Introduzione: crisi nella storia o crisi della coscienza storica?
Il 7 luglio 1822, il regio revisore del regno di Napoli, Lorenzo Giustiniani, appone il suo imprimatur al Saggio di alcune considerazioni sull’opera di Giovan Battista Vico intitolata Scienza Nuova di Francesco Colangelo, vescovo di Castellammare di Stabia, con queste parole:
[…] Signore era a lui serbato di far sentire per la prima volta la sua voce contro un libro, che diede occasione a segnare un’epoca molto infelice in Europa. Non essendovi cosa né contro la nostra Sacrosanta Religione, né contro i dritti della Sovranità, essendo il principale scopo del suo lavoro di far rispettare e l’una e gli altri; potrà perciò l’E.V. permetterne ben subito la pubblicazione per mezzo delle stampe[1].
A distanza di quasi un secolo, nella Filosofia di Giambattista Vico, Benedetto Croce riprende una parte del brano appena citato nell’appendice dedicata alla fortuna dell’opera del filosofo napoletano, definendola come «un libro che diede occasione a segnare un’epoca molto infelice in Europa». Lo stesso passo, tradotto in inglese da Robin George Collingwood, diviene «a work marking a most unfortunate crisis in European history», ricalcato da Karl Löwith nell’introduzione del capitolo dedicato a Vico nel suo Meaning in history del 1949. Nell’edizione italiana nel 1989, poi in seconda edizione nel 2015, infine, lo ritroviamo restituito come «un’opera che denunciava un’infelicissima crisi nella storia europea»[2].
Nella citazione di Croce il passaggio rende conto di una testimonianza della fortuna di Vico presso gli «avversari cattolici», «i soli che nel secolo decimottavo veramente penetrassero la tendenza fondamentale e, pur senza volerlo, ne riconoscessero la genuina grandezza»[3]. Il senso generale, nella traduzione di Collingwood, non risulta alterato, anche se le espressioni «diede occasione a segnare/diede luogo a segnare» risultano rese sinteticamente dal verbo marking, che pur si presta a un significato denotativo; mentre il passaggio «un’epoca molto infelice in Europa» diviene «a most unfortunate crisis in European history». Una differenza di sfumatura data dall’aggiunta della parola history sembra assumere maggiore rilevanza in Karl Löwith, il quale pure sottolinea l’impopolarità dell’opera vichiana al momento della sua pubblicazione nella sua ricezione da parte cattolica, ma vi ricorre brevemente solo alla fine del capitolo[4].
La corrispondente traduzione italiana, più fedele all’inglese che all’italiano ottocentesco, e il contesto in cui è inserita paiono essere funzionali alla prospettiva del filosofo tedesco, e cioè definire la Scienza nuova come l’espressione più significativa della crisi della coscienza storica manifestatasi a cavallo dell’epoca in cui operarono altri due studiosi da lui analizzati, Voltaire e Bossuet[5]. Un’impostazione che ha il merito di far emergere (o «dà occasione a segnare», se si preferisce) i motivi portanti del confronto, qui abbozzati, tra Karl Löwith e Benedetto Croce sull’interpretazione dell’opera di Giambattista Vico: il primo è la lente della “filosofia della storia”, applicata alla Scienza nuova da Löwith e respinta da Croce; il secondo riguarda il chiarimento sull’interpretazione della «crisi della storia europea» o «dell’epoca molto infelice in Europa» che sottende all’opera stessa.
Karl Löwith, l’Italia e l’incontro con Croce
La lente löwithiana sull’interpretazione di Vico permette, chiamandolo in causa, di approfondire e chiarire la posizione di Benedetto Croce riguardo all’opera di quello che è uno dei suoi punti di riferimento filosofici. Il tema della «filosofia della storia», infatti, rientra nell’accesa critica da parte di entrambi, offrendo un terreno comune di confronto interpretativo. Un confronto che comincia grazie allo sguardo dall’esterno dell’Italia fascista e di colui che «in Europa è uno dei pochi spiriti rimasti liberi e in possesso di un sapere e di una cultura che fanno vergognare tutti i più giovani», Benedetto Croce[6].
Il suo primo soggiorno in Italia risale al biennio 1924-1925, che racconterà nella rivista «Il cannocchiale» nel 1976, caratterizzata dalla prima vera e propria stesura, tra Roma e Settignano, dello scritto per l’abilitazione L’individuo nel ruolo del co-uomo. Quella sua prima esperienza italiana lo rese, nelle parole di Gadamer, «mezzo italiano d’elezione» e, secondo l’opinione dello stesso maestro Heidegger, «molto più tranquillo e sicuro e credo che, entro certi limiti, ne verrà fuori qualcosa da lui»[7].
In La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, un’autobiografia intellettuale che può ricordare il Contributo crociano, Karl Löwith descrive l’esperienza italiana negli anni dal 1934 al 1936, quando è costretto a lasciare la Germania nazista perché ebreo, tracciando un paragone tra italiani e tedeschi nel rapporto con i rispettivi regimi. Se per il tedesco, scrive, il nazionalsocialismo è dottrina, dall’altra
l’italiano considera il suo fascismo un mezzo rispetto allo scopo e non si lascia impressionare da nulla. Il tedesco è pedante e intollerante giacché prende le cose sempre in linea di principio, separandole dall’uomo; l’italiano, anche in camicia nera, è sempre umano perché ha un senso naturale delle debolezze degli uomini[8].
Criticità che emergono sia nelle persone comuni che negli intellettuali, «tutti ugualmente intrisi di una innata “humanità” [sic] che si concilia meglio col cinismo e con lo scetticismo anziché con la correttezza pretenziosa e con l’arroganza che rendono i tedeschi spesso insopportabili»[9]. Non è un caso, per Löwith, che il romanzo più letto di quel periodo fosse Gli indifferenti di Moravia.
Il risvolto della medaglia è un «opportunismo in buona fede», diverso dall’allineamento tedesco, che non infastidisce per il suo carattere autoironico e per niente pedante. Sarebbero queste le caratteristiche che in Italia permettevano a un intellettuale come Croce di pubblicare la sua «Critica», «nella quale ogni mese dice apertamente quel che gli altri si limitano a pensare»[10].
L’intuizione di Löwith trova senz’altro riscontro: la libertà di azione di cui godeva Croce era, in effetti, frutto di un opportunismo operato “dall’alto” dal regime stesso, preoccupato anche di promuovere all’estero un’immagine di libertà intellettuale e di espressione, facendo leva sul prestigio internazionale dello studioso e dei suoi seguaci più fervidi, come Lauro de Bosis[11].
Il capitolo sul biennio italiano si conclude con il racconto dell’incontro di Löwith con Croce e della passeggiata per le strade di Napoli fino a tarda sera. Aperta e sentita è la dichiarazione della propria ammirazione, nonostante «noi più giovani non sempre potevamo concordare con la sua valutazione dei mutamenti che investivano la nostra epoca»[12]. Tale affermazione è l’espressione di quella che Guida definisce «la consapevolezza di un’incolmabile distanza, sia per quanto riguarda gli orientamenti storiografici, sia relativamente alle rispettive posizioni teoriche»[13], declinata tanto nell’interpretazione di Hegel quanto in quella di Vico, delineata nella prima edizione di Meaning of history.
Rimane, tuttavia, chiaro al filosofo tedesco quanto l’opera di Croce abbia influito sul rinnovamento tedesco di Hegel, grazie alla «separazione critica operata […] all’interno del sistema di Hegel fra logica, filosofia della natura e filosofia della religione, ormai irriproponibili, e scienza dello spirito oggettivo, ancora attuale»[14].
La filosofia della storia vichiana
Lo scopo di Karl Löwith, in Significato e fine della storia, è di «mostrare che la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico» e, di conseguenza, di mostrare il fallimento della filosofia della storia stessa, «legittima soltanto sul terreno della fede», come sottolinea Pietro Rossi nell’introduzione[15].
Più in generale, Löwith, nella premessa all’edizione tedesca del 1952, si proponeva di trovare una risposta a un problema formulato in un’opera pubblicata dieci anni prima, Von Hegel zu Nietzsche (1941), ovvero «l’essere e il “significato” della storia sono determinati in generale dalla storia stessa, oppure da che cos’altro?»[16].
Il metodo seguito è un’esposizione a ritroso dell’ordine storico delle interpretazioni della storia, che da Burckardt risale all’escatologia biblica. La conclusione cui giunge Löwith è che
il problema della storia non può essere risolto sul suo stesso piano. Gli avvenimenti storici in quanto tali non contengono il minimo riferimento a un senso ultimo e comprensivo. La storia non ha alcun risultato ultimo. Non si è mai data e non si darà mai la soluzione del suo problema a essa immanente, poiché l’esperienza storica umana è un’esperienza di continui fallimenti[17].
Una visione pessimistica che tradisce una nostalgia nei confronti di un mondo precristiano, non caratterizzato dall’idea di “provvidenza”, poi cristallizzata nel moderno concetto di “progresso”, feticcio delle filosofie della storia post-illuministe.
In questo excursus ermeneutico, trova il suo spazio Giambattista Vico e la sua Scienza nuova, assieme al suo illustre interprete, Benedetto Croce.
Punto di partenza di Löwith è la constatazione che la Scienza nuova sia «un grandioso abbozzo di storia universale comparata, in cui ogni parte prende nuovamente dal principio del tutto», e nel suo insieme, stando a come lo stesso Vico la descrive, si presenta come «una teologia razionale del mondo civile, cioè del mondo storico, [che] mette in rilievo soprattutto lo spirito primitivo, […] sostanza creatrice anche dell’umanità razionalizzata di epoche più tarde»[18].
La sua novità consiste nell’essere una critica al cartesianesimo dominante all’epoca, che Vico contribuisce a ribaltare assumendone prima il dubbio metodico, per poi lasciare «per sì fatto oceano di dubbiezze» almeno «[un] sicuro punto d’appoggio per la conoscenza della verità»[19]. Tale ancora di salvezza è la conversione del verum e del factum. In questo modo, quelle che per Descartes non potevano essere scienze (le scienze storiche e umane in generale) diventano per Vico strumento di conoscenza da parte dell’umanità del suo prodotto, la storia: «La Scienza nuova – scrive Löwith – è una filosofia e insieme una storia dell’umanità, ed è possibile perché la “natura” degli uomini è umana e storica». La distinzione tra verità teoretiche e verosimiglianza pratica è superata grazie a una dialettica del vero e del certo che rende la «filologia» una vera e propria scienza filosofica[20].
Ma, nel quadro appena tracciato, qual è il ruolo della Provvidenza, che farebbe della storiografia vichiana una filosofia della storia?
Vico ne scrive nell’ultima sezione del primo libro della Scienza nuova, a compimento di tutti i principi sino ad allora espressi. L’errore dei filosofi, sottolinea Löwith, è stato quello di considerare la parte della divina provvidenza che riguardava «lo sol ordine naturale», mentre esiste anche la parte che caratterizza gli uomini nel loro «essere socievoli». Si tratta, dunque, di una provvidenza introdotta come “metodo”, «come la legge da cui la storia riceve la sua direzione e il suo ordine», che si applica agli uomini attraverso il loro senso religioso e le loro istituzioni religiose. Le comunità, secondo Vico, non possono esistere senza religione e, quanto più l’uomo primitivo ha timore della natura, tanto più sente il bisogno di rivolgersi a una potenza superiore, ovvero Dio, presso cui cerca protezione in cambio di sacrifici, utili ad attivare la forza della provvidenza, attributo essenziale di ogni divinità. «Divinitas, secondo l’etimologia vichiana, deriva da divinatio, l’arte di prevedere e di indovinare ciò che la potenza divina ha disposto per l’uomo»[21].
La provvidenza, in definitiva, fa degli esseri umani ciò che sono, permettendo loro di rimanere entro gli ordini di famiglia, stirpe, stato e umanità; di apprendere le virtù del soldato, del mercante, del reggitore e del diritto naturale delle nazioni. «Il cosiddetto diritto di “natura” è fin dall’inizio un diritto civile, fondato nelle civitas, che poggia su una teologia civile», specifica Löwith, e la provvidenza s’identifica perciò con le stesse leggi dello sviluppo storico, lontano da un operato trascendente e miracoloso che aveva caratterizzato la concezione della provvidenza da Agostino a Bossuet. «La storia è allora dalla prima all’ultima pagina il libro aperto di un mirabile disegno»[22].
È a questo punto che Löwith chiama in causa Croce, al quale contesta di interpretare Vico in base alla propria concezione della storia come “storia della libertà”, trovandosi così «costretto a eliminare il concetto vichiano di provvidenza». Croce sostituisce la dialettica hegeliana di soggetto e oggetto alla fede di Vico nella provvidenza, in base alla quale interpretare l’identificazione del verum con il factum: «il singolo individuo che fa liberamente la storia deve essere un individuo razionale e universale, cioè una universalità divenuta concreta». In questo modo la provvidenza diventa superflua come il caso o il fato, perché «separano l’individuo creatore dal suo prodotto». Il suo valore, che si alimenta alla fonte della «libera attività creatrice», è da intendere semplicemente quale critica delle illusioni individuali (la sola realtà storica) e come critica della trascendenza del divino. Per Croce «per rispondere al problema di che cosa sia la storia» bisogna rimanere nella storia stessa[23].
Questa, per Löwith, non corrisponde alla posizione di Vico, il quale
concepì il corso della storia […] come un mondo creato dall’uomo, ma al tempo stesso culminante verso qualcosa che si avvicina più alla necessità del fato che alla libera scelta. La storia non è soltanto azione libera e decisione, ma è anche e soprattutto accadimento ed evento. Perciò essa non è univoca ma ambigua[24].
Secondo Löwith, la dialettica vichiana di necessità e libertà nel divenire «si accorda molto meglio del liberalismo filosofico di Croce con la comune esperienza e con lo spregiudicato senso dell’avvenimento storico», rendendo la crociana “umana commedia degli errori”, «una divina commedia della verità»[25].
Anche rispetto al concetto di “progresso”, che nella Sattlezeit koselleckiana sostituirà quello di provvidenza nelle interpretazioni storiche moderne, Löwith concorda, questa volta, con Croce sul fatto che Vico non poteva ancora concepirlo, pur non condividendo la ragione addotta per tale mancanza: la limitazione che Croce ha posto alla divina provvidenza nel pensiero di Vico. «La ragione per cui Vico non eleva la sua divinità provvidenziale a divinità progressiva – scrive Löwith – sta piuttosto nell’immanenza della provvidenza divina nel corso del divenire naturale», anche se «verso la fine dell’opera, prende in considerazione la possibilità di un fine ultimo del processo storico». Tuttavia, il vero tema della sua opera è l’impossibilità di un compimento o di una soluzione della storia, che «è dominata nel suo processo dalla ricorrenza»[26].
Quella di Vico, infatti, è una concezione storica fondata sul “ricorso”, non tanto come «ricorrenza naturale e cosmica» quanto nell’accezione giuridica di “appello” nella struttura stessa della storia. Potrebbe essere paragonato alla concezione ciclica di Polibio, se non fosse semi-cristiano, funzionale alla «“salvezza” dell’umanità, attraverso la rigenerazione della sua storia sociale»[27]. Il processo storico-naturale di corso e ricorso porta con sé un significato provvidenziale, in quanto estremo rimedio alla corruzione della natura umana.
Allora, date l’immanenza della provvidenza e la mancanza di un fine escatologico, qual è il posto della storiografia di Vico all’interno delle teologie e filosofie della storia? «La prospettiva di Vico – conclude l’autore del Significato – è ancora teologica, ma i mezzi della provvidenza sono storico-naturali». Essa si pone tra il progresso volteriano e l’ortodossia storica di Bossuet. Si tratta di una “teologia civile ragionata”, «al limite tra teologia della storia e filosofia della storia, ed è perciò profondamente ambigua»[28]. Ambiguità che provocò un’intensa reazione in seno alla Chiesa cattolica romana, di cui l’imprimatur del censore regio è un testimone tra tanti.
In conclusione, pur attingendo ampiamente all’interpretazione che Croce fa di Vico nei suoi saggi filosofici, Löwith se ne discosta rispetto alla rappresentazione della provvidenza, ridotta all’immanenza della libera scelta e della critica di una trascendenza nella storia. D’altronde, come segnala Piovani a proposito di un altro scritto di Karl Löwith, «è assai difficile dire se questa distinzione tra ciò che è della natura e ciò che è della storia concordi, pur nel suo militante anti-cartesianesimo, con una tesi di Cartesio, o provenga da suggestioni lucreziane»[29]. «[…] Vico non ha bisogno di sacralizzare la storia profana o di profanizzare la storia sacra – continua Guida – poiché emancipa tutta la storia, assicurata da quella innovante conoscenza che è la logica del concreto», operazione che Löwith attribuisce sia a Vico sia a Voltaire, entrambi responsabili di inserire la «storia della religione in quella della civiltà e subordinandola ad essa»[30].
La prospettiva di Croce, dal canto suo, prende le mosse dalla negazione del presupposto di partenza di Löwith: «la storia da lui [Vico] ricostruita non poteva essere, e non fu, storia universale»[31]. E, per chiarire le motivazioni di questa affermazione, è necessario rivolgersi direttamente all’interpretazione crociana.
Croce, Löwith e la «fuga dalla storia»
Negli scritti di Croce, compresa la sua autobiografia intellettuale, non troviamo testimonianza dell’incontro con Karl Löwith a Napoli, ma della conoscenza delle sue opere senz’altro.
In una nota del capitolo della Storia come pensiero e come azione (1938) dedicato a Burckhardt, Croce scrive:
La maggior parte dei luoghi di cui qui mi valgo si trovano raccolti e ordinati in K. Löwith, Jacob Burckhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte (1936) cosicché mi è dato risparmiare quasi del tutto le particolari citazioni delle opere e delle lettere del Burckhardt[32].
Ma non senza specificare che «il libro del Löwith, quanto è accurato, altrettanto è intelligente: ma, poiché l’interprete è esso stesso tutto preso nel sentimento di smarrimento e di scetticismo del suo autore, va nel senso inverso dell’interpretazione che qui si ragiona»[33].
Quello a cui Croce fa riferimento, in quelle pagine della Storia come pensiero e come azione, è la “storiografia senza problema storico”, atteggiamento prima assunto da Leopold von Ranke, poi reiterato da Burckhardt, «responsabile di aver negato agli “universali” postulati dai filosofi “ogni efficacia nel mondo”, che diveniva dal canto suo prerogativa esclusiva dell’“individualità” e della “personalità”». Un’«impressione piuttosto che un elaborato giudizio» sulla modernità dell’uomo rinascimentale. Ciò che Croce contestava a Löwith è proprio la «fuga dalla storia», impiegata per sfuggire ai regimi totalitari invece di prendere posizione[34]. Giudizio che Croce riprende anche sull’opera principale di Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, in cui «tende, indirettamente, a risolvere il punto di vista teorico di Löwith in quello stesso clima di “decadenza filosofica” di cui la storiografia si occupa, e a cui non è capace di reagire criticamente»[35].
Mentre, tornando a Vico, Massimo Montanari conclude così il suo articolo per l’Enciclopedia italiana: «la filosofia crociana è continuamente alimentata e sostenuta da quella di Vico. Da Vico Croce trae elementi vitali per la sua filosofia: dalla concezione del rapporto tra poesia e storia alla spiritualizzazione del concetto di lavoro e alla negazione dell’utile come motore degli accadimenti dello spirito»[36].
I primi scritti in cui compare l’interpretazione crociana di Vico sono la seconda parte dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) e La filosofia di Giambattista Vico (1911), oltre a scritti presenti in Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia del 1913. Lo scritto del 1911 (cui si attingerà ampiamente in questa sede nell’edizione del 1922) contribuì ad integrare, per volontà precisa di Croce, la Storia della filosofia del Windelband: questo e altri compendi di storia della filosofia moderna, infatti, quando non facevano passare il pensatore italiano sotto silenzio, lo ricordavano sbrigativamente come il filosofo che avrebbe tentato «la dubbia scienza della “filosofia della storia”», dopo Bossuet e prima di Herder[37]. Tradizione in cui si inserisce anche l’interpretazione di Karl Löwith.
La «storia ideal eterna»
La prima obiezione che Benedetto Croce potrebbe muovere all’analisi löwithiana della storiografia di Vico, in una sorta di confronto indiretto per punti, è la sua definizione di “storia universale”. E, se non è storia universale, scrive Croce,
per conseguenza, non fu neppure quello che si chiama filosofia della storia, se a questa denominazione si ridà il significato originario di una “storia universale” (cioè che abbia l’occhio alle maggiori e più nascoste iuncture rerum) “narrata filosoficamente” (vale a dire, più filosoficamente che non si solesse dai cronisti, dagli aneddotisti e dagli storiografi cortigiani, politici e nazionali)[38].
Per Croce, l’insistenza a considerare la Scienza nuova un’opera rivoluzionaria, in quanto fondante della nuova scienza della filosofia della storia, non ne ha lasciato intravedere il potenziale «come nuova filosofia dello spirito e iniziale metafisica della mente». Quel che Vico ha tentato, in buona fede, è stato di armonizzare storia sacra, quella degli ebrei, che contiene in sé il principio ispiratore nella forma dell’azione diretta di Dio, e storia profana, per il semplice fatto che si sono svolte entrambe sulla terra e si sono mescolate l’una con l’altra. Inevitabile, in questa operazione, è stato lo sbocco «in una qualche apologia di storia sacra con gli argomenti forniti dalla scienza e dalla storia profana». Secondo Croce, è proprio «questa la parte più infelice ma altamente significante dell’opera sua», poiché l’esigenza di conciliare le sue teorie sulle civiltà primitive con la cronologia biblica «lo portò a immaginare le cose più stravaganti»[39].
Tuttavia, questo non sarebbe sufficiente a fare di quella di Vico una filosofia della storia; la sua apologetica della storia sacra e il tentativo di armonizzazione con quella profana – scrive Croce – «rimangono in lui episodi dai quali si può prescindere»[40]. Il punto di vista da cui guardare ai fatti, che la sua filosofia gli permetteva, invece, era «quello dei corsi e ricorsi, dell’eterno processo e delle eterne fasi dello spirito», affermazione che consente di connettersi a un punto dirimente della filosofia vichiana, trattato ampiamente anche da Löwith: la questione della provvidenza[41].
In apertura del saggio dedicato a questo tema, Croce scrive che per Vico «la vera e unica realtà del mondo delle nazioni è dunque il loro corso; e il principio che governa il corso delle nazioni è la Provvidenza. Sotto questo aspetto la Scienza nuova si può definire una Teologia civile ragionata della provvidenza divina»[42]. La definizione di “teologia civile ragionata” corrisponde a quella usata da Löwith, ma in cosa consiste, di preciso, la “provvidenza” della Scienza nuova per Benedetto Croce?
Innanzitutto, nota Croce, Vico utilizzava il termine “provvidenza” in senso sia soggettivo sia oggettivo: «ora come persuasione che hanno gli uomini di una divinità provvidente che regga i loro destini, ed ora come l’efficacia stessa di questa provvidenza». Il primo significato corrisponde all’idea che hanno gli uomini di Dio, prima nella forma del mito, poi in quella della filosofia. «Senza di essa – scrive Croce – non si forma nell’uomo la sapienza, che è coscienza dell’infinito; non sorge la moralità, ch’è timore e riverenza del potere superiore che governa le cose umane», ma non si va oltre, non si crea un nuovo discorso[43].
Per spiegare il secondo significato, Croce ritiene necessario un chiarimento previo sul corso storico come unità di individuale e universale, una «razionalità della storia» che non è opera né del Fato né del Caso: una necessità che non è fato e una libertà che non è caso. Il vantaggio della provvidenza divina è, piuttosto, quello d’«introdurre una causa della storia che non sia né fato né caso, e perciò neppure più propriamente causa ma efficienza creativa e spirito intelligente e libero». Dunque, identificare la razionalità della storia con la provvidenza divina appare sia come «un atto di gratitudine verso questa veduta più alta» sia come un accomodamento retorico[44]. E la provvidenza nella storia intesa come razionalità assume il «doppio valore di critica delle illusioni […] individuali e critica della trascendenza del divino», come anche Löwith aveva criticamente notato. Detto questo, quella di Vico, per Croce, non è certamente provvidenza trascendentale né tantomeno un corso dominato, come si è visto, dal fato o dal caso, per la critica insistente che il filosofo opera nei loro confronti: «Il Vico lumeggia nei modi più immaginosi quella commedia degli equivoci, che sono le illusioni circa i fini delle azioni che si compiono»[45].
Dunque, per disarmare definitivamente l’idea di un’azione provvidenziale sopraindividuale nella storia in Vico, è utile notare che manca un elemento fondamentale che una storia preordinata in senso escatologico contiene necessariamente: il superamento del problema del male. In Vico il problema del male ha scarsissimo rilievo e, laddove compaia, è trattato come un aspetto relativo, che appare a chi lo compie, per effetto stesso della provvidenza che si muove con la storia, come una forma di bene, anche ‒ si potrebbe aggiungere ‒ a distanza di secoli, nella sua forma più banale[46].
Si completano in questo modo, nell’interpretazione di Croce, l’affrancamento dalla provvidenza in Vico e la sua assimilazione a una storia razionale che non conosce fine ultimo. L’immanenza della provvidenza era anche il motivo che per Löwith impediva alla provvidenza vichiana di innalzarsi a provvidenza progressiva (cfr. supra); tuttavia, la mancanza di un principio “antagonista”, come il male, rende difficile la collocazione della Scienza nuova tra i continuatori della vecchia teologia della storia o fra i battistrada della nuova filosofia della storia.
Il merito storiografico di Vico è, secondo Croce, «una concezione della storia veramente oggettiva», liberatasi, come si è visto, sia da un volere divino sia dalle spiegazioni aneddotiche, «e acquista coscienza del suo fine intrinseco, che è d’intendere il nesso dei fatti, la logica degli avvenimenti, di essere rifacimento razionale di un fatto razionale», in controtendenza con la storia «prammatica» del suo tempo, confinata nell’aspetto personale degli avvenimenti. Quello che Vico scoprì dalla storia fu ben altro, «tutte le volte che prese a indagarne qualche parte»[47].
L’assimilazione della provvidenza con l’hegeliana «astuzia della ragione» sarebbe il sintomo, confermato da Gramsci, del fatto che «il concetto di “provvidenza” è appunto “speculativizzato”, dando inizio così all’interpretazione idealistica della filosofia del Vico»[48]. La riduzione di Vico ad Hegel serve per individuare «un orizzonte di senso storico» nell’opera del filosofo settecentesco, per meglio individuare il suo geniale contributo[49]. Nei Quaderni Gramsci scrive che «la sua genialità consiste appunto nell’aver concepito il vasto mondo da un angoletto morto della storia aiutato dalla concezione unitaria e cosmopolita del cattolicismo». Un cosmopolitismo che si contrappone alla “storicità” del filosofo Hegel e marca la differenza tra la speculazione astratta (quella di Vico) e la “filosofia della storia” «che dovrà portare alla identificazione di filosofia e di storia», del fare e del pensare, del «proletariato tedesco come solo erede della filosofia classica tedesca»[50].
Anche per Gramsci, dunque, la filosofia della storia di Vico non ha senso di esistere, se non in una germinale visione globale della storia, favorita dalla sua mentalità e formazione cattolica.
Il manto della filosofia dello spirito è imprescindibile nell’interpretazione crociana di Vico. Come sottolinea Abbagnano, «Croce ha esposto la dottrina vichiana soprattutto come una filosofia dello spirito; e ha respinto il nucleo vitale di essa, come una scorta inutile, tutto ciò che ripugna al concetto della filosofia dello spirito»[51]. E nello sviluppo successivo del pensiero crociano «Vico diventava la prima delle “quattro età” dello storicismo, visto, naturalmente, come “storicismo assoluto”, epoca anticipatrice delle età successive: la kantiana, la hegeliana, la crociana», come sottolineato dalla «concezione esagerata della metempsicosi vichiana in Hegel»[52].
Una conclusione: Vico e la crisi culturale del suo tempo
L’ultimo punto è quello che ha aperto il presente contributo e prescinde dall’incerta contestualizzazione che ne ha fatto Löwith, poiché la questione che si presenta sullo sfondo è indubbia e genuina: la Scienza nuova di Giambattista Vico denuncia (o rappresenta) un momento di crisi nell’Europa della sua epoca?
Per il filosofo tedesco, come accennato, si tratta di una crisi nella coscienza storica, tradotta più o meno consapevolmente nell’opera vichiana sotto forma di critica della storia sacra alla luce di quella profana, pur mantenendo un impianto di storia universale comparata, in cui la provvidenza divina funge da guida onnipotente e di cui la libertà di azione umana è strumento.
Nell’autografa Vita di Giambattista Vico, del 1725, e nella sua riproposizione critica da parte di Croce nel saggio Il Vico contro l’indirizzo di cultura dei suoi tempi, l’urgenza contemporanea che emerge è di tipo pedagogico[53].
Negli anni che seguirono la sua prolusione universitaria del 1708, De nostri temporis studiorum ratione, la polemica di Vico si mosse, secondo Croce, su due piani paralleli: quello della filosofia dello spirito e quello della scienza generalizzante, motivo che lo portò a un esame critico «per una parte, [delle] disposizioni spirituali del suo tempo e, per l’altra, [del] modo in cui s’intendeva e s’impartiva allora l’educazione dei fanciulli e giovinetti»[54]. Di quest’ultima Vico testimonia in prima persona, soggetto, come si dichiara, a una prematura educazione logico-critica che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto aiutare i fanciulli a discernere il vero dal falso, ma anche dal verosimile e dal probabile. Tuttavia, nell’applicazione pratica, tale approccio incontrava la mancanza di vero materiale da criticare, sgombra com’era la loro mente da insegnamenti poetici, retorici, storici e linguistici che avrebbero di certo stimolato la loro immaginazione. L’eccesso di matematica rendeva inabili i giovani ad affrontare la concretezza della vita e «lo scetticismo, conseguenza del metodo cartesiano, invadeva il campo del sapere»[55]. In questa ritrosia, Croce legge un eccesso di conservatorismo. Vico non intuisce l’aspetto innovativo e rivoluzionario di ciò che critica, preludio delle lotte contro l’assolutismo e del radicalismo giacobino. «Egli non sa scorgere il progresso nei suoi avversari – conclude Croce – e […] il suo atteggiamento polemico verso la cultura del tempo compie e conferma l’analisi, che si è data sopra, delle virtù e insieme dei difetti della sua filosofia»[56].
Alla luce di questa analisi, è possibile definire, con Croce, la storia presente nella Scienza nuova come storia contemporanea? La risposta, pur tenendo conto che la presa di coscienza di Vico non abbraccia (o sfiora soltanto) il quadro politico del suo tempo, può essere affermativa. Si tratta di una critica dei valori che si richiama a una formazione del sapiente “classico”, fondata sulla conoscenza della poesia e del mito, della conoscenza della storia e della letteratura degli antichi. Motivo che lo condurrà, come si è parzialmente visto, a delineare una storia basata su mitologie e leggende trattate alla stregua di fonti documentarie per la ricostruzione delle fasi storiche più antiche. Un apporto metodologico certamente innovativo, comune oggi a diverse discipline umanistiche, ma a cui mancava la tensione critica e scientifica che non fu in grado di apprezzare nella cultura del suo tempo.
Si può scorgere, inoltre, un motivo personale nella successione delle fasi storiche che Vico descrive nell’avvicendarsi delle tre età: divina, eroica e umana. «Le prime due epoche sono “poetiche” nel vero senso della parola, cioè fantasticamente creative», e possono corrispondere a quella che Croce definisce «barbarie dell’intelletto», un’età «così vigorosa di fantasia e di memoria, che richiede di essere nutrita con la lettura di poeti, storici e oratori»[57]. La terza età si definisce, nelle parole stesse del Vico, come la «natura umana tutta spiegata e riconosciuta eguale in tutti, dal quale ultimo diritto possono provenire nelle nazioni i filosofi, i quali sappiano compierlo per raziocini sopra le massime di un giusto eterno»[58]. È difficile, tra queste righe, non leggere una nota sia autobiografica che programmatica rispetto alle intenzioni e alle aspettative legate alla stesura della Scienza nuova. Un bisogno descritto con suggestione da Paul Hazard, le cui parole possono impreziosire la chiusura di questo contributo:
[Giambattista Vico] è tenace; non è di temperamento facile, e nemmeno amabile; è altero, collerico; ha coscienza di una superiorità che i suoi contemporanei non riconoscono, non intendono, e ne soffre. Allora raddoppia gli sforzi per convincerli; e impegna una lotta contro di loro, e contro sé stesso. Bisogna bene che finisca col comunicar loro il suo grande segreto, quello della Scienza Nuova[59].
Parole-chiave: crisi, Croce, Filosofia della storia, Lowith, storia europea, Vico
Bibliografia:
Opere di Croce
Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Palermo, Sandron, 1902;
La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1911;
The philosophy of Giambattista Vico, trad. inglese di R. G. Collingwood, New York, The Macmillan Company, 1913;
Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, Bari, Laterza, 1913;
La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938.
Opere su Croce
F. Colangelo, Saggio di alcune considerazioni sull’opera di Giovan Battista Vico intitolata Scienza Nuova, Napoli, Angiolo Trani, 1822;
K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano, Il Saggiatore, 1988 (ed. orig.: Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933. Ein Bericht, Stuttgart, Metzler, 1986);
G. Guida, Filosofia e storia della filosofia in Karl Löwith, Milano, Edizioni Unicopli, 1996;
K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, trad. it. di G. Colli, Torino, Einaudi, 2000 (ed. orig.: Von Hegel zu Nietzsche. Der revolutionäre Bruch im Denken des 19. Jahrhunderts, 1941);
Id., L’individuo nel ruolo del co-uomo, trad. it. di A. Cera, Napoli, Guida, 2007;
M. Vanzulli, Gramsci su Vico: la filosofia come una forma della politica, in «Verinotio», V, 2008, pp. 35-46;
G. B. Vico: La scienza nuova e altri scritti, a cura di N. Abbagnano, Torino, UTET, 2013;
K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, a cura di P. Rossi, trad. it. di F. T. Negri, Milano, Il Saggiatore, 2015 (ed orig.: Meaning of history, Chicago e Londra, The university of Chicago press, 1949);
Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, a cura di M. Ciliberto, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2016;
P. Piovani, Invito a Vico, a cura di L. P. Ciamarra, Napoli, ISPF Lab, 2018;
P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Torino, UTET, 2019 (ed. orig.: La crise de la conscience éuropéenne.1680-1715, Paris, Boivin et Cie, 1935);
L. De Bosis, La religione della libertà e altre conferenze americane su Europa e umanismo, a cura di R. Peluso, Napoli, Le Lettere, 2020.
- F. Colangelo, Saggio di alcune considerazioni sull’opera di Giovan Battista Vico intitolata Scienza Nuova, Napoli, Angiolo Trani, 1822. ↑
- È possibile leggere il passo nell’Appendice II, La fortuna del Vico, in B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, qui consultata nella seconda edizione del 1922, p. 320; mentre nella traduzione del 1913, di poco posteriore alla prima edizione, di R. G. Collingwood lo ritroviamo a p. 213. L’edizione utilizzata per Karl Löwith, invece, è Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, a cura di P. Rossi, trad. italiana di F. T. Negri, Milano, Il Saggiatore, 2015. Per l’edizione originale cui si fa riferimento si rimanda alla Bibliografia. ↑
- B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., p. 319. ↑
- K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, op. cit., p. 124. ↑
- Ivi, p. 123. ↑
- K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano, Il Saggiatore, 1988, p. 118. Il passo è sottolineato anche in G. Guida, Croce e Löwith, in Croce e Gentile. Fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Roma, Editori Riuniti, 1993. ↑
- Notizie riportate da Agostino Cera nell’introduzione italiana a K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo, trad. it. di A. Cera, Napoli, Guida, 2007. ↑
- Ivi, p. 117. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. L. De Bosis, La religione della libertà e altre conferenze americane su Europa e umanismo, a cura di R. Peluso, Napoli, Le Lettere, 2020. ↑
- K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, op. cit., p. 118. ↑
- G. Guida, Croce e Löwith, op. cit., p. 192. ↑
- C. Guida, Filosofia e storia della filosofia in Karl Löwith, Milano, Edizioni Unicopli, 1996, p. 164n. ↑
- P. Rossi, Introduzione a K. Löwith, Significato e fine della storia, op. cit., pp. 13, 22. ↑
- Ivi, p. 19. ↑
- Ivi, p. 191. ↑
- Ivi, pp. 123-25. ↑
- Ivi, p. 127. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 129-30. ↑
- Ivi, p. 130. ↑
- Ivi, p. 132. ↑
- Ivi, p. 133. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 139. ↑
- Ivi, p. 141. ↑
- Ibidem. ↑
- P. Piovani, Invito a Vico, a cura di L. P. Ciamarra, Napoli, ISPF Lab, 2018, p. 119. Lo scritto di Löwith a cui Piovani fa riferimento in nota è Vorträge und Abhandlungen, Stuttgart, Kohlhammer, 1966, p. 31. ↑
- Ivi, p. 120. Il passaggio di Löwith si trova in Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, op. cit., p. 220. ↑
- B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., p. 149. ↑
- La nota è contenuta in B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938, p. 90, segnalato anche in G. Guida, Croce e Löwith, op. cit., p. 191. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. S. Carannante, Croce: rinascimento, riforma, controriforma, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, a cura di M. Ciliberto, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2016, https://www.treccani.it/enciclopedia/croce-rinascimento-riforma-controriforma_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultima consultazione 09/01/2023), oltre che B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., pp. 89-100. ↑
- G. Guida, Croce e Löwith, op. cit., p. 191. ↑
- M. Montanari, Croce e Vico: del verum-factum e del principio della storia, in Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, op. cit., https://www.treccani.it/enciclopedia/croce-e-vico-del-verum-factum-e-del-principio-della-storia_%28Croce-e-Gentile%29/ (ultima consultazione 14/01/2023) ↑
- B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., p. 327. ↑
- Ivi, p. 149. ↑
- Ivi, pp. 150-52. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 155. ↑
- Ivi, p. 115. ↑
- Ivi, p. 116. ↑
- Ivi, p. 119. ↑
- Ivi, p. 121. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 123-25. ↑
- M. Vanzulli, Gramsci su Vico: la filosofia come una forma della politica, in «Verinotio», V, 2008, pp. 35-46. ↑
- Ivi, p. 38. ↑
- Ibidem. ↑
- Citato in P. Piovani, Invito a Vico, op. cit., p. 197. ↑
- Ivi, pp. 98 e sgg. ↑
- Cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., pp. 239 e sgg. ↑
- Ivi, p. 240. ↑
- Ivi, pp. 241-45. ↑
- Ivi, p. 248. ↑
- Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, op. cit., pp. 141 e sgg. e B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, op. cit., p. 242. ↑
- G. Vico, La scienza nuova e altri scritti, a cura di N. Abbagnano, Torino, UTET, 2013, p. 97. ↑
- P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Torino, UTET, 2019, p. 423. ↑
(fasc. 47, 25 febbraio 2023)