La filosofia italiana di fronte al Grande Fratello. Croce e Franchini lettori di Orwell

Author di Rosalia Peluso

I believe that the key to the future is in the remnants of the past.

(Bob Dylan)

The last man in Europe

Tra il 1946 e il 1949 nascono due libri capitali sul totalitarismo. Il primo è Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. L’altro è 1984 di George Orwell. Due “maestri irregolari”[1].

Il primo libro ha dalla sua parte la storia, quella appena conclusasi; le fonti, le testimonianze, le interpretazioni, benché ancora “calde”, non ancora oggettivatesi nella ricostruzione saggistica[2]. Il secondo non parla del tempo che fu, ma di quello che sarà. Non è una registrazione, ma una previsione totalitaria. Non parla del totalitarismo come lo abbiamo conosciuto ma del totalitarismo che conosceremo: di quegli elementi totalitari che, notava proprio Arendt, si annidano anche nei regimi più democratici e che sono garantiti dall’atomizzazione degli individui e proliferano grazie ad essa, all’architettato progetto di atrofizzare le esperienze condivise, quelle politiche in primo luogo. Per questo lo scrittore ambienta la narrazione in un futuro allora remoto, il 1984.

Il libro di Orwell non è un semplice romanzo, posto che i romanzi siano “semplici”. Non è nemmeno una semplice distopia. Non è neanche un atto d’accusa nei confronti dell’URSS. Sarebbe semmai una denuncia del socialismo inglese, il Socing di cui si parla nel racconto, o il partito laburista della realtà politica, che delude lo scrittore bisognoso di un socialismo non sovietico, non bolscevico ma europeo e occidentale[3].

1984 fu pubblicato nel ’49 col titolo che conosciamo ma è singolare notare che, nelle intenzioni di Orwell, esso avrebbe dovuto intitolarsi The Last Man in Europe. Perché è davvero l’ultimo uomo d’Europa colui che nei meandri della sua mente conserva ricordi e nozioni che collidono con le notizie ufficiali del sistema totalitario guidato dal Big Brother: egli ricorda che c’è stata una storia altra, ricorda dunque che esiste qualcosa come la “verità storica”, la verità dei fatti. Ma ricorda e conferma anche empiricamente la solidità delle “verità razionali”, quelle che dicono con assoluta certezza che, nell’universo finora noto, due più due fa quattro.

Il potere del Grande Fratello è autenticamente totalitario non solo perché riesce ad alterare e capovolgere le verità storiche, che in sé hanno uno statuto epistemologico molto fragile (gli usi e gli abusi della storia sono di ogni tempo e di ogni mentalità). Il potere totalitario è assoluto quando, diceva Arendt, non ha più nemici; eppure, continua a esercitare un terrore illimitato, che diviene totale se addirittura riesce a rovesciare la fede in 2+2 = 4.

Non si tratta di aderire semplicemente a una menzogna (io posso fingere di credere in 2+2 = 5 ma in cuor mio “so” che la somma è diversa). L’esperimento totalitario raggiunge la sua acme quando il mio cuore e la mia mente “sanno” che due più due fa cinque, quando dunque ho fede assoluta nel risultato dell’operazione che stabilisce una verità razionale. Come si può arrivare a ciò? Come si può vincere la resistenza interiore della coscienza che distingue tra verità e menzogna? Non basta la “logica da cane di Pavlov” che Arendt scorgeva nell’universo concentrazionario già noto, là dove gli individui sono stati ridotti a fasci di nervi e potevano produrre soltanto reazioni meccaniche in risposta agli stimoli esterni. Qui, nella profezia totalitaria di Orwell che assomiglia tanto al nostro presente, c’è più del “cane di Pavlov”. È in atto un’ancora più radicale trasformazione dell’umano, nell’esteriorità e nell’interiorità, che ha bisogno di alcuni strumenti di persuasione: l’inaridimento di ogni forma di desiderio, amore compreso; il prosciugamento della lingua con relativa ideazione a tavolino, con tanto di aggiornato vocabolario, di una “neolingua” (New Speak) che soppianti la vecchia, viva e plastica lingua della poesia, della letteratura, della filosofia, dell’arte, della storia. Perché, in fondo, impiegare tante parole quando ne basta una? Perché i contrari? Perché i verbi e le loro coniugazioni, il loro ostinato flettersi in tempi? Con pochi e rudimentali prefissi, con abbondanza di acronimi si può dire tutto, o almeno quello che serve nel dispositivo totalitario di cui siamo membri.

Perché, infine, i concetti? Il punto principale è proprio questo: le parole e la loro varietà linguistica sono foriere di concetti; dunque, di quelli che il sistema totalitario chiama “psicoreati”, vale a dire opinioni, giudizi, punti di vista, pensieri che possono trasmettere prospettive differenti rispetto alla logica monodimensionale del totalitarismo. In una parola, a che lo sperpero della pluralità e della plurivocità, quando tutto può essere banalmente ed economicamente uniforme, univoco, uguale?

C’è, infine, un’ultima strategia indispensabile a forgiare dall’intimo l’abitante dell’universo totalitario del futuro orwelliano: la “distruzione del passato”. Per tenere gli individui sotto scacco, occorre esercitare il controllo sul passato e a farlo sono sempre coloro che esercitano il controllo sul presente (i benjaminiani “dominatori” di turno[4]): «Chi controlla il passato […] controlla il futuro», dice il Grande Fratello, e «chi controlla il presente controlla il passato»[5].

Atrofizzazione del desiderio, e quindi dell’esperienza, della volontà e della libertà. Atrofizzazione della parola e, infine, cancellazione del passato e sua potenziale riscrivibilità assoluta. La profezia totalitaria orwelliana si è avverata da un pezzo e ci sono ragionevoli argomenti per prevedere che in futuro saranno sempre meno coloro che, un giorno, potranno o saranno ancora in condizione di rivendicare che «la libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro»[6].

La disciplina del pensiero e la distruzione del passato

La libertà di sapere e dover esprimere una verità razionale è quanto Croce chiama la «disciplina del pensiero»[7]. Negli ultimi anni di vita, su suggestione dello scrittore inglese e sulla base dell’esperienza storica recente coi totalitarismi realizzati, egli vedeva questa disciplina quanto mai esposta alla possibilità di dissoluzione. Se è il pensiero a contrastare l’avanzata del non-pensiero e dei suoi prodotti, dall’irrazionalismo all’antistoricismo, là dove venisse meno una simile energia «a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa»[8], allora si avrebbe un crollo della civiltà dinanzi alla quale le catastrofi storiche che hanno segnato la fine di culture e imperi sarebbero poca cosa:

nella situazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana, perché il genere umano stesso soccomberebbe senza speranza di resurrezione: morirebbe del gran peccato contro natura, contro la natura umana, di aver corrotto in sé il pensiero, che è il preservatore di ogni corruttela[9].

La fine del pensiero sarebbe davvero la catastrofe definitiva della civiltà. Dopo aver trascorso tutta l’esistenza a difendere e sostenere l’«indistruttibile perennità dei valori umanistici e liberali», dinanzi alla «spietata» e «scientifica conclusione» orwelliana della storia, Croce avrebbe avuto, scrive Raffaello Franchini commentando il passo appena citato, «un attimo di religioso orrore»[10].

Croce e Franchini sono stati fra i primi lettori italiani di 1984 e la loro ricezione si colloca in ambito idealistico, storicista e liberale. Entrambi furono attratti non dalla forma estetica del romanzo, non lo sottoposero cioè a un esame di critica letteraria, ma si interessarono invece al suo contenuto «dottrinale»[11], «tutto politico e contro lo stato totalitario»[12]. Esiste un tracciato filosofico del libro, e filosofico-politico in modo particolare, che mette in secondo piano anche la narrazione romanzata. Di Winston Smith, dello sventurato abitante di questo futuro-presente mondo totalitario, noi ricordiamo più le sue proteste intellettuali e interiori contro il regime che i pochi atti di vita, e quindi di dissenso, nei confronti di un potere che fa della morte, dell’ignoranza, della schiavitù e della guerra i suoi ideali.

Nell’anno di pubblicazione del libro Croce firma una lunga nota intitolata La nuova disciplina del pensiero. La nota appare, nel 1950, prima su «Il Mondo», poi nei «Quaderni della Critica»; infine, nella sezione intitolata Dispute di teoria della storiografia e di filosofia in generale dell’ultima edizione del primo volume delle Nuove pagine sparse[13]. Lo scritto di Franchini intitolato La distruzione del passato appare invece in occasione della prima traduzione italiana del romanzo, nel 1951, ed è stata pubblicata, come la nota crociana, con la quale naturalmente dialoga, prima su «Il Mondo», nel fascicolo del 20 maggio di quell’anno, e poi nel volume Esperienza dello storicismo del 1953, nel capitolo intitolato Note metodologiche[14].

Occupandosi del tessuto dottrinale del libro, Croce scorge un sistema di affinità tra il romanzo e una sua tesi politico-storiografica. Indotto a credere che la macchina totalitaria orwelliana sia stata modellata sul sistema sovietico (ciò è vero solo in parte[15]), in questo stato totalitario in cui “l’ultimo uomo d’Europa” diventa «l’ultimo dei liberali»[16], Croce scorge una conferma della sua tesi secondo la quale non c’è alcuna relazione fra l’ideale del comunismo e la rivoluzione bolscevica che ha portato alla nascita dell’Unione sovietica. Sono passati molti decenni dal suo studio del marxismo in cui era, da un lato, negata scientificità alle tesi di Marx, ma al tempo stesso era segnato un discrimine importante fra le diverse forme di aspirazioni comunistiche e il socialismo scientifico vero e proprio[17].

Se nel 1895 Croce, motivato da Antonio Labriola, aveva preso la penna contro Paul Lafargue per dimostrare che Tommaso Campanella[18] (ma lo stesso potrebbe dirsi per Platone o Thomas More) non ha nulla dei precursori del comunismo, adesso invece il discorso si inverte. Non esiste un comunismo ingenuo, pre-moderno e pre-scientifico, esiste un’unica idealità comunistica che propugna una «semplicistica e astratta eguaglianza»[19]. Questo ideale ha raggiunto il suo punto di massima forza nell’intellettualismo settecentesco e da qui, per il tramite della Rivoluzione francese, si è irradiato nel corso dell’Ottocento. Nel secolo che la Storia d’Europa ci presenta come quello del trionfo dell’ideale liberale, le astratte istanze vagamente comunistiche avrebbero ottenuto il loro superamento in un altro indirizzo che, nella nota orwelliana, Croce definisce «un gran fatto storico»: la nascita cioè del «socialismo o laburismo, che era lo storicizzamento del comunismo, il vero passaggio dall’utopia alla storia, il quale accettava e rispettava il metodo del liberalismo»[20].

In 1984 Croce legge tra le righe un’ulteriore conferma di una sua tesi: l’idea, cioè, che la rivoluzione bolscevica avrebbe inaugurato un modello di rivoluzione totalitaria, quella che nel romanzo orwelliano si fa non per abolire ma poter istaurare una dittatura[21]. Il modello bolscevico, emancipato dal suo «fittizio»[22] legame col comunismo, sarebbe stato il riferimento principale delle altre due distorte rivoluzioni del Novecento: quella fascista prima, quella nazista poi. Anche questa una tesi variamente presentata da Croce nelle sue opere politiche.

La nota crociana, forse troppo esposta al tentativo di trovare, in un romanzo che descrive un futuro ordine possibile, una conferma per le sue interpretazioni politiche e storiografiche del presente, trascura, ma non senza citarlo, un argomento sul quale, in quanto oppositore fiero della mentalità antistoricistica del suo tempo, avrebbe potuto dare un contributo fondamentale. Il tema della distruzione del passato e, con esso, della storia è invece perfettamente messo a fuoco nella recensione di Franchini.

Anche Franchini insiste sulle implicazioni filosofiche più che sul tracciato narrativo e pone, al centro delle sue riflessioni, i tentativi compiuti dal Grande Fratello di riscrivere la storia a proprio piacimento e secondo il proprio tornaconto (controllare il passato per controllare il futuro e tener fermo il proprio controllo sul presente). Questi atti si inscrivono senza dubbio nel tentativo di distruggere il passato, ma portano con sé una conseguenza ancora più grave della falsificazione e della manipolazione dei documenti. Dietro la distruzione del passato potrebbe annidarsi il tentativo, coerente con le mentalità totalitarie, di abolire nel mondo quella scoperta che è stata propria della filosofia moderna: «la storicità del pensiero»[23]. Come Croce vedeva, infatti, nella scomparsa del pensiero la catastrofe definitiva della civiltà, Franchini vede nell’abolizione della storia non solo una pratica di disumanizzazione (la liquefazione di quegli individui che non si integrano più nella storia del Grande Fratello), ma la distruzione totale della stessa umanità. La libertà di esistere e di pensare comincia, infatti, quando «l’uomo comincia a ricordare, a scrivere la storia di sé stesso e cioè a diventare cosciente»[24].

Nel «pessimismo polemico e apocalittico»[25] di Orwell si cela, tuttavia, un timido segnale di speranza. La cieca strategia del Grande Inquisitore orwelliano non rinuncia, infatti, a una dimensione su cui, assieme alla storicità del pensiero, la filosofia moderna ha costruito sé stessa e si è posta nella sua differenza rispetto alla tradizione filosofica precedente. Questa dimensione è quella che, con Maurizio Ferraris, potremmo chiamare la “documentalità”[26], vale a dire l’irriducibilità del documento alla base della costruzione della storia. È quanto prima Franchini ha chiamato storicità o, ancora, quanto Simona Forti, nella sua analisi del potere paranoico e nichilista di 1984, definisce «la realtà “dura”, “ultima”, semplice della materialità del mondo [che] non obbedirà al Grande Fratello»[27]. Il pensiero moderno è antimetafisico nella misura in cui si richiama alla concretezza, alla datità, alla documentabilità della storia, al fatto cioè che la storia sia estrinsecata in tracce: non imperscrutabile capriccio del divino, ma produzione materiale di atti di volontà e libertà.

Nella Storia come pensiero e come azione, Croce scriveva che la storia sopravvivrebbe anche alla scomparsa del documento, che perfino la distruzione dell’ultima carta non atrofizzerebbe la coscienza storica: quest’ultima ricomincerebbe daccapo il suo lavoro di estrinsecazione di sé nelle diverse testimonianze[28]. Era il 1938 quando Croce pubblicava queste considerazioni e le scriveva, in tempi di trionfante antistoricismo, per mantenere viva la fede nella ricreazione continua della stessa storia. La nostra fede nella sopravvivenza della storia “oltre il dato” forse non è così solida. Come una volta Platone diceva che compito del filosofo era “salvare i fenomeni”, così oggi potremmo dire che l’ufficio, forse l’ultima funzione del filosofo – questa professione così defunzionalizzata nel mondo contemporaneo – sia tutta nella preservazione del fatto e del dato, nell’acribia filologica, perfino nella difesa dell’erudizione. Quando monta la marea antistoricistica, quando tentativi di revisione e cancellazione del passato giungono da più fronti e per diverse ragioni ideologiche, allora, contrariamente alla fede crociana nella sovra-documentalità della storia, dobbiamo credere nel dato, nella fisicità dell’evento di cui la ricerca erudita è la prima vestale e custode.

Del resto, dell’irriducibile presenza del documento non può fare a meno nemmeno il mostro totalitario orwelliano: esso, sì, distrugge documenti, come hanno sempre distrutto tracce di spiritualità regimi dispotici e totalitari, ma non distrugge la documentalità in sé. Non la distrugge perché egli stesso ha bisogno, per attestare la sua esistenza, di essere “documentato” e di documentare. In questo modo, al fondo dell’abisso, Franchini scorge un residuo di umanità che addirittura si conserverebbe anche nello spietato Grande Fratello: «l’esigenza storicistica risorge incoercibile dal seno stesso di chi pretende negarla o cancellarla»[29]. La disastrosa e sconsolata conclusione del romanzo – la trasformazione dell’odio in amore per il Grande Fratello e per le sue azioni – non sarebbe dunque la fine della civiltà e dell’umanità: la distruzione del passato rimane impossibile, un’esperienza impensabile, così come la distruzione della storia, del tempo o di tutti quegli oggetti mentali senza i quali il pensiero stesso non avrebbe possibilità di concretizzarsi[30]. Nessun umano, homo totalitarius compreso, può azzardarsi a «vivere senza storia»[31]. E, finché c’è storia, ci sarà la sua documentata persistenza.

 

Parole-chiave: Benedetto Croce, Filosofia italiana, Raffaello Franchini, George Orwell, Totalitarismo.

Keywords: Benedetto Croce, Italian Philosophy, Raffaello Franchini, George Orwell, Totalitarianism.

  1. Cfr. F. La Porta, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

  2. Si veda al riguardo la prima prefazione all’opera arendtiana: H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, introduzione di A. Martinelli, con un saggio di S. Forti, Torino, Einaudi, 2004, pp. LXXIX-LXXXII.

  3. Cfr. R. Campa, L’idea di socialismo nella filosofia politica di George Orwell, in «Orbis idearum», IV, 1 (2016), pp. 27-47.

  4. Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997.

  5. G. Orwell, 1984, tr. it. di S. Manferlotti, in Id., Romanzi e saggi, a cura e con un saggio introduttivo di G. Bulla, Milano, Mondadori, 2000, pp. 877-1233: 918.

  6. Ivi, p. 972. Cfr. R. Campa, George Orwell e le menzogne dei totalitarismi, in I difensori dell’Occidente, a cura di G. Berti, N. Matrolla e L. Pellicani, Ogliastro Cilento, Licosia Edizioni, 2016, pp. 375-98.

  7. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, in Id., Nuove pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1966, pp. 193-204.

  8. Ivi, p. 204.

  9. Ibidem.

  10. R. Franchini, La distruzione del passato, in Id., Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini, 1971, pp. 84-88: 85. Si cita da quest’ultima edizione, quarta e ultima.

  11. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., p. 195.

  12. Ivi, p. 193.

  13. Per tutti i riferimenti bibliografici si veda la bibliografia curata da S. Borsari, L’opera di Benedetto Croce, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1964, p. 449.

  14. Si veda anche, oltre all’edizione già citata, R. Franchini, La distruzione del passato, in Id., Pensieri sul «Mondo», a cura di R. Viti Cavaliere, C. Gily Reda e R. Melillo, presentazione di G. Cotroneo, Napoli, Luciano Editore, 2000, pp. 17-19.

  15. Non trascurabile è anche la critica orwelliana al capitalismo liberista: cfr. R. Campa, L’idea di socialismo nella filosofia politica di George Orwell, op. cit., pp. 33-37.

  16. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., p. 202.

  17. Cfr. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Ed. Nazionale a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, con una nota al testo di P. Craveri, Napoli, Bibliopolis, 2001.

  18. Cfr. B. Croce, Sulla storiografia socialistica. Il comunismo di Tommaso Campanella, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., pp. 177-213.

  19. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., pp. 195-96.

  20. Ivi, p. 197.

  21. G. Orwell, 1984, op. cit., p. 1179.

  22. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., pp. 195-96.

  23. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 85.

  24. Ibidem.

  25. Ivi, p. 87.

  26. Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma, Laterza, 2014.

  27. S. Forti, Scene di paranoia in Oceania, in Paranoia e politica, a cura di S. Forti e M. Revelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 156-80: 176.

  28. Cfr. B. Croce, Documenti e testimonianze, in Id., La storia come pensiero e come azione, Ed. Nazionale a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 109-15.

  29. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 88.

  30. Si pensi, ad esempio, all’argomento kantiano di immaginare l’eternità a partire del tempo: cfr. I. Kant, La fine di tutte le cose, tr. it. di E. Tetamo, a cura di A. Tagliapietra, Torino, Bollati Boringhieri, 2018.

  31. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 88.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)