La corrispondenza tra Benedetto Croce e Neera si svolse tra il 1903 e il 1917, anno che precedette la morte della scrittrice, avvenuta nel 1918. Il filosofo, di lei più giovane di vent’anni, era già noto al mondo degli studi per i suoi interessi eruditi, per i saggi su Marx, e soprattutto per la pubblicazione nel 1902 dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Si aggiunga, poi, che dal 1903 era nata «La Critica» col compito di svolgere nel corso degli anni un approfondito lavoro esegetico e culturale, passando al vaglio critico, con la collaborazione di Gentile (allora amico di Croce), autori e scritti di varia umanità, sceverando tra libri recenti o di fama già acquisita che spaziavano nei campi della letteratura, della storia e della filosofia.
Il carteggio è consultabile in un’edizione pregevole, a cura di Antonia Aslan e Anna Folli, che ne hanno curato la stampa e firmato l’Introduzione nel volume Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917) del 1989[1]. A Neera, che gli aveva fatto dono di alcuni suoi volumi, Croce scrive nell’ottobre del 1903 per ringraziare dei testi ricevuti, che venivano ad aggiungersi a quelli già in suo possesso. Aveva difatti in mente di trattare della produzione artistica della scrittrice in un articolo, fra altri, sulla letteratura italiana contemporanea, di cui si era proposto di tracciare il quadro nella «Critica» senza aver fissato ancora temi e scadenze da rispettare[2]. Ebbe così inizio uno scambio epistolare che può essere tuttora oggetto d’interesse, sia per il garbo e la gentilezza dei toni sia per i contenuti talvolta arguti e la verità di un rapporto sincero, espressione di umana cordialità e di stima reciproca.
Il carteggio fa luce sulla sensibilità di una donna, narratrice per passione, che visse tra il secondo Ottocento e gli inizi del Novecento, e che, sentendosi poco valorizzata dai critici del tempo, volle presentarsi al giovane filosofo desiderosa di un giudizio che auspicava sarebbe stato a lei più favorevole e che riteneva di poter meritare. Il carteggio ci rappresenta peraltro il modo in cui Croce lavorava in quegli anni di grande fermento intellettuale, secondo un ritmo intenso e tutt’altro che schematico, rigoroso e al tempo stesso anarchico, tale da unire alla ricerca del nuovo nella letteratura contemporanea il progetto ambizioso di un «sistema» di pensiero che dopo la già redatta Estetica avrebbe richiesto il complemento di un trattato di logica da approntare in tempi stretti[3]. Queste e altre sollecitazioni offre il volume della corrispondenza Croce-Neera, anche per merito dell’interessante introduzione delle curatrici e per l’appendice dove sono raccolte lettere scambiate con la famiglia della scrittrice, segno di un legame che continuò dopo la morte dell’amica Neera. Croce scriverà una breve prefazione alle memorie uscite postume nel 1919[4], e curerà, nel 1942, un volume degli scritti, contenente novelle, romanzi e saggi, con una significativa presentazione dell’opera completa[5].
Vorrei ora provare a rivedere il rapporto Croce-Neera servendomi di una chiave di accesso diversa, non so quanto nuova in relazione agli studi sulla scrittrice della nostra letteratura «ottocentesca». Riguarda la scelta pseudonimica per la quale confesso di avere un particolare interesse come oggetto di riflessione. Personalmente non ho adottato per la scrittura saggistica un “altro” nome, perché tengo molto al mio, meno al mio cognome, al quale ho voluto unire, in controtendenza rispetto agli usi recenti, quello acquisito con il matrimonio. E, dunque, perché Neera? Perché Anna Maria Zuccari, coniugata Radius, sceglie di firmare le proprie pubblicazioni con un nome femminile (senza cognome) di origine greca, riferito a un’antica ninfa, alla quale si erano ispirati autori della letteratura latina, e in particolare Orazio, il quale a una certa Neera, che lo aveva tradito, dedica l’Epòdo XV, auspicando che il nuovo amante di lei possa avere la stessa sorte riservatagli da un destino avverso. E allora, perché Neera? Perché l’adozione di uno pseudonimo, che non è certo una scelta emotiva ma dovette richiedere la volontà di una determinata direzione?
Nell’aprile del 1904, alla ricezione del volume Le idee di una donna, Croce risponde di aver letto subito il testo definendolo «fine di sentimento e forte di logica», avendo peraltro apprezzato le considerazioni in esso contenute contro un concetto solo materialistico di felicità e contro il progresso inteso in maniera univoca[6]. Per stima nei riguardi delle idee della scrittrice, nel novembre dello stesso anno, dopo aver già composto per la «Critica» il saggio intorno alla sua opera in segno di “profonda simpatia”, Croce le comunicava l’invio dell’Estetica nell’edizione francese, non avendo più a disposizione copie dell’edizione italiana. E soggiungeva: «In un capitolo dell’Estetica […] Ella vedrà che io ho tentato anni addietro la dimostrazione filosofica di una tesi da Lei annunciata nel Libro di mio figlio, proprio nelle prime righe»[7]. Croce si riferiva evidentemente al posto che ebbe la volontà o l’attività pratica della mente in quel sommario schizzo di filosofia dello spirito che egli aveva tracciato nel volume del 1902, dove si distingue tra teoria e prassi in maniera irreversibile. Con l’attività teoretica si comprendono le cose, con la volontà si mutano le cose sia nel senso dell’utile sia nel senso della morale.
Nel libriccino dedicato al figlio, Neera lo esortava sin dalle prime righe a essere uomo intero in ogni caso, nel bene e nel male paradossalmente, perché il carattere di ognuno si nutre della capacità di volere solo se questa rimane autonoma dalle regole di una società oppressiva o di un potere prevaricatore. Croce aveva analogamente sentenziato: «la volizione del vero sé stesso è l’assoluta libertà»[8].
La volontà, che è anche spinta da desideri e passioni, deve alla sua dote di facoltà indipendente, non sempre riconosciuta, la forza di prendere parte per ciò che la coscienza responsabile intende perseguire. Non si può credere, dunque, che la scelta pseudonimica sia stata o sia in ogni modo il frutto di un’intemperanza del gusto, provvisoria e indifferente, fatti salvi, peraltro, i casi in cui si è obbligati a celare la propria identità per non incorrere nella persecuzione di un potere assoluto o al cospetto di strumenti di coercizione del libero pensiero. Con l’adozione di altro nome si esce dall’anagrafe e si entra nella dimensione della “rappresentanza” di sé, in un processo di soggettivazione, per dirla con Foucault, tale da comportare la prima persona singolare nella maniera più radicale di un “io” semplicemente dichiarato. Kierkegaard diceva che con il suo “tu” non riusciva ad avere un buon rapporto come accade a coloro che, non avendo una casa felice, se ne stanno più spesso per strada, abbandonando di tanto in tanto il proprio tetto. Non necessariamente, però, si deve essere infelici per desiderare di ampliare lo sguardo che vuol dire, kantianamente, avere la capacità di mettersi il più possibile al posto degli altri. è questa la preziosa massima del sensus communis accanto alle altre due, relative all’uso autonomo della ragione e alla coerenza logica del discorso che richiama la coerenza morale nelle azioni[9]. Sulla scrittrice ha formulato un giudizio, perfettamente adeguato all’opera, Guido Piovene, quando ha parlato dei romanzi di Neera come dell’«autobiografia di un altro»[10], calandosi ella ogni volta in personaggi per lo più femminili ai quali assegnava ruoli, compiti, idee da lei stessa accolte oppure risolutamente rifiutate. Guarderei, pertanto, con prudenza al dibattito sulle convinzioni di Neera relative alla condizione della donna nel tempo che fu il suo: idee ottocentesche, certamente, dalle quali ci divide un varco non solo cronologico difficilmente colmabile. Ebbe infatti una concezione tradizionale del compito delle donne, spose e madri come si addice al genere deputato alla generazione di figli, e tuttavia si mosse con spigliatezza nel mondo della letteratura con esiti molto ragguardevoli, tanto che ebbe notorietà anche all’estero e traduzioni in diversi paesi europei.
Non si può negare che probabilmente Croce ne apprezzò i convincimenti perché anch’egli propenso a vedere la donna tra le mura domestiche secondo canoni più vicini al senso comune dell’epoca[11]. E, tuttavia, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 Croce descriveva positivamente la situazione della letteratura femminile tra secondo Ottocento e inizio Novecento, alla quale fu favorevole un nuovo clima di spontaneità e di naturalezza, tale da consentire più agevolmente le esperienze letterarie di Neera, della Serao e di altre autrici che non dovettero prendere abiti virili nello stile per potersi affermare[12]. Croce, si sa, non amava gli eccessi del sentimentalismo in poesia e nella prosa d’arte, anche perché a suo giudizio compito del critico è quello di “comprendere” gli scrittori, proprio sceverando «ciò che vi ha di geniale e di spontaneo da ciò che vi ha di artificioso e di meramente letterario»[13]. Con queste parole si rivolgeva a Neera in una lettera del novembre del 1903, tra le prime del Carteggio, specificando che stava procedendo alla compilazione di “note” sulla letteratura italiana contemporanea da pubblicare nella «Critica», senza fare classifiche per importanza o assegnando punti di merito come un maestro di scuola. Va, inoltre, registrato che Croce mostrò di apprezzare la scrittura “femminile” di Neera e al tempo stesso le sue idee etiche, alle quali riconosceva una tempra autenticamente “virile”; così dicendo, Croce concedeva non poco agli stereotipi di genere consoni alla mentalità non solo del suo tempo[14]. In una lettera a Croce nel novembre del 1904, Neera delineava il proprio percorso letterario, elencando cronologicamente le sue opere in risposta a una precisa richiesta del filosofo, che ebbe bisogno di servirsi delle notizie sulle prime edizioni del lavoro letterario che si accingeva a esaminare criticamente. Ella esprimeva, infine, un pensiero più intimo circa il suo temperamento di scrittrice, riferendosi, per alcuni aspetti, al possesso di una dote non proprio femminile che è l’umorismo, dote che infatti non si trova, diceva, nei libri della Sand, della Eliott, della nostra Serao. Sentiva di disporre di un’attitudine dello spirito tipicamente inglese, poco adatta a quel carattere “femminile” che talvolta veniva attribuito alla sua scrittura. Aggiungeva: «Strano che lo abbia io [l’umorismo] che ci tengo tanto ad essere donna e niente altro che donna!»[15]. Alla richiesta di trovare traccia nei suoi scritti di quel peculiare carattere Croce non dette alcun seguito, esprimendole sempre benevola simpatia e ideale consenso. Tanto varrà uscire per il momento dalla questione del presunto “femminismo” di Neera o del suo, a dire il vero conclamato, “antifemminismo”.
Voglio soffermarmi ancora sul tema della pseudonimia, che considero seriamente filosofico. Lo statuto dello pseudonimo è quello di un corpo intermedio, ancorché casuale, tra singolarità e generalità. Esso rimanda a un’identità in margine alla condizione sociale, alle leggi, come si fosse all’ombra di una comunità diversa, popolata di miti e riti del passato. È un segno di libertà ai limiti dell’anarchia, è il gioco di una fantasia regolata dalla volontà che assume su di sé tutte le conseguenze di un gesto non necessario, il frutto di una concettualizzazione cercata, la formula di un giudizio posto a guida del proprio agire. Nella frattura tra realtà e idealità, esso si colloca nel mezzo, in virtù dell’immaginazione ma senza voli fantasiosi, mediando tra sensibilità e intelletto. Lo pseudonimo, simbolo di un io molteplice come in certi testi teatrali, va piuttosto alla riscossa di un nome per ribellione nei riguardi del conformismo e del livellamento culturale (pure al seguito della tradizione), come dovette accadere esemplarmente a quel Jean Jacques che volle mettersi di proposito contro Rousseau. Si cadrebbe, tuttavia, in grossi equivoci se si tentasse di intraprendere una lettura esclusivamente psicoanalitica, come Starobinski ha fatto nei riguardi di Stendhal, attribuendogli un evidente disagio interiore e forse anche il bisogno di rifiutare la famiglia d’origine, adducendo il tema di un’intimità disturbata fino a concepire lo pseudonimo come la maschera perfetta per una scena dietro la quale si vuole scomparire[16]. I tanti ruoli assegnati dal mondo sono certo anche maschere sociali, ma nessuno amerebbe chiudersi in esse come entro scatole a tenuta stagna affidate a futura memoria.
Neera, per dirla tutta, scelse di mostrarsi senza schermo protettivo sia nella rappresentazione dei suoi romanzi sia nella manifestazione delle idee, tra le quali spiccarono temi fondamentali come la libertà e la consapevolezza del bene. Ciò perché la copertura sotto altro nome non significò per lei la nicchia per nascondersi allo sguardo pubblico. Scelse, per dir così, quella modalità di appartenenza che è tipica della sfera creativa, del poetico e del letterario, che non denota perciò una deliberata falsificazione di sé o la menzogna volta a tradire la fiducia dei lettori. È, allora, il caso di richiamare l’antico significato della maschera che è persona, perché la maschera servirà proprio a far risuonare la voce dell’attore nella cavea del teatro del mondo. L’altro nome, infine, tiene lontane le pressioni della società di massa, già note nel secondo Ottocento, contrastando l’anonimato del gruppo che mira a celare le differenze.
Croce amò sostenere che l’individuo è nell’opera, suscitando reazioni anche avverse per il timore che si potesse così sottrarre specificità al singolo empirico. In realtà la sua tesi mirava all’esito opposto: l’opera, che è sempre individua, può anche presentarsi senza nome, o sotto i più diversi nomi adottati, perché comunque ne resterà intatto il valore che non dipende da una certa biografia o dalle vicende di un’esistenza più o meno tribolata. L’azione invece, che non è l’opera, mai potrà prescindere dal legame con la responsabilità nominativa di ciascuno. Chi scrive non fa che esporsi agli altri senza reificare la propria individualità, testimoniando un legato da tramandare con qualsivoglia nome possibile, senza cioè smentire il proprio destino, senza che si debba diventare “altro” da quel che si è per nascita e per costituzione. Nella lettera dell’aprile del 1904 Croce scriveva a Neera che la vera felicità, consistente anche per lui non nel possesso di beni materiali ma nell’elevazione spirituale, non comporta peraltro l’abbandono delle condizioni particolari in cui per natura o per fortuna ci si trova. Se così non fosse, ogni essere umano sarebbe solo un frammento senza valore. «Se la donna dovesse essere uomo, e il filosofo conduttore di eserciti, e il conduttore di eserciti filosofo, non ci sarebbero né uomini né donne né filosofi né guerrieri, ma una serie di infelici spasimanti dietro un ideale intrinsecamente irraggiungibile»[17]. Stigmatizzava aspirazioni impossibili, tali da negare incongruamente differenze di cui è costituita la specificità di tutti, che compongono l’essere-assieme strutturante la comunità umana.
Nel comunicarle che avrebbe scritto una nota sulla sua opera, Croce non mancò di illustrare all’amica il lavoro che a breve avrebbe svolto per la neonata «Critica»: un articolo su Di Giacomo per il numero successivo, e in seguito, tralasciando per qualche tempo lo studio dei veristi, l’esame critico di D’Annunzio e Pascoli e della letteratura “minore” tra il 1860 e il 1875, prima di tornare nuovamente sul cosiddetto verismo. Neera, per tutta risposta, benché col garbo necessario unito all’evidente perplessità, gli chiese allora: «con chi mi metterà?», «con i realisti o con gli idealisti?», affidandosi infine completamente alla perizia del critico certo di lei più esperto[18]. Croce dovette, dunque, fornire in proposito qualche chiarimento. Tenne a precisare che il suo lavoro stava procedendo senza alcun ordine precostituito, mediante la stesura di brevi saggi che per lui sarebbero stati veri e propri momenti di “distrazione” atti a riempire il tempo della villeggiatura, allo scopo di comporre «Note», appunto, che da lì a un paio di anni avrebbe poi sistemato in volume. Scriveva: «Ed ora stenderò questi articoli, e poi per alcuni mesi debbo lavorare a un libro sulla Logica. Nell’estate ventura fisserò una nuova serie di scrittori da studiare»[19].
Il saggio su Luigi Capuana e Neera esce sulla «Critica», nel fascicolo numero 3 del 1905. L’accostamento di Neera a Capuana venne da Croce spiegato non in base a somiglianze, ma in virtù di un rapporto di “antitesi”: le qualità che abbondano nell’uno scarseggiano nell’altra e, viceversa, quelle che scarseggiano nell’uno sono nell’altra sovrabbondanti. Ciò vuol dire che «Neera è passionale, sentimentale, moralista, meditativa, e non vede il fatto se non attraverso l’ideale»[20], diversamente dal Capuana che aveva assunto invece un atteggiamento da naturalista, freddo e sterile, come nello studio di casi clinici. Averli messi insieme nella stesura dell’articolo non doveva, perciò, far pensare a giudizi di merito ma solo allo scopo di far meglio risaltare i caratteri di entrambi. D’altronde, proprio Luigi Capuana aveva tra i primi presentato Neera al pubblico italiano. Capuana era stato, prima che artista e scrittore egli stesso, un critico di tutto rispetto che, pur non espressamente, si era ispirato a De Sanctis come al suo maestro e aveva, peraltro, introdotto in Italia la dottrina dell’impersonalità dell’arte di cui era stato sostenitore Gustave Flaubert nella Francia del secolo decimonono. Tra i primissimi in Italia insieme con Giovanni Verga aveva preso parte al movimento veristico che tanta attenzione mostrò per il sostrato fisiologico, per l’amore dei sessi, per l’animalità dell’essere umano. Ora Croce trovava in Neera quella spontaneità di tono che è del poeta, così carente a suo dire in Capuana, curioso fin troppo di scienze naturali e psicologia.
Sorprende il giudizio da Croce formulato sulla scrittrice: «Neera ha un’intera filosofia morale, e delle più solide», basata sul rifiuto di quel che ella chiama con termine appropriato “il concetto materialistico della felicità”, vale a dire la tendenza a collocare il bene e il progresso non nello spirito umano ma nel soddisfacimento che segue al possesso di cose[21].
Neera non ebbe la pretesa di inventare un’etica, che non è certo da reinventare, ma si impegnò a coltivare l’ideale nel suo valore più alto senza per questo dimenticare la radice terrigena dell’umano pensiero. Si potrebbe leggere nelle sue invettive una critica della società dei consumi ante litteram, diremmo noi oggi, la messa in crisi dell’età moderno-industriale, coinvolgente nel biasimo anche quei movimenti socialistici già molto in voga nell’Ottocento, i quali anteponevano a ragion veduta l’idea di giustizia, ma talvolta per troppa enfasi retorica finivano per cadere anch’essi in forme di meccanismo e di materialismo. Neera non ebbe tuttavia, secondo Croce, una concezione “femminea” dell’ideale, che in tanti uomini è segno di fragilità dei nervi e di rigidezza dei costumi. Conosceva, invece, la funzione vitale del dolore, la debolezza del cuore dovuta all’istinto e alla realtà del corpo e delle passioni, delle quali non ci si libera come da fastidiosi ostacoli per lo spirito trionfante. I due temi che più ebbe a cuore furono: il problema delle donne e il problema dell’amore. Nell’un caso Neera preferiva dirsi “umanista” più che femminista, attribuendo al movimento delle donne un falso concetto di mera uguaglianza. E infatti, in linea generale, concesse assai poco al “femminile” fuori della famiglia e delle mura domestiche, non negando però alla donna e a sé stessa la possibilità di impegnarsi nel pensiero e nell’arte, come testimonia il fatto di aver dedicato buona parte della sua vita alla scrittura. Dati i tempi, è molto più di quel che ci si poteva aspettare.
Il giudizio di Croce su Neera polemista e moralista fu del tutto positivo. Ella ci parla, diceva il filosofo, “da cuore a cuore”, con freschezza di linguaggio come in una conversazione amichevole. Bisognava allora apprezzare in lei l’insistente capacità di meditazione, unita alla mancanza di ogni vuota retorica, finanche sul tema dell’amore platonico che, nella sua prospettiva, non riguardò la banale rinuncia al sesso ma il raro caso di una possibile vittoria dello spirito sulla materia[22].
Neera non praticò il ragionamento astratto per pura speculazione, traendo dalle esperienze immediate della vita costante ispirazione. Raccoglieva storie dall’ambiente borghese, di provincia e di città, ricavandone casistica e riflessioni. Lo sfondo autobiografico traspariva inevitabilmente quando, ripercorrendo l’adolescenza un po’ solitaria, Neera amò raccontare tra le sue esperienze giovanili quella di non riuscire a trattenersi dall’entrare nell’animo dell’interlocutore, finendo per soffrire e gioire con lui, rifacendo poi nell’immaginazione il medesimo processo psicologico. Il tema della donna fu al centro della sua attenzione: donne anche di altro tempo come quelle francesi del Secolo galante che fu il Settecento, ricco di delicatesse e di passioni ardenti, di amabilità e saggezza come nel caso di madame D’èpinay. Neera non ebbe, comunque, un disegno prestabilito da portare a compimento attraverso i suoi racconti, mettendo volutamente al centro della narrazione sempre un personaggio femminile.
Teresa è stato, per giudizio unanime della critica e dello stesso Croce, il suo romanzo più accurato ed equilibrato: in esso si narrano le vicende della vita non facile di una giovane donna, divisa tra i doveri familiari e la ricerca di una propria indipendenza, la quale solo nella maturità finirà per unirsi alla persona un tempo amata, assistendola oramai malata e ridotta in povertà, senza tenere più in alcun conto quei riguardi sociali che l’avevano a lungo impedita e soggiogata[23]. Il romanzo Addio! aveva toccato il tema scabroso di un amore colpevole. Il libro, dedicato dall’Autrice a tutte le donne oneste, fece scandalo forse perché, accanto all’appello alla coscienza morale, poneva le domande non retoriche: «E il fato? e la libertà del sentimento?». Scriveva a Croce, accanto ai ringraziamenti per la cura promessa all’opera sua, che uno dei primi volumi, intitolato Addio!, aveva sortito l’effetto contrastante di un rimprovero di immoralità assieme a non poco entusiasmo, forse proprio perché quel romanzo, come era nelle sue intenzioni, conteneva nel fondo un concetto etico[24]. Croce, tuttavia, non lesse mai in quelle storie il carattere di racconti “morali”, zuccherosi e fastidiosi, pur proponendo essi indiscriminatamente esempi di personaggi sia santi che diavoli. Nell’esercitare infine il mestiere di critico, Croce dovette comunque sottolineare anche le imperfezioni, e dunque non mancò di rilevare che spesso il ritmo della scrittura di Neera si faceva stanco, frettoloso e dunque monotono. Come a dire: c’era l’analisi, ma talvolta questa riusciva a danno dell’immagine, a scapito cioè della fluidità della narrazione che pure ebbe innegabili accenti lirici. Croce chiudeva il proprio saggio con le seguenti parole: «Mente solida, anima calda di calore non fittizio, Neera ci conquista con la ferma serietà del suo spirito. Questa serietà è insieme la forza migliore della sua arte, assai spesso imperfetta, ma che, nella sua imperfezione, non è mai frivola o vuota»[25].
Scrittrice non eccelsa, gradevole e di fermi principi etici, Neera pubblica nel 1903 un testo dal titolo Le idee di una donna, cosa non rara ma neppure così frequente a quel tempo, e lo fa sotto il segno di uno pseudonimo d’antico lignaggio etimologico, adottato nell’intera sua opera, per parlare questa volta della condizione femminile[26]. Il libro, in forma saggistica, non richiese il metro del giudizio estetico consono alla narrazione letteraria. La stessa autrice si scusava nella Prefazione per lo stile non troppo curato, indirizzando il lettore ai contenuti nati in risposta all’onda del femminismo che nel secondo Ottocento ebbe il merito di suscitare l’impegno su un processo di emancipazione che avrebbe condotto via via al riconoscimento di diritti nel lavoro e nella vita pubblica. Non per caso il movimento femminista si era presentato per lo più connesso al socialismo per un verso e per l’altro comunque in derivazione del pensiero politico di ispirazione liberale (Stuart Mill). Basti ricordare che solo nel 1918 si giunse nel mondo inglese alla concessione del voto alle donne (ma, in un primo tempo, solo se sposate).
Eppure, in tanto fiorire di rivendicazioni anche per lei in parte condivisibili, Neera scelse di professare un “femminismo” d’altra natura, non meno vero si direbbe, ma lontano dalle esigenze socio-politiche che sono state il fulcro di una lunga storia di lotta per l’eguaglianza giuridica e legale. Richiamava, piuttosto, le donne a tenere in conto la loro “naturale” fisionomia di esseri umani dotati di capacità intellettive e morali legate alla loro “funzione” materna, che non l’aspirazione a lavori “maschili” o al possesso di denaro e di forza, alla maniera di chi detiene orgogliosamente il potere di sopraffare l’altro. Non fece in tempo a meditare su alcuni effetti della Prima guerra mondiale, quando agli uomini al fronte molte donne dovettero sostituirsi nel lavoro dei campi o nelle officine, trovandosi a svolgere di necessità ruoli inusuali e faticosi. Quel che Neera deprecò era l’animo gretto in entrambi i sessi, la rinuncia a qualcosa di ideale che non fosse mercificabile, come nell’uso già allora corrente dell’elogio del bello solo perché raffinato e costoso. Elencava nel testo una serie di considerazioni sui compiti diversi e sulle differenti mansioni degli opposti sessi che nessuno oggi, uomo o donna che sia, si sentirebbe di condividere alla lettera. Eppure muoveva dalle migliori intenzioni nel riconoscimento della superiorità del “materno”, ad esempio, che non vuol dire, diceva, chiudere la donna nel recinto legato al compito di allevare figli, perché si può essere madri in ogni modo nell’educazione dei piccoli e dei giovani, svolgendo un lavoro di formazione che a dire del filosofo Leibniz avrebbe potuto, se ben condotto, rivoluzionare il mondo. Un tema essenziale era stato per lei quello del progresso dell’umanità, di carattere culturale e morale, non connesso soltanto alla ricchezza e al profitto, all’accumulo cioè di beni materiali di pari passo con le nuove tecniche introdotte nell’era industriale. Si giovava del riferimento a un femminismo storico in contrasto con il movimento di emancipazione già in atto, ricordando eminenti figure del passato, che furono donne di talento, vere forze della natura, come si vorrebbe che ce ne fossero in ogni tempo. Pregiudizi ce n’erano e ce ne saranno, soggiungeva, ma superabili con modifiche di leggi e qualche scossone alla mentalità retrograda di persone ignoranti. Ben vengano, allora, donne scrittrici per vera vocazione, educatrici nelle scuole e nell’università, nell’esercizio di professioni adatte alle meritorie specificità femminili. Neppure Lombroso, sottolineava Neera, credette davvero all’inferiorità della donna, proprio perché “naturalista”, ben sapendo che la natura stessa non consentirebbe livelli alti o bassi nelle attitudini che si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione umana.
Neera ebbe il coraggio delle proprie idee, e volle esprimerle assumendone il peso come se ella fosse stata la parte di un tutto, mostrando cioè sé stessa con convinzione e qualche idiosincrasia relativa proprio al versante femminile, assumendo un nom de plume, non registrabile all’anagrafe, in segno di libertà dal conformismo dell’anticonformismo di maniera. Croce la considerò una persona amica alla quale aprire anche il cuore in momenti difficili, come quando, in risposta all’ultima lettera di Neera del 1917, le confessò di aver vissuto un grande dolore per la morte del figlio maschio appena nato[27]. Il carteggio si interrompe su queste note di affettuosità e di amicizia, che derivavano in tutta evidenza dalla stima sempre nutrita dal filosofo per la tempra artistica ed etica della scrittrice.
- Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Segnalo il volume di A. Folli, Penne leggère. Neera, Ada Negri, Sibilla Aleramo. Scritture femminili fra Otto e Novecento, Milano, Guerini, 2005. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., p. 49 (lettera del 20 ottobre 1903). ↑
- Ivi, p. 52 (lettera del 1° novembre 1903). ↑
- Neera, Una giovinezza del secolo XIX, Prefazione di B. Croce, Milano, Cogliati, 1919. ↑
- Neera, a cura di B. Croce, Milano, Garzanti, 1942. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., p. 53 (lettera del 3 aprile 1904). ↑
- Ivi, p. 61 (lettera del 13 novembre 1904). Il volume Esthétique comme science de l’expression et linguistique générale I. Théorie. II: Histoire, Paris, Giard et Briòre, 1904, portava la dedica: «A Neera – con stima e simpatia grande». Il volume di Neera dal titolo Il libro di mio figlio era uscito nel 1891 per Chiesa e Guindani editore, di Milano. ↑
- B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), edizione a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 77 (Edizione Nazionale a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2014). ↑
- I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790), edizione italiana Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, Milano, Rizzoli, 1995, vol. I, § 40. ↑
- Il giudizio di Piovene, tratto dal «Corriere della sera» del 20 maggio 1943, è riportato nell’Introduzione al Carteggio. ↑
- Per la concezione crociana della donna rinvio a R. Peluso, 19 domande su Benedetto Croce, a cura di V. Noli, Roma, Pagine della Dante, 2017, pp. 30-34. ↑
- B. Croce, Storia d’Italia (1928), edizione a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1991, p. 118. Non si trattò comunque di una questione solo di stile. Tra Otto e Novecento era in uso per una donna prendere anche un nome maschile, come nel caso della scrittrice danese Karen Blixen che pubblicò opere firmando Isak Dinesen (letteralmente: colui che ride). Uno pseudonimo italiano è quello di Sibilla Aleramo a inizio secolo ventesimo. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., p. 52 (lettera del 1° novembre 1904). ↑
- B. Croce, prefazione a Neera, Una giovinezza del secolo XIX, op. cit., p. 9. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., pp. 58-59 (lettera del 3 novembre 1904). ↑
- J. Starobinski, Stendhal pseudonimo, in Id., L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1975. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., pp. 53-54 (lettera del 3 aprile 1904). ↑
- Ivi, p. 51 (lettera del 31 ottobre 1903). ↑
- Ivi, p. 52 (lettera del 1° novembre 1903). Del 1904-1905 sono infatti i Lineamenti di logica, che Croce riscriverà integralmente nel volume Logica come scienza del concetto puro del 1909. ↑
- B. Croce, Note sulla letteratura italiana contemporanea nella seconda metà del secolo XIX, XIV. Luigi Capuana–Neera, in «La Critica», 3, 1905, pp. 341-272, in particolare p. 354. Le Note rifluiranno nei volumi della Letteratura della nuova Italia. ↑
- Ivi, p. 354. ↑
- Neera, L’amor platonico, Napoli, Pierro, 1897. ↑
- Neera, Teresa, Milano, Galli editore, 1886. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., p. 50 (lettera del 24 ottobre 1903). Tra i primi romanzi di Neera, Addio! era uscito nel 1877 per Brigola editore, di Milano. ↑
- B. Croce, Luigi Capuana-Neera, op. cit., p. 368. ↑
- Neera, Le idee di una donna, Milano, Libreria editrice nazionale, 1903. ↑
- Il concetto che ne informa. Benedetto Croce e Neera. Corrispondenza (1903-1917), op. cit., p. 74 (lettera del 21 maggio 1917). ↑
(fasc. 47, 25 febbraio 2023)