Sulla rilevanza dell’opera dantesca, e della Commedia in particolare, per gli autori del Novecento italiano molto si è scritto negli ultimi anni[1]; l’influenza di Dante ha assunto i connotati di un fenomeno ad ampio raggio i cui confini paiono a tratti difficilmente definibili, anche considerando – come ha notato Maria Antonietta Grignani – che «Dante è entrato nella memoria nazionale e non è semplice distinguere il riferimento dovuto a una rammemorazione involontaria da quello intenzionale e portatore di senso»[2].
In ogni caso, Cesare Pavese non è rimasto estraneo a questo movimento di collettiva partecipazione all’opera di Dante. La frequentazione dell’autore ha radici antiche e risale agli anni giovanili, quando Pavese frequenta il Liceo “Massimo D’Azeglio” di Torino. In una lettera dell’agosto 1926 al maestro, il professor Augusto Monti, Pavese, neodiplomato, tracciando un primo breve consuntivo della propria – ancora acerba – esperienza umana, accenna alla lettura della Commedia:
Ma alla fin fine, se lo debbo dire, io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri. Non le grammatiche o i vocabolari, ma tutte le opere in cui vive qualche sentimento. Dapprima, abbagliato dai grandi nomi, mi fermai sui poemi omerici, sulla Commedia, su Shakespeare, su Hugo. Quattro anni fa, io cominciavo ad aver per le mani le loro opere e mi esaltavo confusamente senza capirne il perché. Ora dopo quattro anni di fatiche e dopo che lei ci ha insegnato a leggere, a poco a poco, credo di esser giunto a capire qual è la loro magia[3].
Ampio spazio sarà dato a Dante ancora nella lettera del 12 ottobre dello stesso anno, inviata all’amico Tullio Pinelli. Scherzando, Pavese cita i due versi incipitari di Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, per poi aggiungere: «Tu non sai per quanto tempo ho respirato nella Vita Nova così corrotto di corpo e d’anima come sono»[4].
Anche il congedo dall’amico è nel segno di Dante: «Arrivederci davanti a Don Brizio!»[5]. Don Brizio Casciola[6], nato a Montefalco in provincia di Perugia il 31 luglio 1871, sacerdote di grande cultura, era stato intimo amico di Antonio Fogazzaro e allievo di Luigi Valli, alla cui scuola di dantisti afferiva. La contessa Ersilia Ratti, madre di Tullio, lo invitò a tenere periodiche letture della Commedia presso la casa di famiglia a Torino. Fu proprio in occasione di una delle letture di don Brizio Casciola che Pavese ricevette, con il comune amico Remo Giacchero, il primo invito a casa Pinelli.
Circa dieci anni dopo queste lettere, scritte entrambe lontano da Torino, durante le vacanze estive trascorse nella villetta di Reaglie, Pavese dà inizio alla stesura del Mestiere di vivere, il diario-zibaldone che dovrà accompagnarlo fino ai suoi ultimi giorni, di nuovo lontano dalla sua città, a Brancaleone Calabro, dove dal 4 agosto 1935 si trova relegato a seguito della condanna per antifascismo.
Dante fa la sua prima comparsa in un appunto che porta la data del 9 novembre di quell’anno; Pavese sta riflettendo sulla possibile disposizione delle poesie di Lavorare stanca, la cui stampa per i tipi dell’editore Carocci è in fase di stallo da quando Pavese è stato tratto in arresto, e sul significato che può assumere strutturare una raccolta, un «canzoniere», come si trattasse di un «poema»:
La ricerca di un rinnovamento è legata alla smania costruttiva. Ho già negato valore poetico d’insieme al canzoniere che pretenda a poema, eppure penso sempre come disporre le mie lirichette, onde moltiplicarne e integrarne il significato. Torna a parermi di non far altro che presentare degli stati d’animo. Torna a mancarmi dinanzi il giudizio di valore, la revisione del mondo.
Certo è che la collocazione calcolata delle poesie nel canzoniere-poema non risponde altro che a una compiacenza decorativa e riflessa. Cioè, date le poesie dei Fleurs du Mal, che esse siano disposte così o così, può essere leggiadro e chiarificatore, critico magari, ma niente più. […] Forse che una pagina di Divina Commedia perde il suo valore intrinseco di nota di un tutto, se divelta dal poema o spostata?
Ma, rimettendo a miglior tempo l’analisi dell’unità della Commedia, è possibile dare un valore d’appartenenza-a-un-insieme a una poesia concepita a sé, secondo il frullo di un’ispirazione? Che poi Baudelaire non concepisse a sé una poesia, ma la pensasse in addentellato con le altre, non mi pare verosimile. C’è altro. Dato che una poesia non è chiara all’autore nel suo significato più profondo se non quand’è tutta compiuta, com’è possibile a questo costruire il libro se non riflettendo sulle poesie già fatte? Il canzoniere-poema è dunque sempre un afterthought.
Resta però sempre l’obiezione che è pure stato possibile concepire come un tutto – lasciamo stare la Commedia – ma certo i drammi shakespeariani. Bisogna dirlo: l’unità di queste opere proviene proprio dalla realistica persistenza del personaggio, dal naturalistico svolgersi del fatto, che avendo luogo in una non frivola coscienza perde la sua materialità e acquista significato spirituale, diviene stato d’animo[7].
Sulla stessa questione Pavese torna il 23 febbraio 1936, quando mancano ventuno giorni alla fine del confino calabrese. Lasciato da parte Baudelaire, stavolta è Omero a essere accostato con Shakespeare a Dante. «Più ci penso e più mi appare notevole il fare omerico del libro-unità», scrive Pavese, elogiando dei poemi omerici l’apparente uniformità che cela «invece il gusto dell’arazzo circoscritto e variegato». Ed è esattamente sotto questo aspetto che egli «è come i consorti Dante e Shakespeare». Da qui, Pavese si apre a un implicito – ed entusiastico – giudizio:
[Dante e Shakespeare sono] potenti, favolosi costruttori che si deliziano del particolare, sentito fino allo svolazzo, che respirano tutta la vita a regolari e perfetti respiri quotidiani. Soprattutto, essi non sono gli uomini del grido improvviso e monotono, che erompe dall’esperienza e la sottintende e la unifica in una sensazione; ma veggenti benparlanti, […] tranquilli e impassibili suscitatori della verità, i sornioni dell’esperienza, che la sfaccettano in figure come a gioco, finendo a sostituirla, astutissimi. Mancano soprattutto d’ingenuità[8].
Dovranno trascorrere due anni prima che Pavese torni a parlare di Dante. A differenza delle annotazioni precedenti, quella del 2 novembre 1938 è rapida e concisa; in luogo del lungo intervento riflessivo e del disteso giudizio d’insieme, Pavese si limita in questo caso a una puntuale osservazione sul canto VII dell’Inferno, con particolare riferimento ai versi 19-66, nei quali è descritta la discesa del Poeta nella «quarta lacca», dove si consuma il tormento di avari e prodighi, i quali – com’è noto –, riuniti in due opposte schiere, avanzano «voltando pesi per forza di poppa», fino a incontrarsi e a rinfacciarsi vicendevolmente il proprio peccato.
Scrive Pavese:
Sapienza di Dante nel punire avari e prodighi insieme: soltanto i prodighi sono avari veramente, e soffrono a spendere. L’avaro si sente prodigo e il prodigo avaro, e se ne tormenta. Chi si sente avaro, per il terrore di così sordido contegno diventa prodigo. E viceversa[9].
Il 4 dicembre dello stesso anno, la traccia di Dante si colloca in coda a un appunto dedicato alla raccolta dei Fioretti di San Francesco. Pavese, nello specifico, riflette sul valore dei «simboli danteschi, che non sono già la Croce e l’Aquila, ecc. (o meglio questi sono i più banali), ma, per es., la nota crepuscolare di tutti gli episodi del Purgatorio» che al contempo «dà e prende significato alle visioni e loro risvegli e che esprime il messaggio di “mondo che sfuma gioiosamente”»[10]. Giovanna Ioli ha notato come in questa notazione riaffiori nuovamente la figura di don Brizio Casciola, le cui lezioni – sulla scorta del maestro Valli[11] – erano imperniate sulla lettura simbolica della Commedia e particolare attenzione riservavano, appunto, ai simboli della croce e dell’aquila[12]. La citazione del «mondo che sfuma gioiosamente» è tratta probabilmente da un saggio sull’opera di Dante non meglio identificato.
Il tono dell’annotazione del 26 novembre 1939 è affine a quello del 2 novembre 1938: più una nota di lettura, un commento, che una meditazione di più ampio respiro. Questa volta, tuttavia, è il Purgatorio la cantica oggetto dell’osservazione pavesiana:
Dante sul Purgat. non si volta mai a contemplare il panorama, per la ragione che non descrive realisticamente un viaggio, ma espone un simbolo dove si ricorre alla scena, al visibile, solo in quanto si veste di corpo un concetto. Non ha quindi obblighi di rispettare la logica naturalistica del reale[13].
Siamo a pochi mesi dall’ultimazione della stesura di quello che sarà il romanzo d’esordio di Pavese, Paesi tuoi. Tullio Pinelli è tra i primi lettori del manoscritto e provvede immediatamente – dal servizio militare che sta prestando sui monti di Rocchetta Nervina – a inviare all’amico i propri giudizi, cui Pavese risponde con una lettera, parzialmente ricopiata nel Mestiere, il 4 dicembre.
Il passaggio alla narrativa – dopo l’esperienza poetica, sostanzialmente ignorata dalla critica, di Lavorare stanca e la stesura del Carcere, che l’autore preferisce a lungo lasciare inedito e di cui a lungo si vergogna[14] – avviene per Pavese sotto l’egida di Dante: «riprendendo certe mie idee, l’opera è un simbolo dove tanto i personaggi che l’ambiente sono mezzo alla narrazione di una paraboletta, che è la radice ultima dell’ispirazione e dell’interesse: il “cammino dell’anima” della mia Div. Commedia»[15]. Non a caso, il romanzo è ricco di tramature dantesche, rilevate da Giovanna Ioli[16].
Pochi giorni più tardi, il 10 dicembre, Pavese riprende la discussione attorno alla questione del “simbolo”, ripercorrendo le riflessioni del 6 novembre e del 4 dicembre 1938. Esempio perfetto di “simbolo” pavesiano evocato in questo frangente è «la “mammella” dei Paesi tuoi – vero epiteto, che esprime la realtà sessuale di quella campagna» che si connota – scrive Pavese – «non più» come «simbolo allegorico, ma» come «simb[olo] immaginoso – un mezzo di più per esprimere la “fantasia” (il racconto)».
Pavese conclude che:
Parallelo di questo mezzo, non è tanto l’allegoria quanto l’immagine dantesca. Qui si riassumono molte analisi e molte letture. Il XXIII del Parad. può suggerirti. Tutti quei fenomeni di luce dicono la realtà luminosa del luogo e anche la sua realtà segreta di «foce di tutte le cose create» (fulmine, sole, uccelli, luna, canto, fiori, pietre preziose)[17].
Quando Pavese torna a fare il nome di Dante, nella lunga nota che inaugura il 1940, subito dopo il riepilogo dell’anno appena trascorso, lo fa con uno spirito critico che ricorda le prime due note dedicate all’autore della Commedia, cercando di definirne la grandezza e il rapporto di affinità con altri giganti. In questo caso, però, alla ricerca di autori che mostrino un’affinità con Dante (torna, tra l’altro, il nome di Baudelaire) si assomma anche il delinearsi di una schiera di autori che secondo Pavese incarnano una tendenza decisamente opposta, i «contrari»:
Artisti come Dante (lo Stilnovo), Stendhal e Baudelaire sono dei creatori di situazioni stilistiche: sono gente che non cadono mai nella bella frase, perché concepiscono la frase come creatrice di situazioni. Non danno mai nello sfogo, perché per loro riempire una pagina è creare una situazione mentale che si svolge in un piano chiuso, costruito, avente leggi interne, diverso da quello della vita. I loro contrari invece (Petrarca, Tolstoi, Verlaine) sono sempre sull’orlo della confusione di arte e vita; e anche nell’arte, se sbagliano, sbagliano per frasi belle o brutte, non per situazioni piollate, come quegli altri[18].
La contrapposizione prosegue, giungendo a una vera e propria autoidentificazione di Pavese con la schiera di autori in cui ha incluso Dante:
[Dante, Stendhal e Baudelaire] sono grandi teorizzatori dell’arte – il problema che li travaglia sempre – mentre quegli altri scrivono come si respira, come si canta, come si vive, op là! I miei sono grandi solitari, sono asceti, non chiedono altro alla vita che la realizzazione del loro sogno formale (di arte, di morale, di politica), mentre quegli altri chiedono alla vita l’esperienza e questa esperienza riflettono in quei diari che sono le loro opere[19].
Il 22 gennaio, sviluppando una riflessione sulle «figurazioni di un sogno», Pavese riporta il cinquantanovesimo verso dell’ultimo canto del Paradiso: «dopo il sogno la passione impressa»[20]. «Sognare», scrive, concludendo, «è come scrivere una storia simbolica già nota come spirito e in formazione quanto alla lettera»[21].
Nel mese di dicembre, Pavese legge le «Prose letterarie Le Monnier» di Foscolo, ovvero l’edizione del 1850 delle Opere edite e postume, soffermandosi sulle Lezioni di eloquenza e sui testi dedicati al Decamerone, alla lingua italiana e al «Poema di Dante», dei quali trascrive alcuni passi:
p. 117: «scrittori Greci e Romani… non perché insegnino teorie di libertà naturale e di diritti imprescrittibili, quando anzi per essi tutto diritto ed obbligo erano decretati dal fato e dalla vittoria»
p. 120: «né le opinioni prevalgono mai se non quando regnano in compagnia della forza de’ governi per cui solo possono prosperare»
p. 321: «Le lingue, dove è nazione, sono patrimonio pubblico amministrato dagli eloquenti; e dove non è, si rimangono patrimonio di letterati; e gli autori di libri scrivono solo per autori di libri».
p. 382: «E mi credo, e in ciò mi sento sicuro del vero, che moltissimi tratti, e più veramente i dottrinali e allegorici del Paradiso, siano stati i primi pensati e composti più tempo innanzi che il Poeta s’insignorisse della lingua e dell’arte. Perché di rado nella prima Cantica, e più di rado nella seconda, gli è forza di contentarsi di latinismi crudissimi, di ambiguità di sintassi, e di modi ruvidi che alle volte guastano l’ultima».
p. 453: «da quali di esse idee più naturalmente prorompano fantasmi poetici»
p. 458: «D. li serbava; e con essi i significati meno rari nel verbo medesimo di durabilità di tempo, e di costanza e vigore crescente di azione. Indi può intendersi, altrimenti parrebbe enigma, ciò ch’ei diceva al suo Interprete: “che molte e spesse volte faceva li vocaboli dire nelle sue Rime altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere” (l’Anonimo)
“Indi il conflitto d’idee concomitanti prorompe simultaneo e potente dalle sue locuzioni”»
p. 479: «La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, né mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio»[22].
Il 27 maggio 1942, come già aveva fatto per la lettera inviata a Tullio Pinelli, Pavese ricopia nel diario nella sua quasi interezza la lettera che lo stesso giorno spedisce a Elio Vittorini, per ringraziarlo dell’invio della prima edizione – mai distribuita perché rigettata dalla censura per le note critiche dello stesso Vittorini che accompagnavano il volume, sgradite al regime – dell’antologia Americana, della quale l’autore di Conversazione in Sicilia ha provveduto ad allestire una seconda edizione, pubblicata da Bompiani. Il giudizio di Pavese sull’antologia è molto positivo: tralasciando «qualche minuzia su cui dissento. […] Resta il fatto che in 50 pagg. hai scritto un gran libro. Non devi insuperbirti, ma per te esso ha il senso e il valore che doveva avere per Dante il De Vulgari. Una storia letter. vista da un poeta come storia della propria poetica»[23].
Quando l’anno successivo, nel luglio del 1943, Pavese torna a far cenno a Dante nel Mestiere, molte cose sono cambiate e l’autore di Santo Stefano Belbo è in un momento di profondi ripensamenti[24]. Il 4 luglio annota che più che i «poemi (Iliade, Commedia, Leopardi, ecc.)» a compiacerlo sono sempre state «geologia e astronomia, cioè il materiale indifferenziato da cui doveva nascere il gusto mitico-rustico». La scoperta della letteratura, del «gusto della parola-mezzo», è stata un evento successivo, cui è pervenuto «attraverso tediosa ricerca culturale» cui hanno partecipato «letture obbligate», e tra queste letture – sebbene non venga nominato – possiamo immaginare s’inseriscano la produzione dantesca e lo «scoppio baudelairiano»[25].
Sei giorni più tardi, il 10 luglio, mentre in Sicilia sbarcano le truppe americane, Pavese aggiunge una nuova riflessione sul filo della precedente, ripercorrendo la traccia dello «stupore dei 16-19 anni» e delle estati trascorse a «Reaglie sotto le stelle» coi «boschi di forti frassini a far lance». A indirizzarlo verso la letteratura – riflette –, benché ancora al di fuori di essa, è stato l’interesse per l’astronomia mediato dalla lettura di Camille Flammarion e dalla visione di un film su Dante[26], la cui identificazione resta dibattuta[27].
Il 30 ottobre, in un periodo di intense letture vichiane per Pavese, Dante riappare, nominato di sfuggita con Boccaccio, Machiavelli, lo stesso Vico e Leopardi come testimonianza del fatto che «la poiesis italiana ama le grandi strutture fatte di piccoli capitoletti, di parti brevi e sugosissime – i frutti dell’albero». Prosegue Pavese:
(Dante, i brevi canti; Boccaccio, le novelle; Machiavelli, i capitoletti delle op. maggiori; Vico, gli aforismi della Scienza Nuova; Leopardi, i pensieri dello Zibaldone, ecc. Per non parlare del sonetto). Per questo è poco narrativa (dove si richiede lunga distensione sgorgante: romanzo russo, romanzo francese) e molto cerebrale e argomentante. È la negazione del naturalismo, che comincerà infatti con l’informe distesa della narrativa inglese (Defoe)[28].
Un anno dopo, tra il 13 e il 14 luglio, al centro della riflessione di Pavese è ancora una volta il concetto di “simbolo”. «Superstizioso è chiunque cede alla passione bruta», scrive chiudendo l’appunto del 13, per riprenderlo il giorno seguente: «Infatti l’innamorato e l’odiatore si fanno dei simboli, come il superstizioso. È della passione conferire unicità alle cose o persone. Chi non conosce simboli è un ignavo di Dante»[29].
Siamo ormai agli ultimi riferimenti danteschi del Mestiere di vivere. Il penultimo porta la data del 9 marzo 1947:
Volere lo stato laico è logico da parte dei non credenti, è una conquista, un passo avanti – è assurdo da parte dei cristiani. I preti, le gerarchie, il papa devono occuparsi di politica: Dante poteva dividere le sfere di papa e imperatore, perché era sottinteso che l’imperatore facesse una politica cristiana[30].
L’ultima volta che Pavese fa il nome di Dante nel diario è in un’annotazione del 9 marzo 1948. Ancora un’ultima volta, come all’inizio, il nome del Poeta è accostato ad altri (ricompare il sempiterno Shakespeare, cui si aggiungono Platone e Dostoevskij) nel tracciare un giudizio d’insieme sulla capacità delle nazioni di produrre un’opera – e un artista con essa – capace di assommare in sé in perfetto equilibrio l’insieme «di memorie comuni, di costumi, di abitudini e di miti»:
I quattro più grossi – mondi complessi e inesauribili, ambigui, moderni – sono Platone, Dante, Shakespeare e Dostojevskij. Ogni nazione ne dà uno solo. Se una nazione è un complesso di memorie comuni, di costumi, di abitudini e di miti, è naturale che venga una volta sola il momento in cui tutto s’equilibra e convive in modo vero[31].
Ma la traccia di Dante perdura in Pavese oltre questa data e penetra a fondo nell’ultimo romanzo, La luna e i falò. Nella lettera del 17 luglio 1949 inviata ad Adolfo Varigotti e alla moglie Eugenia Ruata, annunciando di essere «come pazzo» per aver avuto «una grande intuizione – quasi una mirabile visione» che si risolverà nella stesura del romanzo di Anguilla, soggiunge non a caso che su una simile intuizione «di stalle, sudore, contadinotti, verderame e letame» dovrà «costruire una modesta Divina Commedia»[32].
- Si vedano, tra gli altri, i contributi di Alberto Casadei Dante nel ventesimo secolo (e oggi), in «L’Alighieri», n. 35 (2010), pp. 45-74; e di Marianna Comitangelo La voce di Dante nei contemporanei. Rassegna bibliografica 2009-2014, in «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», n. 11 (2014), pp. 137-55. ↑
- M. A. Grignani, Presenze della Divina Commedia nella poesia del Novecento, in Metodi Testo Realtà. Atti del convegno di Studi (Torino, 7-8 maggio 2013), a cura di M. Quagliano e R. Scarpa, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014, p. 71. ↑
- C. Pavese, Lettere 1926-1950, a cura di L. Mondo e I. Calvino, Torino, Einaudi, 1968, vol. I, p. 8. ↑
- Ivi, p. 14. ↑
- Ibidem. ↑
- Sulla figura di don Brizio Casciola si vedano i contributi di Ferdinando Aronica (Don Brizio Casciola. Profilo bio-bibliografico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998) e Silvestro Nessi (Un dantista umbro sconosciuto: don Brizio Casciola, in «Bollettino della Deputazione di Storia patria per l’Umbria», n. LXII, 1965, pp. 247-58). ↑
- C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, edizione condotta sull’autografo a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, introduzione di C. Segre, Torino, Einaudi, 2014, pp. 16-17. ↑
- Ivi, pp. 28-29. ↑
- Ivi, p. 130. ↑
- Il corsivo è di Pavese. Ivi, p. 142. ↑
- Si ricordi che nel 1922 Luigi Valli aveva dato alle stampe per i tipi di Zanichelli Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia. ↑
- G. Ioli, Dante sulle colline, in «Cuadernos de Filología Italiana», numero speciale (2011), p. 213. ↑
- C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, op. cit., p. 163. ↑
- L’uscita dell’edizione solariana di Lavorare stanca, nel 1936, fu accolta da una sola segnalazione anonima sull’«Italia letteraria». Il valore dell’esordio pavesiano fu riscoperto soltanto nel 1941, con l’uscita di Paesi tuoi, che suscitò grande interesse e clamore tra i recensori italiani. Come ha ricordato Vittoriano Esposito, «la prima e unica recensione tutta per sé il libro l’ottenne il 30 giugno 1944 su Libera Stampa, a Lugano, praticamente in terra straniera, e non sappiamo se Pavese abbia mai avuto il piacere di leggerla». V. Esposito, I quarant’anni di Lavorare stanca, in «Libera Stampa» del 9 novembre 1976, p. 4. Dal primo romanzo compiuto, Il carcere, Pavese prenderà a lungo le distanze, rigettando – pur dopo lunghe riflessioni e tentennamenti – la proposta di pubblicazione avanzata da Giambattista Vicari, direttore di «Lettere d’Oggi». Verrà pubblicato solo nel 1948, insieme alla Casa in collina, nel volume Prima che il gallo canti, facendo sì che la tormentata vicenda interiore del protagonista del primo romanzo, l’ingegnere Stefano, trovi riscontro nella «tragedia collettiva di un popolo sbandato dalla guerra, dal dolore, da un’ostinata quanto disattesa speranza di giustizia». Cfr. M. Faraglia, Pavese dopo settant’anni. Come un solo pomeriggio trasognato. Riflessioni su Il carcere, in «Mosaico Italiano», a. XIII, n. 194, p. 14. ↑
- C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, op. cit., p. 164 e Id., Lettere 1926-1950, op. cit., vol. I, pp. 358-59. ↑
- Cfr. G. Ioli, Dante sulle colline, op. cit., pp. 214-15. ↑
- C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, op. cit., p. 165. ↑
- Ivi, pp. 169-70. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 172. ↑
- Ivi, p. 173. ↑
- Ivi, pp. 212-13. ↑
- Ivi, p. 239. ↑
- Si veda l’appunto del 30 giugno: «Il voluttuoso di cui parlavi il 20 aprile 1936 ti si è spostato dal campo della sincerità passionale a quello della indagine professionale sui ricordi. Smetterla e agire» (ivi, p. 255). ↑
- Ivi, p. 256. ↑
- Ivi, pp. 256-57. ↑
- Potrebbe trattarsi del colossal prodotto dalla Milano Films L’inferno, del 1911, che riscosse un enorme successo di pubblico e critica sia in Italia sia all’estero. L’identificazione risulta comunque difficoltosa, considerando le scarse informazioni fornite da Pavese e il fatto che – come ha sottolineato Osvaldo Duilio Rossi – «il cinema dei primordi ha rappresentato ampiamente la Commedia», producendo una fitta selva di pellicole dedicate al poema dantesco. Sarà utile ricordare che hanno dedicato pellicole a Dante registi quali William V. Ranous (The Two Brothers, 1908), David Wark Griffith (Drums of Love, 1928) e gli italiani Mario Morais (Francesca da Rimini, 1908) e Ugo Falena (Francesca da Rimini, 1910). Cfr. O.D. Rossi, Dante pop. La Commedia in film, fumetti, videogiochi, in «LId’O. Lingua Italiana d’Oggi», n. XIII (2016), pp. 143-46. ↑
- C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, op. cit., p. 267. ↑
- Ivi, p. 285. ↑
- Ivi, p. 327. ↑
- Ivi, p. 348. ↑
- C. Pavese, Lettere 1926-1950, op. cit., vol. II, p. 659. ↑
(fasc. 41, 5 dicembre 2021)