Un denominatore comune per le diverse esperienze di gelosia presenti nella Recherche risiede nel legame con la questione dell’intelligenza, ovvero con la capacità umana di produrre conoscenza di fronte all’ignoto. Si può sostenere, infatti, che per la mente gelosa – incorporata nei tratti maschili del protagonista; ma anche di Swann, di Saint-Loup, di Charlus – non esista al mondo niente di tanto importante quanto la parte inaccessibile che, nella vita dell’essere amato, attira la sua attenzione. L’esistenza stessa del geloso gravita come un satellite intorno a un corpo celeste, di cui vede però sempre lo stesso lato, senza riuscire a sapere cosa si celi sul volto invisibile dell’essere amato[1].
Non può essere un caso se, nelle diverse declinazioni della gelosia romanzesca costruite da Proust, la questione del sapere s’incrocia tanto spesso con quella del vedere. In effetti, il punto d’attrazione per il desiderio di conoscere è rappresentato da quanto è visivamente inaccessibile, o comunque fuori dalla portata dello sguardo. Il desiderio di sapere trova rarissimi momenti di appagamento, quando si produce una particolare forma di piacere legata all’ordine visivo, come nel caso di Albertine addormentata ed esposta, senza filtri suo malgrado, allo sguardo del protagonista[2]. D’altra parte, basterebbe pensare all’importanza dell’esperienza del voyeurismo, come postura gnoseologica ricorrente nelle scoperte romanzesche del protagonista, per capire come la concupiscentia oculorum non sia una prerogativa esclusiva dell’inchiesta gelosa sulla vita dell’essere amato. La sua presenza si declina a partire dalla scena di Montjouvain nel primo libro, passando per Sodoma e Gomorra, fino all’episodio della stanza 43 nell’albergo di Jupien nel Tempo ritrovato. Riprendendo una considerazione di Julia Kristeva, si può sostenere che l’insistenza proustiana sui motivi dello sguardo furtivo, dello spionaggio e dello spettatore segreto può essere spiegata all’interno di una dinamica più ampia che riguarda il desiderio e la sua relazione con l’immaginario[3]. Per ogni indizio raccolto, ci sarà un ordine di curiosità capace d’imporsi al soggetto, per colonizzare l’intero ambito della conoscenza e il suo rapporto complessivo con il senso della realtà. Ma è nel caso specifico della gelosia che, come ha notato puntualmente Malcolm Bowie, la chiamata del desiderio genera nell’amante l’irriducibile tendenza a vedere «all’ombra della promessa di una soddisfazione sessuale, un altro, improbabile ordine di piacere: quello di una mente che si trova all’improvviso di fronte a […] “una stretta sezione luminosa praticata direttamente nell’ignoto”»[4].
Possiamo intendere la gelosia come il perno di questo movimento, ma le tracce di un’esperienza immaginaria di eccitazione di fronte al segreto sono riconoscibili già nel protagonista-bambino, che investe tutte le energie intellettuali per cercare di comprendere «il segreto della verità e della bellezza, a metà intuite, a metà incomprensibili, la cui conoscenza rappresentava l’oggetto vago ma permanente del mio pensiero»[5].
Il problema della conoscenza è posto dal narratore nei termini di un annullamento delle distanze fra sé e l’oggetto di interesse. Per questo motivo, laddove lo sguardo non riesce a colmare la distanza, a produrre conoscenza, ad annullare la separazione tra il soggetto e l’oggetto del desiderio, come nel caso della gelosia, è necessario un atto di lettura che interpreti i segni per risalire al senso. La verità invisibile diventa allora una pagina da leggere. Si può constatare, infatti, come i fenomeni ascrivibili alla costellazione della gelosia riguardino, in maniera più o meno diretta, il problema ermeneutico della lettura in relazione alla distanza tra amante ed essere amato. Il passaggio dal vedere al leggere implica sempre una fede nel segreto: la «croyance» nella presenza-assenza di un elemento ignoto, percepibile indirettamente dietro la realtà visibile delle cose, che richiede uno sforzo di interpretazione al soggetto della conoscenza. In questi termini, la postura gnoseologica dell’amante geloso è sostenuta da premesse riconducibili alla stessa fede che il giovane protagonista, nei tempi iniziatici dell’infanzia di Combray, riponeva nell’intuizione della verità e della bellezza contenuta nei libri: il suo desiderio di sapere corrisponde all’aspirazione a svelare il segreto dell’essere amato.
L’«abisso senza fondo» tra vedere e leggere: una questione epistemologica
In un intervento del 1990 intitolato Fourmis, Jacques Derrida discute lo statuto epistemologico della differenza sessuale, soffermandosi sulla differenza qualitativa tra vedere e leggere come modalità di accesso a due forme di conoscenza alternative. La sua ipotesi è riassumibile nell’idea che è possibile leggere, o almeno tentare di leggere, soltanto ciò che non si vede. Per cogliere il senso dell’alterità che riguarda le tracce della differenza sessuale, Derrida insiste sulle capacità di leggere – di «interpretare», di «decifrare», di «decrittare» – i segni di un alfabeto sconosciuto: «non appena c’è differenza sessuale, ci sono parole, o piuttosto tracce, da leggere. Essa inizia da qui»[6]. La questione di come un ordine di sapere si produca a partire da tali tracce influisce sullo statuto epistemologico della differenza sessuale, ossia sul rapporto tra esperienza e conoscenza. Nella prospettiva derridiana, infatti, «non si passa mai da vedere a leggere senza un salto assoluto. Non diremo che è una scommessa ma, come la differenza fra vedere e non vedere, il salto passa su un abisso senza fondo»[7].
Non c’è continuità epistemologica tra vedere e leggere. Tale «abisso senza fondo» permette di accostare la riflessione di Derrida al cammino tracciato da Proust a proposito della gelosia. Il desiderio di sapere può essere soddisfatto da un atto visivo? Scontrandosi con l’impossibilità di vedere un oggetto che si sottrae, il geloso inizia a collezionare una serie di indizi che nutrono la sua immaginazione e la fede che vi sia una verità nascosta, da scoprire dietro il velo ingannevole delle apparenze. L’intelligenza inizia a produrre una serie di ipotesi circa i possibili inganni dell’essere amato. Il geloso rinuncia a saziare il proprio desiderio di sapere con una percezione diretta che confermi o smentisca l’ipotesi atroce che tormenta i suoi pensieri. In altri termini, la sua intelligenza è costretta a cambiare strategia, rinunciando alla strada del contatto visivo, per intraprendere la via lunga della congettura che passa attraverso pratiche di decifrazione, interpretazione e lettura di segni: un paradigma indiziario[8].
Il «salto assoluto» fra visione e lettura determina la divaricazione tra due forme di conoscenza ben distinte tra loro. Da una parte si trova un atto del sapere che potremmo riassumere, grazie al greco antico, con la voce verbale oἶδα: ‘so per aver visto’. Una volta che l’oggetto è stato visto, la conoscenza è elaborata in maniera simultanea e, si potrebbe dire, automatica. Per esempio, nel momento in cui vedo x in compagnia di y in un dato momento e in certo luogo, acquisisco automaticamente un’informazione che potrebbe essere smentita soltanto se fossi tradito dai miei stessi sensi, secondo la tradizione cartesiana del genio maligno. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, questa forma di conoscenza gode di un prestigio che nessun’altra pratica può eguagliare: l’autorità dell’esperienza diretta, che Derrida definisce nei termini di «preuve», cioè di una prova che stabilisce in maniera irrifiutabile la verità o la realtà di qualcosa.
L’attività della lettura, infatti, non può competere con la certezza della «preuve», giacché la conoscenza prodotta ermeneuticamente è rimessa in gioco dalla pratica stessa della lettura. Leggere significa riconoscere le tracce dell’altro, in un inseguimento che non si conclude mai con una cattura definitiva del senso, e men che meno con il possesso della verità[9]. In altre parole, nell’orizzonte della lettura non ci sono acquisizioni definitive: tutto può essere smentito o confermato da ulteriori indizi, in quanto non vi sono prove. Gli atti di lettura hanno a che fare con l’impossibilità della visione e, soprattutto, con la spinta dell’esperienza immaginaria. Alla lettura manca, in definitiva, l’autorità dell’esperienza diretta, che la visione possiede in ragione del suo contatto sensoriale con l’oggetto. Per essere rigorosi, dovremmo specificare che l’oggetto della lettura non è comparabile con l’oggetto della visione. Anzi, se accordassimo soltanto alla «preuve» il dominio di una conoscenza solida e indubitabile – nel solco del primato dell’ordine visivo che ha segnato la cultura occidentale – dovremmo, nello stesso momento, escludere la lettura dal dominio delle forme di sapere, poiché il suo “oggetto” esiste (anche) grazie alla partecipazione del lettore, attraverso una relazione di cooperazione interpretativa mediata dal testo[10]. Inoltre, non c’è un esito definitivo per le operazioni rubricate sotto la voce “lettura”. Esse riguardano essenzialmente il campo dei possibili; si muovono nello spazio di uno scarto che non potrà essere mai colmato, se non attraverso altre letture che si muoveranno, a loro volta, nello spazio di altri scarti. Date queste premesse, la differenza fondamentale tra visione e lettura riguarda, in primo luogo, il prodotto di queste due operazioni: da una parte, troviamo una forma di sapere (“so per aver visto”); dall’altra, invece, esperiamo un invito a rimettere costantemente in gioco le ipotesi, continuando a leggere. Perciò, da un punto di vista legato esclusivamente al desiderio di conoscere, la visione produce sapere, mentre l’atto di lettura rappresenta un innesco per altre letture.
«Se avessi conosciuto dei tali testimoni!»: regimi di visibilità della gelosia
All’ipotesi che l’impulso a leggere abbia contagiato il mondo della gelosia proustiana – sostituendo la propensione a soddisfare visivamente il desiderio di conoscere – occorre affiancare ora un’osservazione complementare. L’influsso della lettura nella configurazione delle esperienze di gelosia della Recherche è tanto più evidente quanto più restano riconoscibili le tracce di un antico rapporto che coinvolge gelosia e visione. Se ne possono ritrovare degli indizi in alcuni passaggi del romanzo, per esempio nell’ossessione del protagonista che si barcamena per conoscere visivamente il piacere di Albertine a lui sconosciuto. Soltanto dopo la morte dell’essere amato, il protagonista riesce ad assistere a un incontro tra due «piccole lavandaie di un quartiere dove spesso si recava Albertine». Nella postura paradossale di un voyeur nascosto dietro un «sipario irrimediabilmente abbassato», il protagonista del romanzo cerca di tradurre i suoni rubati in un’ipotetica rappresentazione del piacere, a lui sconosciuto, che Albertine poteva provare sottraendosi alla custodia del suo sguardo.
Come ha notato Leo Bersani, la connotazione morale che l’eroe attribuisce ai segreti della sessualità di Albertine si colloca chiaramente nell’ordine della colpevolezza e del crimine[11]. Ma ciò che importa per il protagonista appostato dietro il paravento non è tanto la presenza del male quanto l’incontro mancato con il suo sguardo e il segreto che attira il suo desiderio di conoscere: «qualcosa di cui sulle prime non riuscii ad afferrare cosa fosse, perché non si capisce mai il significato di un rumore originale, espressivo d’una sensazione che noi non proviamo»[12].
L’incontro tra lo sguardo e il desiderio dell’altro non può avere luogo: il protagonista riesce ad ascoltare un verso irriconoscibile, senza mettere a fuoco – con ogni probabilità senza riuscire a sapere – alcunché sulla sua origine e sulla sua differenza. Ancora una volta, la concupiscenza degli occhi resta insoddisfatta, lasciando il protagonista nello scomodo ruolo di un detective consapevole di non poter trovare prove per corroborare le proprie ipotesi.
Mi sembrava che se fossi riuscito a trovare delle donne che l’avevano conosciuta, avrei appreso tutto ciò che ignoravo. […] Dicevo fra me e me: «Se avessi conosciuto dei tali testimoni!» di persone dalle quali, se le avessi conosciute, non avrei ottenuto niente di più che da Andrée, lei stessa depositaria di un segreto che non voleva rivelare[13].
Il caso del protagonista perplesso, nascosto dietro il paravento abbassato di una casa d’appuntamenti, è senz’altro istruttivo. Ma sarebbe ancora più utile riferirsi a uno altro scritto proustiano in cui la questione della gelosia s’inserisce in una logica puramente visiva e fantasmatica. Si tratta della novella intitolata La fin de la jalousie, l’ultima della raccolta Les plaisirs et les jours, pubblicata nel 1896[14]. La storia segue uno schema che risulterà familiare ai lettori della Recherche: il protagonista, Honoré de Tenvres, in seguito a una voce udita durante una serata in società, diventa geloso di Françose Saune, donna con la quale aveva iniziato una relazione segreta e, fino a quel momento, felice. Ha inizio una fase di concitata gelosia retrospettiva che porta Honoré a dubitare della sincerità della donna che ama e, soprattutto, a sospettare con insistenza di essere stato sistematicamente tradito.
Fissare l’amore negli occhi dell’altro
La novella inizia con la scena di un saluto sulla porta, uno di quei saluti che due innamorati riescono a prolungare con l’arte della tenerezza per rinviare il momento della separazione[15]. Qui Honoré e Françoise si scambiano parole e baci, ma il momento più carico di significato è rappresentato dalla descrizione di un incrocio di sguardi:
Ora erano a un passo l’uno dall’altra. D’un tratto i loro sguardi s’incontrarono e ciascuno cercò di fissare negli occhi dell’altro il pensiero che si amavano; ella restò un attimo così, in piedi, poi cadde su di una sedia senza fiato, come se avesse corso. E si dissero quasi nello stesso tempo con un’esaltazione grave, pronunciando forte le parole con le labbra, come per dare un bacio:
– Amor mio![16]
La rottura del silenzio provocato dall’incrocio di sguardi, e dal messaggio silenzioso infine tradotto in parole, è la conferma di ciò che ciascuno dei due stava cercando negli occhi dell’altro: il segno di un amore senza riserve, di una vera e propria devozione. È in quest’atmosfera d’intimità ovattata che ha luogo l’incontro fra due innamorati che vogliono proteggere la loro relazione da occhi indiscreti. Sebbene, infatti, tra Honoré e Françoise regni un’intesa pressoché totale, la loro relazione è segnata dalla clandestinità. Nelle occasioni mondane i due s’incontrano e parlano come semplici conoscenti, cercando di dissimulare i sentimenti che ciascuno prova per l’altro. Tuttavia, nonostante gli sforzi per mantenere il riserbo, l’atmosfera intorno a loro s’impregna, loro malgrado, di una tenerezza tale che «pareva diffondersi con una violenza ancor più deliziosa della sua abituale dolcezza».
Accadeva così che la loro tenerezza, non essendo segreta, fosse proprio per questo ancor più misteriosa. Chiunque vi si poteva avvicinare, come quei braccialetti impenetrabili e senza difese ai polsi di un’innamorata, che recano scritto in caratteri sconosciuti e visibili il nome che la fa vivere o la fa morire, e che sembrano offrirne di continuo il senso agli occhi curiosi e delusi che non riescono a coglierlo[17].
Per quanto i due amanti si sforzino di mantenere il segreto, i loro sentimenti filtrano attraverso le pareti della capsula immaginaria che dovrebbe sigillarli. La tenerezza fra i due è percepibile, ma avvolta da un alone di mistero. Il giovane Proust descrive questa presenza velata servendosi dell’immagine di un braccialetto sulla cui superficie è inciso il nome della persona amata, ma con le lettere di un alfabeto sconosciuto[18]. Si tratta di segni cifrati e indecifrabili, ai quali l’estraneo non può associare alcun significato. Ma una tensione interna percorre lo spazio del segreto: non si può nascondere un’evidenza senza rendere, a sua volta, evidente l’intenzione di nasconderla. A venticinque anni Proust dimostra di essere a proprio agio nel maneggiare gli effetti narrativi legati all’uso del segreto: il suo racconto presenta sin dall’inizio gli effetti di una dialettica tra manifesto e latente, che agisce soprattutto sul piano visuale[19].
È proprio la questione visiva a conferire un taglio singolare alla storia di Honoré e Françoise. A partire dall’esergo tratto dall’Alcibiade secondo, si delinea un tipo di devozione che potremmo definire “verticale”. La presenza di uno sguardo trascendente, capace di eccedere la dimensione orizzontale dell’amore fra Honoré e Françoise, è segnalata da una serie di riferimenti fra i quali basterebbe ricordare, oltre al già citato esergo, il passaggio in cui Honoré, riflettendo sulla natura effimera delle passioni umane, rievoca una lettura del Vangelo di Matteo[20]. Uno sguardo verticale attraversa l’orizzonte terreno delle passioni umane, in una giustapposizione continua di sensualità e spiritualità[21]. Si coglie qui il segno di uno slittamento metonimico del senso, mediato dal desiderio, espresso da Honoré, di trasformare il suo amore per Françoise in un amore universale e senza limiti, paragonabile al legame che tiene insieme Dio e le sue creature. L’amore di Honoré nei confronti di Françoise vorrebbe trasformarsi in una forza d’attrazione spirituale, capace di attraversare il tempo e di sopravvivere alla decadenza dei corpi. Un ritornello quasi mistico scandisce l’aspirazione dell’innamorato a questo sentimento di devozione universale:
“Sei la mia mamma, mio fratello, il mio paese – si fermò, – sì, il mio paese! […] la mia conchiglia piccina, il mio alberello” e non poté trattenersi dal ridere pronunciando quelle parole che si erano creati in così poco tempo, parole che possono sembrare vuote e che loro colmavano di un senso infinito[22].
Le fantasie di spionaggio di Honoré de Tenvres
Ma avviene una vera e propria metamorfosi nel personaggio di Honoré quando decide, dopo aver salutato Françoise, di prolungare la serata e rientrare a casa con un conoscente, tale Monsieur de Buivres. La conversazione tra i due innesca una nuova fase della relazione fra Honoré e Françoise, contrassegnata dall’incombere di una gelosia asimmetrica e maniacale. Nella conversazione tra i due conoscenti scivola una rivelazione – peraltro mai riscontrata – sulla vita di Françoise che lascia incredulo il malcapitato Honoré. Nessuno, ovviamente, sospetta della loro relazione. Ne consegue che la presunta rivelazione di Monsieur de Buivres si arricchisce di alcuni dettagli che sortiscono sull’innamorato l’effetto di una vera e propria tortura.
Lo choc per Honoré è tale che tutta la sua vita cambia radicalmente, come se una malattia si installasse all’improvviso nel suo corpo e nella sua mente. Lo sguardo divino che Honoré evocava, desiderando amare Françoise oltre ogni limite, si trasforma in un’ossessione di sorveglianza che dà luogo a un panopticon governato dalla gelosia. Se prima era la tenerezza a indirizzare la devozione di Honoré, da questo momento il sentimento della gelosia assume il controllo di qualsiasi operazione. La visualizzazione diventa il vero problema del geloso:
Quando era accanto a lei […] Honoré le credeva […]. Ma quando era lontano da Françoise, a volte anche quando, standole accanto, le vedeva brillare negli occhi una fiamma che subito immaginava avesse brillato anche in passato – chissà, forse ieri come domani – accesa da un altro […], non trovava più assurdo supporre che anche Françoise gli mentisse, senza che fosse necessario per questo che non l’amasse […] perché lo vedeva con gli occhi dell’immaginazione che ingigantiscono ogni cosa[23].
La visualizzazione dell’essere amato è il nucleo del problema di Honoré: la sua ossessione ha a che fare essenzialmente con immagini (che ne sono al tempo stesso il carburante e il prodotto), perciò la sua ricerca della verità non può accontentarsi delle rassicurazioni verbali di Françoise. Honoré è tormentato da una successione di fotogrammi che s’inseriscono negli interstizi della sua conoscenza: ogni momento della giornata in cui non è vicino all’essere amato diventa l’occasione per rianimare la sequenza d’immagini atroci che lo torturano senza concedergli tregua.
Proprio quella sofferenza stessa, non avrebbe cessato di tormentarlo nemmeno se gli avessero dimostrato che era immotivata. Allo stesso modo, destandoci, tremiamo ancora al ricordo di un assassino che abbiamo riconosciuto non esser altro che l’illusione di un sogno; allo stesso modo coloro che hanno subito un’amputazione sentono per tutta la vita i dolori alla gamba che non hanno più[24].
È notevole il paragone medico che Proust costruisce attraverso l’esperienza dell’arto fantasma, così come la messa in discussione della discontinuità percettiva tra lo stato onirico e quello di veglia. Non c’è una spiegazione di fronte al panico che s’impossessa dei pensieri e del corpo di Honoré: il dubbio che «l’immagine orribile» del tradimento possa corrispondere alla realtà genera nella sua mente un cortocircuito senza vie d’uscita. Anzi: più cerca di rassicurarsi e di rimuoverla, più questa gli riappare, eludendo ogni strategia difensiva messa in atto per respingerla:
Ma, d’un tratto, se la trovava davanti; era entrata, e ormai non poteva più farla uscire. La porta della sua attenzione, che teneva chiusa con tutte le sue forze, sino a sfinirsi, era stata aperta di sorpresa; ora si era richiusa, ed egli avrebbe passato tutta la notte con quella orribile compagna[25].
È come se la mente di Honoré si trasformasse in un proiettore che riproduce la stessa sequenza di immagini a ciclo continuo. L’insonnia è un epifenomeno di questo processo inarrestabile, che si potrebbe definire come una pratica di autoflagellazione. Ogni tanto Honoré è colto dal sospetto di essere la causa del proprio male, cioè di essere l’origine del meccanismo perverso che lo tiene in uno stato d’apprensione permanente. Ma il sospetto non sarà elaborato in una presa di coscienza. Al contrario, l’espressione visiva di questa sofferenza raggiungerà il suo apice nella figurazione del desiderio di confermare o smentire definitivamente la fondatezza dei propri sospetti. Egli sente di aver bisogno di una «preuve», cioè di una testimonianza oculare:
Voleva, approfittando del fatto che la sua relazione con lei era ignorata da tutti, fare delle scommesse sulla sua virtù con altri uomini, lanciarli sulle sue tracce, vedere se avrebbe ceduto, cercare di scoprire qualcosa, di sapere tutto, nascondersi in una camera (ricordava di averlo fatto per divertimento quando era giovane) e vedere tutto. Non avrebbe fiatato […] per vedere se l’indomani, quando le avrebbe chiesto: “Non mi hai mai tradito?” gli avrebbe risposto: “Mai”, con quella stessa espressione adorante[26].
La gelosia di Honoré si configura come una patologia clinica; più precisamente come una malattia dello sguardo. Le fantasie che egli interpreta come un possibile rimedio sono in realtà i sintomi del male che lo corrode. Il giovane Proust ne descrive i tratti servendosi del paragone con la lenta avanzata «di un parassita [che] uccide l’albero». Prigioniero delle proprie fantasie, Honoré si sente paralizzato di fronte all’eventualità della prova che potrebbe confermare definitivamente i suoi sospetti. E tuttavia, invece di liberarlo per sempre dalla malattia, l’immagine del potenziale tradimento di Françoise lo paralizza ancor di più, poiché «sarebbe ritornata sempre, quanto più forte di quelle della sua immaginazione e con quale incalcolabile potenza d’urto sulla sua testa, non cercava nemmeno di figurarselo»[27]. Per tenere a bada la gelosia, il protagonista trova un’unica soluzione adatta, se non a risolvere, quantomeno a sedare la malattia: il controllo, la sorveglianza, la vicinanza dei corpi (il lettore proustiano vi riconoscerà un prodromo della segregazione narrata nella Prigioniera)[28].
Fine della gelosia, eterogenesi dei fini
L’ultima parte del racconto inizia con l’incidente che priva Honoré dell’uso delle gambe.
La sventura arriva in una fase in cui Honoré sembra essersi liberato dalla macchina infernale della sua gelosia. Proust descrive gli effetti dell’incidente in analogia con la prima parte del racconto, caratterizzata dall’improvvisa e inarrestabile comparsa della gelosia. L’agonia del protagonista dura soltanto una settimana. Sommerso dal pensiero della sua sventura, egli comprende che dovrà rinunciare a Françoise. Ma la condizione di immobilità risveglia le fantasie di un tempo. Honoré si lascia andare a frequenti soliloqui:
“Ora, se per me non c’è più nulla da fare, me ne rallegro. Non morire, restare inchiodato là, e, per anni, per tutto il tempo in cui Françoise non sarebbe accanto a me, per una parte della giornata, per l’intera notte, vederla con un altro! E non sarebbe più per una sorta di malattia che la vedrei così, sarebbe una cosa sicura”[29].
All’agonia si accompagna una sensazione di ritrovata lucidità, al limite della chiaroveggenza: «adesso la sua asma aumentava, non riusciva a riprender fiato, tutto il suo petto faceva uno sforzo doloroso per respirare. E sentiva sollevarsi il velo che ci nasconde la vita, la morte che è dentro di noi, e scorgeva la cosa spaventosa che è respirare, vivere»[30]. Con l’immobilità del corpo agonizzante, tuttavia, si risvegliano anche i fantasmi della gelosia. Sfilano davanti a Honoré i volti dei suoi presunti rivali: li vede e non può farci niente. Un sentimento d’impotenza assale il protagonista, la cui paralisi fisica si associa alla fissazione sempre più insostenibile del suo delirio visivo. In preda all’angoscia di separarsi per sempre dall’essere amato, cosciente del fatto che non rimarrà molto tempo da vivere, Honoré ritrova lo sguardo verticale dell’amore divino. Paragona la propria gelosia a una passione terrena, in procinto di disfarsi e decomporsi come il suo stesso corpo mortale. Sente che l’elemento eterno della connessione fra creature costituite dall’amore spirituale e universale sopravvivrà alla disfatta dei suoi desideri patogeni:
Allora, quando il mio corpo andrà scomparendo, quando l’anima prevarrà su di lui, quando mi sentirò a poco a poco distaccato dalle cose materiali, come già mi è accaduto una sera in cui stavo tanto male, quando non desidererò più alla follia il corpo e in conseguenza amerò ancor più l’anima, allora non sarò geloso. Allora amerò veramente[31].
La dimensione spirituale dell’amore «perfetto», capace di trascendere le passioni del corpo, si ricollega perciò al tema iniziale dello sguardo divino. La sua universalità, l’ubiquità spaziale e l’onniscienza determinano un curioso effetto di contrasto rispetto ai limiti dello sguardo geloso. Negli ultimi atti della vita di Honoré, il suo interesse morboso e autodistruttivo si tramuta in un’aspirazione a mutare radicalmente, realizzando una metamorfosi che lo conduce verso un amore onnicomprensivo e un’ontologia creaturale, attraverso un nuovo sguardo capace di cogliere l’universalità nel particolare.
La vita della gelosia è calibrata sulla vita del corpo e la coscienza dell’approssimarsi della morte coincide per Honoré con l’attesa fine della gelosia[32]. «Mio Dio, […] fate venire quell’ora, fatela venire presto, affinché conosca l’amore perfetto»[33]. D’altra parte, con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Honoré, assistiamo al cortocircuito più estremo della fantasia voyeuristica, che il personaggio evoca drammaticamente nell’immagine di un testimone forzato, torturato, martirizzato[34]. Ma si tratta dell’ultima scossa di una gelosia che si dilegua definitivamente man mano che Honoré perde le sue ultime e residue forze. Negli istanti che scandiscono la sua agonia, la percezione di Honoré si calma. Egli sente di aver quasi raggiunto ciò che gli era fino a quel momento sfuggito. La sua devozione nei confronti di Françoise si trasforma finalmente in una forma di amore puro, più forte di ogni paura, lontano dalle feroci torture della gelosia. Separandosi dal proprio corpo mutilato, Honoré sente di varcare nuovamente una soglia; entra nella dimensione dell’amore universale, puramente spirituale, che le prime parole del racconto – una sorta di inno mistico sull’adorazione – evocavano come una profezia.
Possiamo leggere La fine della gelosia come la storia dell’ascensione spirituale di Honoré de Tenvres. Lacerato fra il desiderio e l’impossibilità di vedere, non poteva sottrarsi alle atroci sofferenze infertegli dalla fantasia di spionaggio con cui egli stesso cercava di tamponare la gelosia. La tortura del corpo, tuttavia, non inizia dall’incidente che lo priva della mobilità, ma con la rivelazione – anch’essa incidentale, e paralizzante – che fissa i pensieri e le azioni di Honoré su un unico orizzonte di senso, intorno a un oggetto che non riuscirà mai a raggiungere. D’altra parte, lo spirito di amore universalistico, che attraversa il racconto sin da suo esergo, si alimenta dell’apparente opposizione tra le due linee visive che costituiscono i binari paralleli dell’immaginario amoroso di Honoré: lo sguardo illimitato dell’amore divino e, dall’altro lato, la fantasia del contatto visivo messa in moto dal desiderio geloso.
Alla fine del racconto, la dissoluzione della gelosia corrisponde all’apoteosi dello sguardo universale che produce, negli ultimi istanti di vita del protagonista, una metamorfosi percettiva di ordine ottico:
In lacrime, ai piedi del letto, Françoise mormorava le più belle parole di un tempo: «Sei il mio paese, mio fratello». Ma Honoré, che non aveva né il desiderio né la forza di disingannarla, sorrideva e pensava che il suo «paese» non era più in lei, ma nel cielo e su tutta la terra Ripeteva nel suo cuore: «Miei fratelli», e se guardava Françoise più degli altri, era soltanto per pietà, per il torrente di lacrime che vedeva scorrere sotto i suoi occhi, sotto i suoi occhi che presto si sarebbero chiusi e già non piangevano più[35].
Con la fine della gelosia, finisce anche l’amore di Honoré de Tenvres per Françoise Seaune.
Il dramma visivo si conclude con una scena che ricorda per certi versi il tema evangelico della Pietà: gli occhi pieni di lacrime dell’essere amato s’incrociano con quelli sereni dell’amante, come deposto dalla sua croce e liberato dagli aculei velenosi della propria passione. Françoise non esiste più in quanto oggetto particolare dello sguardo di Honoré; perde la propria individualità per diventare un essere amato fra gli altri, esattamente allo stesso livello del medico, delle vecchie parenti e dei domestici. In questo nuovo orizzonte percettivo e di senso, Honoré sente dissolversi la propria individualità in un sentimento di universalità e riconciliazione con il mondo. Per raggiungere la meta agognata – la liberazione dalla gelosia, attraverso un percorso di ascensione spirituale – Honoré perde, assieme alla propria vita, ogni interesse per Françoise in quanto essere individuale[36]. Ma, se il soggetto non esiste più, non tutto si dissolve: resta infatti la sua esperienza, il segno del suo passaggio su questo mondo, il suo carattere esemplare. La ricerca della gioia era stata annunciata nel frammento pseudo-platonico scelto dal giovane Proust come esergo («dacci quel che è bene, sia che lo chiediamo sia che non lo chiediamo, e allontana da noi quel che è male, anche se te lo chiediamo»): una preghiera che si realizza nel momento in cui Honoré trova la morte, suo malgrado, come un martire incorso nelle torture della gelosia, finalmente consapevole che al sacrificio della vita corrisponde la realizzazione della propria vocazione.
Riferimenti bibliografici:
Opere di Proust
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Opere su Proust
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- M. Lavagetto, Quel Marcel!, Torino, Einaudi, 2011;
- G. Poulet, L’espace proustien, Paris, Gallimard, 1982.
- Un passaggio della Prigioniera avvalora l’uso della metafora astrale per dare forma a un campo di tensioni conoscitive. Nello stato d’eccezione prodotto temporaneamente dal sonno nel corpo di Albertine, il protagonista sceglie di appostarsi a scrutare quello strano intervallo di quiete, preferendo «il lato del suo viso che non si vedeva mai, e che era così bello», come se si trattasse della superficie lunare invisibile dalla terra (M. Proust, La Prigioniera, in Alla ricerca del tempo perduto, dir. da L. De Maria, trad. it. di G. Raboni, note di A. Beretta Anguissola e D. Galateria, 1983-1993, Milano, Mondadori, vol. III, p. 459). ↑
- Sul tema dell’appagamento visivo della gelosia nella Recherche mi permetto di rinviare a D. Garritano, L’«instrument optique» de la jalousie, in Cent ans de jalousie proustienne, a cura di E. Fülöp, Ph. Chardin, Paris, Classiques Garnier, 2015, pp. 69-79. ↑
- J. Kristeva, Le temps sensible. Proust et l’expérience littéraire, Paris, Gallimard, 1994, p. 342. ↑
- M. Bowie, Freud, Proust and Lacan: Theory as Fiction, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 49. All’interno della citazione, tra apici, si fa riferimento a M. Proust, Dalla parte di Swann, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, op. cit., vol. I, p. 343. ↑
- Ivi, p. 103. ↑
- J. Derrida, Formiche, in H. Cixous, J. Derrida, Letture della differenza sessuale, a cura di D. Garritano, Napoli, artstudiopaparo, 2016, p. 59. ↑
- Ivi, p. 75. ↑
- «Si può dimostrare agevolmente che il più grande romanzo del nostro tempo – La Recherche – è costruito secondo un rigoroso paradigma indiziario» (C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino, Einaudi, 1979, p. 92). ↑
- Cfr. D. Garritano, Il segreto in comune, in H. Cixous, J. Derrida, Letture della differenza sessuale, op. cit., p. 10. ↑
- Questo tipo di partecipazione del soggetto alla costruzione dell’oggetto di conoscenza, basata su un processo ermeneutico, non è del tutto separabile dalle operazioni mentali sottese alla prestazione di una testimonianza oculare e, per restare ai termini derridiani, all’elaborazione di una preuve. Se ne trova un esempio nel saggio di P. Bichsel, Il lettore, il narrare, Milano, Marcos y Marcos, 1992, p. 19: «Anche se fosse un ottimo osservatore, [un testimone oculare] non riuscirebbe a riprodurre l’immagine del colpevole per mezzo della lingua. Per la relazione del testimone oculare non è importante soltanto quello che ha visto. Altrettanto importanti sono tutte le altre esperienze che ha fatto: la sua descrizione dipende da tutto ciò con cui può confrontare la persona del colpevole». ↑
- L. Bersani, Marcel Proust. The Fictions of Life and Art, Oxford, Oxford University Press, 1965, pp. 56-97. ↑
- M. Proust, Albertine scomparsa, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, op. cit., vol. IV, p. 161. ↑
- Ivi, p. 163. ↑
- M. Proust, I piaceri e i giorni, a cura di M. Bongiovanni Bertini, note e commento di L. Keller, Torino, Bollati Boringhieri, 1988 (ora ripresa in una nuova edizione a cura di M. Bertini e G. Girimonti Greco: Milano, Mondadori, 2022). Per una ricostruzione dell’accoglienza critica di Les plaisirs et les jours, e delle ragioni che indussero Proust a sfidare a duello uno dei suoi recensori (Jean Lorrain), si veda l’introduzione di Bongiovanni Bertini all’edizione Bollati (ivi, pp. VII-XXX) e adesso anche la nuova introduzione, sempre di Bertini, all’edizione Mondadori (pp. IX-XX). ↑
- La prima pagina della novella è dominata da un’atmosfera di devozione legata non solo alle parole e ai gesti dei due amanti. La presenza di una citazione dal dialogo pseudo-platonico Alcibiade secondo (134a), posta da Proust in esergo al testo, può essere letta come un presagio del tema spiritualistico che troverà un’espressione compiuta nel finale del racconto: «Dacci quel che è bene, sia che lo chiediamo sia che non lo chiediamo, e allontana da noi quel che è male, anche se te lo chiediamo. – Questa preghiera mi pare bella e priva di rischi. Ma se vi trovi qualcosa di reprensibile, dillo pure» (ivi, p. 149). ↑
- Ivi, pp. 149-50. ↑
- Ivi, p. 151 (i corsivi sono miei). ↑
- È doveroso menzionare l’importanza cruciale che il tema dei «caratteri sconosciuti e visibili», e della difficoltà della loro lettura, assumerà nell’architettura della Recherche. Si vedano in merito M. Proust, Sodoma e Gomorra, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, op. cit., vol. III, p. 737, e soprattutto M. Proust, Il tempo ritrovato, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, op. cit., vol. IV, p. 558. ↑
- Sulle potenzialità narrative del segreto nella Recherche, e sulla sua logica ambivalente basata sul gioco tra separazione e non-separazione, mi permetto di rinviare a D. Garritano, Lo spazio del segreto. Benjamin, Bataille, Blanchot, Deleuze e Derrida sulle tracce di Proust, Milano, Mimesis, 2016. ↑
- «Allora ricordò che, quella mattina stessa, mentre era a messa, nel momento in cui il prete, leggendo il Vangelo, diceva: “Gesù protendendo la mano disse loro: questa creatura è mio fratello. Ed è anche mia madre e tutta la mia famiglia”, aveva teso a Dio per un istante tutta la sua anima, tremando, ma reggendola ben alta, come una palma, e aveva pregato: “Mio Dio! Mio Dio! Fatemi la grazia di amarla per sempre. Mio Dio, è la sola grazia che vi domando, voi che lo potete, mio Dio. Fate che io l’ami per sempre!”» (M. Proust, I piaceri e i giorni, op. cit. [ed. Bollati Boringhieri], p. 152). ↑
- La tecnica della giustapposizione è basata sull’accostamento di parti distinte in un insieme composito e sulla simultaneità di realtà congiunte, in cui il senso slitta metonimicamente da una parte all’altra: «Or, qu’est-ce que juxtaposer? C’est poser une chose à côté d’une autre» (G. Poulet, L’espace proustien, Paris, Gallimard, 1982, p. 112). ↑
- M. Proust, I piaceri e i giorni, op. cit. (ed. Bollati Boringhieri), p. 150. ↑
- M. Proust, I piaceri e i giorni, op. cit. (ed. Bollati Boringhieri), p. 155. ↑
- Ivi, p. 156. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 157. ↑
- Ibidem. ↑
- «A partire da quel giorno non si separò più da Françoise, spiando la sua vita […]. Honoré si sforzava a questo modo […] di sopprimere quei vuoti e quelle ombre dove andavano ad appostarsi gli spiriti cattivi della gelosia e del dubbio che l’assalivano ogni sera» (ivi, pp. 158-59). ↑
- Ivi, p. 163. ↑
- Ibidem. La descrizione della malattia di Honoré rende percepibile la vicinanza di Proust allo stile descrittivo di Tolstoj in Sonata a Kreutzer (1889), e soprattutto nella Morte di Ivan Il’ič (1886), come ha notato Mariolina Bertini nell’introduzione a I piaceri e i giorni (ma si veda adesso la nota di commento dedicata alla Fine della gelosia nell’edizione Mondadori 2022, op. cit., p. 319). Da un’altra angolazione, Philippe Chardin ha analizzato il motivo della “lettura gelosa” comparando la Recherche di Proust, Sonata a Kreutzer di Tolstoj e Senilità di Svevo, e sottolineando come il compito infinito della lettura dei segni messa in atto dall’amante geloso rappresenti il punto di convergenza fra Charles Swann, Pozdnysev ed Emilio Brentani. Si veda: Ph. Chardin, La jalousie ou la fureur de lire, in Le jaloux: lecteur de signes. Proust, Svevo, Tolstoï, a cura di B. Didier, D. Levy-Bertherat e G. Ponnau, Paris, SEDES, 1996, pp. 11-29. ↑
- M. Proust, I piaceri e i giorni, op. cit. (ed. Bollati Boringhieri), p. 165. ↑
- Come ha notato Mario Lavagetto, «il corpo è il luogo della gelosia: ne è insieme l’oggetto (si è gelosi del corpo altrui) e lo strumento (si è gelosi nel e con il proprio corpo)» (M. Lavagetto, Quel Marcel!, Torino, Einaudi, 2011, p. 85). ↑
- M. Proust, I piaceri e i giorni, op. cit. (ed. Bollati Boringhieri), p. 167. ↑
- «“So bene perché non vuoi, so quel che ti sei fatta fare questa mattina, e dove e da chi, e so che lui voleva mandarmi a chiamare, mettermi dietro la porta perché vi vedessi, senza potermi gettare su di voi, dato che non ho più le gambe, perché avreste provato ancor più piacere vedendomi lì […]”» (ivi, p. 167). ↑
- Ibidem. ↑
- Si veda ancora M. Lavagetto, Quel Marcel!, op. cit., p. 88: «Quando Honoré muore, la lezione di Tolstoj torna ad affiorare ancora una volta: è come se la navicella si staccasse da terra, mentre le preoccupazioni, i tormenti, le angosce, le paure della gelosia si dissolvono nella lontananza». ↑
(fasc. 46, 30 dicembre 2022)