Dinanzi all’abisso. La ricerca di Dio nella poesia italiana del ’900

Author di Alberto Luciano

Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica[1].

(P. Celan)

– Mi abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità[2]!

(G. Boine)

È nei confini di un limpido spazio allegorico che si compendia la parabola dell’io lirico[3] novecentesco nella sua ricerca dell’Altro: su di esso splende fiocamente la metafora del volto[4], archetipo che incarna la nozione stessa di alterità, colta, però, nella sua inespugnabilità, come opaca e inattingibile sostanza. Il volto si profila in una larvale epifania, sigillata in una sorda lontananza. E dinanzi a quel volto l’io lirico si pone in una condizione di attesa[5]: è questo un «orizzonte prospettico», nei termini in cui ne ha parlato Ernst Bloch[6], a cui il soggetto volge lo sguardo e verso il quale s’incammina. Ma l’intervallo che da esso lo separa coincide con una temporalità sospesa e scissa, che paralizza l’io dinanzi all’incompiuta imminenza di un avvento cui egli anela come al termine che possa redimere e giustificarne l’esistenza: la metafora equorea e quella del deserto[7] rappresenteranno, in tal prospettiva, proprio lo spazio da percorrere e attraversare per raggiungere l’Altro, il luogo abissale in cui Dio e uomo si fronteggiano, il contesto nel quale dialogano in silenzio[8].

Sotto il segno di tali archetipi si consuma il destino dell’io lirico; è dentro i confini di quel simbolico spazio che pare tracciato l’impervio sentiero verso l’Alterità, è negli interstizi di tali figure che andrà colto il senso di questo accidentato percorso, di questa erranza tormentosa, di questa inquieta peregrinazione. Nella simbolica sottesa a quelle immagini viene compiutamente espressa anche la radicale tensione che anima il soggetto, l’impulso dialogico che lo sommuove e che lo induce a mettersi in cammino in direzione dell’Altro. Il suo itinerario, però, sarà marchiato dai segni oscuri della diaspora, dal cupo sigillo del naufragio, che siglano il percorso esistenziale di un io sradicato e disperso, gettato al di là di ogni patria, lontano ancora dalla terra promessa, dalla pienezza luminosa di un messianico avvento[9].

Un «apolide metafisico», come avrebbe detto Cioran[10], espulso dalla propria terra mater, privato della patria spirituale, di quella Beheimatetsein che secondo il filosofo Hildebrand rappresenta il luogo autenticamente religioso in cui convergono e si incarnano l’essenza spirituale dell’uomo, i suoi creaturali aneliti[11].

L’io lirico transiterà in una terra straniera, in un territorio ostile e desertico, respinto in un luogo sospeso nel tempo, come raggelato tra la crudezza della diaspora e l’avvento del Regno messianico, in attesa di un «volto immortale» che irrompa nello spazio desolato dell’esistenza:

Se l’anima fuggendo dall’Egitto
scorgesse subito i colli di Chanan,
se sui frantumi degli dei stranieri
brillasse subito il volto immortale
e dagli sguardi della nostra rinuncia
già scaturisse amore,
quali ali darebbe al nostro passo
questa certezza anche tra pietre e spini!
Noi non sappiamo invece quante miglia dividano
l’ingresso nel deserto dall’incontro con Lui:
ci sgomenta la terra di nessuno
non più nostra, non ancora di Dio.

(M. Guidacci, In exitu, da Un cammino incerto)[12]

I motivi della diaspora e dell’esilio divengono, qui, metafora dolente di un’esistenza mutilata, che si consuma nell’incertezza e nell’abbandono, entro i confini di uno sconfinato deserto[13]. Essi rispecchiano il travaglio esistenziale di ogni uomo che attende un segno che lo liberi, la luce messianica di «un tempo incorruttibile»[14], di quel «volto immortale» che illumini e riscatti la sua vita. Se «l’errance crée le désert»[15], proprio il deserto, allora, rappresenterà lo spazio da attraversare[16] per giungere all’Altro, nel transito angoscioso verso una «terra di nessuno»[17] dinanzi alla quale l’errante compiutamente incarna la figura dell’àtopon, del nomade sradicato e disperso, dello straniero.

Inghiottito dai gorghi di un «tempo caduco» (Zeitlichkeit), come scriveva Novalis, sigillato nella sua mortalità, egli compie il proprio nóstos brancolante e oscuro, si mette in cammino. L’avvento del «sacro tempo» (heilge Zeit) coinciderà, in tal prospettiva, proprio con l’ingresso nella terra promessa, la patria lontana che un giorno accoglierà l’uomo stremato ed errante:

non sarà mai placata l’ardente
sete nel nostro tempo caduco.
E noi dovremo tornare in patria
per vedere questo sacro tempo.

(Novalis, Anelito alla morte VI, vv. 39-42, da Inni alla notte)[18]

Negli spazi desolati di una temporalità spoglia, entro gli scabri confini di un «messianismo desertico»[19] in cui mai verrà estinta la sua «ardente / sete», l’uomo si incammina verso la terra promessa. Ed è nel dolente sperpero che lo consuma, è nella cupa dissipazione del tempo profano che l’uomo anela a un altrove in cui il numinoso dispieghi la propria essenza e redima l’angoscia della sua mortale finitudine. Ma il destino dell’uomo è l’erranza, il suo darsi in ostaggio al divenire: «Invece della patria/ stringo le metamorfosi del mondo», scriverà Nelly Sachs[20]. La patria è allora l’immutabile, ciò che strappa l’ente alla temporalità e che lo preserva, custodendolo. Essa, però, è anche lo spazio irraggiungibile e ignoto cui all’uomo non sarà dato di accedere, è, appunto, àtopìa, fioco orizzonte che si staglia perenne, offrendosi allo sguardo proprio in virtù della sua radicale inaccessibilità. L’io lirico novecentesco non conoscerà la gioia del ritorno, dell’«arrivo a casa» (Heimkunft), inteso come prossimità e «vicinanza all’origine»[21], di cui ha discorso Heidegger nel suo commento a una celebre elegia di Hölderlin. Impigliato nelle buie trame del divenire, nelle sue metamorfosi, egli, invece, giunge a rispecchiarsi nell’oscura mutevolezza che lacera il mondo, a riconoscere come sua «patria desolata» proprio il tempo mortale in cui è gettato:

Riconosco la nostra patria desolata
della nascita nostra senza origine
e della nostra morte senza fine.
(M. Luzi, Né il tempo, vv. 29-31, da Primizie del deserto)

È nella vicenda stessa del divenire, in quella nascita «senza origine», di un’esistenza, cioè, orfana, priva di ogni fondamento, ed è nell’afflizione che perennemente ne segna il cammino che la creatura ha la propria dimora. Al di fuori di tali confini non esiste patria, luogo che accolga l’uomo e gli dia riparo: «la speranza di un luogo clemente al di là delle sabbie», scrive Jabès, è «miraggio di un riposo»[22]. Destino dell’uomo è allora la perpetua erranza, alla ricerca di quell’origine, del principio su cui possa poggiare e radicarsi la sua vita, incessantemente segnata da una «morte senza fine». E in quell’inquieto peregrinare l’uomo toccherà il culmine della sua solitudine, deposto in un solitario abbandono, esiliato nell’ombra della sua stessa esistenza:

Sradicato dai vivi,
cuore provvisorio,
sono limite vano.

(S. Quasimodo, Al tuo lume naufrago, vv. 5-7, da Erato e Apòllion)[23]

In questi versi di Quasimodo, in cui Carlo Bo vedeva compendiato il senso stesso della ricerca umana e religiosa del poeta[24], viene messa in luce proprio la condizione di ontologica precarietà in cui versa l’uomo invischiato nella sua mortale finitudine, dell’uomo che scopre se stesso quale dolente e effimera sostanza, preso in balia del tempo, nella pena stessa del divenire che tutto macera e inghiotte:

Pèrdimi, Signore, ché non oda
gli anni sommersi taciti spogliarmi,
sì che cangi la pena in moto aperto:
curva minore
del vivere m’avanza.

(S. Quasimodo, Curva minore, vv. 1-5, da Òboe sommerso)

È questa l’accorata preghiera dell’uomo che «si scalza e vacilla/ in ricerca» (vv. 13-14): quei passi barcollanti tracciano il corso di un travagliato cammino, nella ricerca ostinata di un fondamento che possa dare un senso a quel peregrinare su cui incombe un destino di solitudine e abbandono: «Ancora mi lasci:/ son solo/ nell’ombra che in sera si spande» (Curva minore, vv. 15-16).

È nel congedo dell’Altro, nel suo desolato crepuscolo che s’oscura e precipita l’esistenza dell’uomo. È nella cruda ombra di tale commiato che l’io si staglia in tutta la propria dolente solitudine. La topografia dello spazio in cui a questo punto egli si inoltra è ben nota: «Nomade o marinaio», come osserva Jabès, «tra lo straniero e lo straniero, vi è – mare o deserto – uno spazio delimitato dalla vertigine alla quale entrambi soccombono»[25]. È questo il percorso imboccato dall’io lirico, apolide errante che solca la sabbia infeconda di un deserto o le acque oscure di un mare che alla fine lo inghiottirà nei propri flutti.

E sarà qui, nel cuore stesso del baratro, e nel tumulto di un solitario naufragio[26], che l’io tenderà le mani all’Altro, additandolo come auspicato luogo d’approdo, come il porto sicuro da raggiungere, come una patria lontana e invisibile. Ma sarà quello un porto sommerso, una patria inabissata, un fioco miraggio sul mare deserto:

Inabissato
nel grande mare, dove
tu meno di un punto sei.

(D. M. Turoldo, E senza sponde, da Nel segno del Tau)[27]

La creatura qui si fa incontro al trascendente colto ora nella sua nebulosa opacità, come presenza fioca e inattingibile: è «la relazione» stessa fra Dio e l’uomo che ora «si inabissa»[28], secondo una suggestiva formula di María Zambrano in cui risuona, limpida, un’eco nietzschiana[29]. Voce che sprofonda in un contesto ignoto nel quale uno dei due termini si indebolisce, scompare o sussiste quale mera alterità relegata in una lontananza impenetrabile e opaca; mentre la creatura, ormai disorientata, sperduta in un luogo abissale, sconta un destino di smarrimento, di solitudine e di desolato abbandono[30].

E non è questo il preludio di un mistico naufragio, nel corso del quale l’uomo sprofonda, annullandosi in Dio[31]. Qui non si tratta di un inabissarsi in Dio, secondo l’accezione che il termine assume in ambito mistico, bensì di uno sprofondamento lontano da Dio[32] o, meglio con Dio[33]. Il «tu» che compare nel testo di Turoldo non rappresenta la sostanza entro cui l’io dimora, nella quale si immerge in un attonito ed estatico abbandono. Esso, invece, si profila come «punto» remoto e tenue, un punto che, nella sua lontananza, appare quasi impercettibile al soggetto «inabissato/ nel grande mare». E il mare qui è emblema non del trascendente, bensì dell’informe realtà in cui è immerso il soggetto[34], della condizione in cui egli è gettato ed entro cui si consuma il suo naufragio. Ed è in questo mare che avverrà anche il naufragio di Dio, immerso nelle medesime acque in cui annaspa l’uomo[35], invischiato nella stessa abissale sostanza in cui si dibatte la sua creatura:

No, non sei tu l’abisso insondabile
non tu la spada mentale
che ci dilania:
tua e nostra rovina è l’altro
abisso: così

nell’infinita tensione
che dentro ti rode
natura erompe
per innumeri mondi:
e ogni creatura
ti muore tra le mani,
nel mentre che si forma
e fiorisce

(D. M. Turoldo, La spada mentale I, da Canti ultimi)

L’«abisso insondabile», qui, non è quello divino; non è questo il gorgo imperscrutabile del trascendente, ma un «altro/ abisso» nel quale Dio stesso sprofonda insieme con l’uomo. Il divino, qui, appare minacciato con la sua creatura: entrambi esposti allo stesso pericolo, alla medesima «rovina». Ma cosa rappresenta l’altro abisso di cui parla Turoldo?

È quello il baratro che si apre dinanzi a Dio nell’atto stesso della creazione: è il gesto con cui dà impulso al creato che insidia Dio, che lo corrode; è nello slancio vitale con cui egli genera e dà vita alla creazione che si insinua il germe oscuro del nulla, la mortale ombra dell’abisso: quell’«infinita tensione» da cui «natura erompe/ per innumeri mondi», è, infatti, la medesima forza che estenua Dio e che «dentro» lo «rode». Dinanzi alla mortale finitezza della creatura che «nel mentre che si forma/ e fiorisce», gli «muore tra le mani»[36], Dio s’oscura con essa, scende anche lui nel baratro, sprofonda in quel gorgo che lacera e erode l’esistente. Quella crudele, mortale fioritura sigilla non solo l’esistenza dell’uomo, ma anche quella di Dio. È in questo fiorire oscuro che Dio diviene sostanza coinvolta nella creazione, è in quel mortale germoglio l’emblema della sua affezione, della sua stessa sconfitta. E Dio sprofonda nel baratro con quel germoglio stretto tra le mani, trascinato nella cruda immanenza dall’inerzia mortale di quel fiore. È la morte la cifra abissale che oscura e intride la creazione, il termine irredento in cui s’ingorga non solo il creato, ma anche il suo creatore[37].

E con ciò non si allude ancora allo svuotamento nell’Incarnazione, al travaglio della chenosi, alla spoliazione mortale di Dio in Cristo. Questa semmai costituirà un momento successivo nella storia della divinità, una fase posteriore del suo divenire. Qui la cifra mortale è piaga che marchia da sempre Dio: quel suo naufragio, quel suo sprofondare si riferiscono proprio a un coinvolgimento originario del divino con la morte, a una determinazione della sua essenza[38], a un’oscurità di Dio, nei termini in cui ne ha parlato, ad esempio, Luigi Pareyson[39], a un’ombra cioè che è presso Dio e che è in Dio da sempre: ed è in quell’ombra che si gioca e si consuma il destino della divinità, è in virtù di essa che il divino si espone alla minaccia del nulla, al vuoto della morte. Quell’abisso di cui parla Turoldo esprime proprio questo originario vincolo che Dio intrattiene con la creatura, il sigillo oscuro che lo marchia, la sigla ancestrale che segna il trascendente e che lo erode, trascinandolo nella cruda immanenza della morte.

Si veda, in tal senso, lo splendido distico che suggella una lirica di Salvatore Quasimodo in Òboe sommerso:

È tuo il mio sangue,
Signore: moriamo.

(S. Quasimodo, Primo giorno, vv. 10-11)

Quel sangue allude a un legame intimo tra la creatura e la divinità, a una carnale fratellanza o, meglio, alla paternità di un Dio che adesso muore coi propri figli, che condivide la loro angoscia, che partecipa alla loro mortale finitezza. Ma è proprio in questa ardita predicazione biologica che pare violata ogni antropologia del divino e capovolta la stessa nozione di imago Dei di matrice biblica e patristica[40]: la concezione, cioè, secondo cui l’uomo nella propria creaturalità conserva le tracce di una discendenza divina, l’impronta di un’originaria trascendenza. Qui, infatti, è l’uomo a imprimere il suo sigillo in Dio: «È tuo il mio sangue,/ Signore». È qui promulgato il testamento dell’uomo che, dichiarando il proprio lascito a Dio, ne sancisce l’ingresso in un orizzonte di precarietà e di debolezza. È questa una nuova alleanza, sottoscritta, però, nella rassegnata consapevolezza che Dio non è più il garante dell’esistenza, che non potrà più consolarla, né redimerla dalla sua finitezza, poiché anch’egli appare ormai vincolato alle leggi del tempo e della morte. Nello spazio del trascendente cupamente balugina una creaturale scintilla, l’impronta oscura della mortalità. L’immagine del sangue si pone, allora, non solo come il segno di un vincolo di Dio con l’uomo, della sua prossimità alla creazione, ma esprime soprattutto il coinvolgimento radicale della divinità nel mondo, la sua compromissione con l’immanenza del creato, il suo precipitare nel baratro del tempo e della morte.

È con la poesia di Paul Celan che viene sancita compiutamente la deposizione di Dio nel creato. È stato il poeta di Todesfuge a registrare la catabasi oscura del divino, il suo precipitare nella spoglia immanenza del mondo. In una figurazione cruda e asciutta il grande poeta tedesco racconta la caduta di Dio nella storia: la rappresentazione del corpo dei deportati, in tal prospettiva, diviene il sigillo che oscura e definitivamente incrina la nozione stessa di ogni trascendenza:

Noi siamo vicini, Signore,
vicini, afferrabili.
Afferrati di già, Signore,
gli uni all’Altro abbrancati, come fosse
il corpo di ciascuno di noi,
Signore, il tuo corpo.

(P. Celan, Tenebrae, vv. 1-6, da Grata di parole)[41]

E non è questo il corpo divino di Cristo, del Dio incarnato. Non è questo il Logos fatto carne. È questa, invece, l’offuscata trascendenza di un Dio che si specchia e sprofonda in una creazione fallita e irredenta, che in essa soccombe: un Dio decaduto, invischiato nella materia stessa di cui sono impastati i suoi figli. Dio, carne gettata tra i morti, è qui raffigurato come opaca massa che ristagna nel buio crogiuolo del creato: è questo un Dio che muore con l’uomo, in una reciproca agonia sigillata da una corporale fusione. Il corpo di Dio s’amalgama e si fonde con quello delle sue creature. È questo di Celan un Dio risucchiato nei gorghi del tempo, espulso nella buia immanenza del mondo e della storia, trascinato nella catastrofe del male. È questa una degradata e corrotta shekinah, la cruda effigie di una divinità erosa dalla morte, di una divinità agonizzante che s’abbranca alla creazione, che da essa è schiacciata.

Così Turoldo:

Ora la nostra carne non Ti abbandona;
sei un Dio che si consuma
in noi. Un Dio
che muore.

(D. M. Turoldo, I miei giorni camminano, vv. 16-19, da Udii una voce)

L’uomo è, allora, una piaga di Dio, secondo una suggestiva immagine di Giorgio Vigolo, la creazione stessa è vulnus dolente nel «petto» del proprio creatore[42]:

O velenosa luce
che tingi il giorno d’apparenze amiche
e celi il fitto orrore
d’una piaga tremenda al petto occulta
del dio morente di cui siamo il male
oscuro.

(G. Vigolo, D’un dio che muore, vv. 1-6, da La linea della vita)[43]

È in questa ontologia della debolezza e della fragilità, che trova fertili riscontri con il pensiero teologico novecentesco[44], che il discorso lirico articolerà la propria rappresentazione del divino. È dentro gli orizzonti oscuri del tempo e della storia che la divinità soccombe con le sue creature. È questo il luogo in cui Dio e l’uomo si cercano, si fronteggiano, si sfidano, ognuno in cerca dell’altro, scagliati nel medesimo luogo, implicati nella stessa relazione: ma è questo un rapporto la cui cifra dialogica pare oscurarsi, una relazione in cui non vige, come vedremo, una limpida alternanza tra domanda e risposta.

Nel vuoto abissale in cui sprofonda ognuno dei due termini relazionali, il dialogo risulterà altrove compromesso proprio per la radicale opacità che intride il contesto stesso della relazione. In questa prospettiva il mare rappresenta lo sfondo sul quale si consuma il travagliato colloquio tra Dio e la creatura, il luogo infecondo presso cui la voce del soggetto si spegnerà in un desolato silenzio: «Ma la sola/ eco al mio grido era/ lo sciabordio delle onde»[45]. Quel L’eco di quel grido resta inascoltato, la sua eco risuona nel vuoto, l’appello si disfa in un fioco riverbero dinanzi a un’alterità che non risponde.

Anche Piero Bigongiari ricorrerà all’immagine equorea per metaforizzare l’elemento di disturbo e di interferenza che sopraggiunge nel difficile dialogo «tra il tu e l’io»: «Uno strano sciacquio di amare onde/ il colloquio confonde tra il tu e l’io/ in cui eloquio dell’essere è un addio»[46]. Lo sciabordio dei flutti è definito «strano», a indicare la straniante eco che nel suo riverbero ottenebra il dialogo, la condizione ostile in cui avviene il «colloquio», l’avversità del contesto relazionale nell’ambito del quale il dialogo risulta minacciato, radicalmente compromesso: «Dalla riva il sussurro è incomprensibile,/ vi piove un parlottio di lontananze./ È il colloquio di Dio col suo creato?»[47].

L’alterità divina, in questi termini, oscillerà sempre tra una polarità negativa, in cui si identifica nelle forme dell’assenza, del distacco, del silenzio, della lontananza misteriosa e imperscrutabile, e una polarità positiva, in cui pare ritrarsi in una radicale incoercibilità o sussistere quale incommensurabile sostanza che l’uomo non potrà assimilare e a cui, in ogni caso, non potrà attingere[48]. E ciò non per via di quell’«infinita differenza qualitativa»[49] tramite cui la teologia classica distingue il divino[50], contrapponendolo alla creatura colta nella sua finitezza, nella sua irriducibile mortalità. Non è la «coscienza», da parte dell’uomo, «dell’infinita sproporzione che c’è tra la sua esistenza e quella di Qualcuno che la superi infinitamente»[51]. Oggetto dell’invocazione sarà un Dio invischiato nella creazione, ad essa, talvolta, sottomesso, un Dio umiliato che condivide il medesimo destino di afflizione, di abbandono e di solitudine in cui è gettata la creatura. Lo sgomento dell’uomo sarà determinato, piuttosto, dalla percezione di uno scarto, del divario radicale che si pone tra le promesse escatologiche di salvezza e l’eccesso del male[52] (di un male la cui entità non può essere compresaassimilata[53] dal pensiero e dalla ragione) tra la pienezza limpida del trascendente e gli oscuri orizzonti di una creazione umiliata e impura, spoglia oramai di ogni sacralità, privata del suo numinoso sigillo. L’angoscia della creatura diviene più forte di fronte a quelle che paiono essere le inadempienze di Dio rispetto a un progetto di redenzione fallito, nell’ambito di un patto violato, di un’alleanza ormai compromessa, nella tragica consapevolezza che «le promesse procrastinate per millenni sono dunque, di per sé, delle promesse non mantenute, delle promesse fallite»[54].

Non è tanto la lontananza di Dio che atterrisce e sgomenta l’uomo, non la sostanza del trascendente colta nella sua inattingibilità, quanto il suo fallimento rispetto alla stessa creazione. È la violazione del patto, è l’irrisolta e incompiuta teleologia messianica a far sprofondare la relazione e che spezza l’alleanza fra Dio e l’uomo[55], determinando quel «rivolgimento interiore»[56] nei termini in cui ne ha parlato Jacob Taubes, dinanzi alla sconsolante incompiutezza di ogni messianismo:

Ha detto: «Io sono quello che sono»
e tu non temere mai nulla: poiché,
se tu credi, non sarà la tua esistenza,
ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,

come tu speri e credi: anzi gettata
nelle fosse. Chi crede in Dio
si appresti ad essere l’ultimo
dei salvati, ma sulla croce, ed a bere
tutta l’amarezza dell’abbandono.
Poiché Dio è quello che è.

(C. Betocchi, A mani giunte I, da Poesie del sabato)[57]

In una pronuncia aspra e dolente, la poesia di Carlo Betocchi descrive in maniera limpida il senso di smarrimento che coglie l’uomo dinanzi a un Dio che lo lascia solo, di fronte a un Dio che lo abbandona proprio nel momento della prova. Un Dio che non conforta e non aiuta, che non soccorre la creatura confinata in una dolorosa solitudine. Lo sconcerto umano si acuisce proprio nel momento in cui viene maturata la consapevolezza che quel dolore non sarà redento, che quella pena non troverà consolazione, che l’angosciosa condizione in cui si consuma l’esistenza non verrà riscattata.

Betocchi racconta il tragico paradosso di una fede in un Dio colto nella sua radicale inaffidabilità: la fede stessa appare mossa da questa irriducibile cifra paradossale: «se tu credi, non sarà la tua esistenza,/ ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,/ come tu speri e credi: anzi gettata/ nelle fosse». La creatura crede in un Dio che non solo ne usurpa l’esistenza, ma che per giunta la espone al pericolo e al male senza offrirle protezione. Ciononostante essa crede, crede malgrado sia consapevole che Dio la lascerà sola: chi ripone la sua fede in Dio si prepari «a bere/ tutta l’amarezza dell’abbandono». Ed è proprio in virtù della fede che l’uomo, proprio come il Cristo, appare marchiato dall’abbandono, segnato dal sigillo del martirio: «Chi crede in Dio/ si appresti ad essere l’ultimo/ dei salvati». La fede in sé è rischio assoluto, è cimento e azzardo: credere vuol dire, per Betocchi, esporsi a una minaccia, vivere nel più grave dei pericoli.

Il verso finale del testo ribalta, poi, in un’efficace antanaclasi quello dell’incipit in cui il poeta riprende la frase con cui, secondo l’Antico Testamento, Dio si rivelò a Mosè: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14): con questa frase Dio non dice il suo nome, dichiarandone, invece, l’ineffabilità. La struttura tautologica dell’enunciato esprime, da un lato, il mistero dell’imperscrutabile identità divina, confermando, dall’altro, la sua opacità ontologica. Nel contempo la formula sembra riferirsi anche al carattere di trascendente immutabilità che contrassegna il divino. Ma quella è anche la formula con cui Dio si rivela al proprio popolo[58], comunicandogli la propria vicinanza, sancendo con essa l’inamovibile autorità del suo ruolo e delle sue funzioni nell’ambito di una rinnovata alleanza in vista di un comune progetto di salvezza[59].

Betocchi nell’ultimo verso rovescerà radicalmente il senso della frase biblica che riecheggia nell’incipit: «“Io sono quello che sono”». La ripresa diaforica «Poiché Dio è quello che è», nell’ultimo segmento versale, infatti, la svuota radicalmente del suo senso, lasciando che quelle parole risuonino come una vana promessa, come private della loro autorevolezza e della loro attendibilità: le parole che secondo la tradizione biblica Dio pronuncia a Mosè paiono ritorcersi, nel testo di Betocchi, contro Dio stesso.

Il dispositivo retorico prescelto risulta, così, tarato per esprimere con pregnante efficacia dialettica una robusta confutazione tramite cui vengono smentite la fondatezza e la stessa credibilità delle parole di Dio. L’eco diaforica pare restituire a quella frase il suo autentico significato: Dio è quello che è non in virtù della sua mansuetudine, della sua bontà e della sua gloria: egli è quello che è in quanto abbandona e trascura il creato. In quel verso il poeta inchioda Dio alle sue colpe, lo mette di fronte alle sue inadempienze, alle sue mancanze rispetto alle promesse di salvezza non mantenute. In esso aspramente risuona anche l’accusa per un patto violato, nel decadere stesso dei presupposti su cui si fondava l’alleanza tra Dio e il suo popolo.

La poesia di Betocchi diviene, così, angosciosa testimonianza di un percorso di fede tormentoso e accidentato, in cui la divinità non è più l’orizzonte sicuro che accoglie i suoi figli quanto piuttosto il luogo inospitale e deserto, il sentiero ostile da percorrere, il mare avverso da solcare. Nella fede inquieta, problematica e disincantata del poeta si riflette un comune destino per cui Dio non rappresenta più un rifugio, il porto sicuro, quanto un’ambigua presenza cui non è concesso affidarsi.

Nel cuore dell’uomo non alberga più la fiducia in Dio né la speranza di trovare in Lui soccorso: in questi termini il patto si disgrega, la relazione diviene nebulosa e impervia, mentre l’inquieta ricerca dell’alterità si concretizza, da parte del soggetto, proprio nella radicale messa in discussione di Dio, nelle forme dell’interrogazione, della domanda, dell’accusa dolente e aspra.

In tale contesto vibra la voce del soggetto che in un inesausto interrogare tenta di intaccare la scorza di un silenzio su cui si ripercuote la sua eco, in una petizione che patisce la sorda e imperscrutabile opacità del trascendente. Ogni diacronia tra domanda e risposta risulta ora scompigliata: la voce creaturale risuona nella propria spoglia solitudine, nella propria dolente nudità, nella consapevolezza che ogni risposta è tale proprio nel momento in cui permane arroccata in un radicale silenzio, come eco lontana e inattingibile.

Osserva al riguardo Massimo Cacciari:

Eppure si domanda. La necessità della domanda è pari soltanto all’impossibilità della risposta. Non appaiono più – il domandare e il rispondere – come elementi di una stessa dimensione. La quotidiana abitudine di assumerli come un unico con-testo, l’inerzia che ci spinge a collocarli in “logica” successione, si spezza. Diventano due termini incommensurabili. Non si chiede perché sia possibile risposta, e neppure si chiede perché si conferisca un senso, uno scopo, un “potere” al chiedere. Si domanda soltanto. La “verità” del deserto è quella del domandare assoluto[60].

Nell’economia relazionale di questo amputato dialogo non vige alcuna consequenzialità, nessuna diacronia: la domanda dell’uomo non trova riscontri nel contesto desolato in cui viene formulata, entro il quale risuona. Proprio nell’inattuabilità del responso è inscritto, però, il senso autentico di quel domandare, la cui solitaria eco pare implodere e ricadere su se stessa. L’urgenza di quell’invocazione si fa più forte proprio nel momento in cui ogni orizzonte di senso pare chiudersi e oscurarsi, laddove l’oggetto di quell’interrogare si sfalda in fioca e nebulosa essenza. La domanda dell’uomo diviene, allora, voce introflessa e solitaria, posta al di là di ogni vincolo dialogico, eco assoluta, cioè prosciolta, suo malgrado, dalla relazione. Nello spazio disertato dall’alterità quella domanda degrada a sbiadita traccia sonora, nell’impronta scolorita di una voce che nessuno accoglie: «Il cielo è muto, e fa da eco a chi è muto»[61], come scrive Franz Kafka. E quell’eco parrà a poco a poco raggrumarsi nell’intransitività di un segno che vibra permanendo nella sua radicale, dolente solitudine.

Pur rivolgendosi a un destinatario presentito come assente o, nel migliore dei casi, lontano, il linguaggio poetico, però, serberà integra in sé quella cifra relazionale e dialogica, quella tensione dialettica di fondo che ne animerà gli intenti, guidandone l’accidentato e oscuro percorso sulle tracce del divino. In un regime comunicativo contrassegnato dalla presunta scomparsa del destinatario, la relazione con il trascendente non si interrompe, bensì si trasforma. E questa trasformazione inciderà radicalmente, come vedremo, sull’identità stessa dei due attanti, modificandone e stravolgendone le funzioni e i ruoli nell’ambito della relazione.

Si veda, intanto, come Salvatore Quasimodo descriva in maniera assai nitida i caratteri di questa metamorfosi, i termini di quel domandare, la paradossale dialogicità di una relazione che ora si consuma nel silenzio e nella solitudine:

E dovremmo dunque negarti, Dio
dei tumori, Dio del fiore vivo,
e cominciare con un no all’oscura
pietra “io sono” e consentire alla morte
e su ogni tomba scrivere la sola
nostra certezza: “thànatos athànatos”?
Senza un nome che ricordi i sogni
le lacrime i furori di quest’uomo
sconfitto da domande ancora aperte?
Il nostro dialogo muta; diventa
ora possibile l’assurdo. Là
oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi
vigila la potenza delle foglie,
vero è il fiume che preme sulle rive.
La vita non è sogno. Vero l’uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.

(S. Quasimodo, Thànatos athànatos, da La vita non è sogno)

L’io lirico qui, nel rinnegare Dio, denuncia la radicale contraddizione che lacera il creato, il conflitto che abita nel cuore stesso della creazione e in cui anche il divino pare scindersi. È, infatti, un Dio ancipite quello di Quasimodo, un Dio la cui presenza trapela nel creato sotto il segno di una radicale duplicità; è un Dio che si rivela come principio di vita, il «Dio del fiore vivo», ma anche come fonte da cui germina la morte: il «Dio dei tumori». È questo il coinvolgimento sincronico del divino sia nella cruda entropia che macera ed erode l’esistente, sia nell’energia armoniosa che lo suscita. La realtà del male, il nulla della morte paiono confliggere, in tal senso, con la nozione stessa di trascendenza. È questa la paradossale dialettica che regola il creato, riflesso corrotto di Dio, sua ombra deforme: thànatos, il mortale, è l’ente sigillato nella propria oscura finitezza e athànatos, l’imperitura sostanza in cui, però, cupamente il mortale si rispecchia. Dio aleggia sull’infezione dell’essere, su quel tumore che lo intacca, nel cono d’ombra che ammala la creazione. Ma la sua presenza, nel contempo, sfolgora vittoriosa anche nella vitalità limpida del fiore, simbolo di un’aurorale origine. È questa l’angosciosa contraddizione in cui si dibatte la creatura, la dolente aporia che lacera la fede dell’uomo e che lo conduce a rinnegare Dio.

Dinanzi alla spoglia fragilità del creato, in dolente contrasto con l’imperitura trascendenza, l’uomo è colto dal dubbio, il suo sconcerto diviene apostasia, si converte in una tragica abiura. Ora egli pronuncia il proprio «no», l’aspro diniego a Dio, al Dio dell’alleanza e della legge, ripudiandone il nome, misconoscendone la parola, rispondendo «con un no all’oscura/ pietra “io sono”». E qui l’immagine allude chiaramente alle Tavole della Legge, al primo comandamento in esse contenute: «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me» (Esodo). Il poeta contesta l’autorità di quelle parole, le respinge. Con il suo «no» pare quasi destituire Dio dal suo ruolo, farlo decadere. Ed è proprio la realtà della creazione nel suo dolente tumulto, è la cifra ingovernabile e mortale che la domina a prosciogliere l’uomo dal vincolo della legge divina, a dispensarlo dall’obbligo dell’osservanza. La fede pare, così, indebolirsi, mentre più assiduo si fa il dubbio dell’«uomo/ sconfitto da domande ancora aperte». A quel domandare, come si è visto, non vi sarà risposta. La voce interrogante raggela come incompiuto anelito, diviene eco solitaria, parola inerte che vibra nel silenzio e nella solitudine.

Eppure quella voce, quell’eco, la domanda che nessuno accoglie, continuerà a risuonare, a dispetto del silenzio e della solitudine in cui pare sigillata: «Il nostro dialogo muta; diventa/ ora possibile l’assurdo. […]/ Dio del silenzio, apri la solitudine». Ecco che il «dialogo muta», si stempera cioè in un paradossale rapporto il cui regime dialogico implode entro i confini di un infecondo solipsismo, regredendo a mero soliloquio, sebbene l’io lirico non rinunci al proprio interlocutore, ma, al contrario, lo esiga o, meglio, lo presupponga[62]: «diventa/ ora possibile l’assurdo». Dove il termine «assurdo», nozione impregnata del denso humus di tanta tradizione filosofica e letteraria novecentesca (da Camus a Sartre a Beckett), andrà qui riferito soprattutto allo sfondo relazionale sul quale si consuma questo paradossale dialogo con la trascendenza, sempre oscillante, appunto, fra una sgomenta, incompiuta quanto auspicata dialogicità e la fredda eco monologica in cui si rapprende la voce del soggetto dinanzi al silenzio e all’inerzia del suo destinatario: «Interlocutore di me stesso», come scrive Gòmez Dàvila, «se Dio tace»[63].

Non trattasi, dunque, di una relazione degradata o, peggio, fallita, né di un rapporto compromesso ab origine, ma di un incontro differito in un tempo e in uno spazio che intanto restano ignoti, nebulosi e incerti. L’approccio creaturale al divino, scontrandosi con la propria inattuabilità, assume, pertanto, i caratteri dell’imminenza e del differimento. E proprio l’assenza o l’opacità dell’altro termine della relazione comporteranno l’amplificarsi delle modalità e dei gesti in cui il rapporto si scandisce e viene vissuto[64].

Lo spazio del numinoso, conservando la propria inattingibile opacità, si profila ora come inespugnabile luogo presso cui aspramente risuona l’invocazione della creatura: «Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità»[65]. L’uomo resterà fuori dal tempio, escluso dallo spazio del sacro[66]; «teso nell’invocazione», continuerà a bussare, a scuotere i battenti sino a scorticarsi le mani, ma quel luogo rimarrà chiuso. Egli permarrà sulla soglia di quell’inaccessibile dimora, con le mani ferite, espulso per sempre da essa, smarrito in un luogo desertico e ostile, come uno «perduto nell’eternità», mentre il divino, arroccato in un luogo invalicabile, diviene «lontananza che incombe»[67], alterità spoglia e lontana, infinità desolata in cui riecheggia e frana la voce creaturale, in una pronuncia che assume i toni di un’interrogazione disperata, di una sofferta richiesta di senso, di una strenua invocazione. Dio, ora, riverbera nella propria assenza[68]: non plenitudine, quindi, ma lacuna, sfocato orizzonte, termine inafferrabile, e ineffabile, verso cui tende la creatura. La voce poetica insorge, allora, come violenta ingiunzione perché Dio risponda, assumendo, talvolta, i caratteri di rivolta, di una vera e propria sfida:

Rispondi.
Non è una diffida.
È l’ultimo dado da trarre,
è l’ultima sfida.

(G. Testori, Se Ti chiedessi, vv. 9-12, da Nel Tuo sangue IV)[69]

È celebre l’affermazione di Camus secondo cui «più che negare, l’uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari»[70]. La poesia di Giovanni Testori incarna compiutamente questo atteggiamento sedizioso e ribelle, la reazione dell’io lirico novecentesco dinanzi a un Dio tacito e lontano, dal quale si esige una risposta a costo di ingaggiare una lotta disperata ed estenuante. Più che una richiesta a Dio, quella del soggetto appare, infatti, come un vero e proprio ordine. Si impone, qui, la limpida tensione conativa del messaggio: nella pretesa di ottenere riscontro immediato al proprio domandare, l’io lirico quasi inquisisce Dio, lo mette alle strette. La risposta tanto agognata quanto sentita come manchevole e lacunosa rappresenta qui il termine costante e assoluto verso cui tende l’uomo, come fosse un vero e proprio suggello esistenziale: essa è invocata come prova estrema che il soggetto è chiamato ad affrontare per ritrovare, oltre che un significato che redima la sua vita, anche, forse, la sua umanità, la propria identità creaturale. Da quella risposta, insomma, sembra dipendere il destino dell’uomo, della sua stessa esistenza. Ma la scabra secchezza con cui il soggetto si rivolge al proprio destinatario sbiadisce e a poco a poco si stempera dinanzi a un fondo silenzio[71].

L’atto illocutorio[72], nella vibrante secchezza in cui risuona la richiesta, l’intento dialogico che anima la parola dell’uomo falliscono di fronte al silenzio di Dio: «Io ti chiamo/ ma tu non rispondi»[73]. E quel silenzio a poco a poco getta la creatura in uno stato di inerzia angosciosa, di sorda prostrazione:

là dove Tu taci
tace il mio cuore ormai senza più sdegni,
spettatore impotente,
custode connivente:
tranne che la viltà non ha ritegni.

(P. P. Pasolini, Madrigali a Dio I, vv. 8-12, da L’usignolo della Chiesa Cattolica)[74]

Là dove Dio tace, si spegne estenuandosi anche il cuore dell’uomo, privo oramai di ogni slancio, come prosciugato di ogni vitale tensione. Il duro silenzio divino isterilisce l’animo della creatura, come assopito in un fioco languore. Dinanzi a quel silenzio l’uomo, privato di ogni appiglio, giungerà a percepire se stesso come «spettatore impotente» della creazione, recluso in un’inerzia coatta, sempre più vincolato alla propria immobilità, alla propria inettitudine. Il silenzio di Dio estenua l’uomo, che solitario brancola ai margini dell’esistenza, inerte testimone, «custode connivente», suo malgrado, del disordine e del male che umiliano il creato. E a questa umanità brancolante e intorpidita rimane soltanto la consapevolezza della propria «viltà».

Dinanzi a un «Dio muto», come scriveranno Testori[75] e Turoldo, al cospetto di un «Essere che non ha pietà», alla creatura, allora, non resta che esprimere il proprio sgomento, ma anche il proprio rancore, in un estremo atto d’accusa a un Dio condannato per il suo iniquo silenzio:

Invece tu sei il Dio muto
l’Essere che non ha pietà.
Forse tu avevi bisogno del nostro
dolore, di questo figmento
commosso d’uomo?

(D. M. Turoldo, Invece tu sei il Dio muto, vv. 1-5, da Udii una voce)

L’allocuzione, nelle forme di un’aspra e vibrante invettiva, assume i toni di una disputa nel connotare l’atteggiamento di blasfema insubordinazione dell’io lirico dinanzi a un’alterità che non risponde; una disputa alla quale uno dei due contendenti, arroccato in un’impietosa indifferenza, sigillato in un inerte e impenetrabile silenzio, non partecipa.

Il discorso culmina nella crudezza provocatoria dell’istigazione finale: con gelida freddezza asseverativa l’io lirico pronuncia un’accusa alla luce della quale la divinità appare come esautorata, destituita quasi della sua potenza: «Forse tu avevi bisogno del nostro/ dolore». Questi versi gettano una luce oscura sulla divinità, scompigliando non solo l’economia relazionale che vigeva nel rapporto tra l’uomo e la trascendenza, ma mettendo in discussione proprio il ruolo egemone che in questo rapporto spettava al divino[76]. Il soggetto lirico afferma una definitiva subordinazione di Dio alla creatura: non è più l’uomo o, meglio, non è soltanto l’uomo ad avere «bisogno» di Dio, ma è Dio stesso ad avere bisogno della propria creatura, della sua pena, di quel «figmento/ commosso d’uomo»: un uomo, cioè, che sussiste quale illusoria e fragile parvenza, come un fioco simulacro, che assurge a specchio oscuro e tragico della trascendenza, in una similitudine corrotta e degradata della divinità.

E qui Turoldo parte da un presupposto teorico che, negando il primato del divino, la sua egemonia sull’umano, rovescia, nel contempo, il materialismo religioso di matrice feuerbachiana secondo cui Dio rappresenta il «sé alienato»[77] dell’uomo, «l’essenza oggettiva del soggetto stesso»[78], ossia l’oggettivazione dei desideri e delle angosce umane: Dio, secondo Feuerbach, è l’immagine che riflette e in cui vengono surrogati i bisogni e le esigenze dell’uomo[79], «la più soggettiva essenza dell’uomo separata e dissociata»[80]. L’immagine divina è, in definitiva, un limpido riflesso del sé, sua propaggine, la traccia esteriorizzata dell’essenza della soggettività umana.

Turoldo, da parte sua, definisce l’uomo «figmento», cioè, sostanza priva di consistenza oggettiva, quasi un’irreale e immaginaria effigie. L’uomo si profila ora come degradata e fioca immagine di Dio (fertile, qui, il recupero polemico della nozione di imago Dei elaborata dalla tradizione patristica) o, meglio, finzione concepita da Dio, una simulazione della Trascendenza, come inerte e nebulosa oleografia della divinità e di cui la divinità ha «bisogno»[81].

Vi è, da un lato, un rovesciamento del pensiero di Feurbach; dall’altro assistiamo a una inquieta e sofferta professione di fede che rinnegando la funzione salvifica e consolatoria della religione, mette in luce l’indigenza di Dio, il suo bisogno dell’uomo, la radicale dipendenza della divinità dalle sue creature. La relazione pare in tal modo equilibrarsi in direzione di una parificazione e di un livellamento inerente i due termini del rapporto.

L’adeguamento gerarchico istituito da Turoldo tra Dio e l’uomo sfocerà, nella poesia di Giorgio Caproni, in un vero e proprio spodestamento, con la definitiva e paradossale inversione dei ruoli:

Dio di bontà infinita.
Noi preghiamo, per te.
Preghiamo perché ti sia lunga
e serena la vita.
Ma anche tu, se puoi,
prega, qualche volta, per noi.
E rimettici i nostri debiti
come noi rimettiamo i tuoi.

(G. Caproni, Dio di bontà infinita, da Res amissa)[82]

Siamo dinanzi a un testo modulato all’interno dei registri retorici e oratori della preghiera di richiesta, in cui risuona l’eco parodica del Padre nostro. Nell’impianto monostrofico della poesia è possibile, tuttavia, cogliere, seguendo l’articolazione del discorso, una netta bipartizione che scandisce il testo in due movimenti distinti: il primo movimento, demarcato dalle pause semantiche e dalla rima (vv. 1-4), coincide con la preghiera di richiesta, con l’invocazione a Dio. Il secondo movimento (vv. 5-8), nella ripresa della formula del Padre nostro, attua un capovolgimento radicale degli schemi retorici e concettuali propri della preghiera di richiesta.

Nell’incipit l’io lirico si rivolge a Dio in un’invocazione in cui si ribadisce uno degli attributi peculiari della divinità: la bontà. Già nel secondo verso si attiva, tuttavia, un folgorante cortocircuito: destinatario e beneficiario della preghiera coincidono. L’orante prega Dio affinché «la vita» di Dio «sia lunga/ e serena».

La paradossale petizione attiva una serie di antinomie che vanno non solo a intaccare la stabilità ontologica, ma anche, per così dire, la posizione gerarchica della trascendenza: da un lato, infatti, questa preghiera travalica Dio, lo supera e in qualche modo lo scavalca: se Dio, difatti, si identifica con l’oggetto della preghiera, in colui che cioè dovrebbe beneficiarne, egli decade proprio dal proprio ruolo di destinatario: tale funzione sbiadisce e perde vigore, indebolendosi anche la tensione conativa insita nell’invocazione stessa. A ben vedere, il reale destinatario della preghiera, infatti, resta ignoto: la preghiera si spegne in un orizzonte di desolata incertezza.

La seconda antinomia riguarda, invece, la natura della trascendenza, ora descritta nella sua precarietà, come sostanza labile e effimera. Se la preghiera auspica che la divinità venga protetta, questa, dunque, a livello implicito, verserebbe in una condizione di indigenza e di pericolo, motivo per cui la creatura affida alla sua preghiera il desiderio che essa abbia «lunga/ e serena la vita»: proprio il predicativo «lunga» riferito alla «vita» della divinità le attribuisce una condizione di finitezza e di caducità. Anche il divino, secondo il poeta, è destinato a perire. Caproni pone come un oscuro sigillo l’impronta della mortalità sull’immagine divina, rinnegando uno dei predicati a essa peculiari: l’incorruttibilità. Uomo e Dio adesso condividono il medesimo destino di corruzione e di morte.

Il secondo movimento culmina in drammatica tensione nello spodestamento radicale che investe e quasi degrada la divinità: in una paradossale petizione, secondo una formula già codificata in una celebre lirica di Paul Celan, si chiede a Dio che preghi per gli uomini[83] e che rimetta loro i debiti, proprio come gli uomini rimettono i debiti a Dio. Il capovolgimento della formula del Padre nostro risuona quasi blasfema e tragicamente beffarda. Dio ora è in debito con le proprie creature: la polarità relazionale tra uomo e divinità risulta in tal modo compiutamente invertita[84].

In tal prospettiva, l’immagine del divino s’oscurerà sempre più, indebolendosi; e muterà radicalmente da parte dell’uomo la percezione stessa di Dio, colto non più nella sua gloria, nella sua fulgida potenza, ma nella sua debolezza, nella sua radicale fragilità. Ogni orizzonte messianico pare, in tal modo, chiudersi per sempre; smarrita è ogni speranza di redenzione in un Dio che non aiuta e non soccorre più la propria creatura. Ora l’uomo ripone la propria fede in un dio fragile e impotente, in un dio morente, non più in grado di soccorrerlo; e sarà l’uomo adesso a doversi prendere cura del padre, a doverlo proteggere:

«Proteggete il nostro
Protettore. Salvate
il Salvatore morente».
Così predicava il Pastore
nel gelo della chiesa vuota, al lucore
dell’ultima bugia rimasta
accesa sull’Altar Maggiore.

(P. Celan, Il pastore, da Il muro della terra)

Nella luce desolata e spoglia di una «chiesa vuota», un prete esorta a pregare per il «Salvatore morente»: il Redentore qui ora appare come «colui che più di tutti ha bisogno di conforto»[85]. La scena è illuminata dal fioco e tremante barlume di un cero, dall’«ultima bugia» accesa sull’altare. E qui l’omografia tra il termine «bugia» (candeliere, utilizzato in metonimia per “candela”) e «bugia» (inganno, frottola) viene abilmente sfruttata dal poeta[86]. È in questa oscillazione semantica che, infatti, la parola si carica di una pregnante tensione metaforica in cui serpeggia un’ironia tragica e struggente: la luce gloriosa della parusia ora non è che un morente e soffocato barlume. Lo splendore di ogni avvento si smorza in un cupo e sommesso riverbero, negli ultimi guizzi di una fiammella accesa nella gelida penombra di una chiesa vuota. Quello splendore, nella descrizione fulminante di Caproni, promessa escatologica di una redenzione universale, ora si profila come «ultima bugia»: il messaggio cristiano si rivela in tutta la propria illusoria fallacia, come un menzognero e ingannevole annuncio.

L’inabissarsi della relazione, l’assenza e l’opacità che caratterizzano l’immagine del trascendente, il suo oscuro silenzio, implicheranno, allora, il bilanciarsi del rapporto in direzione di una parificazione dei ruoli tra uomo e divino, sino a sfociare in quello che abbiamo definito spodestamento, in una vera e propria sostituzione, in cui la creatura subentra al creatore, assumendone le funzioni, rimuovendolo quasi dal suo «divino ufficio»[87].

La tensione dialogica che anima l’io lirico non trova sbocco; privata dell’oggetto su cui effondersi, ristagna e deborda sino a fendere i fragili confini identitari dell’io, incrinandoli radicalmente: in tale prospettiva il soggetto sconterà una radicale scissione, sino ad alienarsi in un oggetto assente o irraggiungibile, ad annullarsi con esso:

Sei tanto lontano
da non poterti raggiungere
o senza avvedermene
ti ho oltrepassato
uscito dalla parabola
tu o io dall’inseguimento?
o l’uno e l’altro al sommo
della sua inesistenza,
l’uno e l’altro al punto
più alto
di unità
e di non differenza,
equiparati
in tutto
da reciproco annullamento,
in tutto, in tutto, compiutissimamente?

(M. Luzi, Sei tanto lontano, da Per il battesimo dei nostri frammenti)[88]

In Luzi la radicale lontananza in cui è posto l’oggetto determina la perplessità sostanziale dell’io lirico circa la propria posizione e la propria funzione nell’ambito di questo pedinamento: «uscito dalla parabola/ tu o io dall’inseguimento?». L’«inseguimento» dell’oggetto evolve insieme con la cognizione di una reciproca labilità ontologica o, meglio, con la confutazione della propria pienezza in quanto essere: «o l’uno e l’altro al sommo/ della sua inesistenza…?». Inseguito e inseguitore ora coincidono. L’immagine dell’io lirico si sovrappone all’oggetto del suo inseguimento[89]: ambedue al culmine di un’unione che non si profila come vincolo fecondo, ma come unità che, nell’assorbire i termini della relazione, li distrugge. L’abolizione di ogni differenza determina, così, l’agglutinarsi dei due termini in una radicale assimilazione che conduce al loro annientamento.

Se in Luzi l’«equiparazione» tra inseguito e inseguitore sfocia nello smottamento e, in definitiva, nella scomparsa di entrambi, in un poeta come Caproni l’iniziale oscillazione confusiva dell’io condurrà all’insorgere finale del soggetto che spodesterà l’inseguito (incarnato da una figura che assume quasi sembianze cristiche), prendendone il posto, per poi eclissarsi:

Così di rado l’ho visto
e, sempre, così di sfuggita.
Una volta, o m’è parso,
fu in uno dei più bui
cantoni d’un bar,
al porto.

Ma ero io, era lui?

(G. Caproni, Andantino, vv. 1-6, da Il muro della terra)

L’incontro con l’alterità assume quasi le caratteristiche di un evento per la sua sporadicità nonché per la labilità fugace in cui si consuma: la comparsa dell’altro, la sua manifestazione assume i tratti fuggevoli e aleatori di un’epifania; ma è un’epifania degradata, che avviene in un’atmosfera di fatiscente squallore, in un paesaggio urbano desolato e oscuro, «in uno dei più bui/cantoni d’un bar[90],/ al porto»[91]: in uno spazio labile e opaco, che assume quasi i connotati di un non luogo[92], l’oggetto della visione è così fuggevole che il soggetto dubita dell’attendibilità delle proprie capacità percettive. La visione, dai tratti quasi onirici e allucinatori, confonde il soggetto sino a scinderlo, a dissociarlo: «Ma ero io, era lui?». Quello del soggetto è un «sé alienato»[93], come direbbe Feuerbach, scisso, il quale metaforicamente si riflette in una fuggevole e opaca alterità che qui appare come riverbero epifanico del sé, come suo riflesso labile e guizzante.

In una radicale oscillazione, l’io confonde la propria identità con quella dell’oggetto in cui si imbatte: è un io esitante e incerto, mosso da una radicale irresolutezza circa la propria identità. Riflettendosi nell’oggetto della propria ricerca, giunge a confondersi e, infine, a sbiadire in esso. L’oscillazione in cui fluttua è spia di questa radicale scissione. Viene rincorso colui che appare come un simulacro, una labile parvenza, in una ricerca che assume i caratteri di un vero e proprio pedinamento:

C’era un fumo. Una folla.
A stento, potei scorgerne il volto
fisso sulla sua birra svogliata.
Teneva la mano posata
sul tavolo, e piano
piano batteva le dita
sul marmo – quelle sue dita
più lunghe, pareva, e più magre
di tutta la sua intera vita.

(G. Caproni, Andantino, vv. 7-15)

Avvolta in una fonda e nebulosa opacità l’agnizione si compie a fatica: «A stento/ potei scorgerne il volto»; l’inseguito, che a poco a poco assumerà la fisionomia limpida del Cristo, è colto in una luce di tenue immobilità, dinanzi a un boccale di birra, mentre tamburella con le dita «lunghe» e «magre» sul marmo:

Provai a chiamarlo. Alzai
anche un braccio.
Ma il chiasso.
La radio così alta.
Cercai,
a urtoni, d’aprirmi un passo
tra la calca, ma lui
(od ero io?) lui
già s’era alzato: sparito,
senza che io lo avessi incrociato.

(G. Caproni, Andantino, vv. 16-25)

Il tentativo di adescare l’inseguito fallisce. In un contesto saturo di interferenze («il chiasso»; la «radio così alta»), che sovrastando la voce del soggetto compromettono irrimediabilmente l’esito del pedinamento, dilegua e sbiadisce anche la fioca istanza perlocutoria dell’appello: «Provai a chiamarlo. Alzai/ anche un braccio». L’inseguito si dilegua prima che il soggetto possa raggiungerlo, dissolvendosi tra la calca.

Qui abbiamo un ultimo lampo di quella che pare delinearsi come una lucidità di tipo schizoide: «ma lui/ (od ero io?)». Il soggetto, cioè, mette in discussione l’oggetto di quel riconoscimento e, nel contempo, vi si specchia: quel «lui» si configura proprio come ipostasi del soggetto, l’epifenomeno distorto e opaco della sua identità.

Quel «lui», invece, permarrà sigillato nei confini di un’alterità sfuggente e impenetrabile: un’alterità che, seppur braccata senza sosta dal soggetto, alla fine si dilegua, sgusciando in un’irriducibile lontananza, trincerandosi nella propria radicale inafferrabilità. Quel lui non diverrà, alla fine, un tu: non giungerà a incarnare, cioè, quella prossimità che rende possibile il dialogo, il confronto e la conoscenza reciproci. L’istanza dialogica che anima la quête dell’io si affievolisce e decade, nello spazio di un’infeconda lontananza. L’alterità resta confinata, direbbe Martin Buber, nel «regno dell’esso»[94], nell’ambito, cioè, di un’alienante e inattingibile distanza in cui non giunge a mostrare il proprio volto nella luce limpida di un contatto, nella pienezza compiuta di un incontro: essa permane al di qua del dialogo, non entra nella relazione.

Quello del soggetto resta, a sua volta, un io incompiuto, abbozzato, un io deposto, secondo l’espressione di Paul Ricoeur, un io che permane allo stato del [95], cui non è dato accedere alla prossimità di un contatto in cui si coagulino e si ricompongano i frammenti della sua identità lacunosa e infranta. E proprio quel mancato contatto, alla fine, genera o, meglio, esaspera la già fonda scissione che lo lacera, in un’oscillazione radicale in cui il soggetto, privato di ogni aggancio al «tu», fluttua permanendo in una condizione identitaria labile e schizomorfa.

Non a caso, al «posto» lasciato vuoto dall’inseguito, subitaneo subentra l’inseguitore:

Mi misi, muto, a sedere
al suo posto, e – vuoto –
guardai a lungo il bicchiere
sporco ancora di schiuma:
le bollicine che ad una
ad una (come nella mia mente
le idee) esplodevano
finendo – vuote – in niente.

Restai lì non so quanto.
Mi scosse la ragazza del banco,
e alzai il capo. Ordinai.

Poi, anch’io m’eclissai.

(G. Caproni, Andantino, vv. 26-37)

In questo caso la sostituzione e poi lo spodestamento sono compiuti. Sfoceranno in una reciproca degradazione: il soggetto, come inebetito in un fondo torpore, col capo chino sul boccale di birra contempla i segni del passaggio del divino, quelle bollicine che evaporano «finendo – vuote – in niente», labili tracce di un fugace transito che sfociano nel nulla. L’oggetto della visione viene inghiottito dal «niente», l’immagine svanisce scolorando nel nulla. È a questo punto che l’io lirico, destatosi al richiamo della cameriera, alza il capo. Nell’espressione è possibile cogliere, per antitesi, un riferimento speculare alla morte del Cristo secondo il racconto evangelico: come Cristo china il capo sulla croce, l’io lirico lo solleva. Ma tale gesto non si pone in contraddizione con quello del Cristo morente: non è, cioè, segno di orgogliosa e sprezzante superbia.

Si consideri, al riguardo, proprio il verbo posto alla fine del testo: «Poi, anch’io m’eclissai», in cui Caproni recupera una suggestiva metafora con cui Martin Buber[96] descriveva l’oscurarsi della cifra numinosa nel mondo, le derive del processo di secolarizzazione che nella modernità sfociano nell’ottenebramento del divino, comportandone la ritrazione dall’orizzonte dell’esistenza dell’uomo. In Caproni, però, tale immagine diviene il segno di un’eclissi che oscura non solo la divinità (le tracce del cui passaggio fluiscono in «niente»), ma anche la creatura[97]. In quella immagine si compendia un destino reciproco che riguarda sia il «tu eterno»[98] che l’«io» creaturale, giunto ora alla fine della propria quête: l’eclisse dell’alterità divina, alter ego e specchio del soggetto, coinciderà, allora, con il tramonto stesso dell’io lirico che alla fine alza il capo solo per eclissarsi, consegnato anch’esso al niente in cui scivola l’immagine del Cristo, incarnando, in tal modo, quel medesimo destino di fuga, sparizione e abbandono che coinvolge l’alterità.

  1. P. Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino, Einaudi, 1993, p. 16.
  2. G. Boine, A tagliare gli ormeggi, da Id., Frantumi (la citazione è tratta da G. Boine, Il peccato, Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di Davide Puccini, Milano, Garzanti, 1983).
  3. Sul concetto di “io” o “soggetto lirico” e sulla logica specifica che ad esso presiede nell’economia del testo poetico rimandiamo a G. Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario, Milano, Vita e Pensiero, 2002, in particolare alle pagine 181-88.
  4. Paradigma centrale nel pensiero contemporaneo, da Lévinas a Jabès, a Picard a Merleau-Ponty, attorno a cui si incardina una vera e propria filosofia del volto, la metafora assurge a limpido emblema di un’etica della relazione e del dialogo, ad archetipo ontologico che compendia il concetto stesso di alterità: D. Le Breton, Antropologia del volto: frammenti, in Il volto nel pensiero contemporaneo, a cura di Daniele Vinci, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2010, pp. 67-83; G. Sansonetti, Il volto tra immagine e traccia: Max Picard ed Emmanuel Lévinas, in Come all’inizio del mondo: il pensiero di Max Picard, a cura di Silvano Zucal, Daniele Vinci, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2011, pp. 69-78; E. Lévinas, Max Picard e il volto, in Id., Nomi propri, Roma, Castelvecchi, 2014, pp. 131-35.
  5. Sulla nozione di attesa come cifra costitutiva dell’itinerario lirico novecentesco, rinviamo alle riflessioni di Carlo Bo secondo il quale tale categoria si profila come termine e orizzonte cui la poesia incessantemente dovrà tendere nella sua inesausta ricerca di senso: «La caccia alla verità deve mantenere uno stato di calma, svolgersi in una sospensione di reazioni fisiche, in un golfo di attesa metafisica» (C. Bo, Letteratura come vita, in Letteratura come vita, antologia critica a cura di Sergio Pautasso, Milano, Rizzoli, 1994, p. 12). Come osserva Giuseppe Langella: «Per questa via, Bo giungerà a fissare la nozione di “attesa” come caratteristica peculiare del poeta aperto all’eventualità di ricevere una rivelazione ontologica» (G. Langella, Poesia e mistica. Per una pedagogia dell’“assenza”, in Id., Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici, Roma, Edizioni Studium, 1997, p. 86). L’attesa diviene, in tal prospettiva, limpido «principio poetico» (ivi, p. 88) che regge e sostanzia il senso stesso della quête lirica novecentesca.
  6. «Lì dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti. Dove invece si ha costantemente di mira anche l’orizzonte prospettico, il reale si manifesta come ciò che esso è in concreto: come intreccio di processi dialettici, che si svolgono in un mondo incompiuto, in un mondo che non sarebbe assolutamente mutabile senza il gigantesco futuro della possibilità reale in esso» (E. Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005, p. 262 [corsivi nostri]).
  7. Nell’ambito di un regime dialogico distorto, in cui vige una radicale asimmetria relazionale, determinata proprio dalla natura di un contesto ostile, i topoi in questione assumono, nell’economia del nostro discorso, una funzione analoga, nella misura in cui risultano delimitati da quel che Antonio Prete definisce «linea della lontananza» e cioè proprio l’«orizzonte» inteso come «lontananza che […] si fa presenza, restando lontananza». Il deserto e il mare rappresentano, dunque, lo spazio che custodisce e preserva tale distanza, il luogo esatto da cui contemplare quel confine in cui s’incarna «la presenza dell’altrove, la mess’in scena della sua possibilità, e allo stesso tempo della sua esclusione». In tal prospettiva «l’orizzonte» si profila come «l’oltre di noi stessi» il quale «sta dinanzi a noi, come un futuro immobile, che non ha possibilità di farsi presente» (A. Prete, Trattato della lontananza, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 40).
  8. Il silenzio è inteso qui proprio come luogo d’insorgenza dell’Altro, condizione feconda che ne rende possibile l’avvento, spazio che accoglie e in cui vibra la domanda dell’io, la sua invocazione. Il silenzio è, in questi termini, lacuna ontologica che l’uomo deve attraversare e far risuonare, affinché, come scrive Picard, da esso venga «generata una presenza» (M. Picard, Il mondo del silenzio, a cura di Jean-Luc Egger, Sotto il Monte (BG), Servitium, 2007, p. 191).
  9. Ed è questo destino di erranza e di sradicamento, è questa condizione di attesa e di gettatezza che la poesia novecentesca saprà riflettere e compiutamente raccontare. Essa diverrà la lucida cronaca di questo viaggio e del suo conseguente naufragio, il diario di bordo di un percorso in cui ogni rotta pare smarrita, ogni stella oscurata. In tale prospettiva, la cifra religiosa che anima la poesia muta radicalmente di segno: non sembra, cioè, poter essere più ricondotta ad un ambito prettamente confessionale, prescindendo, in tal senso, da un credo specifico, da una fede storicamente, e istituzionalmente, determinata. La ricerca di Dio ora è intrapresa da un io che sembra porsi al di là di ogni certezza, di ogni dogmatica fede. Nella lirica novecentesca, come ha giustamente osservato Giuseppe Langella, «a differenza di quanto era accaduto nella lunga tradizione che va da Dante al Manzoni innografo, il mistero, il dogma, gli articoli del credo, i sacramenti, la mediazione istituzionale, il culto e le pratiche devote […] vi hanno una parte assolutamente marginale, resistono a patto di essere fortemente personalizzate» (Il nomade e il cielo. Un secolo di poesia religiosa, a cura di G. Langella, in «Poesia», 186, 2004, p. 47). Cfr. anche G. Langella, Il nomade e il cielo: moti, ansie e domande della poesia novecentesca, in La ricerca del fondamento. Letteratura e religione nella società secolarizzata, Atti del Convegno Nazionale, Università Cattolica di Brescia (8-9 novembre 2010), a cura di Giuseppe Langella, Borgomanero (NO), Giuliano Ladolfi Editore, 2012, pp. 163-77. Osservazione, questa, che sembra richiamarsi a un’incisiva, quanto radicale, asserzione di Mario Luzi secondo cui «la religiosità della poesia non ha che rare coincidenze con la vita inerente a una religione codificata, o ritualizzata» (M. Luzi, Esperienza poetica ed esperienza religiosa, in Enciclopedia delle religioni, vol. IV, Firenze, Vallecchi, 1972, coll. 1675-1676). La meditazione luziana sulla poesia tende, in questi termini, a svincolarne la valenza religiosa da un orizzonte istituzionale e dogmatico, legandone, invece, il senso e le ragioni profonde all’interiorità del soggetto considerato nella sua nudità di fronte al mistero della Trascendenza. In questa prospettiva, la religiosità autentica espressa dal testo prescinderebbe da ogni contesto ad esso estrinseco, configurandosi, invece, come elemento essenziale, necessario e vitale, che presiede e sostanzia le sue stesse dinamiche. Su tali problematiche si veda l’ormai classico saggio di H. Küng e W. Jens Poesia e religione (Genova, Marietti, 1989), nel quale, in una prospettiva più ampia e con ricchezza di argomentazioni, vengono indagate la relazione poesia/sacro, le modalità attraverso le quali tale nesso si configura nella letteratura della modernità. Fecondi spunti offre anche l’intervento di G. Rogante, Dallo “sperso esistere” alla “terra promessa”. La poesia del Novecento davanti all’“ultimo orizzonte”, in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, saggi critici e antologia di testi, a cura di Giuseppe Langella ed Enrico Elli, Novara, Interlinea, 2011, IV ed.; cfr. anche i saggi raccolti nel volume, a cura di G. Ladolfi e M. Merlin, Il sacro nella poesia contemporanea (con un testo introduttivo di Mario Luzi, Novara, Interlinea, 2000). Cfr. anche Le parole del sacro. L’esperienza religiosa nella letteratura italiana, Atti del convegno internazionale. San Salvatore Monferrato, 8-9 maggio 2003, a cura di G. Ioli, Novara, Interlinea, 2005. Si rimanda inoltre agli interventi pubblicati nei tre volumi a cura di F. D. Tosto: La letteratura e il sacro, vol. I, Storia, fonti, metodi (secc. XIX-XX), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009; La letteratura e il sacro, vol. II, L’universo poetico (Ottocento e prima parte del Novecento), prefazione di Piero Gibellini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011; La letteratura e il sacro, vol. III, L’universo poetico (dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni), prefazione di Giuseppe Langella, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, nonché all’imponente e ricchissimo apparato bibliografico in essi raccolto. Cfr. inoltre M. Beck, Poesia e ricerca di senso, in La ricerca del fondamento. Letteratura e religione nella società secolarizzata, op. cit., pp. 109-27. Sulla validità “euristica” dell’aggettivo “religioso” applicato alla poesia e, in generale, alla letteratura, si vedano le considerazioni di F. D. Tosto, Percorsi storiografici e prospettive metodologiche, in La letteratura e il sacro, vol. II cit., pp. 53-56 e Id., Dibattito critico intorno alla poesia religiosa, in La letteratura e il sacro, vol. I cit., pp. 67 e sgg.
  10. E. M. Cioran, Un apolide metafisico, Milano, Adelphi, 2004.
  11. Come osserva Hildebrand, «il radicamento in una patria è fondato nella situazione metafisica dell’uomo. La necessità di “sentirsi al sicuro” (Geborgensein) si fonda da un lato nella creaturalità, dall’altro nella natura personale dell’uomo» (citazione riportata in P. Premoli De Marchi, Uomo e relazione. L’antropologia filosofica di Dietrich von Hildebrand, Milano, FrancoAngeli, 1998, p. 232).
  12. M. Guidacci, Un cammino incerto, Luxembourg, Origine, 1970.
  13. Il locus del deserto, uno dei topoi più vitali nell’ambito della tradizione iconografica occidentale, s’impone nell’immaginario simbolico come vero e proprio archetipo, assurgendo a emblema universale dell’esistenza. Nella nostra tradizione lirica, da Leopardi (La ginestra o il fiore del deserto) a Sbarbaro (Taci, anima stanca di godere) sino a Mario Luzi (Primizie del deserto), e un discorso a parte meriterebbe, invece, la presenza del locus nell’opera ungarettiana, in cui simboleggia lo spazio dell’erranza, il luogo della scoperta e del mistero, ma anche della sensualità e dello stupore che coglie l’io lirico dinanzi ai suoi sterminati spazi; da Zanzotto a Betocchi a Turoldo, la metafora si profila come limpido riflesso di un paesaggio interiore colto nella sua aridità, nella sua inerzia scabrosa e brulla. Nel testo di Margherita Guidacci viene recuperata la metafora biblica in riferimento all’esodo del popolo ebraico, sebbene l’immagine divenga emblema dell’esistenza stessa, connotando il percorso impervio e accidentato della creatura alla ricerca di Dio. Sui topoi del deserto e dell’esilio in relazione al cammino intentato dall’io lirico novecentesco sulle tracce di Dio, si rinvia alle acute indagini di G. Rogante, La frontiera della parola. Poesia e ricerca di senso: da Pascoli a Zanzotto, Roma, Edizioni Studium, 2003, pp. 5 e sgg., 117 e sgg.; Ead., Perdite e ritrovamenti. Il desiderio di Dio nella poesia del Novecento, in L’acqua di Rebecca. Ricerca di Dio e deserto dell’uomo nella letteratura del ’900, a cura di G. Festa, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2007, pp. 31-36.
  14. M. Guidacci, Meditazioni e sentenze XVI, v. 6, da La sabbia e l’angelo.
  15. E. Jabès, Du Désert au Livre, Entretiens avec Marcel Cohen, Paris, Belfond, 1991, p. 101.
  16. Secondo Massimo Cacciari il deserto si configura come «il luogo-non-luogo del migrante, dello straniero, in quanto straniero ai suoi stessi occhi, colui che migra da se stesso. Bisogna avvertire bene la pregnanza del termine. Il suo etimo indica insieme il luogo maledetto, il luogo dell’abbandono e della devastazione, che suscita orrore, e il luogo dove nulla più separa dal “proprio” inafferrabile, dove massima è la prossimità all’estrema Lontananza. Nel linguaggio dell’Antico Testamento, risuona prepotente il proprio timbro: i termini che indicano il deserto attengono soprattutto alla radice šmm, esser-deserto, esser-reciso da ogni forma di vita. Šemānā significa devastazione (Esodo 23, 29); è il contenuto della minaccia dei profeti (Isaia 7,11). Jesīmōn è il luogo dell’estrema miseria, dove Israele si è ribellato a Dio (Salmi 78,40), luogo che suscita terrore (šimmāmōn). A esso si contrappone la speranza messianica, l’eterno Futuro del Regno, quando il deserto sarà irrigato» (M. Cacciari, A Edmond Jabès, in Il coraggio della filosofia, aut-aut, 1951-2011, a cura di Pier Aldo Rovatti, Milano, il Saggiatore, 2011, p. 337). Sulla metafora del deserto si vedano anche le riflessioni di J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in La religione. Annuario filosofico europeo, a cura di Jacques Derrida e Gianni Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 18 e sgg.
  17. In tal senso il deserto è lo spazio in cui la creatura viene espropriata anche a se stessa, il luogo in cui si svela l’identità dell’uomo proprio in quanto sradicato e disperso nella propria solitudine e gettatezza. Il deserto rappresenta l’«immagine del proprio nudo, abbandonato Sé, solo di fronte al proprio Dio» (M. Cacciari, A Edmond Jabès, op. cit., pp. 336-37 [corsivi nel testo]). Ma la deposizione del sé è il preludio di una ricerca che nella desolazione assoluta in cui sfocia giunge a percepire quel desertico silenzio come eco gravida di senso. Secondo Jabès il deserto «è uno spazio dove un passo dà vita ad un altro che lo cancella, e l’orizzonte significa speranza per un domani che parla. Non si va nel deserto per cercare un’identità, ma per perderla, per perdere la propria personalità, per diventare anonimi […]. E allora qualcosa di straordinario accade: si sente il silenzio parlare» (E. Jabès, Il libro delle interrogazioni, Genova, Marietti, 1985).
  18. Novalis, Inni alla notte. Canti spirituali, introduzione di Ferruccio Masini, traduzione in versi di Giovanna Bemporad, Milano, Garzanti, 2011.
  19. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Milano, Cortina, 1994, p. 210.
  20. Nella fuga, vv. 16-17, da Fuga e metamorfosi.
  21. M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, in La poesia di Hölderlin, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, edizione italiana a cura di Leonardo Amoroso, Milano, Adelphi, 1988, pp. 48-49.
  22. E. Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, Milano, SE, 2005, p. 13.
  23. S. Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di Gilberto Finzi, prefazione di Carlo Bo, Milano, Mondadori, 1983, VI ed.
  24. C. Bo, Condizione di Quasimodo, in Letteratura come vita cit., pp. 541-54.
  25. E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, a cura di Alberto Folin, con uno scritto di Pier Aldo Rovatti, Milano, SE, 2001, p. 19 [corsivi nostri].
  26. Nell’opera degli autori da noi presi in considerazione (da Turoldo a Bigongiari a Bartolo Cattafi) il motivo del naufragio assurge a compiuto paradigma esistenziale, profilandosi come evento consustanziale all’esistenza stessa, come evento che perennemente accade. Contrariamente alle forme che esso assume nella grande tradizione lirica della modernità (da Leopardi a Ungaretti), qui il naufragio non è evento colto in diacronia, la prova che l’io lirico affronta e si lascia alle spalle, ponendosi invece come accadimento sincronico e consustanziale alla stessa esistenza.
  27. D. M. Turoldo, O sensi miei…, Milano, BUR, 2010, IV ed.
  28. M. Zambrano, L’uomo e il divino, Roma, Edizioni Lavoro, 2009, II ed., p. 120.
  29. «Per il solitario l’amico è sempre il terzo: il terzo è il sughero che impedisce al colloquio dei due di sprofondare nell’abisso» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1976, illustr. di G. Colli, p. 61). La metafora ritorna nello Zarathustra in riferimento all’oltreuomo: «Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo» (ivi, pp. 6-7).
  30. Il disorientamento che coglie l’io è descritto efficacemente nei seguenti versi di Giorgio Caproni: «M’ero sperso. Annaspavo./ Cercavo uno sfogo./ Chiesi a uno. “Non sono”,/ mi rispose, “del luogo”» (G. Caproni, Bisogno di guida, da Id., Il muro della terra).
  31. In tal caso vi sarebbe un indebolirsi del , dell’identità del soggetto che proprio nell’inabissarsi in Dio smarrirebbe i propri limpidi confini identitari. Come osserva Cioran, «Dio è un mare a cui ci abbandoniamo per dimenticare noi stessi. L’immersione nell’abisso divino ci salva dalla tentazione di essere ciò che si è […] l’unico scopo è l’oblio, l’irrimediabile oblio» (E. M. Cioran, Lacrime e santi, a cura di Sanda Stolojan, Milano, Adelphi, 1990, p. 47). Nella poesia di Turoldo questa discesa nel baratro divino coinciderà proprio con la dissoluzione dell’io, con la sua sparizione: «E inabissarmi / nel mare che non ha sponde// e più non esistere…» (D. M. Turoldo, Siamo il tuo divertimento, da Id., Canti ultimi). In questo caso Dio rappresenta il luogo in cui l’io sprofonda, e non il termine che si inabissa con lui. Qui il soggetto desidera perdersi in Dio, sino a dimenticare se stesso. Come nei seguenti versi di Margherita Guidacci: «Tu rifugio, tu mio rifugio, turbine!/ Essere in te! Sentirti in me! non “fuori/ d’ogni cosa”, ma avendole/ tutte attraversate, serbando/ di tutte in me l’orma, che reco/ nel tuo insondabile gorgo» (M. Guidacci, Athikté, vv. 1-6, da Ead., Inno alla gioia [corsivi nostri]). L’anelito a Dio è desiderio di sprofondare in Lui, di inabissarsi nel suo gorgo, in un radicale oblio del sé che contrassegna, come si è visto, la relazione mistica. Dio è «insondabile gorgo» nel quale la creatura desidera discendere. Alla sua risalita dall’abisso divino, nell’esaurirsi della tensione estatica, il soggetto ricompare quasi privato del suo io, come materia spoglia e inebetita. L’abbandono mistico, sfocia, infatti, nello svuotamento radicale della creatura, ora simile a un guscio svuotato, ad un’espulsa scorza, ad un inerte e disabitato involucro: «Raccogliete la forma abbandonata / che fu abitata da un Dio» (vv. 26-27). L’abolizione del soggetto nell’Alterità, il suo radicale indebolimento in essa, compromettono, pertanto, ogni approccio autenticamente dialogico: «Tutto il fraseggio infuocato di coloro che hanno il privilegio dell’unione trasformante non può rivelarci quel che veramente essi vedono; solo comprendiamo che cessa in loro il pensiero del proprio io [corsivi nostri], il riferimento della stessa loro vita soprannaturale alla propria personalità, il che è espresso con le parole di annichilimento, annientamento; è l’inabissarsi in Dio» (L. Sturzo, La vera vita. Sociologia del soprannaturale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 107 [corsivi nel testo]). L’inabissamento, in tale prospettiva, incide sulla struttura stessa della relazione, scompigliandola, poiché ne intacca l’autentica cifra dialogica: «Le concezioni dell’inabissamento, dell’annientamento, dell’identificazione dell’anima con Dio, contraddicono la realtà della relazione. La specifica dualità della relazione è annullata nel momento dell’unificazione totale con Dio» (W. H. Adamczewski, Il significato del dialogo nell’incontro interumano alla luce della filosofia di Lévinas, Roma, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 2007, pp. 268 e sgg.).
  32. L’inabissamento che qui sconta l’io nella propria relazione accidentata con l’alterità divina non comporta la disgregazione della sua identità: vi sarà, piuttosto, come vedremo nel corso del nostro lavoro, una scissione dell’io, il suo alienarsi nell’oggetto relazionale di cui va in cerca, verso il quale esso tende. O, al limite, il soggetto si rifletterà nell’altro termine del rapporto, sino a coincidere con esso, e in esso, infine, annullarsi, in un reciproco annichilimento. Tali dinamiche relazionali differiscono, però, dal processo di sparizione del soggetto in Dio che si innesca nell’ambito dell’incontro mistico, durante il quale, d’altronde, la nozione di Dio si impone in tutta la sua pienezza ontologica, nella sua fulgida solidità. Il soggetto mistico, detto altrimenti, non dubita della realtà divina, recependola nella sua corposa, limpida sostanzialità, in uno sprofondamento, come si diceva, che assume i caratteri estatici di un felice e fiducioso abbandono. L’inabissarsi dell’io lirico, al contrario, è dolente catabasi in un luogo opaco e ostile. Nella sua discesa con Dio, l’io lirico giunge ad assumere quasi una fisionomia schizomorfa, sconta, cioè, una dolente lacerazione egotica. Egli percepisce, in un’intermittenza allucinatoria, l’incostante presenza del numinoso che giunge, in tal modo, a minacciare la sua stabilità identitaria, non abolendola, quanto, piuttosto, distorcendo radicalmente le sue capacità percettive: l’oggetto teofanico, in tal senso, verrà recepito nel segno di un sostanziale bifrontismo: verrà cioè colto o nella consistenza di una, seppur distorta e opaca, oggettività o come un mero prolungamento dell’io, come riverbero o fulgido riflesso del sé.
  33. Osserva acutamente Enzo Bianchi: «La ricerca del divino che attraversa la letteratura italiana in questo secolo, allora, è un quaerere Deum che ha mutato prospettiva, in cui lo sguardo non è più teso a un irraggiungibile cielo, bensì a quell’abisso che si è toccato e di cui si è forse raschiato il fondo. È in tale abisso che la santità di Dio ha preso dimora, anche nella testimonianza della poesia» (E. Bianchi, Introduzione a Poesie di Dio, a cura di E. Bianchi, Torino, Einaudi, 1999, p. XIV). È chiaro che tale inabissamento, riprendendo la metafora di María Zambrano, non avviene ex abrupto, ma risulta, per così dire, già avviato e predisposto da esperienze poetiche anteriori: si pensi, ad esempio alla linea “romantica” che da Moritz conduce a Jean Paul sino a Hebbel e a Hölderlin per poi approdare al Leopardi e al Baudelaire, oppure alla religiosità tragica e sofferta di matrice dostoevskjana che percorre tutta una tradizione di pensiero “negativa” che dall’Ottocento giunge sino a noi. Nel ’900 poetico, semmai, si tocca il fondo di questa relazione abissale, ove appare sancito o, meglio, compiutamente suggellato l’interiorizzarsi definitivo, totale, irriducibile del rapporto creatura/divinità, consumatosi, oramai, in una serratissima quanto insolubile dialettica.
  34. In tale prospettiva il «grande mare» di Turoldo somiglia a quel kantiano «tempestoso oceano» che circonda il «territorio della verità» (I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Torino, Utet, 1986, p. 230).
  35. In Piero Bigongiari, ad esempio, il mare è l’elemento che custodisce l’immagine divina: «Ma sappi che lassù/ dove l’eco non nasce, dove tu/ non puoi arrivare, cresce a poco a poco/ il peso sconosciuto, il peso instabile/ d’un mare ch’è tutt’occhi e tutto bocca,/ e tutto fiele forse, se le chele/ del Dio improvviso stringono…» (P. Bigongiari, Inno sedicesimo, vv. 42-48, da Id., Nel delta del poema). L’elemento equoreo assurge a metafora di Dio; esso, però, rappresenta anche la sostanza che lo contiene: il granchio, limpida epifania del divino, è figura che con le sue chele stringe l’uomo, che lo pungola. Nella poesia di Mario Luzi ritorna, invece, l’immagine del pesce come codificato simbolo cristico: cfr. G. Mazzanti, Dalla metamorfosi alla trasmutazione. Destino umano e fede cristiana nell’ultima poesia di Mario Luzi, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 92-93.
  36. E qui Turoldo recupera, capovolgendola, un’immagine rilkiana: «Tutti cadiamo. Cade questa mano,/ e così ogni altra mano che tu vedi.// Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno/ con dolcezza infinita le tiene nella mano» (R. M. Rilke, Autunno, vv. 6-9, da Id., Il libro delle immagini).
  37. È questa la caduta nella creazione di Dio, il quale precipita in essa con la propria creatura. Lo stesso creato, in tal senso, si interpone come opaco diaframma tra l’uomo e il divino. Esso non è lo spazio attraverso cui si manifesta il numinoso, ma schermo che separa creatura e creatore. La creazione sigilla la creatura lontano da Dio. Ed è proprio nella creazione che s’oscura la creaturalità dell’uomo, sbiadisce cioè il sigillo divino che rendeva l’uomo somigliante al suo creatore. Su tali aspetti cfr. D. Bonhoeffer, Creazione e caduta. Interpretazione teologica di Genesi 1-3, Brescia, Queriniana, 1992.
  38. Si veda al riguardo E. Jüngel, Dio, mistero del mondo, Brescia, Queriniana, 1982.
  39. L. Pareyson, Un “discorso temerario”: il male in Dio, in Id., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 1995, pp. 235-92.
  40. Cfr. B. Mondin, L’uomo secondo il disegno di Dio. Trattato di antropologia teologica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1992, pp. 35 e sgg.
  41. P. Celan, Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998.
  42. È Umberto Saba che ha saputo descrivere, in un realismo scarno e sublime, quella dolente prossimità che avvicina Dio e la creatura proprio nei luoghi tumultuosi e spogli dell’esistenza in cui è possibile cogliere «l’infinito/ nell’umiltà». È in questo realismo figurale, per riprendere una celebre formula di Auerbach, che viene colta un’umanità dolente e umile da cui promana, tuttavia, una limpida santità. Si ricordino i versi celeberrimi di Città vecchia: «Qui tra la gente che viene che va/ dall’osteria alla casa o al lupanare,/ dove son merci ed uomini il detrito/ di un gran porto di mare,/ io ritrovo, passando, l’infinito/ nell’umiltà./ Qui prostituta e marinaio, il vecchio/ che bestemmia, la femmina che bega,/ il dragone che siede alla bottega/ del friggitore,/ la tumultuante giovane impazzita/ d’amore,/ son tutte creature della vita/ e del dolore;/ s’agita in esse, come in me, il Signore.// Qui degli umili sento in compagnia/ il mio pensiero farsi/ più puro dove più turpe è la via» (U. Saba, Città vecchia, vv. 5-19, da Id., Trieste e una donna). Sulla religiosità della poesia di Saba rinviamo allo studio di A. Cinquegrani, Il sacro profano di Umberto Saba, in La Bibbia nella letteratura italiana, Opera diretta da Pietro Gibellini, II, L’età contemporanea, a cura di Pietro Gibellini e Nicola Di Nino, Brescia, Morcelliana, 2009, pp. 143-67.
  43. G. Vigolo, Poesie scelte (1923-1966), a cura di Marco Ariani, Milano, Mondadori, 1976.
  44. Dalla “teologia della morte di Dio” che trova in Thomas Altizer, William Hamilton e Gabriel Vahanian i propri più importanti teorici, alla riflessione teologica di Dietrich Bonhoeffer, Abram Joshua Heschel, Hans Jonas e Jürgen Moltmann sino a Sergio Quinzio e a Massimo Cacciari, mutano radicalmente i paradigmi ontologici tramite cui pensare la divinità: categorie come impotenza e debolezza divengono la cifra peculiare che contrassegna l’immagine di Dio nel Novecento.
  45. D. M. Turoldo, Ancora a Moneglia, vv. 12-14, da Id., Canti ultimi.
  46. P. Bigongiari, Ambiguità del testimone, vv. 31-33: la citazione è tratta dalla raccolta postuma Il silenzio del poema: poesie 1996-1997, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, postfazione di Daniele Piccini, Genova, Marietti 1820, 2003. Una scelta antologica degli inediti era già apparsa a cura di Daniele Piccini in «Poesia», 173, 2003, pp. 5-11.
  47. P. Bigongiari, Se sei qui, vv. 32-34, da Id., Il silenzio del poema. Similmente, nella poesia di Margherita Guidacci, il mare è l’eco indecifrabile in cui risuona e a cui risponde la voce dell’uomo: «Il tuo linguaggio è indecifrabile/ Per noi, sia che ti udiamo/ Parlarlo senza posa/ O ti vediamo con dita abbaglianti/ Scriverlo sulla rena./ Ed anche la risposta è indecifrabile/ Che ti rendiamo. Qual parte di noi/ Era conchiglia od alga, uno sfuggente/ E lucente riverbero, e conobbe/ Te meglio dell’umano mondo e ora/ Si lascia trasportare nelle anse/ Della tua voce, o riposa contenta/ In mezzo ai tuoi geroglifici? (M. Guidacci, Pensieri in riva al mare VI, da Ead., La sabbia e l’angelo).
  48. Si veda ancora Turoldo: «Tu/ infinito/ che mi avvolgi/ e io sempre/ a una infinita/ distanza.// Tu che incombi/ fino a schiacciarmi/ e io che non posso/ raggiungerti/ mai» (Così, da sempre, da Id., Il grande male).
  49. B. Mondin¸ La teologia esistenziale di Kierkegaard, in Storia della Teologia, vol. IV, Epoca contemporanea, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1997; Id., Kierkegaard e la metafisica dell’esistenza, in Storia della Metafisica, vol. III, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1998, pp. 475 e sgg.; V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Roma, Città Nuova, 2002, pp. 161 e sgg.; M. Crociata, L’uomo al cospetto di Dio: la condizione creaturale nelle religioni monoteiste, Roma, Città Nuova, 2004, pp. 322 e sgg.
  50. Saremmo, in tal caso, nell’ambito di una teologia della crisi che trova in Karl Barth uno dei suoi più importanti teorici: K. Barth, L’epistola ai Romani, in Le origini della teologia dialettica, a cura di Jürgen Moltmann, Brescia, Queriniana, 1976.
  51. R. Serpa, La religione, il sacro, il santo, in «Sapienza», 55, 2002, p. 266.
  52. Alludiamo a P. Nemo, Giobbe e l’eccesso del male, Roma, Città Nuova, 2009.
  53. È questo il senso del termine «eccesso» riferito a «male» nella logica del pensiero di Nemo: «parlando di un male in eccesso, non vogliamo intendere un male estremo. Non è un termine semplicemente intensivo o superlativo […]. Il termine designa una relazione: è in eccesso il male che oltrepassa ciò di cui la tecnica viene a capo, foss’anche, in sé, benigno, addirittura quasi impercettibile, soltanto pensabile» (ivi, p. 75, nota 1). Il termine, pertanto, non indica ciò che eccede in intensità, bensì quel che sfugge a ogni sintesi, ciò che non si può sussumere, elaborare o integrare in sistema, ciò che in definitiva sfugge a ogni logica analitica.
  54. S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Milano, Adelphi, 1992, p. 39.
  55. Così Ungaretti: «Da ciò che dura a ciò che passa,/ Signore […]/ Fa’ che torni a correre un patto» (G. Ungaretti, La preghiera, vv. 10-12, da Id., Sentimento del Tempo). E Luzi: «Si sgretola la malcresciuta torre,/ vistosamente si disaggrega il patto» (M. Luzi, Si sgretola la malcresciuta torre, vv. 1-2, da Id., Frasi e incisi di un canto salutare).
  56. «Una volta che il Messia abbia fallito nel suo tentativo di redimere il mondo esteriore, come definire altrimenti la redenzione se non come un rivolgimento interiore?» (J. Taubes, Il prezzo del messianesimo. Lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 38). È proprio il fallimento di ogni teleologia messianica nel mondo secolare a implicare quel «rivolgimento interiore» di cui parla Taubes. Sottratta a ogni orizzonte storico, l’istanza messianica diviene, così, tensione escatologica che sfocia e si pone al di là della Storia o, meglio, come evento posto al di là del tempo, che prima di avvenire nel tempo, accade nell’uomo. E tale introflessione rappresenta proprio il punto di rottura e di «crisi all’interno dell’escatologia ebraica» (ibidem), ponendosi, nel contempo, come il discrimine tra messianismo ebraico e ottica escatologica di matrice cristiana. Su tali aspetti cfr. G. Scholem, L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, Milano, Adelphi, 2008.
  57. C. Betocchi, Tutte le poesie, introduzione di Luigi Baldacci, nota ai testi di Luigina Stefani, Milano, Mondadori, 1984.
  58. Sui differenti significati della formula si veda G. Magnani, Religione e religioni. Il monoteismo, Roma, E.P.U.G., 2001, pp. 349 e sgg.
  59. Sulla storia dell’esegesi della frase biblica si rinvia a H. U. von Balthasar, Fede e pensiero. Dialogo solitario. Martin Buber e il Cristianesimo, vol. XVIII, tomo i, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 66 e sgg.
  60. M. Cacciari, Icone della Legge, Milano, Adelphi, 2002, II ed., p. 61.
  61. F. Kafka, Quaderni in ottavo, a cura di Italo Alighiero Chiusano, Milano, SE, 1991, p. 49.
  62. Sul regime dialogico di un discorso lirico che si rivolge a un destinatario assente si veda S. Colangelo, Il soggetto nella poesia del Novecento italiano, Milano, Mondadori, 2009. Cfr. anche le osservazioni di R. Guardini, Annotazioni sul senso e la modalità dell’interpretazione, in Id., Linguaggio. Poesia. Interpretazione, Brescia, Morcelliana, 2000, III ed., pp. 153 e sgg.
  63. N. Gómez Dávila, Tra poche parole, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 2007, p. 53.
  64. Come osserva María Zambrano, «quanto più l’oggetto rimane fuori dal nostro orizzonte, più ampia e profonda diventa la nostra relazione con esso […] fino a cessare di essere una relazione nel senso stretto del termine» (M. Zambrano, L’uomo e il divino cit., p. 120).
  65. G. Boine, A tagliare gli ormeggi, da Id., Frantumi.
  66. In questi termini tale spazio si configura come «il luogo primario da cui trae origine ogni altro luogo, ma che nella sua assoluta originarietà non ha luogo, nel senso di non essere mai accadimento reale, pur essendo l’origine di ogni altro luogo. Il sacro è un luogo che non è tale, che ha luogo continuamente nel suo essere aurorale, prossimo e distante. […] Il sacro è l’originariamente salvo, l’intatto, la presenza primordiale, l’inaccessibile» (R. Carifi, I venturi dell’ultimo Dio, in La poesia e il sacro alla fine del Secondo Millennio, a cura di F. Degasperis e M. Merlin, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996, pp. 51, 52).
  67. D. M. Turoldo, È di sabbia la nostra carne, le mani, v. 14, da Id., Udii una voce.
  68. La nozione di quest’assenza che si configura come radice e sostanza stessa del divino è stata efficacemente messa in luce da Margherita Guidacci: «il volto del mio Dio/ o l’indicibile vuoto!» (Sipari, vv. 20-21, da Ead., Neurosuite). La sembianza con cui il divino si manifesta coincide con un’ineffabile vuoto che secondo David Maria Turoldo sfocia in un nulla desolato e oscuro: «Né volto/ né immagine/ né segno alcuno/ nulla: più che il vuoto/ un nulla» (E lui che incombe, vv. 11-15, da Id., Canti ultimi).
  69. G. Testori, Opere 1965-1977, introduzione di Giovanni Raboni, a cura di Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 1997.
  70. A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1987, p. 33.
  71. Nel silenzio di Dio, secondo Massimo Cacciari, si nasconde la cifra di un’origine immemoriale che nessuna parola giunge a incarnare: «il Dio non condannato alla parola, a dover rispondere. […] Il Dio nascosto è quello che custodisce puro il possibile, la lethe da cui proviene ogni memoria, il silenzio che è fonte di ogni parola […], che si affida ad un’attesa che nulla attende, nulla richiede» (M. Cacciari, Icone della Legge cit., p. 104).
  72. Sul concetto di illocuzione si rinvia alla teoria degli atti linguistici elaborata da John Langshaw Austin, Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987.
  73. D. M. Turoldo, A suonare i divini sensi, vv. 11-12, da Id., Gli occhi miei lo vedranno.
  74. P. P. Pasolini, L’usignolo della Chiesa Cattolica [1958], Milano, Garzanti, 2014.
  75. «Ma Tu non parli,/ non dici.// Sei il Dio sordo;/ il Dio muto» (G. Testori, Nel Tuo sangue I, vv. 1-4).
  76. In questa prospettiva, la rivolta dell’uomo, la sua protesta verso un Dio che non risponde, non è equiparabile al grido di Giobbe. Il personaggio biblico, difatti, riconosce il dominio della trascendenza; rispetta, in definitiva, le gerarchie. Egli, inoltre, ha dinanzi a sé un interlocutore. Dio risponde a Giobbe. L’io lirico novecentesco, invece, non otterrà risposta. Cfr. M. Ciampa, Domande a Giobbe. Modernità e dolore, Milano, Mondadori, 2005.
  77. L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 48.
  78. Ivi, p. 36.
  79. «La religione, almeno quella cristiana, è il rapporto dell’uomo con se stesso o, più esattamente, con la sua essenza (e questa soggettiva), ma tale rapporto con la sua essenza è come un’essenza diversa da lui. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio, l’essenza dell’uomo, purificata, liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui distinta, particolare – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono perciò determinazioni umane» (ivi, p. 38); in un altro passo che vale la pena citare Feuerbach afferma che l’uomo vede in Dio «la sua seconda metà perduta; in Dio si integra; in Dio soltanto è uomo completo. Dio è per lui un bisogno; gli manca qualcosa senza sapere che cosa gli manchi ˗ Dio è questo qualcosa che manca, Dio gli è indispensabile; Dio appartiene alla sua essenza» (ivi, p. 211 [corsivi nostri]).
  80. Ivi, p. 48.
  81. La creazione stessa, in questi termini, si rivela, secondo Turoldo, come proiezione e riflesso del divino, schermo in cui la divinità si specchia e prova a riconoscersi. L’opera della creazione riempie, in tal senso, il vuoto stesso in cui Dio soffoca e languisce, colma una lacuna della divinità: «Così non puoi, tu Dio, non creare:/ popolare gli spazi di astri,/ colmare gli abissi del Nulla.// E poi illuderti di fare di noi/ la tua riuscita immagine» (D. M. Turoldo, Così non puoi, tu Dio, non creare, da Id., Nel lucido buio, vv. 1-5).
  82. G. Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2008, V ed.
  83. «Prega, Signore,/ pregaci,/ siamo vicini» (P. Celan, Tenebrae, vv. 7-9, da Id., Grata di parole).
  84. Per cui si veda A. Barbuto, Giorgio Caproni. Il destino d’Enea, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1980, pp. 182 e sgg.
  85. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, I, 91, nota introduttiva di Giorgio Colli, versione di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1978, p. 67.
  86. Cfr. anche da Res amissa, Petit Noël: «S’avvicina il Natale./ Gesù, portami via./ La tua è la più bella bugia/ che possa allettare un mortale».
  87. La formula è ripresa da una raccolta di Turoldo, Udii una voce, in cui figura come titolo della sezione III.
  88. M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, 1999.
  89. Sulla metafora del rispecchiamento nella tarda poesia luziana e sul ruolo e le funzioni dell’io lirico nell’ambito del discorso si rinvia a Philippe Renard, Mario Luzi. Frammenti e totalità. Saggio su Per il battesimo dei nostri frammenti, Roma, Bulzoni, 1995, pp. 31-33 e 135-36.
  90. L’oscura desolazione che intride il paesaggio scelto da Caproni come sfondo della sua rappresentazione, «uno dei più bui/ cantoni d’un bar», non sembra contraddire il significato e la natura della manifestazione epifanica, ponendosi, invece, in sostanziale contiguità con essa. Non sussiste, cioè, un significativo scarto nella figurazione, tra le campiture in cui si delinea il profilo dell’oggetto epifanico e quelle dello scenario sul cui sfondo esso fa la propria comparsa. L’immagine dell’alterità appare imbevuta di quella stessa oscurità che impregna il paesaggio: quell’oscurità sembra, anzi, profilarsi come il segno che da essa si irradia, come sua emanazione. Così, gli squallidi cromatismi che impregnano lo sfondo di quel bar (metamorfosi postmoderna di un locus tipico dell’iconografia tradizionale, sia in ambito pittorico che letterario, quello dell’osteria) non sortiscono un effetto straniante, ponendosi, invece, in sostanziale coerenza con l’oggetto rappresentato. Caproni qui sembra rileggere l’iconografia figurativa rinascimentale in cui il Cristo irrompe in luoghi altrettanto oscuri e squallidi, covi bui, fatiscenti osterie. Si pensi, ad esempio, alla Vocazione di San Matteo del Caravaggio, dipinto in cui lo scenario sul quale il Cristo fa la propria comparsa è connotato dal medesimo, oscuro squallore. Nell’iconografia michelangiolesca, tuttavia, la caratterizzazione del luogo è funzionale, per contrasto, al potenziamento iconico dell’immagine cristica, colta in tal modo nella sua compiuta, fulgida pienezza, nella sua connotazione luminosa e salvifica. In Caproni, invece, proprio i torbidi cromatismi sullo sfondo del quale si compie la teofania sottolineano il radicale abbandono che contrassegna la divinità, la sua irriducibile solitudine. Non la gloria, dunque, ma la miseria e la povertà di una trascendenza impura e spoglia, che si manifesta nella penombra di uno spazio degradato e impuro: «uno dei più bui/ cantoni d’un bar». In Caproni il divino non vince quella oscurità, non sfolgora sullo sfondo oscuro del paesaggio, ma, per così dire, si confonde in esso e proprio da esso verrà, alla fine, inghiottito. È in quel buio che, infatti, nel finale del testo, Cristo scomparirà, eclissandosi.
  91. In tale contesto assai significativo risulta il ricorso al cronotopo del porto: «spazio metaforico per eccellenza», come osserva Francesco Benozzo, «il porto è associato fin dagli inizi della nostra letteratura, ai significati di “meta ultima, conclusione auspicata” (così in Dante) o di “rifugio” (così in Petrarca, nel celebre O cameretta che già fosti un porto)» (F. Benozzo, Porto, nell’opera collettiva Luoghi della letteratura italiana, a cura di G. M. Anselmi, Milano, Mondadori, 2003, p. 307). In tal modo il locus nell’economia del testo di Caproni perde la propria simbolica valenza salvifica, convertendosi in un luogo di smarrimento, di degrado esistenziale, di purgatoriale oscurità. E proprio nella poesia di Caproni esso è un luogo assai ricorrente, assumendo però tratti figurativi sostanzialmente inediti rispetto alla tradizione letteraria. Come osserva Benozzo, nella poesia caproniana il cronotopo del porto «si trasforma nel “piano” più basso di una precisa topologia perpendicolare, e non esiste se non all’interno di questa visione volumetrica e vertiginosa, di questa precisa stratigrafia urbana» (ivi, p. 314). Esso, cioè, si «verticalizza», quello spazio essendo colto ora dall’alto, nella propria perpendicolarità.
  92. Per la nozione di non luogo si rinvia a M. Augé, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 2005. In ambito antropologico la nozione è adoperata in riferimento «a quegli spazi prodotti dalla surmodernità che non possono definirsi identitari, relazionali e storici» (A. Iacomoni, Topografia dello spazio comune, Milano, FrancoAngeli, 2015, p. 52). È quello, cioè, uno spazio attraversato, ma non vissuto dall’uomo. Uno spazio la cui essenza consiste nel suo semplice valore d’uso: uno spazio geometrico, secondo la distinzione di Merlau-Ponty, che non diviene spazio esistenziale (M. Merlau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2014).
  93. L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo cit., p. 48.
  94. M. Buber, Io e tu, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, Milano, San Paolo, 1993, p. 60.
  95. «Dire non significa dire io. L’io si pone – o è deposto. Il è implicato come riflessivo in quelle operazioni la cui analisi precede il ritorno verso esso stesso» (P. Ricoeur, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1994, p. 94). Alla luce dell’etica intersoggettiva ricoeuriana, l’io lirico qui permane come un impigliato nelle reti di una relazione abortita.
  96. M. Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Milano, Edizioni di Comunità, 1961.
  97. Nella filosofia di Heschel la nozione di eclissi verrà assunta proprio in riferimento all’uomo, alla sua «incapacità a percepire» il proprio «valore spirituale», all’uomo che ha ormai smarrito «la certezza della propria umanità» (A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, traduzione di Lisa Mortara e Elèna Mortala di Veroli, con uno scritto di Elémire Zolla, Milano, SE, 2005, pp. 40-41).
  98. Ricorriamo qui alla nozione di «tu eterno» elaborata nell’ambito della filosofia dialogica di Buber in M. Buber, Io e tu cit., pp. 111 e sgg.

(fasc. 28, 25 agosto 2019)