«die Kunst, alles aus einem zu erzeugen». Su un titolo (postumo) di Angelo Maria Ripellino

Author di Nicola Ferrari

L’Arte dell’Arte della Fuga (di Bach, secondo Bach) non è (non è solo) pensiero musicale che si transustanzi efficacemente in corpo sonoro e viceversa; non è (non è solo) scrittura musicale che raggiunga, dopo secoli di sperimentazioni, la più compiuta equivalenza possibile tra dimensione visiva e auditiva della percezione (e quindi conoscenza) musicale; non è (non è solo) pedagogia della composizione concepita come composizione essa stessa (un trattato inteso come opera intesa come trattato); non è (non è solo) principio enciclopedico di ordinamento e comprensione del mondo (sub specie musicae); non è (non è solo) istituzione oratoria, espressiva matrice combinatoria (matematizzabile) delle possibilità di ogni possibile espressività.

L’Arte dell’Arte della Fuga (di Ripellino, secondo Ripellino: soluzione, sospensione a dosaggi variabili di critica e creazione), arte di saggio, di assaggio, di esperimento e svelamento non è (non solo) musicale per via di titolo. I titoli – da Sinfonietta (1971) ai Saggi in forma di ballate (1978) attraverso i Quattro capricci [Storie del bosco boemo, 1975] – evocano la vocazionale pervasività del musicale, come referente tanto di sibaritici virtuosismi fonici di scrittura quanto di sensibilissime interpretazioni di lettura. Ripellino gioca “a fare alla musica” con quell’invidia felicemente produttiva che molti scrittori soffrono nei confronti dei compositori – impegnandoli in seriosi (giocosi) codificati (spericolati) paralleli rivelativi tanto delle proiezioni dei soggetti che li propongono quanto delle qualità degli oggetti ai quali li impongono. Così, nell’equazione Esenin/Charlie Parker, Ripellino sfrutta l’analogia biografica (il percorso progressivo e fatale verso l’auto-disfacimento)[1] per derivare una similitudine nell’evoluzione stilistica[2] che legittimi la letteralizzazione di una lettura metaforicamente free (jazz) del testo poetico[3] (che illumini forse anche l’ekfrasis musico-letteraria che la descrive).

Milan Kundera – che con Ripellino condivideva una stessa radicale (invidiosissima) concezione musicale (compositiva) del letterario – racconta di come, in una conferenza radiofonica del 1931, Arnold Schönberg dichiarasse nell’Arte di Bach il suo primario principio di riferimento. E la intendeva così: «l’arte di inventare gruppi di note tali da poter accompagnare se stesse»; cioè: «l’arte di creare il tutto a partire da un nucleo unico»[4]. In questo senso, l’Arte dell’Arte della Fuga è (è stata anche; lo è stata, certo, per Ripellino) un modello di metodo (agente per amorose ragioni di invidia, segreta o manifesta) capace di permettere alla critica letteraria novecentesca di pensare sé stessa e le proprie pratiche.

In un’imprescindibile – e (auto)rivelativa – prefazione[5], Francesco Orlando, interpretando da un punto di vista teoretico (dal suo personale e meditato luogo di osservazione) La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz, chiudendo i conti con il temibile fantasma di don Benedetto (Croce per Praz, e sessantacinque anni dopo ancora memento, odiato e pure irrinunciabile per chiunque, come Orlando, come Sanguineti, cercasse di pensare alla letteratura non come ineffabile intuizione, immediata e universale)[6], offre la chiave che ci consente di leggere unitariamente tutta la sua (di Orlando) opera critica[7] – e la sua fertile ambivalenza (o interpenetrazione tra dimensione formale e tematica)[8] – nei termini di un’inesausta interrogazione della complessa relazione tra costanti e varianti[9] dell’opera letteraria (chiave di ogni ermeneutica possibile). Da questa condivisa prospettiva, tuttavia, con mirabile mossa del cavallo, Orlando compie un fertile spostamento dalla cruciale (e infinite volte riformulata) domanda rispetto al senso e alla legittimazione di ogni opera(zione) di critica tematica intertestuale (il suo “perché”) verso l’assai meno indagata questione della sua modalità espositiva: «come un tale libro si possa scrivere. Ossia, pagina su pagina, costruire». Giacché, riflette Orlando (sulla Carne di Praz tutto il suo magazzino di Oggetti desueti a venire), una volta individuate le costanti (in un periodo dato), distribuite in «sottoinsiemi plausibilmente omogenei», come l’ordine delle materie può poi trapassare in scrittura (disporsi in capitoli e paragrafi)? Quale alternativa si può offrire ad «aride elencazioni, o disordinate o sottoclassificatorie all’infinito»?[10]. La formula proposta – che vale insieme da analisi e programma – si può riconoscere assai meno sfuggente di quanto potrebbe superficialmente parere: intendere nella scrittura saggistica la «difficilissima arte della transizione» significa concepire l’efficacia (ma invero la sostanza stessa) dell’analisi tematica come risultato di una (messa in) forma[11], e quindi, alla fine, di necessità – secondo una lezione che Orlando impartì e praticò, facendo dei motivi d’amore ragione di scienza –, adottare (adattare?) come modello alla critica letteraria una (wagneriana)[12] morfologia musicale.

L’Arte di Richard Wagner deve certamente all’Arte bachiana (come quella di Schönberg) l’illuminazione sulle stupefacenti possibilità semantiche della sovrapposizione di un tema con sé stesso, distanziato nel tempo, e di temi diversi in mobile combinazione spaziale (Wagner saprà farne una drammaturgia), ma soprattutto (attraverso la tragica mediazione beethoveniana) gli offrirà compendio delle modalità (e possibilità, da secolare tradizione) di trasformazione orizzontale di un tema musicale (intendendo i processi sintattici come privilegiato dispositivo semantico). Il soggetto dell’Arte della Fuga, contrappunto per contrappunto, nelle sue diciannove esposizioni, muta inesaustamente (inesauribilmente): si inverte nello spazio diastematico, abbaglia con figure ritmiche puntate, terzinate, sincopate, rallenta, precipita, abbiglia gli intervalli di note di passaggio, si astrae in pura struttura armonica, si mutila o moltiplica in frammenti: enciclopedica dimostrazione (che solo la morte del suo estensore ha sigillato) delle possibilità di sviluppo arborescente racchiuse (nascoste e presenti) nel più semplice dei materiali motivici.

Nella musicalissima Ouverture (!) métacritique al quinto volume delle sue capitali Figures[13], Gérard Genette mira a decostruire, con abbacinante brillantezza, la dicotomia (fondante infinite querelles)[14] tra una critica soi-disant immanente – e cioè interessata all’interno dell’opera (e quindi: close, compréhensive, struttural-formale etc.) – e una critica che per amore di simmetria linguistica (più che per usanza propria) si potrebbe definire trascendente – e cioè volta alle cause che stanno fuori, esterne al testo e ai suoi intimi rapporti (e quindi: distant, explicative, storico-biografica etc.). Dopo un esercizio di tassonomizzazione della critica more geometrico (che più esemplarmente genettiano non si potrebbe immaginare, se non in parodia), l’argomentazione si concentra sulla questione della critica tematica (capitale, come ci dimostra Orlando), ragionando sulle intenzioni inaugurali (programmaticamente fondative) del Barthes del Michelet e rilevandone l’innegabile memoria proustiana[15].

Nella sua nota (e bellissima) teoria della critica – così come enunciata (immanente all’opera stessa nella quale la si enuncia) dal Narratore alla sua petite Albertine, in attesa di scomparsa –, Proust propone (contre Sainte-Beuve) un modello di lettura volto a riconoscere quei tratti singolari che, nella loro ricorrenza e reciproca somiglianza, definiscono i tratti essenziali (le costanti)[16] di chi scrive, tali da rivelare la geniale (identitaria) monotonie che fa di ogni opera un frammento del mondo unitario dell’Opera, cioè la sua bellezza ovvero la sua «unité de ton». Il conclusivo riferimento metaforico musicale di Genette risulta tutto inscritto nel discorso proustiano, che si era aperto nel nome del compositore Vinteuil e che concepiva l’attività critica della lettura in stretta analogia con l’attività dell’ascoltatore wagneriano (e bachiano e orlandiano): riconoscere nel discorso un tessuto di temi che significano (e danno significato) in virtù del loro definirsi, attendersi, sospendersi, modularsi, modificarsi, ritrovarsi. La vocazione tematica della critica non implica tanto un’improbabile (o meglio: difficilmente definibile) dedizione (ai contenuti piuttosto che alle forme) quanto (a ribadire Orlando) l’evocazione di un suggestivo quanto preciso modello morfologico: via Proust, Gérard Genette, infatti, suggerisce la possibilità di comprendere la critica (tematica)[17] sul modello compositivo del thème et variations.

La Fuga dell’Arte della Fuga di Giuseppe Pontiggia[18] è, dall’incipit (esposizione), il letterale moto di allontanamento[19] che dà origine[20] a una teoria di corse, rincorse, inseguimenti, confusioni, camuffamenti, equivocanti (imbarazzanti) sostituzioni, sparizioni e progressive sfocature[21] – e occasione di giocosa, carnevalesca decostruzione di quel genere (il giallo), che in molti modi si poneva, in quegli anni furiosi (a tratti infuriati) di ricerche e contestazioni, come distillato del romanzesco (inteso non più come dato ma come problema)[22] –, ma è, nelle intenzioni del suo autore, fuga anche nel senso dell’Arte di «variazioni intorno a un tema». I frammenti irrelati (discontinui per personaggi, ambienti cronologie; privi dei convenzionali, aristotelici, nessi causali e spazio-temporali) non ambiscono a costituire un’unità narrativa di racconto ma, come in una «partitura», un’unità musicale di relazioni formali: ogni sequenza intesa come abbellimento, inversione, aumentazione, diminuzione, trasformazione armonica, del soggetto iniziale a generare una ludica risonante «rete di associazioni fantastiche». L’adozione di questa forma compositiva a vero e proprio genere letterario era stata un’invenzione (provocazione) del Romanticismo più avanguardistico e sperimentale – il pirandelliano Mondo alla rovescia teatrale di Tieck (rap)presenta nel suo Atto IV un raffinato esperimento parafrastico-parodico del modello musicale nel Minuetto con variazioni[23] ‒ poi elettivamente consolidata nel Novecento, da Heimito von Doderer che, nel 1923, lavora sul tema di un raccontino di Hebel[24] per ricavarne una serie di sette variazioni[25] a Juan Benet che lavora a un enigmatico congiunto di narrazioni – una donna che non si toglie il velo dalla faccia durante i suoi occasionali rapporti con un uomo, un uomo ossessionato da un vecchio politico che crede rapitore della sua amata, un giovane che deve fare i conti col passato, un padre e un figlio che compiono insieme un’escursione, un figlio che deve lasciare la famiglia (un racconto esoterico, un racconto psicologico, un racconto esperpentico, un racconto fantastico, un racconto realista) – costruito per segrete, elusive (ancora, quindi: musicali) relazioni come Variaciones sobre un tema romantico (una donna, che durante una gita in bicicletta col compagno, viene misteriosamente decapitata da un filo teso tra gli alberi)[26]. Questa maturata consapevolezza delle capacità semantiche della forma – la possibilità di rivelare, in virtù di un montaggio, una differente possibilità di significazione narrativa alle concatenazioni materiali (apparentemente?) autonome ed estranee – da oggetto di creazione artistica (e conseguentemente: di riflessione analitica sull’opera) si dimostra (testimoni Orlando, Genette) eccellente strumento di elaborazione critica, assimilando (come composizione) letteratura e discorso “sulla” letteratura.

In Mémoire de Troie, Jean Starobinski[27], con ammirabile sapienza compositiva[28], legge e interpreta il racconto virgiliano della distruzione di Troia, ricavandone un tema, costruito sulla sequenza di tre nuclei motivici[29]; una sequenza di passi letterari – i più disparati e distanti, per genere, lingua, epoca, intenzione o registro d’intonazione: dalla Divina Commedia, dall’Hamlet, dall’Andromaque di Racine, da Le Cygne di Baudelaire, dai Tristia di Ovidio, dal saggio Sull’Elegia di Schiller, dal poema Ex Ponto di Jacques Réda, dal Viaggio in Italia di Goethe da tre poesie di Mandelstam e da due di Bonnefoy – si definisce (costruendo, in una raffinata messinscena strutturale di montaggio, una rete di tratti sempre più reciprocamente risonanti) come vertiginosa serie di (più o meno segrete, più o meno stupefacenti) variazioni sui motivi del tema virgiliano[30]. Starobinski non traccia una storia della sopravvivenza di un tema nelle sue metamorfosi (per questo sarebbe bastata una struttura meno complessa, deduttivamente lineare, senza ricorsività, ritorsioni, ripiegamenti); dimostra, attraverso la forma musicale della sua affabulante esposizione, la potenzialità di un frammento poetico (un tema, appunto) a farsi «miroir symbolique», allegoria[31] della poesia stessa nel suo «développement séculaire»[32] –, strutturando i frammenti testuali come variazione di motivi che tornano continuamente su loro stessi, il discorso (flusso) critico cede dal contenuto alla forma la sua capacità di far parlare i testi (di parlare dei testi), trasformando metalinguisticamente (simbolicamente) lo statuto dello stesso linguaggio oggetto (così intende, Starobinski, la lezione della musica).

L’Arte bachiana, come metodo di generare un tutto a partire da un unico materiale, si manifesta – si è detto – tanto in una dimensione orizzontale (di sviluppo motivico di variazioni sul tema) che verticale (di sovrapposizione e manipolazione contrappuntistica del soggetto). Tra le sperimentali modalità di adozione dell’arte bachiana a modello (per la poetica e la critica), Lévi-Strauss[33] sembra privilegiare – in due differenti (interagenti) modalità di analisi (percezione) del testo (mythologique) – questa concezione polifonica del lavoro di sviluppo tematico, nonostante la costitutiva linearità della prosa sembrerebbe obbligare a pensarla in termini più concettuali che letterali[34]. Come fuga Lévi-Strauss interpreta il mito della Grand-mère libertine, impegnando l’analogica costruzione contrappuntistica (come Pontiggia) nella restituzione simbolica di una fuga letterale (del giovane Lynx dalla capanna della nonna), al punto da permettere una sua disposizione in partitura[35] e riconoscere le articolazioni formali (esposizioni, divertimenti, stretti), giocando con una metaforizzazione musicale tanto suggestiva quanto anacronistica[36]; come fuga, nella sua Fuga dell’Arcobaleno[37], Lévi-Strauss monta insieme quattro racconti mitici, differenti per origine, personaggi, storia, finalità eziologiche[38], a dimostrare la potenzialità ermeneutica (far trasparire un ordine celato nel caos apparente dei fenomeni) della loro sovrapposizione polifonica[39]: i miti si presentano (narrano, orchestrano) in una composizione che viola la linearità prosastica del testo, evocando una partitura di sincronica lettura nella quale elementi motivici simili/comuni (variazioni o imitazioni) risaltino con evidenza – la dispositio analitica evoca (non più i suoi contenuti) la morfologia musicale di un’esposizione contrappuntistica a quattro parti[40].

Nelle fughe dell’Arte della Fuga di Ripellino si compendiano (bachianamente) tutte queste tecniche musicali che hanno permesso alla critica letteraria, nel secolo scorso, di farsi letteraria visione (all’interpretazione di farsi creazione). Come forma musicale, un corpus letterario si ascolta (proustianamente) nella ricorrenza di motivi – i «nuclei semantici» o «temi-lemma» che si ripetono con più frequenza, come li definisce Ripellino nella premessa al Tentativo di esplorazione del continente Chlebnikov – che quel corpus costituiscono in quanto struttura. Come forma musicale i dati che questa analisi raccoglie si espongono: gli elementi motivici, emersi dall’analisi, non si ordinano semplicemente in lineari sequenze logiche, ma si associano per affinità o contrasto analogico, si sovrappongono, riprendono variano, creando, in questo modo, un’ulteriore struttura che riflette (ma non si identifica con) la struttura letteraria alla quale originariamente appartenevano – e dona loro una significazione ulteriore[41].

Il montaggio critico di Ripellino compone da un pulviscolo di frammenti testuali (ricavati da una molteplicità di opere, non solo letterarie) un tessuto che generi intorno a un tema una risonante significanza (denotativa e connotativa), semantizzandone le possibilità di innesto strutturale attraverso studiate progressioni (di amplificazioni e sviluppi), inaspettati accostamenti, sottili variazioni (divertimenti, che aprono a ulteriori catene associative). Ogni cellula tematica si sovrappone, nella nuova forma del saggio, ad altre unità semantiche con un lavoro di sviluppo motivico che permette la riesposizione di medesimi frammenti motivici in sempre cangianti combinazioni contrappuntistiche (davvero: la lezione bachiana assunta nella sua pienezza poetica)[42]. L’intessuta rete di riprese e rinvii impedisce caleidoscopicamente al lettore una fruizione lineare, sequenziale dei frammenti, che (sulla superficie riflettente del saggio) svelano l’ombra mobile di una letteratura-totalità (cui appartengono e che costituiscono). L’Arte dell’Arte della fuga (di ogni arte della fuga) è tutta qui (sfuggente e incantatoria): riconoscere la Forma (indifferentemente, indissolubilmente musicale, letteraria, critica) come potenza: dispositivo capace di spiegare (come, scriveva Benjamin, si dispiegano le rose, dal boccio al fiore) l’attuazione di ogni significato nella moltiplicata rifrazione delle sue inesauribili combinazioni di senso – ambigue, infinite, erranti, possibili.

  1. «Ma la sorte di Esenin che traspare dalla poesia […] acquista particolare rilievo nell’ultimo periodo; Esenin non vive la dentro la vita, a capofitto come Majakovskij, si lascia vivere, non s’illude di trasfigurare l’esistenza, contempla la propria vita. La sua lacerazione, la sua poesia si fanno vicine al mondo di Charlie Parker. Alcool, bettole, senso di persecuzione. Sino a che il suo monologo si dissocia in un tête-à-tête con un uomo nero, un sosia blokiano»: A. M. Ripellino, L’arte della fuga, a cura di R. Giuliani, Napoli, Guida, 1987, p. 157.
  2. «Dunque tre tempi di Esenin – iter con inversioni stilistiche, dalla monasticità lacustre allo scatenamento del ritmo e della metafora – e quindi alla ziganeria melodicizzante e a volte ron ron»: ivi, p. 158.
  3. «L’ultima creazione di Esenin si svolge nella mia rêverie come sul fondo degli assoli di sax alto di Charlie Parker. Quegli assoli che sono gemiti ansanti e disperati, ad esempio, la sua sconvolgente versione di Lover Man, che incise nel ’46, che è come una musica allucinata, brancolante, esitante, d’uno che invochi aiuto, una musica che esprime confusione mentale […] allo ‘swing’ sostituisce una melodia fredda, squisita, di lunghi intervalli, come punteggiata di interiezioni»: ivi, p. 212.
  4. M. Kundera, Les testaments trahis, 1993; ed. it. I testamenti traditi, trad. it. di E. Marchi, Milano, Adelphi 2000, p. 63.
  5. Cfr. F. Orlando, Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici, in M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Milano, Sansoni, 1996, pp. VII-XXIII.
  6. Francesco Orlando interroga i motivi della non (come ci si sarebbe potuto aspettare) liquidatoria recensione di un saggio come quello di Praz dedicato allo studio di costanti (affatto eretico, quindi, rispetto al crociano «culto del momento o frammento individuale, cioè di pure varianti»): la salvezza di Praz (per Croce) sarebbe stata, nella sua prospettiva puramente storica, non estetica né teoretica (essendo i privilegiati bersagli di Croce le «concettualizzazioni di costanti, dai generi letterari alle figure retoriche»: ivi, pp. IX-X). Croce, tuttavia, avrebbe salvato Orlando?
  7. Dall’inaugurale (ed esemplare, in crescendo col passare del tempo, per passione e illuminazione quadrilogia freudiana – ricerca stilistico-formale (comparante figure di elocutio e dispositio) – alla terminale impresa barocca (architettura al limite del cenotafio) degli “oggetti desueti” – catalogazione tematica (tassonomizzante figure di inventio).
  8. «Qualsiasi letteratura […] deriva nello stesso tempo da precedente letteratura e da precedente realtà extraletteraria. Studi formali hanno a che fare soltanto con il primo tipo di derivazione, studi tematici anche col secondo»: ivi, p. VIII.
  9. «Come mai succede che in diverse opere appartenenti a più di un autore, o anche a più di un genere letterario e a più di un’epoca, si ripetano tipi di personaggio, eventi raccontati, stati d’animo, passioni, atmosfere, ambienti, immagini e tanti altri temi? E col ripetersi in forma di volta in volta riconoscibile ma per ipotesi non identica dato che tornano nel contesto di opere diverse, quali rapporti contraggono le costanti in questione con le varianti di ogni specie con cui convivono in ciascun contesto?»: ivi, p. VII.
  10. Ivi, p. XI.
  11. In Praz Orlando commenda «un senso della forma verbale non inferiore al talento per l’astrazione tematica»: ivi, p. XII. Ma il riconoscimento non rileva il valore estetico della pagina prazzesca, quanto istituisce «la regola prima di legittimazione degli studi tematici»: «che l’importanza attribuita alle costanti non sopraffaccia mai quella delle immancabili varianti». Questo equilibrio capace, solo, di rendere significativa la dialettica costante/variante può essere garantito da una costruzione morfologica: «è proprio questione di dispositio»: p. XI.
  12. L’espressione con la quale Wagner definisce la propria arte «arte della transizione» è magistralmente commentata da Carl Dalhaus, I drammi musicali di Richard Wagner, a cura di L. Bianconi, Venezia, Marsilio, 2004. Alla scuola di Wagner (il più grande critico tematico della cultura occidentale?) – invertendo la celebre dichiarazione di Schumann (di aver appreso il contrappunto da Jean-Paul) – Orlando (assieme a Lévi-Strauss) apprese certamente (e mise alla prova) il suo metodo (che cosa si può pensare di più wagneriano (in stile e idea) della costituzione analitica del paradigma testuale in Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1973)?  
  13. G. Genette, Figures V, Paris, Seuil, 2002.
  14. E conseguenti spartizioni e scelte di campo, che dalla Francia degli eroici anni dei nuovi maestri (Barthes, in origine, su tutti) si era sparsa (distillata dispersa) per un’Europa ancora tutta intesa in teoretici appassionati furori (oggi oggetto, per i pochi che ancora li ricordino, di funerea nostalgia) e, di rimbalzo, verso un’accademia statunitense, potente ma sempre bisognosa di nobili patenti.
  15. Genette osserva che, nella sua ricerca di soggiacenti invarianti, determinate come una rete coerentemente organizzata (cioè: una struttura) di obsessions (Barthes), la critica tematica risulterebbe formalista (e quindi immanente) anche i fenomeni testuali ai quali si dedica sono connessi a significati e contenuti (e non, strettamente, a significanti e morfologie, «par exemple, au style d’un auteur, au jeu des mètres, des rimes» o al «jeu des dispositions temporelles» in una narrazione). Tuttavia, argomenta Genette, ogni atto critico, nella concettualizzazione (identificazione, percezione, distinzione, denominazione) dei suoi oggetti – e nella perimetrazione del variabile campo di indagine (l’opera singola, di un’unica personalità creatrice, la tematica comune a un’epoca, a un genere) – compie una personale concettualizzazione che, di fatto, viola il principio di immanenza testuale, stabilendo una «transcendance interne, puisqu’il transgresse [primo significato di trascendere] les données réelles au profit des données virtuelles qu’il y découvre, ou que parfois il y invente» : ivi, p. 35.
  16. Di stile (quei giri di frase che, imitate, garantivano l’efficacia mimetica di ogni suo (di Proust) pastiche), di figure, fissazioni, situazioni, circostanze (il senso dell’altezza connesso alla vita spirituale che [complemento oggetto quanto soggetto] “fa” Stendhal).
  17. Tanto nel suo principio di investigazione (inventio) che nel suo modo espositivo (dispositio), l’uno dall’altro (musicalmente) inestricabilmente interdipendente, come ha dimostrato Orlando su Praz. Con singolare (non derivativa) analogia Genette nota la natura processuale (musicale, in questo senso) del saggismo di Richard, che (wagnerianamente) «ne cesse de glisser d’un objet thématique (thématisé) à un autre par une série de transitions […] savamment ménagées»: ivi, p. 37.
  18. G. Pontiggia, Arte della Fuga [1968], Milano, Adelphi, 1990, II ed.
  19. Così come inteso a emblema di intellettuale instancabile inquietudine (di memorie scritture e letture) da Sergio Pitol nel suo Arte de la fuga, Barcelona, Anagrama, 1997.
  20. La composizione canonica fissa il suo nome proprio ricorrendo all’interpretazione metaforica di questo fascinoso movimento (proiettato nello spazio diastematico), fin dalle prime sperimentazioni medioevali, sbaragliando progressivamente le analogie alternative (e parzialmente tangenti) di cacce, rote, ronde e rondelli.
  21. Sfogliando in libertà le pagine del romanzo: «Sono in lunghissimo tunnel. Ho cominciato a correre. Qualcuno mi inseguiva», p. 11; «Il fidanzato sparì improvvisamente», p. 29; «Pagone era scomparso», p. 60; «Udì intimare: “ !”. Allora balzò nel vuoto dall’altra parte e piombò, con le mani avanti, in uno scroscio di sassi arrugginiti. Si alzò tendendo le braccia e corse lungo il muro», p. 66; «Scomparso nelle feste di Carnevale. Comperò un cappello a cono pieno di stelle. Vestito da mago caldeo uscì di sera e non fece ritorno», p. 129; «Fuggirono dal passato dagli amici / dalla città dal mito dal futuro / dai libri dalle natiche dai figli / dall’equivoco dalla folla dal lavoro […]», p. 166.
  22. Con rifrazioni innumerevoli, di una complessa costellazione iridescente che connette Gadda a Robbe-Grillet, Eco a Dürrenmatt etc.
  23. In Tieck [ed. it. Fiabe teatrali. Il gatto con gli stivali. Il mondo alla rovescia, trad. di E. Bernard, Genova, Costa&Nolan, 1986], la dimensione ironica – il gioco, lo scherzo romantico propongono un modello superiore di conoscenza (spesso evocativo di mondi creativi senza l’onere di realizzarli compiutamente) – permette di sperimentare nuove forme espressive in un laboratorio (potenziale) che tutta la letteratura successiva in modi, intenti (ed esiti) i più diversi proverà, poi, ad attualizzare. Il Minuetto, tema delle variazioni è un minuetto perché metatestualmente – con giocata fluttuazione tra forma e contenuto (come la Fuga/fuga di Pontiggia) – è proprio di minuetti che tratta, articolandosi in tre sequenze motiviche – della ricerca di novità (sarà possibile scrivere un nuovo minuetto?), della rappresentazione teatrale (quella al cui interno il minuetto andrà a inserirsi: aprendo una seconda dimensione metaletteraria del tema), del mondo sottosopra, come da programma dell’opera nel suo insieme (meglio un buon disordine di un cattivo ordine: terza dimensione metaletteraria) – che le tre variazioni riprenderanno e svilupperanno: la prima, negata la necessità di essere originali a ogni costo (inverso del tema?), modula (evocando il rischio di perdere il ritmo in minuetti nuovi) al motivo dello spettacolo (come portarlo a termine, se non seguisse il ritmo?) e sviluppa il terzo motivo (l’opposizione ordine-disordine) in una serie di coppie derivate (o derivabili: guerra e pace, scherzo e serietà, divertimento e noia); la seconda variazione, più estesa, riprende i tre motivi, intrecciandoli l’uno all’altro – il nuovo (primo motivo), inteso come ciò che è eccentrico, caratterizza la produzione (secondo motivo) dei drammaturghi tanto inglesi che tedeschi, i quali (terzo motivo) confondono caratteri di scemi e intelligenti –; la terza variazione sacrifica il tema dello spettacolo (sul quale maggiormente si era concentrata la seconda), riprendendo solo, senza sovrapporli, i motivi della novità (rivendicando la libertà di essere originali) e del mondo sottosopra. La mimesi della forma musicale istituisce una dialettica complessa: ordine e disordine non delimitano dimensioni mutualmente esclusive ma fenomeni interagenti, interrelati, complementari. Il disordine digressivo del minuetto, nella libera sequenza dei tre nuclei motivici si cristallizza nell’ordinato gioco della reiterazione, in variazione, il cui esito irridente e scherzoso si deve alla tensione tra il criterio di organizzazione musicale e l’eterodosso materiale letterario cui si applica.
  24. Un aneddoto gustoso – di quelli che hanno reso Hebel famoso, e così amato in Germania da divenire il proverbiale amico di famiglia – che si risolve in una scommessa, uno scherzo finito male, un coraggio che non regge alla prova, un esito luttuoso, “morire di paura”: come accade al contabile che in un’animata discussione sui fantasmi insulta chi se ne lascia intimorire, accetta la scommessa con un collega (se questi fosse riuscito a terrorizzarlo, avrebbe guadagnato sei bottiglie di vino) e alla fine (di una beffa fin troppo riuscita) perde tutto, insieme, la scommessa e la vita.
  25. Le prime due variazioni mantengono una relazione forte con il tema, la sequenza evenemenziale viene mantenuta immutata, procedendo però con la mossa di un’immediata e radicale appropriazione stilistica (come in Brahms, la brahmsizzazione dello pseudo-Haydn del corale di S. Antonio) la pacata paciosità delle frasi (la loro intimità complice e sussurrata, da focolare) si acumina in un ritmo fratto e sincopato, tagliente. Più strettamente narrativo è il cambiamento di focalizzazione che da esterna (tema) diventa, nella prima variazione, interna al collega impegnato nello scherzo e, nella seconda, al povero contabile che morirà successivamente allo spavento: la serie degli eventi si “orna” della coloritura psicologica che i diversi protagonisti offrono alla vicenda. Dalla terza variazione, della storia originaria non rimane più traccia, spariti i personaggi, rinnovata l’ambientazione, eclissata la costituente successione scommessa/scherzo/scacco (matto e macabro: scherzo allo scherzo), quello che ci si offre è una successione di racconti non solo senza legami (di superficie?) con il tema ma anche (apparentemente?) del tutto irrelati fra loro – il proprietario di un frutteto che, in un cesto delle sue pere di diverse qualità, ne ha posta per scherzo una di marzapane, invita una signora ad addentarla; un agente assicuratore che vive con la sorella scopre di essere stato completamente derubato; una cuoca che, lasciati l’impiego e la residenza per nuovi padroni, non sa dove passare la notte prima di prendere servizio; un giovane che cammina nella notte e decide di accettare la compagnia di due prostitute; un vagabondo, scorato dalla fatica del cammino, che lancia uno sguardo all’orizzonte e ogni cosa muta per lui –. Soltanto come variazioni, in partitura, questi testi possono diventare un testo, permettendo di leggere sulle superfici delle storie l’affiorare di motivi comuni, frammenti ripetuti, più segrete identità strutturali. Nella focalizzazione sul contabile della seconda variazione, dalla sequenza dei fatti emerge con forza (e si autonomizza) il misterioso momento in cui la sicurezza diviene terrore incoercibile ed esiziale. L’esperienza dell’abisso dal quale non ci si risolleva più (perché, se falsa è la cagione che in quell’abisso ha spinto, reale, più reale di ogni reale, è, di quell’abisso, l’esperienza) si condensa nella drammatica icasticità di una figura: il crollo delle certezze e lo sfuggire del mondo cognitivo dai suoi cardini è una fenditura che si apre, in cui si precipita (tutta la camera vi sprofonda, senza lasciare più appiglio, risucchio d’oscurità). Proprio questa immagine, germinata dal tema, diviene nella sua ricorrenza motivo strutturale, filo che stringe insieme i lembi del tessuto testuale. Assente nella terza variazione, l’unica a mantenere una certa affinità tematica con l’aneddoto hebeliano – nella somigliante lievità descrittiva, la disillusione di una credenza, in seguito a uno scherzo riuscito, ma con semplici conseguenze mimico-facciali che una comune risata scioglie e dissolve – ; l’immagine torna nella quarta (la fenditura si apre nell’animo dell’assicuratore appena viene scoperto il furto), nella quinta (la fenditura si apre in chi percepisce l’inaspettata sciattezza del viso della cuoca, faglia di una delusione disillusione erotica in cui minacciano di crollare rovinosamente il desiderio nella sua globalità) infine nella sesta (un’ultima fenditura si apre nel giovane, che inghiotte tutti i frammenti delle precedenti e ormai distrutte attese, allo scoprire la lieve menomazione anatomica di una delle etere). In questa sesta variazione si legge un altro motivo/figura precedentemente esposto (nella terza): la smorfia della donna che morde la pera di marzapane aspettandosi un frutto sugoso, la smorfia del giovane che rivolge senza volerlo il proprio sguardo di scherno su una poveraccia per strada, l’incrinarsi delle loro facce-maschere, si identifica in quello di una lastra di ghiaccio al calare dell’acqua sottostante. La seconda variazione, quindi, introduce entro la trama dell’aneddoto originario motivi connettivi che saranno ripresi nelle altre (così differenti) storie successive, costruendo così un primo ponte tra queste e quello. La terza presenta un elemento che si ritroverà nella sesta (punto di massima densità e convergenza dei diversi percorsi connettivi). Nell’ultima variazione, nell’epifania del vagabondo – che contempla il sole, e per un istante, improvvisamente, senza ragione ma senza bisogno di ragioni, incredibilmente è felice –, il tema ritorna nella sua struttura più scarnificata ed essenziale (la capacità della nostra anima di trasformarsi, in relazione a un’occasione minima e accidentale): in un movimento improvviso (incoercibile istantaneo) di rivoluzione l’anima, nel trascolorare emozionale innescato dal contatto di un evento esterno (ma a quello incommensurabile), prende coscienza della vastità insondabile dei suoi spazi, si strappa con violenza dal mondo, si scopre universo.
  26. Il testo, incompiuto, è stato pubblicato postumo da Limen, nel 2011, a quasi un secolo di distanza dalla composizione di Doderer [ed. it. in Heimito von Doderer, Divertimenti e variazioni, trad. it. di A. Di Donna, Milano, SE, 1999]. In mezzo (ancorandosi o meno all’esplicitazione manifesta di un titolo), molta parte della creazione letteraria europea, da Joyce al nouveau roman, via Beckett, ha esplorato le potenzialità espressive di ulteriori narrazioni costruite per tema e variazioni.
  27. Il saggio, originariamente pubblicato su «Critique», LX, n° 687-688, Août-Septembre 2004, pp. 725-53, è stato significativamente riproposto nell’eccezionale (per prospettica profondità di metodo, levissima sprezzatura di scrittura e nomade vastità di interessi) raccolta dedicata da Starobinski alla relazione tra La littérature et les arts: J. Starobinski, La beauté du monde, M. Rueff c., Paris, Gallimard, 2016, pp. 247-69.
  28. «La présence des formes musicales dans son écriture est probablement le moins apparent mais le plus prégnant des rapports que Starobinski entretient avec la musique (…) On ne s’étonnera pas que des livres entiers de Starobinski soient composés selon un art consommé de la variation [!]: Trois Fureurs, La Mélancolie au miroir, Portrait de l’artiste en saltimbanque, Action et Réaction, Le Poème d’invitation»: M. Schneider, Au miroir de la musique, in «Critique», LX, n° 687-688, Août-Septembre 2004, p. 602.
  29. Il motivo dell’ineffabilità (incapacità del dire del fare del sentire) – esposto in apertura del secondo libro dell’Æneis («infandum regina jubes renovare dolorem»), il motivo della parola che si dichiara incapace a raccontare il passato dolore viene ripreso ai vv. 361 e sgg. (impotenza del linguaggio e delle lacrime a dire la distruzione) –; il motivo della dialettica suono/silenzio – Laocoonte muore elevando «clamores horrendos»; al vv. 298 la catastrofe si rappresenta come sonora apocalisse, in un registro uditivo di grande ampiezza: «luctus» (grida di lutto), «gemitus sonitus» (fracasso della tempesta) «clamor» (degli umani) «clangor» (il metallo della tromba); ripresa ai vv. 486-88 («clades funera labores», il clamore scuote le stelle d’oro), e al v. nell’opposizione tra lo strepito e l’ancora più terrifico silenzio di morte («simul ipsa silentia terrent») –; il motivo del ricordo e della profezia – nel silenzio, Enea vede apparire l’ombra della compagna che gli racconta il suo destino –.
  30. Il motivo del ricordo e della profezia si sviluppa nel viaggio dantesco sospeso tra passato e avvenire, nel disorientamento temporale di Andromaca, prigioniera di Pirro, sospesa nello stallo presente, tra un avvenire inaccettabile e l’incancellabile ricordo della distruzione di Troia, nel nodo mnestico della memoria culturale nei giochi di citazioni in Baudelaire e Réda; il motivo della dialettica suono/silenzio si varia nel registro sonoro nella Divina Commedia (dallo strepito dei dannati ai canti angelici, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti), nelle urla che continuano a risuonare nella memoria di Andromaca; nel rumore del mare nel quale Mandelstam, in un componimento del 1915, ascolta un’ultima parola che distanzia tutte le precedenti; il motivo dell’ineffabilità si modula nella protestata incapacità dantesca di esprimere la più alta beanza (Paradiso, XXXIII, vv. 121-23), nell’incapacità di Amleto ad esprimere il proprio dolore, nell’impossibilità di dire deplorata da Ovidio delle parole quasi sommerse dalle acque («verba miser frustra non proficentia perdo; ipsa graves spargunt ora loquentia aquae»), nella difficoltà a ripetere l’infandum di Enea, in De vent et de fumée di Bonnefoy.
  31. Nel senso del Romanticismo tedesco, da Benjamin proiettato nel Barocco e in Baudelaire, che nel Cygne baudelairiano dichiara che «tout pour moi devient allégorie»: la forma (critica) del tema e variazioni permette di aprire un iridescente gioco di riflessione di specchi dentro a specchi (da Starobinski a Baudelaire e retour).
  32. «Nous venons de voir qu’à mesure qu’elle faisait face à un monde moins hospitalier, la poésie s’est interrogée de façon toujours plus insistante sur sa propre condition, sur ses pouvoirs et ses limites. En se reportant vers la scène imaginaire de Troie et de ses abords tissés par tant de navigations, les poètes ont reconnu la beauté triomphante et le feu de la destruction, l’élan conquérant et la douleur de l’exil, et les mille guises de la parole qui ordonne ou qui ruse. Il leur est souvent arrivé d’y percevoir, par réflexion, venues de la profondeur du temps, les figures de leur propre péril»: ivi, p. 753.
  33. Come per gli altri virtuosi invidiosi incontrati in queste pagine, la bramosa impotenza di Lévi-Strauss a compiere un’opera musicale in suoni e note si compensa nella stesura di composizioni per parole e concetti: della forma musicale (fuga, sonata o sinfonia) una specie di fotografico negativo: stessa immagine, ma invertite le luci e i colori – la stessa forma, che muta il suono in senso, monta il senso come suono –.
  34. Ma l’ardita e visionaria lettura che Lévi-Strauss offre del Boléro di Ravel come fugue ‘mis à plat’ – «c’est-à-dire où les différentes parties, disposées en séquence linéaire, se suivent bout à bout au lieu de se poursuivre et de se chevaucher» – molto ci permette di comprendere la forza euristica (forse, la tensione utopica nella torsione dei linguaggi) della sua (di Ravel, del Ravel di Lévi-Strauss, di Lévi-Strauss, in realtà) traduzione «impropria» di una concezione polifonica in una «série linéaire»: «on distinguera alors un sujet et sa réponse, un contre-sujet et sa contre-réponse occupant chacun huit mesures. Le sujet et la réponse, le contre-sujet et la contre-réponse sont répétés deux fois de suite avec, dans l’intervalle entre ces séquences, deux mesures où le rythme – continu pendant tout l’ouvrage – ressort au premier plan parce que la mélodie elle-même reste en suspens ; de même après chaque fin de la deuxième contre-réponse et avant chaque retour au sujet. Au total, on a donc deux séquences consécutives formées chacun du sujet et de la réponse et qui se répètent quatre fois, en alternance avec deux séquences consécutives formées du contre-sujet et de la contre-réponse pareillement répétées ; cela dure jusqu’à la conclusion de l’ouvrage où, en manière de strette elle aussi mise à plat, le sujet et la réponse, le contre-sujet et la contre-réponse se succèdent sans duplication et enchaînent sur une modulation. Celle-ci survient 15 mesures avant la fin, et résout la neuvième et dernière présentation du contre-sujet»: C. Lévi-Strauss, L’homme nu. Mythologiques IV, Paris, Plon, 1971, p. 590.
  35. Uno stesso soggetto (il ripetuto matrimonio animale dell’eroe) accompagnato dal suo controsoggetto (lo scambio di denti) si ripete variando tono e cadenza, muovendosi nello spazio dei personaggi incontrati dal protagonista nel suo avventuroso allontanamento da casa (un’orsa Grizzly, un’orsa d’altra specie, la dama Puma, la Lontra, cinque topi), come un tema musicale attraverso registri e timbri delle diverse voci.
  36. «La majestueuse cadence finale conjugue les extrêmes et conclut par une suite d’accords arpégés, alternativement ascendants et descendants»: ivi, p. 161 ; se nell’operazione intendiamo (complice l’ambiguità della posizione estetica di Lévi-Strauss) il riconoscimento (e non la proiezione) della morfologia (settecentesca, europea) della fuga in un lontano mito extraeuropeo, mutando i principi costruttivi di una forma storica in archetipo universale vagante liberamente per epoche e per discipline, rischiamo di svuotarla, perdendone la specificità (e l’efficacia esplicativa).
  37. C. Lévi-Strauss, Mythologiques I. Le Cru et le Cuit, Paris, Plon, 1964.
  38. Il mito Timbira sull’origine delle piante coltivate, i miti Sherenté che narrano di Asaré e il pianeta Venere, infine la storia (Kraho) di Autxepiriré.
  39. Alla scomposizione della catena sintagmatica dei materiali mitici isolati in sequenze comparabili (variazioni di uno stesso tema) si aggiunge la possibilità paradigmatica di sovrapporre intere catene sintagmatiche (cioè interi miti) tra loro. Nella compresenza (idealmente sincronica) di questo sistema di relazioni (variazioni interne, imitazioni esterne) il materiale discopre una più densa, complessa e leggibile, semantica: «chaque mythe illustre donc un état symétrique d’une transformation qui se développe de façon progressive en parcourant une gamme d’états. Mais ce déroulement sur un axe linéaire engendre aussi des phénomènes de résonance. Comme une mélodie qui suivrait sa courbe propre tandis que chaque note, au moment où on l’entend, éveillerait la série de ses harmoniques, à chaque stade de la transformation, envisagée comme une suite d’états, correspond un ensemble d’éléments mythiques superposé et qui forment entre eux des accords […] ce double caractère, à la fois mélodique et contrapunctique, d’une transformation qui se déploie sur deux axes, celui des successions et celui des simultanéités, et qui se projette donc comme enchaînement de syntagmes et comme système de paradigmes, permet que des retards ou des anticipations se produisent à la façon de ce que les musiciens appellent des cadences rompues ou évitées. Il arrive, en effet, qu’au sein d’un même mythe mais à l’arrière-plan, ou sous forme de mythes distinct situés à des étages différents, des motifs ou des incidents se juxtaposent qui relèvent d’un état antérieur ou postérieur du groupe de transformation»: C. Lévi-Strauss, L’homme nu, op. cit., p. 302.
  40. Fino a proporre una lettura delle varianti mitiche, nei termini degli artifici combinatori tradizionali della scrittura contrappuntistica, nella sua capacità di combinare un soggetto originale (in questo caso, per Lévi-Strauss, la metamorfosi della stella in donna) con la sua trasposizione (dalla donna al corpo putrido) o inversione (da Venere a uomo), o retrogradazione (da donna a stella), o inversione del retrogrado (da uomo a costellazione), o inversione del retrogrado trasposto (i fratelli diventano Pleiadi).
  41. Così, in Majakovskij ride, Majakovskij piange, la figura del (tra)vestimento di Majakovskij genera una girandola sternianamente digressiva la cui levitante divaganza conversazionale è prodotto di una sottile serie di variazioni sul tema Majakovskij in blusa gialla e cilindro (la blusa è tra casacca di manicomio e carcere, blusa di marinaio e costume di ‘débardeur’): prima sul tema nella sua interezza – lo stesso costume indossato da attori [Vladimir Maksimov, Max Linder]; la costumistica dei decadenti [Whistler, Ensor, Tristan Corbière], l’amore dell’eleganza sguaiata dei futuristi – poi condotte su un suo isolato frammento (il cilindro di Majakovski), che genera una gustosa teoria di varianti artistiche, metafisiche e biografiche del copricapo majakovskiano – la storia dell’arte moderna come storia di cappelli (la bombetta di Chaplin, il cilindro di Max Linder e Majakovskij, la bombetta del borghese sognatore di Magritte), l’oscillazione tra l’idolo calvo a testa d’uovo di Schlemmer e la bombetta dei filistei di Magritte, il contrasto tra lo ‘chapeau melon’ di Magritte (viso obliterato da una mela) e il cilindro di Majakovskij, quello di Esenin (sino all’Uomo nero), la bombetta di Pascin, le bombette dei personaggi di En attendant Godot. Dalle immagini di abiti si modula nuovamente all’abito come immagine (nei futuristi) e come segno di poetica, in questo modo dando profondità all’evocazione del dandysmo majakovskijano – sovrapposto alla sua declinazione europea (Balzac, Barbey d’Aurevilly, Baudelaire) e gogoliana – che prepara la riapparizione del tema nella variazione sul secondo motivo del tema (la blusa gialla).
  42. Ancora nel saggio majakovskijano, il soggetto della Crocefissione è messo in contrappunto con il controsoggetto della clownerie, rivelando la loro eretica affinità.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)