 184. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, op. cit., pp. 194-95, lettera n. 150. ↵
- Ivi, pp. 185-86, lettera n. 141. ↵
- «La Critica», V, 1907, p. 184. ↵
- Ivi, p. 185. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 186. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 187. ↵
- Ivi, p. 186. ↵
- «La Critica», V, 1907, p. 191. ↵
- Ivi, p. 189. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 190. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 187. ↵
- B. Croce-G. Prezzolini, Carteggio, op. cit., vol. I, missiva 94, del 22 maggio 1907, pp. 75-77: cit. a p. 76. Si veda al riguardo la nota n. 2 alla cartolina n. 137 del cit. Carteggio 1902-1914 fra Croce e Papini, pp. 180-81. ↵
- Cfr. B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, op. cit., lettera n. 141, del 24 maggio 1907. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. B. Croce- G. Prezzolini, Carteggio cit., vol. I, missiva 95, pp. 77-78. ↵
- Ivi, p. 77. ↵
- Cfr. B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, op. cit., pp. 187-88, cartolina n. 142. ↵
- Cfr. B. Croce-G. Prezzolini, Carteggio, op. cit., vol. I, missiva 96, del 2 giugno 1907, p. 78. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- L. Lattarulo, Egemonia e dialogo, op. cit., p. 32. ↵
- Cfr. B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, op. cit., pp. 192-94, missive nn. 147-149. ↵
- Ivi, pp. 194-95, lettera n. 150, del 6 ottobre 1907. ↵
- Ivi, p. 197, cartolina n. 153, del 2 novembre 1907. ↵
- Ivi, p. 199, cartolina n. 155, del 6 novembre 1907. ↵
- Ibidem. ↵
- B. Croce, Universalità e individualità nella storia, in Id., Terze pagine sparse, Bari, Laterza, 1955, vol. I, pp. 53-54. ↵
(fasc. 13, 25 febbraio 2017)