Benché Amelia Rosselli e Paul Celan siano stati entrambi poeti devoti principalmente a una poetica della figuralità metaforica e connotativa, tanto da essere spesso stati accusati a torto di produrre opere “oscure” e di difficile interpretazione e lettura, la tragica assurdità della loro crudele vicenda biografica rimane centrale entro le trame del loro tessuto lirico, un asse portante che assume un’importanza essenziale e decisiva anche nelle scelte tematiche che informano le loro poesie. Ma la realtà che emerge attraverso le loro liriche, sia essa quella passata o quella a loro contemporanea, quella evocata o quella rimossa, non diventa mai referente puro e diretto, rispecchiamento preciso e oggettivo, perché costretta a passare con puntigliosità attraverso le maglie e i filtri di un io lirico che per entrambi i poeti esaminati non è mai sempre e solo autobiografico o confessionale, ma acquisisce spesso una valenza biografica e di universalità storica. Accade ovviamente che le modalità e i dispositivi che Celan e la Rosselli utilizzano per piegare la Storia con la S maiuscola sotto il dominio della lingua poetica siano molto differenti ed eterogenei, muovendosi essi su piani formali e contenutistici assai diversi, provenendo da due antitetici background culturali e inseguendo a loro modo due distanti idee di far poesia. È possibile, tuttavia, evidenziare alcune direttive convergenti che si muovono sotto traccia – nel sottosuolo delle loro strategie testuali e dei loro procedimenti poetici –, capaci di mettere in rilievo le modalità all’interno delle quali l’indirizzo autoriale dei due poeti, almeno nella prima parte della loro produzione, arriva a intrecciarsi, a fondersi sino all’inscindibilità, con la loro (auto)biografia e viceversa.
Marchiata a vita dalla condizione di «fuoriuscita», che ella stessa attribuisce a sé a alla propria famiglia per rifuggire dall’inesatta e ambigua definizione di «cosmopolita» e «apolide» con cui la critica italiana da subito la etichetta, la Rosselli plasma a propria immagine e somiglianza una struttura poetica – più o meno coesa e coerente lungo l’intero arco della sua produzione in versi – fondata innanzitutto su un sé lirico che, nonostante i tentativi ripetuti di occultamento e di rifiuto, muovendosi ai margini della sua stessa autobiografia senza però mai soccombervi pienamente, trova, per usare le parole di Emmanuela Tandello, «in una figuratività narrante, la sua struttura mitologemica»[1], ossia il modello archetipico su cui impostare successivamente tutta una lunga serie di variazioni e modulazioni testuali e tematiche.
Incubando l’impulso scrittorio entro un preciso, serrato e assolutamente originale schema metrico e ritmico, la cosiddetta “forma-cubo” che la poetessa teorizza esplicitamente in Spazi Metrici, la Rosselli decide di autoimporsi una specifica delimitazione di campo volta a sintetizzare, senza perciò cedere a eccessi istintuali, il narrato poetico dentro una peculiare dimensione formale, che proprio in virtù della particolare rigidità ne favorisce l’esplosione centripeta. Il passaggio dal verso libero delle prime prove a un sistema chiuso e tendente a una regolarità fissa finisce con il favorire anche l’allargamento dello spettro percettivo di cui il soggetto poetico si fa portavoce, aprendosi a squarci di realtà che invece prima rischiavano di venire completamente inglobati entro un lirismo puramente introspettivo. Come confessa la stessa Rosselli in Spazi Metrici,
Nello scrivere sino ad allora la mia complessità o completezza riguardo alla realtà era stata soggettivamente limitata: la realtà era la mia, non anche degli altri: scrivevo versi liberi. In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi[2].
All’interno di questa cornice regolatrice vive e pulsa il linguaggio della Rosselli, poetessa poliglotta, che sceglie però l’italiano come lingua d’elezione poetica, relegando l’inglese e il francese a raccolte considerabili minori. Il suo è un italiano irregolare, rotto, spezzato, che spesso si arricchisce consciamente tramite l’apporto e le influenze delle altre due lingue, facendosi penetrare saltuariamente da forestierismi, da calchi lessicali stranieri, o piegandosi a costrutti che in realtà non gli apparterrebbero, sempre però attraverso scelte pienamente lucide e razionali, figlie di precise valutazioni espressive, come ci teneva a sottolineare la Rosselli stessa, sfatando il tabù del “lapsus” a cui l’aveva condannata l’amico Pasolini nell’introduzione interpretativa, celeberrima sebbene un po’ superficiale, con cui l’aveva lanciata nel mondo letterario italiano.
Il discorso che viene fuori dalle continue alterazioni e manomissioni della lingua poetica standard è ovviamente un discorso intento a rompere e a destabilizzare l’intero complesso di norme canoniche che fissano e limitano l’universo linguistico, stravolgendone i concetti di base. Ecco perché, costruendosi e agglomerandosi poi intorno a un dialogo intertestuale mai passivo ed esausto con gli autori amati – da Petrarca a Rimbaud, da Leopardi a Montale, passando per Lautréamont, Trakl e Campana – il dire poetico della Rosselli diviene quello che ella stessa definisce un «babelare commosso», straniante e sempre discosto dalla strada maestra, una lingua «angolare, strana, che parla da un margine, da un territorio altro, costellata di piccole esplosioni, ma anche da buffe e umoristiche trappole nelle quali il lettore è incoraggiato a cadere»[3]. Nella lingua poetica della Rosselli, nel suo continuo sfarsi e rifarsi, si rispecchiano dunque in pieno i lasciti, consci o no, del suo bagaglio esistenziale che, prima di farsi tema o contenuto, prima di essere metabolizzato poeticamente, pervade innanzitutto l’essenza stessa del suo versificare, dentro ogni singolo testo, ogni singola parola. Non a caso, sottolinea la Tandello, «nessun aspetto della poesia rosselliana, di conseguenza, esibisce la disappartenenza quanto il suo linguaggio, descritto come deviante e percorso da interferenze multilingui»[4].
Configurandosi come continuo gioco di fughe, di repulsioni e di specchi, il rapporto che intercorre tra la ricerca costante di un’unicità e autenticità poetica e il pesante e ineludibile vissuto storico, che nella sua singolarità accoglie comunque un sostrato socio-politico comune a molti, è costellato da continui pieni e vuoti, come se la Rosselli camminasse in bilico su un soglia, su una cresta, senza volersi concedere del tutto né all’una né all’altra parte. Ecco perché quella frattura tra discorso poetico e vita – tratto fondante anche per lo sviluppo poetico di Celan – su cui le sue poesie sembrano costruirsi inaugura un moto che sarà uno dei tratti maggiormente peculiari della lirica rosselliana; in essa, infatti, non è tanto «la vita ad andare contro l’universo discorsivo, ma è questo ad andare contro la vita e a minacciarla»[5]. La Rosselli, dunque, non rinuncia mai a porre sopra ogni cosa il valore primario e inarrivabile del poetare, del suo linguaggio, perché solo in esso e attraverso di esso il soggetto lirico può ancora tentare disperatamente di affrontare il mondo esterno e la tragicità della Storia, cercando di ricreare e di riposizionare continuamente su di una scacchiera immaginifica ricordi, situazioni, dolori di un passato che mai dev’essere marmorizzato. Solo mediante un incessante lavorio di frammentazione e ricostruzione del materiale autobiografico, sia esso mnemonico o associativo, il soggetto lirico rosselliano prova a non rimanere ingabbiato fra le strette di un destino che la Storia sembra aver già scritto e imposto, aggrappandosi a ogni scappatoia pur di riaffermare la propria unicità entro la pluralità, per quanto tale unicità sia in fin dei conti «più sospettata che davvero riconosciuta»[6]. Per questo, nonostante la spinta biografica si renda del tutto evidente e captabile con una certa frequenza solo a partire dalla terza sezione di Serie ospedaliera, esplicitandosi poi definitivamente in Documento – come testimonia anche il nome della raccolta –, già Variazioni belliche è percorso da questo profondo conflitto costitutivo, capace di provocare ricorrenti paradossi. Se infatti da un lato, come già accennato, tutte le strategie testuali e i dispositivi poetici e lessicali vengono usati affinché l’energia poetica si sprigioni unicamente dal contesto lirico e scaturisca solo dalla tensione che si viene a creare nell’incrocio tra forma e parola, con l’intento dichiarato di far scomparire ogni segnale o coordinata facilmente e immediatamente riconoscibile, dall’altro l’intera raccolta sembra essere abitata da un «forte desiderio di racconto», capace di «costruire una storia altra rispetto a quella già scritta (cioè avvenuta), che con essa intrattiene uno stretto rapporto, evitando, però, in qualche modo, il legame fatale di causa-effetto»[7]. Muovendosi ad elastico tra il bisogno poetico di (ri)costruire una narrazione nuova e non assoggettata agli istituti della Storia, che si nutra assiduamente della promessa di un’altra realtà potenziale da vivere e raccontare, e la volontà di non appesantire eccessivamente il fare lirico con spinte attualizzanti e richiami provenienti dalla quotidianità, la Rosselli riesce a rendere la propria poesia identica a se stessa, straniera in patria e ricercatrice solitaria, instancabilmente all’inseguimento di un varco attraverso cui accedere per non sentirsi ancora e sempre in esilio.
Accade, perciò, che dall’intima e solidale fusione tra il contenuto esperienziale e contingente, che si fa tematica, e la gamma di soluzioni espressive e stilistiche proprie dell’“officina” rosselliana viene fuori un protagonista lirico «la cui precarietà si dichiara attraverso un’intera gamma di fenomeni, complessivamente riconducibili al “dramma pronominale” da Contini individuato quale tratto tipico dell’“Io espressionistico”»[8], che ruotano tutti intorno alla difficoltà d’individuare e riconoscere un vero e proprio soggetto poetico, tendente spesso a camuffarsi o a smarrirsi in un intricato e complesso valzer di pronomi, o a instillarsi entro contesti e situazioni inanimate e astratte. Altre caratterizzazioni di questo fenomeno si sviluppano attraverso «processi di identificazione diversamente orientati: nel senso di un’introiezione del mondo nell’io, ma anche in quello della proiezione dell’io nel mondo»[9]. Riuscendo a garantire continuità e coerenza ai differenti e multipli aspetti che si stratificano infratestualmente e macrotestualmente, la Rosselli rifugge da qualsiasi astrattismo, impressionismo o aleatorietà, consegnandoci una poesia in grado di mettere in stato d’accusa la Storia, la Storia dei drammi laceranti e delle morti ingiuste e infinite, la Storia che la circonda e giganteggia intorno a lei. Ecco perché la poesia diventa sopravvivenza, unico modo per scampare a una morte altrimenti certa, «atto di comunicazione intenzionale, che persegue e mette in scena la possibilità e la realtà di significare, malgrado le innumerevoli riprove del contrario»[10].
Così come la Rosselli anche Paul Celan – probabilmente il più grande poeta sorto dalle ceneri della Seconda guerra mondiale – si trova a scrivere i propri componimenti lirici sotto il giogo pesante di un passato drammatico e insopportabile, vittima di un esilio forzato, che lo porta lontano dalla sua terra natia, terra di morte e distruzione. Ma ciò da cui Celan non si allontanerà mai, almeno nel poetare, è la propria lingua madre, il tedesco, considerato dal poeta l’estremo legame non recidibile con la sua famiglia, la sua eredità, la sua giovinezza, l’unico appiglio a cui aggrapparsi, una volta persa ogni possibilità di avere ancora un luogo da chiamare “casa”. Accettando come logica conseguenza della propria scelta linguistica l’isolamento intellettuale che lo caratterizza soprattutto nei primi anni parigini, Celan decide di non affidarsi a nessun altro idioma, sebbene tale opzione sembri la più conveniente, perché fortemente contrario al bilinguismo poetico e assolutamente convinto che abdicare alla lingua della madre vorrebbe dire estirpare dal terreno anche l’ultima radice di un passato che, sebbene oscuro e avvolto unicamente da dolore e sofferenza, non merita di sprofondare nell’oblio. Ecco perché, se si vuole intavolare un discorso sul rapporto tra impianto, strutturazione lirica e biografia in Paul Celan, non si può non partire proprio dalla lingua e dalla decisione di continuare a utilizzare il tedesco, grande e insuperabile paradosso che investe con notevoli conseguenze l’intera opera poetica del suddetto. Perché il tedesco, lo impone l’unidirezionalità implacabile della Storia, non può più essere una lingua neutra, specialmente per chi è uscito fatto a pezzi, devastato dagli orrori imposti dalla follia germanica; è stata la lingua dei trucidatori, degli ideologi intrisi d’odio, degli assassini di milioni di persone, in definitiva una lingua irrevocabilmente compromessa e macchiata di sangue. Ma è proprio a partire dall’assunzione lirica del tedesco che si inaugura una delle direttive fondanti del dire poetico di Celan, che decide di agire sulla lingua tedesca con l’intenzione di riscattarla dall’abominio della Shoah. Ovviamente il tentativo progressivo di «riconquistare un tedesco ebreo legittimo quanto il tedesco non ebreo»[11], di denazificare l’idioma a lui caro, non può che svilupparsi attraverso una ricerca poetica, insieme lessicale e tematica, che si rivela fin da subito lacerante e distruttiva, che richiede un lungo e frenetico lavoro di demolizione e ricostruzione straziante, all’insegna di una sorta di contro-lingua capace, sillaba dopo sillaba e parola dopo parola, di reinnestarsi sul nervo principale del tedesco canonico per strapparlo alla sua ignominia.
In Papavero e Memoria (Mohn und Gedächtnis), la prima raccolta pubblicata e riconosciuta tale da Celan, il linguaggio è ancora in grado di fare da mediatore tra il soggetto e la percezione che esso ha della realtà e del mondo circostante, è ancora capace di far da tramite e da raccordo. Tuttavia, già dalla raccolta successiva, Di soglia in soglia (Von Schwelle zu Schwelle), il panorama cambia; la lingua sembra infatti problematizzarsi, interrogando non più il mondo, ma se stessa, inceppandosi continuamente, isolandosi. «La lingua di fronte alla realtà si dimostra impacciata […] la sua struttura è diversa da quella del mondo e non vuol essere confusa in nessun modo con esso. Là, dove la lingua e la realtà si scontrano, si sviluppano solo negazioni»[12], scrive Moshe Kahn a tal proposito. Questa lingua che Celan cerca di redimere in ogni poesia è, però, contemporaneamente sempre sospinta verso un graduale e incontrovertibile processo di dissolvimento, così come d’altra parte il poema stesso, che può sopravvivere solamente affermandosi ai margini di se stesso.
Paul Celan, come uomo prima che come poeta, è costantemente assillato da un profondo sentimento di colpevolezza, quel senso di colpa che attanaglia i sopravvissuti, i salvati, rei di essere ancora vivi senza nessun apparente motivo o merito. Accade allora che, per tentare di giustificare il proprio fortuito e del tutto casuale diritto alla vita, a così tanti altri ingiustamente negato, la figuratività narrante al centro dell’universo lirico celaniano assume su di sé il compito di farsi portavoce dei tanti, troppi morti insepolti, doppiamente vittime, non solo dell’Olocausto ma anche del silenzio, dall’anonimità e della scomparsa di Dio. Ciò che più sconvolge l’immaginario poetico di Celan, turbandone la trama e l’ordito, scuotendone la forma e l’andamento, non è la morte, o almeno la morte quale entità in sé e per sé, ma è soprattutto la modalità attraverso cui questa morte imposta forzosamente e non testimoniabile si è abbattuta su milioni di ebrei innocenti, nonché sui suoi genitori. È all’interno di questa dimensione di perdita irrecuperabile e non raccontabile che si svolge e si afferma l’assurda trama del dramma nel dramma. La voce dell’io lirico, quindi, non può che diventare voce e parola altrui, farsi eco di morte, farsi tramite immaginifico – ed è qui che esplode la potenza poetica di Celan, capace di afferrare «l’indicibile per i suoi margini»[13] – della parola, della preghiera, del supplizio spezzato di coloro a cui ogni spasmo di vita è stato strappato via. Ecco perché, pur essendo profondamente intimista e soggettivista, la poesia celaniana si arricchisce di una spinta collettivista, che ne ingrossa la vena e la portata, caricandola di un pathos figurativo ineguagliato. Nonostante l’obiettivo intrinseco di sopravvivere al tempo e al proprio presente – sottinteso d’ogni forma d’arte che si possa chiamare tale – la poesia di Celan non diventa mai astorica né atemporale, perché ben conscia e consapevole delle proprie «date» – caratteristica d’altronde comune a gran parte della produzione poetica del secondo Novecento –, ossia «del modo con cui a ognuno di noi si è rivelato lo scandalo insostenibile della storia»[14]. È proprio in virtù della scoperta di questa nuova condizione, di questo nuovo e inscindibile legame con il proprio tempo, che Celan è in grado di rimettere radicalmente in discussione lo statuto poetico fino ad allora canonizzato; sotto il giogo pressante della Storia, infatti, la poesia è costretta a ripensare il proprio cammino, rinunciando a credere nell’illusione che l’Arte sia ancora qualcosa di dato e di certo, di incontrovertibile, per inseguire invece l’antiparola, il «Viva il Re!» della Lucile büchneriana, che, riscattando l’assurdo e dandogli voce, inaugura una via nuova e ancora non battuta. Caricandosi di una spinta creaturale e naturale (“volto di Medusa”), accettando l’eventualità di andare incontro al proprio decesso, assumendo su di sé il rischio di un pauroso ammutolire, la poesia può ancora rappresentare una “svolta del respiro”, l’ultima possibilità che «all’atto dell’inspirazione, ossia dell’assunzione dell’aria che ci tocca respirare, segua una espirazione che, giovandosi del mezzo artistico, restituisca come poesia la realtà che ci circonda»[15].
Più di tutte le altre raccolte, Papavero e Memoria (Mohn und Gedächtnis) – dove Papavero è da intendersi nel suo significato metaforicamente traslato – si snoda sul filo sottile di quella dicotomia che viene sin da subito configurata dai termini antitetici e tuttavia complementari che titolano l’opera. Com’è, infatti, possibile conciliare le due cose entro un quadro concorde, pacificato e omogeneo? Celan non riuscirà a vincere questa sfida a livello esistenziale, ma sul piano poetico è invece abilissimo nell’attuare una sintesi formale e tematica che, almeno in quest’esordio, si equilibra con una certa regolarità tra la memoria e il ricordo dolente del recentissimo passato e l’aspirazione legittima ad aprire un nuovo e rinnovato capitolo della propria vita, senza che gli antichi strascichi di morte e sofferenza lo sovrastino completamente, alternando con tono ancora densamente lirico ed elegiaco tematizzazioni amorose, spinte speranzose e addolorate reminiscenze funebri, senza però mai scadere nella vana estetizzazione della parola. D’altronde, come scrive Moshe Kahn, «Celan non è del parere che la sciagura si trasfiguri necessariamente nominandola. […] In tal modo non risparmia alcun che di ciò che è terrificante dell’esperienza passata facendola diventare per il lettore un fatto vivo, immediato e presente»[16].
Anche l’oscurità in cui si annida la sua poetica – frutto di un’ardua selezione lessicale, della deregolamentazione della sintassi e della tendenza persistente all’ellissi, di un’estrosa figuratività metaforica – non è mai raggiunta per puro calcolo o strategia: essa non rappresenta altro che il tentativo di sconfessare la chiarezza, quella falsa chiarezza in cui troppo a lungo il dire poetico si è illuso di brillare. Ma il sostrato ancor più profondo, il nucleo centrale e magmatico su cui si snoda l’intera ricerca esistenziale, poetica e intellettuale di Celan ruota inevitabilmente e drammaticamente intorno al celeberrimo monito adorniano, che come una scure si è abbattuto ferocemente sull’essenza ontologica del poetare stesso e del bello estetico. Celan condivide l’idea che una poesia puramente artistica (“essere marionettesco”) e avulsa dalle circostanze sia ormai impossibile da perseguire e del tutto irrilevante, priva di ogni senso e ragion d’essere; tuttavia, non può rassegnarsi quietamente all’argomentazione eccessivamente generalista del filosofo francofortese. Perché, sebbene la stilizzazione lirica rischi effettivamente di trasformare un lutto e un dolore indicibili e incommensurabili in pura fruizione, magari anche piacevole, è pur vero che «l’arte – nell’eccezione più ampia del termine – è e resta il mezzo di gran lunga più efficace per conferire perennità alla memoria di un fatto, e i fatti quanto più sono terribili tanto più chiedono a gran voce di non essere sepolti nella dimenticanza»[17]. Tanto che lo stesso Adorno sarà costretto qualche anno più tardi – probabilmente proprio a causa del confronto serrato con la poetica celaniana, capace di schiudergli una fessura sino a quel momento impensata – a ritrattare la famosa affermazione, scrivendo:
L’arte, che non è più possibile se non riflessa, deve da sé rinunciare alla serenità. Ve la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti. Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena[18].
La poesia si configura, dunque, per Celan come l’ultima possibilità di intraprendere un dialogo con l’altro, con il tutt’altro; come l’ultima, unica e disperata speranza di mettersi in cammino, un cammino sprovvisto di mete precise e definite, alla ricerca di un tu, vicino o lontano, ma pur sempre concepibile, capace forse di raccogliere un giorno il messaggio nascosto nella bottiglia e d’instaurare un colloquio che, seppure intermittente e complesso, sia ancora e sempre fatto di parole e non di silenzio.
Legati a doppia mandata a una dimensione esistenziale che è allo stesso tempo poetica e a una ricerca poetica che è contemporaneamente anche e soprattutto inevitabile espressione esistenziale ed esperienziale, Amelia Rosselli e Paul Celan sono tra i pochi poeti del ’900 in cui il legame conflittuale e insolvibile tra universo discorsivo e testimonianza storico-biografica ha travalicato con estrema urgenza i confini dei singoli componimenti lirici, delle singole raccolte pubblicate, sino a confluire prepotentemente nelle riflessioni intime e soggettive, nelle scelte di vita, influenzandole e modificandone la fisionomia. Declinando in maniera differente e divergente gli input dicotomici affluenti dalla costante e mai passiva dialettica tra memoria, testimonianza e una vocazione poetica autentica e originale, le poetiche di questi due autori sono destinate a svilupparsi seguendo delle orbite che certamente interessano per gran parte spazi e motivi tra loro eterogenei, ma che combaciano su un punto nevralgico di estrema delicatezza e pregnanza, quello dell’incontro-scontro fra il desiderio pressante di affermazione del proprio io lirico, del proprio dire poetico, e la necessità di contribuire alla formazione di un più ampio e vasto dialogo – basato su delle coordinate universali comuni all’intera condizione umana –, immaginabile e costituibile unicamente attraverso la poesia e il suo linguaggio.
La riproposizione ossessiva della frattura insanabile tra discorso e autobiografia che emerge dai loro testi è sorretta, fino al punto di non ritorno, solamente dall’idea di una possibile sintesi attuabile grazie al potere indiscutibile della parola poetica. Ecco perché per entrambi il bisogno di recuperare un luogo di appartenenza, delineabile solo astrattamente, viene a configurarsi all’interno di un’incessante dinamica di indagine poetica, volta a riaffermare ininterrottamente, superati i dubbi e mediate le riflessioni di carattere tecnico-formale, direzioni e sensi di marcia verso cui sia possibile rivolgere lo sguardo in mancanza di ogni altra certezza o convinzione. Cessata la spinta propulsiva di questa tensione sempre alimentata dalla dualità poesia-vita, l’esperienza esistenziale viene a perdere di significato, si annichilisce. La realtà, soggiogata da una Storia tragica e non più interiorizzabile i cui orrori, seppur diventati memoria passata, appaiono non riscattabili, prevale definitivamente sulla sua percezione e rielaborazione poetica, a un tempo intima e collettiva. Amelia Rosselli e Paul Celan hanno vinto la loro sfida a livello poetico raggiungendo vette espressive ineguagliabili, sondando profondità a molti altri inaccessibili, anche se ciò ha significato, forse, perdere a livello esistenziale.
- E. Tandello, La Poesia e la purezza, in A. Rosselli, L’opera poetica, Milano, Mondadori, 2012, p. XVI. ↑
- A. Rosselli, Spazi Metrici, in Ead., L’opera poetica, op. cit., p. 186. ↑
- E. Tandello, La Poesia e la purezza, op. cit., p. XXI. ↑
- Ivi, p. XIX. ↑
- Ivi, p. XXXV. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. XXXVI-XXXVII. ↑
- Notizie sui testi, a cura di F. Carbognin, in A. Rosselli, L’opera poetica, op. cit., p. 1294. ↑
- Ibidem. ↑
- E. Tandello, La Poesia e la purezza, op. cit., p. XL. ↑
- J. E. Jackson, Dolore, lutto e memoria, in Per un’estetica della memoria, in Discipline filosofiche, a cura di L. Regazzoni, XIII, 2, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 92. ↑
- M. Kahn, Introduzione a P. Celan, Poesie, Milano, Mondadori, 1986, p. 19. ↑
- K. Schwedhelm, recensione a Mohn und Gedächtnis, in «Wort und Warheir», VIII, 7, 1953; citato da G. Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in P. Celan, Poesie, Milano, Mondadori, 1998, p. XXXVII. ↑
- G. Bevilacqua, Introduzione, in P. Celan, La verità della poesia: il meridiano e altre prose, Torino, Einaudi, 2008. ↑
- G. Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in P. Celan, Poesie, ed. del 1998 cit., p. XCVI. ↑
- M. Kahn, Introduzione a P. Celan, Poesie, op. cit., p. 13. ↑
- G. Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, op. cit., p. XXXVI. ↑
- T. W. Adorno, Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 2012, p. 232. ↑
(fasc. 28, 25 agosto 2019)